La Versione di Banfi

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Europa, modello Roberta

alessandrobanfi.substack.com

Europa, modello Roberta

La maltese Metsola eletta al posto di Sassoli, prima donna in questo ruolo, coi voti di tutti, compresi FdI e Lega. Attivismo di Draghi. Ma il palazzo è sotto choc per Grillo indagato. Disastro Tonga

Alessandro Banfi
Jan 19, 2022
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Europa, modello Roberta

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Cifre da record negativo quelle della pandemia oggi. In Italia ci sono stati 434 decessi per Covid. Il tasso di positività è al 15,4%. I ricoverati in terapia intensiva sono 1.715 (-2), i vaccinati 47 milioni. Il ritmo delle vaccinazioni è anch’esso ai massimi dall’inizio della pandemia con una media di 600mila dosi al giorno somministrate. Tuttavia aleggia ottimismo sul futuro. Oggi Le Figaro, il quotidiano francese, ha questo titolo di prima pagina: Covid, l’inizio della fine? Articoli simili anche sulla stampa inglese e anche italiana. I mercati, che per primi avevano lanciato l’allarme Omicron, scommettono sulla discesa imminente del contagio. Intanto da noi le Regioni provano a forzare la mano, nelle ultime ore lo ha fatto la Sicilia. Nelle prossime 48 ore vedremo se col Governo si fisseranno nuove regole e quali saranno.

Intanto la politica raffredda il fronte della corsa al Colle perché una notizia di giudiziaria ha sconvolto gli scenari. Il fondatore dei 5 Stelle Beppe Grillo è stato indagato dalla Procura di Milano per traffico d’influenze. L’accusa riguarda alcuni contratti pubblicitari della compagnia di navigazione Moby Spa con il suo blog. Secondo le indagini Grillo veicolò ai politici del suo gruppo le richieste dell’armatore Vincenzo Onorato, proprietario della Moby. Grande rilievo sui giornali alla faccenda, con l’eccezione del Fatto di Travaglio, che questa volta resta prudente.

Buona notizia da Strasburgo: terza donna in cima all’Europa, dopo Ursula von der Leyen e Christine Lagarde alla Bce, il nuovo presidente del parlamento europeo è la maltese Roberta Metsola, del gruppo del Ppe. È la prima in questo ruolo ed è stata votata da una maggioranza costituita da popolari, socialisti e liberali ma anche dagli italiani Fratelli d’Italia e Lega. Per Avvenire è un “modello Europa” da seguire.

Attivismo di Mario Draghi fra i palazzi del potere. Ieri ha incontrato Sergio Mattarella per un’ora e ha ricevuto tre ministri: Guerini, Cartabia e Messa. Silvio Berlusconi è deciso a tener duro, nonostante i pressanti inviti dei suoi alleati che sostengono di avere in mente altri candidati di centro destra adatti per il Colle.  

Dall’estero: drammatiche le notizie ancora molto frammentarie sul disastro nell’arcipelago di Tonga nel Pacifico. Crisi ucraina, continua la mediazione tedesca per scongiurare l’escalation militare. Fra Nato e Russia, Alberto Negri sul Manifesto si chiede: chi assedia chi? La polizia del Congo nella notte ha annunciato di aver arrestato i presunti assassini dell’amabasciatore italiano Attanasio.

È disponibile il primo episodio di un nuovo Podcast con la mia voce narrante. Si chiama Le Figlie della Repubblica. È stato realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo primo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Maria Romana De Gasperi, figlia di Alcide. Il racconto riporta tutta la forza di una vita ricca di grandi ideali e povera di risorse, centrata sulla responsabilità di credente e di cittadino italiano. Alcide De Gasperi è stato un patriota, per usare un termine oggi tornato di moda, che ha lottato tutta la vita per il bene del suo Paese. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco la prima puntata.

https://www.corriere.it/podcast/le-figlie-della-repubblica/

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta domani mattina. L’appuntamento orario resta intorno alle 8. Alla fine della rassegna trovate tutti gli articoli citati in pdf. Vi consiglio di scaricarli se siete interessati perché restano disponibili in memoria solo 24 ore.

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Il fondatore dei 5 Stelle è indagato per traffico di influenze. Il Corriere della Sera: Grillo indagato, choc nel M5S. Il Giornale commenta: Grillo vittima del grillismo. La Repubblica qualifica il fondatore del Movimento: Grillo il “lobbista”. Libero è molto diretto: Da elevato a indagato per soldi. Un altro corposo gruppo di giornali titola sul Colle. La Stampa si riferisce agli incontri del premier: Quirinale, si riparte da Draghi. Il Manifesto illustra così una foto della visita di Draghi a Mattarella: Il sopralluogo. Il Messaggero propone una chiave legata al futuro governo: Pressing per il rimpasto dopo il voto per il Colle. Il Quotidiano Nazionale vede tramontare le ambizioni di Berlusconi: Anche la Meloni frena il Cavaliere. Domani spiega: Berlusconi non ha i voti ma insiste. Tutti gli alleati lo spingono al ritiro. Il Fatto prende in giro il presidente del Consiglio: Draghi consulta: mi ha cercato nessuno? Avvenire celebra la nomina della presidente maltese del Ppe Roberta Metsola alla guida del parlamento di Strasburgo anche coi voti di Lega e Fratelli d’Italia: Modello Europa. Il Sole 24 Ore fa il punto dei timori sull’inflazione: Il bund tedesco spinge la corsa dei tassi. Banche centrali: faro sulla bolla immobiliare. La Verità polemizza coi virologi: L’ospedale di Pregliasco rifiuta di curare chi non ha la terza dose. Il Mattino propone un titolo sulla lotta alla camorra: «Scuole e più telecamere, il patto anti clan».

MAI NUMERI COSÌ ALTI, LE REGIONI ALZANO IL TIRO

In Italia ieri si sono registrati 434 morti di Covid. Il tasso di positività è al 15,4%. I ricoverati in terapia intensiva sono 1.715 (-2), i vaccinati 47 milioni. Cifre record assolute di tutta la pandemia. Le Regioni alzano il tiro. La cronaca di Avvenire.

«Niente Super pass per attraversare lo stretto di Messina, basterà un tampone negativo: la Sicilia sfida il governo con un'ordinanza che viola il decreto in vigore dalla vigilia di Natale in base al quale può salire sui mezzi di trasporto, compresi «navi e traghetti adibiti a servizio di trasporto interregionale», solo chi è vaccinato o guarito dal Covid. Una forzatura che arriva con le Regioni sempre più in pressing per modificare le regole anti Covid, a partire dai parametri di conteggio dei ricoveri in ospedale per evitare il passaggio nella zona con più restrizioni: Friuli Venezia Giulia, Piemonte e la stessa Sicilia hanno infatti già parametri da zona arancione mentre Abruzzo, Calabria, Lazio, Liguria, Marche, Toscana e provincia di Trento rischiano di sforarli entro venerdì. Sembra invece rientrato l'allarme per la Valle d'Aosta, che ha chiesto comunque una deroga al governo per evitare di finire in zona rossa se dovessero risalire le terapie intensive. L'ordinanza firmata dal governatore Nello Musumeci stabilisce che per passare dalla Sicilia alla Calabria basterà avere il Green pass base e non quello rafforzato, anche se bisognerà restare nella propria auto o all'aperto e indossare la Ffp2. «Poniamo fine ad un'assurda ingiustizia ai danni dei siciliani - dice Musumeci - una norma discriminatoria del governo. Con l'ordinanza si garantisce e salvaguardia la continuità territoriale». Nelle prossime ore si capirà se il governo impugnerà l'ordinanza, come ha già fatto con quella della Campania che posticipava la riapertura delle scuole. In realtà il provvedimento di Musumeci rischiava di rimanere solo sulla carta: il governatore della Calabria Occhiuto non aveva adottato un'analoga ordinanza fino a ieri sera, quando è arrivato l'annuncio della firma. I non vaccinati che dalla Sicilia raggiungeranno la Calabria potranno dunque anche tornare indietro. Un confronto tra i governatori ci sarà nelle prossime ore. La Conferenza delle Regioni si riunirà per approvare il protocollo sullo sport che ha avuto il via libera dal Cts, ma è chiaro che sul tavolo ci saranno le richieste avanzate in questi giorni: la cancellazione del sistema dei colori, una revisione del sistema con il quale vengono conteggiati i ricoveri in ospedale, distinguendo tra ricoverati per Covid e pazienti che entrano per altri motivi e risultano positivi al virus (alcune Regioni hanno già cominciato a farlo in autonomia, anche se non influisce sui dati riportati nel bollettino), la modifica delle regole della quarantena. Su questo fronte l'ultima proposta è quella del presidente della Liguria Giovanni Toti: dopo tre giorni senza sintomi si può terminare l'isolamento. Tra le richieste delle Regioni ci sarebbe anche quella di far rimanere in servizio i sanitari positivi, un escamotage per ovviare alla mancanza di personale. Richiesta rispedita al mittente dai medici. «È una proposta irresponsabile» dice Filippo Anelli della Fnomceo e aggiunge: «Se venisse at- tuata, tanto varrebbe abolire l'obbligo di vaccinazione ». Anche il maggior sindacato dei medici, l'Anaao Assomed la definisce «sciagurata »: «Provocherebbe danni alla salute, trasformando i reparti ospedalieri in cluster di contagio, non possiamo proprio consentirlo». Le proposte dovranno poi essere discusse con il governo, con il ministro della Salute Roberto Speranza che ha già aperto al confronto sulle modifiche anche se ha invitato tutti a rimanere con «i piedi per terra». In concreto significa che ci sono dei margini di intervento sia sulle regole per la quarantena sia sul metodo di conteggio dei casi negli ospedali ma non verrà cancellato il sistema delle fasce. E comunque il tutto non avverrà prima di fine mese. Nelle prossime ore, invece, arriverà il Dpcm che individua quelle attività «necessarie al soddisfacimento di esigenze essenziali e primarie della persona» alle quali si potrà accedere senza il pass: i negozi che vendono generi alimentari, compresi i mercati e gli ambulanti, farmacie, parafarmacie, studi medici e veterinari, laboratori di analisi, negozi di ottica e per acquistare pellet o legna per il riscaldamento. Esclusi dal pass sarà anche tutto il settore dei carburanti, le edicole e i negozi di beni essenziali all'interno dei centri commerciali. Resta invece l'obbligo del pass per le librerie e per i tabaccai».

MA LA PANDEMIA STA FINENDO? LO PENSANO I MERCATI

Nonostante i dati assoluti molto alti, circola un certo ottimismo sulla diffusione di Omicron. Paolo Russo sulla Stampa.

«Intravedere segnali di speranza quando da noi si registra il record di contagi da inizio pandemia e si devono contare 434 morti sembra quasi voler fare un esercizio di ottimismo. Ma gettare uno sguardo a quello che sta avvenendo nel resto del mondo occidentale può aiutarci a non cadere troppo in depressione. Eccezioni Germania e Israele Ieri l'Oms ha voluto rassicurare i sudditi di sua Maestà britannica affermando per bocca del suo «emissario speciale», David Navarro, che oltremanica «sembra ci sia luce in fondo al tunnel». Dopo essere stato travolto per primo da Omicron, nel Regno Unito i contagi hanno iniziato a scendere: meno 42% l'ultima settimana. Anche se ieri di morti se ne contavano 438, ma sul dato pesano i ricalcoli del weekend. Se Londra vede la luce altrettanto si può dire di New York, dove la media settimanale dei casi è scesa da 40 mila a 28 mila, ma in tutti gli Usa le cose vanno meglio, con un calo del 12% dei nuovi positivi. In Francia, con più 10% dei casi negli ultimi sette giorni e in Spagna, più 22%, la curva ancora sale, ma la crescita si è sensibilmente raffreddata. In controtendenza sono Germania e Israele, dove nel primo caso i contagi sono risaliti del 42% e nel secondo del 57%. Eppure i tedeschi erano stati i primi ad essere travolti dalla quarta ondata e Israele la prima a vaccinare tutti con la terza dose. Ora persino con la quarta, destinata a sanitari e iperfragili. L'anomalia dei tanti decessi Numeri inattesi, che hanno però una spiegazione. A fornircela è Walter Ricciardi, presidente della Federazione mondiale delle società di sanità pubblica e consulente del ministro Speranza: «In Germania l'onda è arrivata prima, quando prevalentemente circolava ancora la Delta, per cui dopo le chiusure i contagi sono scesi, ma ora risalgono per l'impatto ritardato di Omicron. Israele è sì il Paese che per primo ha somministrato il booster, ma pochi ricordano che ha anche quasi il 40% di popolazione che non si vaccina, soprattutto tra gli ultraortodossi». Una spiegazione che dovrebbe rassicurarci circa il pericolo di nuovi ritorni di fiamma del virus, passata questa tempesta. Ma Ricciardi la fine del tunnel la vede anche da noi. «Entro fine gennaio in Italia toccheremo il picco e la discesa sarà più rapida di quanto si è visto con le vecchie varanti, perché se Alfa impiegava due mesi a tornare sui livelli di partenza, a Omicron ne basta meno di uno. Poi si potrà ragionare di convivenza con il virus». Resta l'anomalia italiana dei morti, che ci vede in testa nella triste classifica tra i Paesi occidentali. «Questo per quattro motivi», continua Ricciardi. «Abbiamo la popolazione più anziana del mondo dopo il Giappone; i nostri anziani vivono più a lungo ma in peggiori condizioni di salute; abbiamo una potenza di fuoco sanitaria nettamente inferiore a Paesi come la Germania, che ha 53 mila infermieri più di noi e il doppio dei posti in terapia intensiva; altri Paesi non conteggiano come decessi Covid quelli dei positivi morti per altre cause». La convivenza con il virus Vede la luce anche l'epidemiologo Pierluigi Lopalco. «L'Italia ha una popolazione ampiamente vaccinata, in più quattro ondate epidemiche hanno immunizzato con la malattia un'altra fetta importante del Paese. E anche se Omicron è in grado di reinfettare, una protezione rispetto alle forme gravi di malattia resta». «Per questo - è la conclusione ottimistica di Lopalco - anche noi ne usciremo presto ed entro febbraio potremo iniziare a convivere con il virus, perché con i livelli di immunizzazione acquisita una nuova ondata non sarà mai né come le precedenti ma nemmeno come questa». Resta l'incognita delle nuove varianti. Perché la teoria che il virus si modifichi via via sempre in meglio, non è che per virologi e immunologi abbia poi basi scientifiche così solide. E nel mondo di sotto, sempre a corto di vaccini, il Covid sta tornando a far male. In Brasile i contagi sono aumentati del 107% in una settimana, in India del 90%, in entrambi i casi con una dolorosa scia di morti e ricoveri. E con questi livelli di circolazione del virus, avverte l'Oms, potremmo tornare alla casella di partenza per colpa di qualche nuova variante. Un pericolo che il mondo di sopra potrebbe scongiurare pensando un po' meno alle quarte dosi e un po' più a una ridistribuzione più equa dei vaccini».

Sul Foglio Maria Rosa Marchesano racconta l’ottimismo dei mercati che ora scommettono sulla fine della pandemia.

«Quando di una pandemia si intravede il picco gli investitori sono i primi a muoversi. Anticipare i futuri trend di consumo vuol dire possibilità di guadagno e seppure questo implica un rischio perché il virus è ancora in circolazione si scommette sulla sua sconfitta. Il Covid- 19 con le sue varianti ha insegnato che dietro un picco ce ne può essere un altro e un altro ancora, ma gli investitori stanno scommettendo lo stesso sulla fine della pandemia. E non da adesso, cioè da quando ci sono segnali che la curva dei contagi sta rallentando, come ha detto il capo del comitato tecnico scientifico Franco Locatelli spiegando che la tendenza in Italia è in linea con quella del Regno Unito. Ma da un mese e mezzo. "Se osserviamo il grafico che mette a confronto l'andamento del prezzo del petrolio con gli indici azionari euro di auto e viaggi- intrattenimento, settori che più di altri rivelano lo stato d'animo degli investitori nei periodi di crisi, si vede che a partire dalla fine di novembre c'è stata una crescita interrotta solo dalla paura per la variante Omicron nella prima metà di dicembre, ma da Natale in poi le tre curve si sono mosse sempre verso l'alto quasi all'unisono", dice al Foglio Antonio Cesarano, chief global strategist di Intermonte Sim. Se poi si incrocia l'andamento dei titoli del settore farmaceutico con quello del turismo e dei viaggi si nota una divaricazione che si accentua nell'ultimo mese quando la consapevolezza della bassa letalità di Omicron sui vaccinati è diventata più forte. In particolare, il prezzo delle azioni di Pfizer è passato da 61 dollari di metà dicembre ai 53,8 di ieri (- 11 per cento) e questo nonostante la Food and Drug Administration abbia autorizzato il Plaxlovid, il nuovo trattamento orale contro il Covid- 19 sviluppato dalla società farmaceutica con una prospettiva che va oltre i vaccini. Un calo in borsa anche più accentuato è avvenuto per le azioni di Moderna: valevano 280 euro un mese fa, valgono 195 dollari oggi (30 per cento). Per contro, da inizio anno l'indice globale Etf che raggruppa le compagnie aeree ha guadagnato il 6 per cento mentre i maggiori gruppi crocieristici quotati al mondo, Royal Caribbean, Carnival e Norwegian, hanno guadagnato in media il 12 per cento grazie alla ripresa delle prenotazioni. "Da quando si è compresa la portata di Omicron, i mercati finanziari hanno cominciato a credere nell'inizio di una fase di endemizzazione che contribuisce ad aumentare lo stimolo per alcune banche centrale ad alzare i tassi e penalizza i titoli del settore tecnologico - prosegue Cesarano - C'è aria di riapertura totale e di ritorno in presenza, questo vuol dire meno smart working e minor uso di piattaforme e programmi di connessione da remoto". Del resto, come ricorda Alberto Artoni, gestore di Acomea sgr, per tutto il tempo della pandemia gli investitori finanziari hanno suddiviso le società in due grandi tipologie: i titoli "stay home" e i titoli "reopening". Nei momenti di pessimismo puntavano tutto sui primi ( digitale, immobili, cibo e bevande e così via) e nei momenti di ottimismo compravano i secondi ( viaggi, ristorazione, lusso) "Adesso è il momento del reopening", dice Artoni che è specializzato nel mercato degli Stati Uniti. "Per la verità è da più di un anno che gli investitori non sembrano preoccuparsi più di tanto del coronavirus e il motivo è che i mercati sono stati inondati di liquidità dalle banche centrali dopo i crolli di marzo 2020 quando si rese necessario il lockdown. "Al momento il timore più grande è rappresentato dal rialzo dei tassi d'interesse che la Federal Reserve potrebbe decidere di rendere ancora più rapido e incisivo del previsto quest' anno - aggiunge l'esperto - Ma questo deriva proprio dal fatto che la fine della pandemia viene data per scontata e che le autorità monetarie intendono normalizzare la propria politica". Quindi, non è più il virus a spaventare i mercati ma il ritorno alla normalità? "Può sembrare un paradosso, ma è così - replica Cesarano di Intermonte - Riaperture e colli di bottiglia contribuiscono a surriscaldare l'inflazione e questo vuol dire tassi più alti e minori aiuti monetari e fiscali. E i mercati la prendono male dopo diversi anni di tassi bassi e abbondanza di liquidità"».

NOSTALGIA DEL MEDICO DI FAMIGLIA (CHE NON C’È PIÙ)

Lo hanno chiamato il Doctor No House: è l’ultimo classico medico di famiglia che anche in tempi di Covid visitava nelle case. E che ora per questo rischia una multa. Il caffè di Massimo Gramellini.

«Come la mettiamo con il dottor Gerardo Torre, che ha curato tremila malati di Covid a domicilio senza perderne nemmeno uno, ma rischia di essere sospeso dall'Ordine per non avere rispettato il protocollo ufficiale? Da decenni quest' uomo attraversa la provincia di Salerno con un camper attrezzato ad ambulatorio: Gabriele Bojano ha raccontato sul Corriere che i compaesani lo chiamano Doctor No House. Durante la pandemia non si è rassegnato alla «vigile attesa» e ha aggredito la malattia ai primi sintomi, senza aspettare che arrivasse a devastare i polmoni e a intasare gli ospedali. I guariti lo paragonano a un santo, mentre i no vax cercano di guadagnarlo alla causa facendone un perseguitato, benché lui sia favorevole ai vaccini, pur con qualche distinguo che in questo clima di divisioni radicali lo rende sospetto ai cultori dell'ortodossia. In realtà il dottor Torre è solo un medico che privilegia l'aspetto umano e una testa dispari che ama steccare sul coro: quanto basta a renderlo anomalo e istintivamente simpatico. Sarebbe un grave errore consegnarlo alla propaganda degli antivaccinisti, i quali intendono trasformarlo nel simbolo di qualcosa che non è. Lui si è semplicemente ribellato a un'imposizione che non condivideva e i fatti gli hanno dato ragione. La sua storia, letta in controluce, ci ricorda quanto possa ancora essere utile la medicina territoriale, e come si sia sbagliato a ridimensionarla per ragioni di bilancio e calcoli di bottega».

GRILLO INDAGATO PER TRAFFICO DI INFLUENZE

Beppe Grillo, il fondatore del Movimento 5 Stelle, è indagato dalla Procura di Milano per traffico d’influenze. La vicenda riguarda alcuni contratti pubblicitari di Moby Spa con il suo blog. Per l’accusa veicolò ai politici le richieste dell’armatore Onorato, che era stato suo inserzionista. Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera spiega come la Procura sia stata attenta a raccogliere le prove su Grillo, senza colpire la riservatezza del leader politico.

«Da una parte del filo il telefonino della web grafica del blog di Beppe Grillo e figlia del paroliere che per Patty Pravo scrisse «Pensiero stupendo», Nina Monti, e il cellulare di Luca Eleuteri, socio fondatore della Casaleggio Associati al quale nel 2018 Davide Casaleggio affidò il delicato compito di spiegare ai giornali la fine del sodalizio tra il «garante» M5S e l'azienda milanese. Dall'altro lato del filo il telefonino dell'amministratore delegato Achille Onorato della compagnia marittima Moby Spa fondata dal padre Vincenzo, e i cellulari di Annamaria Barrile e Giovanni Savarese, che nella società erano responsabile delle relazioni istituzionali e capo ufficio stampa. Sono queste 5 persone, tutte non indagate, a essersi viste sequestrare ieri gli apparecchi sui quali la Guardia di Finanza di Milano ha la convinzione di trovare chat e messaggi confermativi di una illecita mediazione di Grillo per spingere i suoi parlamentare a fare gli interessi legislativi dell'armatore che lo stava finanziando. Balza subito all'occhio che proprio a Grillo, benché al centro dell'indagine per l'ipotesi di reato di «traffico di influenze illecite», non è stato sequestrato il telefonino, su cui pure si ipotizza siano intercorse in entrata le richieste dell'armatore o in uscita gli input ai parlamentari 5 Stelle. Si tratta di una evidente scelta della Procura di Milano, che, così come ieri non si è azzardata a cercare chat su apparecchi di deputati 5 Stelle tutelati dalle garanzie parlamentari, ha rinunciato anche al telefonino del (pur non parlamentare) fondatore ed ex capo politico e poi garante dei 5 Stelle: forse per minimizzare le intrusioni nella privacy e sterilizzare le polemiche che sarebbero nate dall'acquisizione di un cellulare «sensibile», dove è ovvio che sarebbero state presenti (e dunque sarebbero finite depositate poi agli atti come nel caso di Renzi a Firenze nell'inchiesta Open) tutta una serie di chat ad esempio sulle dinamiche interne del Movimento, sui rapporti altalenanti tra Grillo e l'ex premier Conte, sugli attuali posizionamenti dei 5 Stelle in vista del voto per il Quirinale, e anche sulle vicende familiari e scelte difensive legate al processo al figlio di Grillo in Sardegna. Altrettanto ovvio, però, è che evidentemente gli inquirenti nutrono un ragionevole affidamento di trovare lo stesso sugli apparecchi delle altre cinque persone i messaggi di proprio interesse investigativo. Da quanto traspare infatti dai decreti di perquisizione, la società Beppe Grillo srl, di cui il comico è socio unico e legale rappresentante, ha percepito da Moby spa 120.000 euro all'anno nel 2018 e 2019 «apparentemente per un accordo di partnership» finalizzato alla diffusione sui canali digitali legati al blog Beppegrillo.it di «contenuti redazionali» (almeno uno al mese) promozionali del marchio Moby. Sempre dal 2018, e per tre anni, la Moby spa ha sottoscritto anche un contratto con la Casaleggio Associati srl del figlio Davide del cofondatore del M5S Gianroberto, che i pm - senza allo stato indagarlo - qualificano «figura contigua al M5S in quanto all'epoca dei fatti gestiva la piattaforma digitale Rousseau»: 600.000 euro annui per la campagna «Io navigo italiano», un pallino di Onorato per «sensibilizzare l'opinione pubblica e gli stakeholders alla tematica della limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarchino personale italiano e comunitario». Solo che - e qui sta la correlazione che i pm devono dimostrare per contestare il traffico di influenze illecite - nello stesso periodo «Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di interventi in favore di Moby spa», e per i pm «le ha veicolate a parlamentari in carica appartenenti al Movimento» da lui fondato, «trasferendo quindi al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest' ultima». Un triangolo di cui gli inquirenti milanesi avrebbero già tracce, acquisite a Firenze in alcune chat di Onorato nell'inchiesta fiorentina dal 2019 sulla Fondazione Open di Matteo Renzi. E «l'entità degli importi versati o promessi da Onorato, la genericità delle cause dei contratti, e le relazioni effettivamente esistenti e utilizzate da Grillo su espresse richieste di Onorato nell'interesse del gruppo Moby» sono i tre elementi che al procuratore aggiunto milanese Maurizio Romanelli e alla pm Cristiana Riveda fanno allo stato ritenere «illecita la mediazione operata da Grillo», perché «finalizzata a orientare l'azione pubblica dei pubblici ufficiali (i parlamentari 5 Stelle, ndr ) in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby».

Il commento di Alessandro Sallusti su Libero.

«Dunque Beppe Grillo è indagato per una questione di soldi, finanziamenti al suo sito fatti da Vincenzo Onorato, armatore della compagnia Moby che in cambio avrebbe avuto una certa attenzione da parte dei parlamentari Cinque Stelle. Il reato ipotizzato è quello di "traffico di influenze", una trappola introdotta dal partito dei giustizialisti nel 2012 (governo Monti, ministra della Giustizia Paola Severino) e per la verità stupidamente approvata anche da Forza Italia. È un'arma che i magistrati hanno usato e usano come una clava nelle loro scorribande sul terreno della politica, il più delle volte si tratta di un teorema: siccome qualcuno ti ha aiutato a fare politica se tu ricambi la gentilezza sei equiparato a un delinquente. Questa premessa per dire che noi di questa inchiesta della Procura di Milano non ci fidiamo fino a prova contraria. Ma siamo felici di vedere i Cinque Stelle e Grillo vittime delle armi improprie che hanno usato contro i loro avversari e sputtanati per giochetti che mi auguro non costituiscano reato ma che certamente li mettono sul piano di traffichini qualsiasi. Chissà che cosa avrà da dire oggi il ministro tontolone Toninelli, quello che sosteneva la superiorità genetica dei grillini, vediamo se qualcuno di loro avrà il coraggio di urlare in faccia agli avversari, come ai vecchi tempi, "onestà, onestà", chissà se il loro portavoce Marco Travaglio oggi farà la sua prima pagina su "Grillo ladro" come avrebbe fatto per qualsiasi altro politico. Dubito che accadrà qualche cosa di simile. Per Grillo i magistrati sono sacri fino a che uno di loro non gli rinvia a giudizio il figlio per stupro, allora apriti cielo; per i Cinque Stelle se Salvini aggredisse un giornalista sarebbe da impiccare sulla spiaggia, nulla di grave se Grillo un giornalista lo manda all'ospedale (è indagato pure per questo); per loro un avviso di garanzia equivale a una condanna ma non se a riceverlo è il loro magistrato preferito che di nome fa Piercamillo Davigo. Mi auguro che in questo Paese non ci sia più nessuno a credere alle baggianate di questi scappati di casa (anche sui soldi che avevano promesso di restituire si potrebbe discutere a lungo) che hanno avvelenato i pozzi della politica e fatto perdere all'Italia anni di crescita con i loro inutili governi del popolo».

Proprio sulla battaglia alla corruzione il fondatore aveva fatto leva per avviare la sua clamorosa parabola politica e ora cade su questo tipo di accusa. Michele Serra per Repubblica.

«Per una (modesta) vicenda di fondi pubblicitari non chiari destinati al suo blog, Beppe Grillo è sotto inchiesta. Il nome stesso del reato, "traffico di influenze illecite", lascia intendere la zona d'ombra sulla quale la Procura di Milano indaga. Si tratta di quel vischioso viluppo di rapporti tra economia, politica e media che oscilla tra il lobbismo, il vassallaggio, la compravendita di favori e simpatie. Stabilire dove è il reato, dove la mollezza etica, non è mai facile. Per utile paradosso, lo strale destinato a Grillo rimbalza anche da un'altra inchiesta, quella della Procura di Firenze sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Questo per dire che non conviene mai imputare agli altri ciò che potrebbe essere imputato a te stesso. E anche per dire che finalmente, con generale sollievo (forse anche dei grillini), la storia del grillismo approda al suo esito naturale, che è la politica come bene comune e al tempo stesso come male comune. In una parola sola: come problema comune. Quando si va alla guerra, è difficile conservarsi innocenti. Troverete in altra parte del giornale ampio resoconto tecnico-giudiziario dell'accaduto. Qui posso solo riferire ciò che mi ha maggiormente colpito nella vicenda. Il finanziatore illecito, o comunque non trasparente, è un armatore, il signor Onorato, boss della Moby, compagnia di navigazione in fallimento. Degli undici milioni, diciamo così, di elargizioni amichevoli, solamente due erano destinati alla politica. Oltre che al blog di Grillo, i soldi sarebbero andati alla Casaleggio Associati, alla fondazione di Matteo Renzi e alla fondazione di Giovanni Toti, più qualche briciola al Pd e a Fratelli d'Italia. Gli altri nove milioni erano destinati ad attività di rappresentanza, appartamenti costosi e auto di lusso: il signor Moby avrebbe dunque speso in Aston Martin e in Maserati molto di più di quanto stanziato per ingraziarsi il ceto politico, compreso il capo carismatico del partito di maggioranza della diciottesima legislatura. Tangentopoli, almeno quantitativamente, fu davvero un'altra cosa. Questo la dice lunga sulla perdita di peso, e di potere, della politica. Con un paio di convention aziendali, ai tempi d'oro, Grillo portava a casa gli stessi quattrini che il signor Moby oggi avrebbe elargito al suo blog, secondo l'accusa, in cambio di una buona parola presso i suoi gruppi parlamentari (sarebbe questo il "traffico di influenze illecite"). È molto dubbio che l'interessamento parlamentare dei cinquestelle avrebbe portato giovamento alla causa della navigazione marittima. Non è in dubbio, invece, la perdita di indipendenza, di prestigio, in fin dei conti di potere, che il passaggio di Grillo dallo show business alla politica gli ha inferto, fino a trascinarlo nella fangosa routine giudiziaria, come un qualunque sottosegretario o assessore, di quelli che pigliava per i fondelli ai tempi d'oro. L'aggravante è che proprio sulla intemerata battaglia alla corruzione, al malaffare, alla connivenza, Beppe Grillo aveva fatto leva per avviare la sua clamorosa parabola politica. Due erano i cavalli di battaglia del suo movimento, entrambi difficilmente criticabili: la lotta contro la corruzione (onestà! onestà!) e la virtuosa selezione "dal basso" di una nuova classe dirigente immacolata e di vigorosi ideali. Molti di costoro sono andati a ingrossare le fila del gruppo misto, enorme agglomerato di fuorusciti di tutti i partiti, e sono tra i maggiori indiziati nella campagna acquisti di Berlusconi - speriamo in via di fallimento - per il Quirinale. Di altri, rimasti nel folto esercito grillino in Parlamento, è lecito sospettare una lealtà molto labile alle indicazioni dei vertici: potrebbe prevalere, dicono le cronache, il bisogno di conservare il seggio, chiamato con spregio "poltrona" quando il potere era solo un nemico da abbattere, e oggi sudato posto di lavoro per carneadi di ogni regione e ceto sociale. Si chiude un cerchio, dunque: ed è bastata una sola legislatura per chiuderlo. La "diversità" grillina ha retto pochi anni, a differenza dei decenni occorsi, per auto-sopprimersi, alla "diversità" comunista, più sostanziosa perché più sudata, studiata, istruita. È puro cinismo compiacersi del fallimento dei tentativi di moralizzazione. Ma è pura stupidità non leggere, nel disfacimento strutturale del grillismo, la meritata sconfitta dell'improvvisazione e della presunzione. Che alla politica non fanno meno danni dell'immoralità».

IL MODELLO EUROPA DI ROBERTA METSOLA

Terza donna in cima all’Europa, dopo Ursula von der Leyen e Christine Lagarde alla Bce, il nuovo presidente del parlamento europeo è la maltese Roberta Metsola, del gruppo del Ppe. È la prima in questo ruolo ed è stata votata da una maggioranza  costituita da popolari, socialisti e liberali ma anche dagli italiani Fratelli d’Italia e Lega. Intervista di Marco Bresolin per la Stampa.

«Sull'aborto, da eurodeputata maltese, ho difeso una posizione nazionale. Ora che sono presidente del Parlamento europeo non voterò più su questo tema e difenderò all'esterno la posizione dell'istituzione da me guidata». Alla fine della giornata più lunga, Roberta Metsola è visibilmente stanca («Finalmente una sedia, non ce la faccio più!»), ma determinata a tenere il punto su quello che continua a essere l'aspetto più controverso del suo profilo politico: la posizione contro l'aborto. Incontrando un ristretto gruppo di media europei, tra cui La Stampa, l'esponente del partito nazionalista maltese (Ppe) insiste sulla volontà di raccogliere «l'eredità di David Sassoli» nella gestione dell'Aula, con l'obiettivo di avvicinarla sempre più ai cittadini. Ieri ha compiuto 43 anni ed è la più giovane presidente dell'Eurocamera, la prima donna dopo 20 anni. «E non vorrei che ne passassero altri 20 prima che sia guidato nuovamente da un'altra donna». Sulla questione immigrazione, il suo predecessore ha avuto posizioni molto nette, spesso in contrasto con quelle del Consiglio. Riuscirete a trovare un accordo sulla riforma del diritto d'asilo? «Nei prossimi due anni e mezzo, come Parlamento, possiamo trovare un accordo. Stiamo negoziando e possiamo trovare una maggioranza. L'avevamo trovata anche cinque anni fa, ma poi tutto si è bloccato in Consiglio. In un tema dove teoricamente non c'è il diritto di veto, ma basterebbe la maggioranza qualificata». Cosa ne pensa della proposta di alcuni Paesi che chiedono di finanziare i muri ai confini con i fondi Ue? «La mia posizione è stata chiara sin dal primo giorno. Per me la protezione della vita viene prima di tutto. Non possiamo avere una politica di migrazione che non dà valore alla vita, ma nemmeno lasciare soli ad affrontare una sfida enorme i Paesi di frontiera. Gli altri Stati non possono abbandonarli, pensando che non sia anche un problema loro. Aggiungo poi che essere un Paese di frontiera non riguarda solo il Sud Europa, ma per esempio anche la Lettonia e la Polonia con la Bielorussia. Nel 2015 era toccato alla Germania con i rifugiati siriani. Per questo penso che la nostra politica debba essere efficiente ed efficace. Ci sono molti strumenti, ma non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di esseri umani. Che dietro a ogni corpo che troviamo in mare c'era una famiglia, una speranza, una vita, che ora è persa per sempre». Nel Mediterraneo si continua a morire, le Ong che salvano i migranti vengono ostacolate: l'Ue deve ripristinare una missione di ricerca e salvataggio? «Ne ho parlato anche con molti colleghi italiani. Se tu vedi una nave che sta affondando, non soltanto hai il dovere di intervenire, ma non devi essere criminalizzato. Abbiamo fatto un viaggio in Sicilia con la commissione Libe e abbiamo visto il lavoro che fanno le guardie di frontiera. Penso inoltre si debba trovare un equilibrio negli accordi con i Paesi dai quali i migranti scappano: quelli che hanno ratificato gli accordi di Ginevra e quelli come la Libia che non lo hanno fatto. Bisogna fare una distinzione. Dobbiamo parlare con i Paesi di partenza e di transito e sbloccare i tanti nodi che restano. Altrimenti finiremo per discuterne per due anni e mezzo e alle prossime elezioni andremo dai cittadini a dire loro che non abbiamo trovato una soluzione. Non posso permettere che ciò accada, voglio lavorare con tutte le forze costruttive in questo Parlamento per trovare un accordo e spingerlo in Consiglio». È stata molto criticata per le sue posizioni anti-aborto e in modo particolare per il suo voto contrario alla risoluzione adottata dal Parlamento europeo lo scorso anno: può chiarire la sua posizione? «Per me la situazione è chiara: a Malta c'è un contesto particolare, c'è un protocollo che noi tutti eurodeputati maltesi siamo costretti a seguire. Non bisogna votare provvedimenti che possano portare a un dibattito sull'aborto a Malta. Perché un dibattito su questo tema deve rimanere a livello nazionale. Ma adesso ho una responsabilità e per mantenere l'oggettività non voterò più su questi rapporti e su queste risoluzioni». Il suo ruolo da presidente del Parlamento europeo è chiaro. Ma da donna e da politica maltese, qual è la sua posizione personale? «La mia posizione è che voglio difendere l'uguaglianza tra i sessi. E lo farò sempre e ovunque». Difenderà anche il cordone sanitario per emarginare i candidati dell'estrema destra oppure tenderà loro una mano? «La questione va posta ai leader dei gruppi. Io sono presidente di tutti i 704 eurodeputati, come del resto lo sono stati i miei predecessori. Posso solo dire che sarò sempre contro chiunque voglia distruggere il progetto europeo». Si aspettava il sostegno degli eurodeputati della Lega? «Ah sì, mi hanno votato? Questo io non lo posso sapere, il voto era segreto». Lo hanno annunciato loro prima delle votazioni. Questo voto può essere un primo passo della Lega verso un ingresso nel Ppe o comunque un passo che allontana il partito di Salvini dalle posizioni più estremiste? «Questa è una cosa che dovete chiedere ai gruppi politici che stanno facendo i negoziati. Io lavorerò con tutte le forze politiche costruttive pro-europeiste dell'Europarlamento». Lei conosce molto bene l'Italia: le piacerebbe vedere al Quirinale... «Alt. È una questione nazionale e non intendo commentarla».

QUIRINALE 1. L’ATTIVISMO DI DRAGHI

Mattarella e Draghi hanno avuto ieri un lungo incontro al Quirinale. Sul complicato intreccio istituzionale. Il premier ha visto anche i ministri Cartabia, Messa e Guerini. Concetto Vecchio e Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«A cinque giorni dall'inizio delle votazioni per il nuovo Presidente della Repubblica, Mario Draghi ieri mattina è salito al Quirinale per un colloquio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È durato un'ora, segno che i nodi da sciogliere sono stati molteplici. E non potrebbe essere diversamente visto che Draghi è uno dei candidati di cui si parla per il Colle. La sua eventuale elezione aprirebbe uno scenario inedito. Sarebbe la prima volta che un premier in carica traslocherebbe al Quirinale, con tutto quello che comporta in termini di continuità di governo. Tutto questo, va detto, è rimasto sullo sfondo dell'incontro nel quale Draghi ha illustrato al Capo dello Stato lo stato dell'arte di alcuni provvedimenti. Il nuovo decreto ristori al vaglio di palazzo Chigi per chi ha subito delle chiusure durante la quarta ondata, ma anche i dossier del Pnrr. Il fatto che la notizia sia poi trapelata - i colloqui tra i due sono continui, naturalmente - è anche un modo indiretto per rassicurare l'opinione pubblica che il governo è pienamente operativo, concentrato su quel che c'è da fare contro il Covid, anche se da lunedì, per non si sa quanto tempo, il Parlamento sarà deputato alle votazioni in seduta comune. Che poi è la cosa che sta a cuore anche al presidente Mattarella. È quasi un anno dal varo del governo Draghi, voluto dal Quirinale, a cui Mattarella non ha mai fatto mancare il proprio sostegno. Una scommessa vinta, secondo il Colle. Tuttavia bisogna essere concentrati sui provvedimenti più urgenti per il Paese. Informalmente sarebbe stato toccato anche il tema del voto dei positivi, anche se il governo smentisce con decisione la circostanza. Un nodo che agita il centrodestra, che chiede che anche a loro venga garantito il diritto di esprimersi per il nuovo Capo dello Stato. Insomma, il momento istituzionale è complesso. Con molte questioni che affiorano per la prima volta. In ambienti parlamentari non è passato inosservato che Draghi abbia tenuto una serie di colloqui: oltre che da Mattarella, è stato ricevuto da Roberto Fico a Montecitorio. In mattinata a Palazzo Chigi era stato avvistato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Poi, nel pomeriggio, le ministre Marta Cartabia e Maria Cristina Messa. Oggi potrebbe ricevere Luigi Di Maio e a partire da venerdì anche i leader di partito, se glielo chiederanno. Con tutti discute ovviamente dei dossier di governo. Ma naturalmente c'è dell'altro. Come si può spiegare politicamente questo attivismo? In larga parte la sfida del Colle sarà decisa dal centrodestra, ma è altrettanto chiaro che la tenuta del centrosinistra in aula sarebbe fondamentale per blindare l'eventuale candidatura di Draghi. In questo senso, gli incontri non appaiono casuali. Il Presidente della Camera, Roberto Fico, ad esempio ha un peso rilevante negli equilibri dei gruppi parlamentari 5S. Il quadro frammentato dei cinquestelle va ricomposto, visto che molti tra i peones preferirebbero il Mattarella bis per non mettere a repentaglio l'azione dell'esecutivo. Pesa molto anche il responsabile della Difesa, assai ascoltato all'interno del gruppo democratico. Il Pd, in particolare, sembra diviso sul punto. Enrico Letta e lo stesso Guerini sosterrebbero l'eventuale ascesa del premier. Uno scenario che non è osteggiato, pare, neanche da Nicola Zingaretti. Frenano decisamente, invece, Andrea Orlando e Dario Franceschini. Proprio la prosecuzione dell'azione di governo anche in caso di elezione di Draghi al Quirinale è l'altro elemento centrale in queste ore. Di più: è il principale ostacolo all'ascesa del premier alla Presidenza della Repubblica. Per questo, in queste ore lo sforzo sembra concentrato soprattutto sull'individuazione di un'ampia maggioranza che possa blindare un governo e un altro premier fino al 2023. Serve quindi un doppio patto».

QUIRINALE 2. OGGI SI VEDONO I GIALLOROSSI

È giusto contrapporre un nome al centrodestra? Il dilemma agita oggi il vertice del Pd con M5S e Leu. Le resistenze all'ipotesi Draghi. La cronaca di Maria Teresa Meli per il Corriere.

«Si vedranno oggi Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, ma tutti e tre rischiano di recitare a soggetto. Sia il leader pd che quello del M5S hanno avuto modo di parlare con Salvini, però la verità è che nessuno dei tre sa bene come finirà la partita del centrodestra. Conte e Letta si stanno convincendo che Berlusconi non andrà fino in fondo, perché gli mancano i voti. Questo da una parte sarebbe un vantaggio perché esimerebbe il trio della ex maggioranza giallorossa dall'onere di scegliere che fare nel caso in cui il Cavaliere si presentasse in Aula. Già, perché finora i leader di Pd, M5S e Leu non sono riusciti a trovare un nome condiviso da contrapporgli e pure sull'eventualità di un loro Aventino non sono d'accordo. Ma c'è il rovescio della medaglia: se Berlusconi non si presenta e in compenso scende in campo un altro candidato del centrodestra? Anzi, una candidata, come Maria Elisabetta Casellati o Letizia Moratti. Per i dem sono due nomi indigeribili, però il Pd ha già sprecato il suo veto per Berlusconi. Si diffonde il panico tra i parlamentari dem. Il saggio Luigi Zanda cerca di rassicurare i senatori: «Il centrodestra dovrà sforzarsi di proporre un nome accettabile perché non è vero che la rinuncia di Berlusconi dà il via libera a qualsiasi nome». Alla Camera un esponente della segreteria placa la preoccupazione incombente: non sarà Casellati. Ma se si presenta che succede, gli chiedono. E lui per essere più esplicito invia ai deputati dem un video di Fantozzi, quello in cui la contessa Serbelloni Mazzanti vien dal Mare è inseguita dall'arcivescovo cui ha mozzato un mignolo nel tentativo di varare una nave. E per fugare ogni dubbio Beppe Provenzano mette le mani avanti: «Se si rompe la maggioranza in un passaggio così delicato come l'elezione del presidente della Repubblica si può immaginare che si ricomponga il giorno dopo nel governo? Evidentemente no». In attesa che il centrodestra chiuda la sua partita interna, Filippo Sensi fa i calcoli: «Il centrosinistra ha 463 voti, il centrodestra ne ha 452, ripartiamo di qui». «Per fortuna - commenta un autorevole esponente della dirigenza pd - non se ne è accorto nessuno, perché sennò toccava a noi e ai nostri alleati fare un nome e non ci saremmo mai riusciti». Eppure un nome c'è. Nella mente di Letta di sicuro, è quello di Draghi. Se il premier fosse eletto presidente il segretario dem potrebbe dire di aver mandato in porto un'operazione importante, pur avendo solo il 12% circa in Parlamento. Un successo. Conte però non ne vuol sapere e Speranza, che si sente con D'Alema un giorno sì e l'altro pure, nemmeno. Eppure tra i dem i filo Draghi iniziano a farsi avanti. Valeria Fedeli, Luigi Zanda ormai ne parlano esplicitamente. Nicola Zingaretti, che sarà tra i grandi elettori, non ha intenzione alcuna di ostacolare Draghi. Persino Stefano Bonaccini, che lo preferirebbe premier, ammette: «Prima di togliere Draghi dal tavolo ci penserei tre volte». Nel partito, però, le resistenze sono molto forti. Base riformista è spaccata tra chi, come Lorenzo Guerini, vede quella di Draghi come «la soluzione più plausibile» e chi, come Luca Lotti, spera in un altro nome. La freddezza di Dario Franceschini nei confronti di Draghi non è un mistero per nessun dem. Dicono che lui speri ancora di andare al Colle, anche se con i suoi ci scherza su: «Letta ha detto chi ci vuole una figura istituzionale? Io sono un ministro istituzionale». E Goffredo Bettini, che chiama spesso il ministro della Cultura con cui ha fortemente ricucito un rapporto laceratosi ai tempi della segreteria Veltroni, lo avrebbe voluto (e lo vorrebbe ancora) al Quirinale: «Lo stimo tantissimo». Ma le operazioni di Bettini non piacciono a una parte del Pd: «È patetico», taglia corto Alessandro Alfieri nella riunione di Base riformista».

QUIRINALE 3. BERLUSCONI È ANCORA OTTIMISTA

Silvio Berlusconi resta ottimista e dice: «Non deludo chi mi dà fiducia». Domani vertice decisivo. Il punto della situazione nel centro destra con Fabrizio De Feo del Giornale.

«Non ho deciso, ma sono molto ottimista, non deluderò chi mi ha dato fiducia». Silvio Berlusconi va avanti consapevole dei rischi della partita quirinalizia che lo attende, senza alcuna intenzione di arrendersi. Ieri il presidente di Forza Italia ha tenuto ad Arcore il classico pranzo del martedì con famiglia e manager e ha ribadito le sue intenzioni. L'idea di fondo è di giocarsi la partita fino alla quarta votazione e cercare di far maturare giorno dopo giorno le condizioni per tagliare il traguardo. Nella giornata di ieri si è creata un po' di confusione per via di una dichiarazione di Vittorio Sgarbi a Un Giorno da Pecora. Il critico d'arte si è detto convinto che l'operazione Quirinale si sia «fermata oggettivamente. Credo che questa pausa dipenda dal fatto che starà pensando se c'è una via d'uscita onorevole, con un nome a lui gradito, forse Mattarella». Una sortita subito stoppata da Antonio Tajani. «Sgarbi non è il portavoce di Silvio Berlusconi ma risponde a se stesso. Il centrodestra è ancora tutto a sostegno di Berlusconi la cui candidatura al Quirinale non ha alternativa». Il centrodestra a questo punto dovrà verificare le proprie intenzioni nel nuovo vertice fissato per la giornata di domani. È chiaro tra Lega e Fratelli d'Italia, qualora la candidatura Berlusconi non andasse in porto, la competizione per intestarsi il ruolo di kingmaker sarà forte. Matteo Salvini ha suscitato qualche fibrillazione dichiarando che entro lunedì «sapremo degli incontri e dei conti di Silvio Berlusconi, la Lega farà una proposta che penso potrà essere convincente per tanti, se non per tutti». Il leader del Carroccio ha comunque smentito di essere pronto a mettere in campo un «piano B» anche se i nomi di Marcello Pera o Letizia Moratti vengono tenuti come possibili carte di riserva. «Se ci saranno i numeri il centrodestra lo appoggerà lealmente, per profilo istituzionale e storia. Nel caso non dovesse sciogliere le riserve o avere i numeri dovremo trovare un altro nome su cui possano convergere anche gli altri» dice a Rai Radio1 il capogruppo della Lega Riccardo Molinari. Ma è soprattutto Giorgia Meloni, ospite di Porta a Porta, a dare una indicazione chiara sulla volontà della coalizione. «Credo che dovremmo riunirci tutti i giorni fino alla fine di questa annosa vicenda. Dopo il vertice si avranno le idee più chiare e anche Berlusconi le avrà. Ma per me è fondamentale che il centrodestra sia compatto in questa partita dall'inizio alla fine, sia se la candidatura di Berlusconi andrà avanti sia se non andrà avanti. Berlusconi risponde all'identikit di chi può difendere la sovranità italiana e gli interessi italiani». E Francesco Cannizzaro, responsabile nazionale di Forza Italia per il Sud, fa notare che «il Sud vuole Berlusconi e lo considera la figura che meglio riesce a incarnare l'indispensabile conciliazione tra forze settentrionali e meridionali». Di certo nel vertice di domani bisognerà anche definire la strategia da tenere nelle prime votazioni, se procedere con la scheda bianca o iniziare a testare il nome di Berlusconi. Sullo sfondo c'è sempre l'ombra della candidatura Draghi che continua ad aleggiare. E c'è chi dalle parti di Montecitorio dà una lettura della corsa quirinalizia già orientata sull'eventuale nascita di un nuovo governo. «La trattativa in questo momento sembra già essere più sul futuro sottosegretario ai Trasporti piuttosto che sul nuovo presidente della Repubblica».

QUIRINALE 4. SI PENSA AL VAD MA COI FATTORINI

Se la Camera lo chiedesse il governo potrebbe mettere a disposizione le prefetture per trasportare le schede dei positivi al Covid nell'ipotesi del voto a domicilio, il VAD, voto a distanza. Giovanna Casadio e Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«I Grandi elettori contagiati e positivi non possono essere esclusi dal voto per il Quirinale. È la convinzione sempre più diffusa che potrebbe trasformarsi in una mossa di Camera e Senato. A loro spetta infatti decidere in autonomia, in base all'autodichia. Potrebbero farlo chiedendo al governo di fornire mezzi e strumenti per permettere ai parlamentari di votare a domicilio. Probabilmente attraverso il coinvolgimento delle Prefetture, che fornirebbero uomini delegati a ricevere le schede presidenziali e garantirne la regolarità del trasporto. Si tratterebbe di una novità nel voto dei parlamentari. La procedurà, però, ricalcherebbe quella che già si verifica in alcuni casi normati dalla legge per i cittadini chiamati a esprimersi a domicilio a causa di un certificato impedimento. Il voto dei positivi, in ogni caso, resta un'ombra sulla partita per il Colle. Il braccio di ferro tra la destra - favorevole - e il centrosinistra ostile a questo scenario non sembra placarsi. Un groviglio costituzionale e giuridico, oltreché politico. Ieri, tra l'altro, Mario Draghi è stato ricevuto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella e dal Presidente della Camera Roberto Fico, ma l'esecutivo smentisce categoricamente che i colloqui possano essere serviti ad occuparsi del tema, proprio in ossequio al principio dell'autodichia. Resta il fatto che la soluzione sembra con il passare delle ore sempre più vicina. E passa appunto dall'organizzazione di seggi volanti presso l'abitazione dei positivi, con l'ausilio del ministero dell'Interno e delle Prefetture. Nell'ultima riunione dei capigruppo alla Camera, non sono mancate le opzioni alternative. Tra queste, anche quella di un Covid hotel Montecitorio, dove ospitare i contagiati. «L'idea è semplice: prenotare uno degli hotel per i positivi davanti alla Camera. Poi, facilmente con un percorso protetto, passando dall'ingresso principale della Camera, far loro raggiungere il cortile, dove sarebbe sistemata una cabina ad hoc per votare per il Quirinale». È il renziano Marco Di Maio a sostenerlo, appoggiato dal centrodestra. Fratelli d'Italia ha anche presentato un ordine del giorno al decreto Green Pass, mentre Salvini è tornato all'attacco: «Mi auguro che tutti possano esercitare il diritto di voto in piena sicurezza. Se si escludesse qualcuno, sarebbe un problema». Insomma il centrodestra non si arrende. «Si stanno perdendo ore, giorni preziosi per non modificare il regolamento - sottolinea l'azzurro Gregorio Fontana, questore della Camera - È una scelta politica per boicottare il fronte del centrodestra. Inoltre, in tutte le altre elezioni i cittadini hanno diritto a seggi a domicilio anche se positivi». Uno tra i più scettici - almeno finora - è sembrato lo stesso Fico, a causa delle numerose obiezioni di natura regolamentare. «Rischiamo l'accusa di essere i Djokovic della politica », si sfoga Debora Serracchiani, capogruppo del Pd, chiedendo di evitare eccezioni. Ostile anche Federico Fornaro (Leu): «C'è un semplice confine: avere o meno il Green Pass. Se ce l'hai voti, se non ce l'hai , non puoi votare». Dubbi sono arrivati anche da Loredana De Petris, che nella capigruppo di ieri in Senato ha criticato i ritardi nella pianificazione: sarebbe stato opportuno muoversi prima, ha detto, creando «una bolla» in cui raccogliere i parlamentari, «come fanno le squadre di calcio ». Una circolare del ministero della Salute del 13 gennaio, ricordano intanto FdI e FI, parla della possibilità per i positivi di spostarsi dal loro domicilio/quarantena a un altro domicilio/quarantena, ma solo se autorizzati dall'autorità sanitaria e con mezzi speciali. Sullo sfondo, ma neanche troppo, restano i numeri dei contagiati. Ieri i positivi erano una trentina alla Camera e una decina al Senato. Nel frattempo, cambiano anche le regole per entrare a Montecitorio. Finora chi si presentava all'ingresso con una temperatura superiore a 37,5 gradi, veniva bloccato. D'ora in poi, potrà passare con un tampone rapido negativo. Se hai una influenza, insomma, voti».

POVERI IL 12 PER CENTO DEI LAVORATORI

Uno studio del gruppo di lavoro costituito dal ministro Orlando indica un peggioramento della situazione dei lavoratori  italiani rispetto alla media europea. Tra le proposte degli esperti c'è anche il sostegno al reddito con l'in-work benefit. Maurizio Carucci per Avvenire.

«In Italia più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà e circa un quarto ha una retribuzione individuale bassa. Un fenomeno che risulta più marcato anche nella comparazione con gli altri Stati europei. Nel 2019 - secondo Eurostat - l'11,8% dei lavoratori italiani era povero, contro una media Ue del 9,2%. A smentire il luogo comune che vorrebbe la povertà legata alla mancanza di un lavoro è la Commissione sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà la- vorativa in Italia del ministero del Lavoro, che ieri ha presentato il suo rapporto conclusivo 2021. «Sul lavoro povero non si può rimanere senza fare niente - ha spiegato il ministro del Lavoro Andrea Orlando -. Rimanere fermi vuol dire accettare l'idea del lavoro povero. Non si può dire che non si fa nulla sulla rappresentanza e che non si fa nulla sul salario minimo. Non c'è ancora il dato aggiornato, ma credo che ci sarà un'accentuazione del fenomeno. Sicuramente con la pandemia la situazione non è migliorata. Abbiamo in parte scongiurato un'emergenza sociale. Anche se il lavoro povero riguarda soprattutto giovani e donne». La povertà, infatti, per l'economista Andrea Garnero - che ha presentato il rapporto - «è il risultato di un processo che va ben oltre il salario e che riguarda i tempi di lavoro, quante ore a settimana e quante settimane in un anno; la composizione familiare, in particolare quante persone percepiscono un reddito all'interno del nucleo; il ruolo redistributivo giocato dallo Stato». Per questo le categorie più a rischio sono i lavoratori occupati solo pochi mesi all'anno o a tempo parziale o ancora i lavoratori autonomi, monoreddito e con figli a carico. È per questa sua natura che la povertà lavorativa necessita di una strategia complessa che preveda la contemporanea messa a terra di una molteplicità di strumenti con cui sostenere i redditi individuali, aumentare il numero di percettori di reddito e assicurare un sistema redistributivo ben mirato. Cinque le proposte elaborate per un pacchetto da rendere operativo contestualmente in ogni sua parte. Si parte dalla garanzia di un salario minimo adeguato, rafforzandone la vigilanza documentale, per passare all'introduzione di forme di sostegno al lavoro, all'incentivazione del rispetto del contratto da parte delle aziende aumentando la consapevolezza e l'informazione tra gli stessi lavoratori oltre che a promuovere una revisione dell'indicatore Ue di povertà lavorativa. Si torna dunque a parlare di salario minimo. Ma alla proposta sperimentale della Commissione, di limitarlo a un numero limitato di settori in crisi, si associa anche un'altra proposta: quella di creare un sostegno economico che integri i redditi dei lavoratori poveri, con cui aiutare chi si trova in difficoltà economiche incentivando l'occupazione regolare. Uno strumento, si legge, con cui di fatto, assorbire gli 80 euro, ora bonus dipendenti, e la disoccupazione parziale per arrivare a uno strumento unico, di facile accesso e coerente con il reddito di cittadinanza e il nuovo assegno unico. Tutti gli interventi disegnati dalla Commissione avranno comunque bisogno di una contemporaneità operativa perché - si legge nel rapporto - «nessuna proposta presa in isolamento è risolutiva» e se non combinate con altre potrebbero rischiare di essere inefficaci (come un salario minimo senza controlli più stringenti) o addirittura dannose. In Italia solo il 50% dei lavoratori poveri percepisce una prestazione di sostegno al reddito (la media Ue è del 65%). Una strategia, però, prosegue il dossier, che dovrà affrontare «anche le debolezze macroeconomiche e di politica industriale, le politiche per il lavoro (politiche attive, regolazione lavoro atipico, contrattazione) e gli investimenti in istruzione e formazione con l'obiettivo di aumentare quantità e qualità del lavoro nel nostro Paese».

IL GOVERNO CERCA 8 MILIARDI PER I RINCARI

Caro-bollette, il governo è alla ricerca di «8-10 miliardi». Il ministro della Transizione ecologica Cingolani insiste: il salasso «non dipende dalla transizione ecologica ma dal prezzo del gas». Roberto Ciccarelli per Il Manifesto.

«Il governo sta cercando otto o dieci miliardi di euro per mitigare l'annunciato aumento del costo dell'energia e, soprattutto del gas, una delle conseguenze dell'aumento delle materie prime ed effetto della crisi innescata dalla pandemia. Ieri, durante un'audizione davanti alle commissioni riunite Attività produttive della Camera e Industria del Senato il ministro della transizione ecologica (Mite) Roberto Cingolani ha detto che tre miliardi arriverebbero dalla cartolarizzazione degli oneri Asos, 1,5 miliardi dalle aste Ets (Emission trading system), 1,5 miliardi dal taglio degli incentivi sul fotovoltaico (il cosiddetto Conto energia), uno-due miliardi dal taglio degli incentivi sull'idroelettrico, 1,5 miliardi dalla negoziazione a lungo termine delle energie rinnovabili. Si pensa a tagli dell'Iva sulle bollette o all'extra-gettito delle accise, ma ci vuole il parere della Commissione Ue. La proposta è in una bozza consegnata alla presidenza del Consiglio. Non è chiaro al momento se sarà discussa in un Consiglio dei ministri che dovrebbe essere convocato domani per affrontare l'altro problema della quarta ondata del Sars Cov 2, la variante «Omicron»: ristori per bar, ristoranti e turismo, sport e discoteche, «cassa Covid»: 1 miliardo e duecento milioni di euro. Sono state diffuse voci secondo le quali le iniziative anti-rincari potrebbero slittare ancora e rinviate forse alla prossima settimana, quella che potrebbe essere il fotofinish del governo visto che Draghi potrebbe essere eletto al Quirinale entro il 3 febbraio. Il governo è bloccato da giorni, stretto tra il romanzo Quirinale, la crisi politica creata dalla strategia del «governo del presidente» e della maggioranza Frankenstein composta per tenerlo in vita e le vere emergenze create da una crisi anche stavolta sottovalutata mentre continua a presentare conti salatissimi. E continua il pressing dei partiti come Lega e Cinque Stelle, o anche il Pd. Ieri Matteo Salvini (Lega), tra una sparata sul Quirinale e un'altra per tenere Draghi a palazzo Chigi, ha rilanciato l'ipotesi di uno scostamento di bilancio da 30 miliardi al fine di contenere il caro-bollette. Ipotesi che sembra essere stata respinta dal Ministero dell'Economia, tanto è vero che è stato mandato avanti Cingolani con quella sugli 8-10 miliardi. Si parla di ipotesi come la possibilità di destinare i proventi delle aste per le emissioni di Co2 a mitigare aumenti del gas che sembrano essere superiori addirittura al 700%. In alto mare, invece, l'altra ipotesi di un contributo dei grandi gruppi. Era stata ventilata in questi giorni confusi per un governo e una maggioranza ipnotizzati dalla prevedibile crisi politica dovuta al passaggio di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Salvini ha messo in giro un'altra ipotesi: la stasi del suo governo sul caro-bollette sarebbe dovuto al fatto che «mancherebbe l'ok dell'Europa». «Vuol dire che qualcuno non ha capito: se c'è l'emergenza sanitaria c'è anche l'emergenza energetica, c'è poco da fare». La visione ristretta del redivivo sovranista non riesce a concepire le difficoltà sistemiche che questa incredibile fiammata dei prezzi ha generato sia su un paese come l'Italia che importa la maggior parte del suo fabbisogno di gas (70 miliardi di metri cubi , mentre solo 4,5 sono prodotti da noi), sia sul continente alle prese con una contesa geo-economica enorme con la Russia di Putin e le politiche dei gasdotti. Non è chiaro in che modo l'«ok dell'Europa» stia condizionando la partita interna sul caro-bollette, ma il nervosismo di Salvini è la reazione a un problema strutturale che il governo non è in grado di affrontare date le incertezze politiche in cui naviga. In audizione Cingolani ha detto che i prezzi del gas non caleranno nel breve termine e serve una strategia strutturale Ue. «Non possiamo continuare ogni trimestre a tirare fuori cash che mitiga solo una parte dell'aumento che di solito a due zeri». In ogni caso «il caro bollette di questo momento non dipende dalla transizione ecologica», ma «da congiunture correlate al prezzo del gas».

UCRAINA, LA DIPLOMAZIA TEDESCA DEL NORD STREAM 2

Prosegue la missione diplomatica tedesca sull’Ucraina. La cronaca di Uski Audino da Berlino per La Stampa.

«La Germania si fa ambasciatrice di una «Ostpolitik europea», come l'ha definita il cancelliere Olaf Scholz, e cerca di ritagliare per sé e per l'Europa un ruolo di mediazione attiva tra Usa e Russia sulla questione ucraina. Questo è il senso del viaggio a Kiev e poi a Mosca della ministra degli Esteri Annalena Baerbock, e dei colloqui tra Scholz e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg (che dice «Difenderemo Kiev») ieri a Berlino. Dal discorso però non restano fuori questioni che toccano da vicino l'esecutivo tedesco e da lontano l'Europa, come l'attivazione del gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 e la questione della fornitura di armi all'Ucraina. La mediazione con la Russia, la diplomazia tedesca cerca di costruirla intorno al tema più contestato: la sicurezza. È importante assicurarla agli uni quanto agli altri, è la linea di Berlino: «La Russia ha richiesto garanzie di sicurezza e noi siamo pronti ad un dialogo serio su un accordo condiviso per fare passi che portino una maggiore sicurezza in Europa», ha detto Baerbock, a margine dei colloqui con Sergej Lavrov a Mosca. Dobbiamo garantire «la sicurezza delle persone a Riga come a Bucarest, a Berlino come a San Pietroburgo», ha proseguito Baerbock, accomunando capitali europee e non solo dell'Unione europea. «Tutti noi vogliamo relazioni stabili e costruttive con la Russia», gli ha fatto eco Scholz da Berlino. Certo, nelle ultime settimane si è visto l'assembramento di oltre 100.000 militari russi armati al confine ucraino «senza un motivo» e questo «è difficile non interpretarlo come una minaccia», ha rimarcato la ministra tedesca. Lavrov ha risposto cercando di inquadrare la questione nell'ambito della desiderata adesione dell'Ucraina all'Alleanza atlantica: «Ogni Paese ha il diritto di cercarsi le proprie alleanze - ha detto il ministro russo - ma d'altra parte ogni Stato può assicurarsi la propria sicurezza in modo da non essere minacciato da altri» e la Russia si sente messa in pericolo da una presenza della Nato alle porte di casa. Il ministro da 18 anni a capo della diplomazia di Mosca ha rilanciato un invito agli Usa. Lui e il segretario di Stato Usa Anthony Blinken si vedranno a Ginevra venerdì, per riprendere il filo interrotto dei colloqui dei giorni scorsi. Sul tavolo delle trattative gli Usa potrebbero proporre sanzioni ai separatisti filo-russi in Ucraina. Intanto oggi a Kiev e domani a Berlino Blinken incontrerà il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e con il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba e poi il cancelliere Scholz e la ministra Baerbock, perchè «la nostra stella polare è niente sull'Europa senza l'Europa», dice l'amministrazione Usa. La ripresa del dialogo tra Mosca e Kiev con la mediazione di Francia e Germania è l'altro punto su cui insiste Berlino. «È importante rivitalizzare il formato Normandia», ha ripetuto Baerbock. «Per noi il punto non è quando incontrarci ma perché incontrarci», ha replicato Lavrov, che accusa «il regime di Kiev» di non aver messo in pratica gli accordi presi nell'ultimo incontro del 2019 a Parigi. Entrambe le capitali - Kiev e Mosca - si rinfacciano reciprocamente e da anni la mancata applicazione degli accordi di Minsk. L'Ucraina intanto sembra delusa dall'approccio di Berlino. «Finora la Germania ha bloccato l'approvvigionamento di armi e speriamo che il nuovo governo cambi posizione», diceva la vice-premier ucraina Olha Stefanyschina in un'intervista a Der Spiegel ieri. Ma se il Regno Unito ha fatto sapere che fornirà sistemi anticarro all'Ucraina, Berlino rimane sulle sue posizioni. «Da molti anni il governo tedesco persegue la stessa strategia», ha detto il cancelliere Scholz «non esportiamo armi letali». Su Nord Stream 2 invece il cancelliere Scholz sembra aver cambiato posizione, o almeno narrazione. Dopo aver definito per giorni il gasdotto che trasporta il gas russo attraverso il mar Baltico, in modo da bypassare l'Ucraina, come un «progetto puramente economico» - quindi evitando di attribuirgli implicazioni geopolitiche - ieri dopo un colloquio con il segretario della Nato ha ammesso che «nel caso si arrivasse ad un intervento russo in Ucraina è chiaro che ci sarebbe un costo alto e tutto sarebbe da ridiscutere». Nord Stream 2 quindi potrebbe rientrare tra le sanzioni in un eventuale scenario di aggressione russa».

L’editoriale di Avvenire è di Andrea Lavazza. Titolo: Fermiamo l’escalation.

«Esiste un punto di vista neutrale, super partes, nella contesa tra Russia e Nato sull'Ucraina, qualcosa che possa aiutare a vedere una ragionevole via d'uscita dall'escalation verbale e militare che stiamo osservando in queste settimane? Mosca vede nell'allargamento dell'Alleanza Atlantica ai suoi confini, con il possibile ingresso di Kiev, una minaccia diretta, per la conseguente dislocazione alle proprie porte di armamenti ostili. E denuncia la violazione di un presunto, tacito impegno preso dagli Stati Uniti al momento di ottenere il via libera sovietico alla riunificazione della Germania, cioè proprio quello di non espandere a Est il dispositivo bellico occidentale. A livello diplomatico si invoca il principio degli 'Stati cuscinetto', in base al quale una grande potenza, al fine di mantenere la sicurezza, deve potere contare su una cintura di territori neutrali. La contesa per l'Ucraina è esacerbata dalle pretese su un Paese che è stato a lungo parte dell'Urss ed è culla storica della cultura russa, in cui la minoranza russofona sarebbe oppressa. La Nato e i suoi Paesi membri, principalmente Washington, ma anche l'Europa per la quota di aderenti al Patto, rivendica la libertà delle adesioni e il diritto per Kiev di scegliere la propria traiettoria geopolitica e rifiuta il ricatto di Putin, materializzato nei centomila soldati schierati poco lontano dalla frontiera. Le ricostruzioni degli esperti dicono che non ci fu alcuna promessa di rispettare a tempo indeterminato i cosiddetti blocchi di influenza come erano usciti dalla Guerra Fredda. E, ovviamente, Mosca non è la vittima indifesa di un progressivo accerchiamento, avendo invaso e annesso la Crimea nel 2014 e continuando a sostenere la guerra a bassa intensità degli indipendentisti del Donbass. D'altra parte, l'Alleanza è espressione di un progetto che è difensivo, ma anche portatore di visioni e interessi precisi: lo scopo era quello di vincere la partita con l'Urss e oggi la Russia del presidente che rimpiange l'Unione Sovietica (la cui dissoluzione sarebbe stata stata «l'evento peggiore del secolo» scorso) continua a essere un avversario da tenere a bada e, se possibile, ridimensionare in tutte le sue ambizioni. Si sa che Putin persegue un progetto espansionista che è anche funzionale a puntellare una popolarità interna incrinata dalla crisi economica e dallo sviluppo sociale iniquo. Portare l'Ucraina nell'orbita occidentale è un'inutile provocazione, una forma di espansionismo che interferisce con equilibri consolidati o comunque da non turbare? La diplomazia che si è messa in moto negli incontri di Ginevra si confronta su un tavolo per ora troppo ingombro di pistole cariche, nella forma di blindati sul campo e di sanzioni devastanti prospettate. Un osservatore imparziale, quello della nostra domanda iniziale, potrebbe ricordare che i principi degli Accordi di Helsinki del 1975, ereditati dall'attuale Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), sono ancora in vigore per tutti. Tra i più pertinenti, si possono ricordare: rispetto della sovranità dei Paesi; non ricorso alla minaccia o all'uso della forza; inviolabilità delle frontiere; integrità territoriale degli Stati; non intervento negli affari interni. Quanto li ha violati Mosca e quanto la Nato? Per i torti la bilancia sembra pendere dal piatto di Putin, ma l'essere dalla parte della ragione non autorizza un interlocutore assennato a forzare la mano in una partita delicata. Secondo alcuni, la Russia non invaderà mai l'Ucraina, anche se gli analisti militari le assegnano un netto vantaggio operativo. L'idea di un accordo che salvi l'onore di entrambi ed eviti il peggio sembra essere la strada più saggia da percorrere».

Alberto Negri sul Manifesto si pone una domanda chiave: chi assedia chi?

«Reduce insieme agli Stati Uniti dal fallimento dell'Afghanistan, la Nato rischia un flop anche ai confini dell'Ucraina. A consigliare alla Nato di chiudere la porta verso Est è un articolo appena pubblicato su Foreign Affairs dello storico Michael Kimmage. Non perché lo chiede Putin ma perché immergersi nel calderone nazionalistico ed etnico dell'Est Europa diventerà un problema per la stessa Alleanza Atlantica. Un'Alleanza che - ricorda Foreign Affairs - è prima di tutto difensiva, non offensiva. Oggi la Nato a oriente si sovrappone pericolosamente su una linea ribollente della storia europea: il nodo è dove finisce il confine occidentale della Russia e dove comincia quello orientale dell'Europa. Da qualche secolo qui si combattono l'imperialismo russo e l'espansionismo delle potenze europee con i loro alleati. Contrariamente a quanto affermano qui sui giornali, l'Ucraina è un po' che ci prova entrare nella Nato e ha presentato domanda per l'adesione nel 2008. I piani furono accantonati in seguito alle elezioni del 2010 in cui il presidente Viktor Janukovich preferì mantenere il paese non allineato. Con gli oscuri disordini dell'Euromaidan, caratterizzata oltre che da un ruolo dell'estrema destra da una forte connotazione contraria sia alla popolazione russa e russofona ucraina sia anti-russa, Janukovich fuggì dall'Ucraina e il governo ad interim di Kiev inizialmente dichiarò, con riferimento allo status non allineato del paese, che non aveva intenzione di aderire alla Nato. Ma in seguito alle operazioni militari russe e all'annessione della Crimea l'adesione è tornata prioritaria. Forse qui non si è neppure capito che l'Ucraina si considera già dentro la Nato e l'Unione. Dal 2019, con un voto del Parlamento, l'obiettivo dell'adesione all'Unione europea e alla Nato è entrato nella stessa costituzione di Kiev, in poche parole quello che poteva sembrare soprattutto un traguardo geopolitico è diventato parte della stessa ragione d'esistere della nazione ucraina. È crollata da un pezzo l'idea che nel 2014 aveva Henry Kissinger di un'Ucraina che fosse un «ponte» e «non un avamposto di una parte contro l'altra». Chi era cosciente della situazione era proprio la ex cancelliera Angela Merkel che infatti trattò gli accordi di Minsk dai quali è uscito evidente il consenso russo sul «non interesse e non ingerenza» nel Donbass la cui soluzione dovrebbe essere quella di una autonomia interna all'Ucraina. Nessun leader occidentale ha parlato con Putin più di Merkel. I due non si amavano ma si capivano, ognuno parlava la lingua dell'altro, e comprendere il russo o il tedesco serve a intuire come pensa l'interlocutore. Merkel capiva perfettamente che per la Nato entrare in Ucraina significava per il suo interlocutore essere alle porte di Mosca. In sostanza cosa chiede Mosca? Putin ha chiesto una garanzia agli Usa, ricordando la promessa di James Baker e di Bush padre fatta a Gorbaciov « che accettava la riunificazione delle due Germanie in cambio del fatto che l'Alleanza Atlantica non si sarebbe allargata a Est. Invece alla fine della guerra fredda, sotto la spinta americana e lo scioglimento dell'Urss nel dicembre 1991, l'Alleanza si è allargata a una dozzina di Paesi (prima del Patto di Varsavia) e oggi è una coalizione di 30 stati, dal Nord America all'Europa occidentale, dai Paesi baltici alla Turchia. A questo bisogna poi aggiungere un corollario non indifferente: Israele, ovvero il maggiore alleato degli Usa, che sta facendo la «sua» Nato con i Patti d'Abramo stretti con i Paesi arabi. Ora sarebbe interessante rispondere alla domanda: chi assedia chi? Merkel queste cose agli americani le aveva fatte notare. Quando Obama, nel 2014, chiese o volle imporre, che l'Ucraina entrasse nell'Unione europea (una alleanza militare non solo politica), Putin reagì prendendosi la Crimea, mise sotto scacco il presidente americano, e allora iniziò la guerra civile in Ucraina. Obama espulse Putin dal G8, nonostante Merkel cercasse di fargli capire che per risolvere una crisi, che fosse la Siria o l'Ucraina, era necessario parlare con l'avversario. Che cosa ha fatto invece la Nato? Nel 2011 ha bombardato la Libia non tanto per salvare i ribelli di Bengasi ma per attuare un cambio di regime. E dopo l'Iraq nel 2003 questo a Mosca appariva un po' troppo. Così la Russia ha reagito in Crimea nel 2014 e soprattutto in Siria nel 2015, scendendo in campo a fianco del regime di Bashar Assad: era la prima volta dai tempi dell'Urss che Mosca si trasformava in un attore chiave di un conflitto non regionale o post-sovietico ma globale, al quale prendevano parte tutte le potenze mondiale schierate, in un modo o in un altro, contro Damasco. E chi ha vinto, almeno per ora, quella guerra? Mosca e Teheran. Ora naturalmente della Siria non si parla più, della Libia il meno possibile, perché anche un orbo ha capito che con la presenza di truppe straniere si è avviata una spartizione di fatto in zone di influenza. Mentre l'Afghanistan è stato abbandonato al suo destino con la fuga da Kabul di agosto. Con alle spalle tutti questi «successi» l'Occidente e la Nato devono stare molto attenti. L'Ucraina si difende meglio con la diplomazia che con le armi. Berlino per lo meno continua a crederci: a Mosca la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, incontrando Lavrov, ha detto ieri che «non c'è alternativa ai buoni rapporti tra la Russia e la Germania», respingendo intanto la richiesta di Kiev di forniture di armi. Merkel approverebbe. E intanto arriva la notizia che le marine militari russa, cinese e iraniana terranno esercitazioni congiunte, come ha annunciato la flotta russa del Pacifico, ma senza precisare quando».

TONGA, UN DISASTRO SENZA PRECEDENTI

Tonga è devastata da un disastro senza precedenti. Raggiungere l'isola dopo l'eruzione vulcanica è impossibile: il premier lancia l'allarme via satellitare. Giacomo Talignani per Repubblica.

«Non esiste più nemmeno una casa sull'isola di Mango. Questo piccolo isolotto di appena 60 abitanti, così come le vicine Atata e Fonoifua, è un deserto di cenere e detriti, alberi spazzati dallo tsunami generato dopo la grande eruzione. A dircelo, così come i dettagli dell'evacuazione in corso, è uno striminzito comunicato in cui si parla di «disastro senza precedenti», inviato al mondo dal primo ministro delle Tonga Siaosi Sovaleni, dettato tramite satellitare e trasmesso poi dalle ambasciate australiane e neozelandesi. In quelle pagine c'è il primissimo e provvisorio bilancio, dopo giorni di buio e silenzio, delle condizioni di Tonga successive all'eruzione del vulcano sottomarino Hunga Tonga-Hunga Ha' apai, avvenuta sabato scorso a 70 chilometri dalla capitale. Tre le vittime accertate finora, ma potrebbero essere molte di più. A lasciarlo intendere sono le 40 immagini catturate dai voli di ricognizione aerea neozelandesi: mostrano cenere ovunque, edifici distrutti dall'impatto delle onde generate dopo l'esplosione, strade allagate, campi sommersi, perfino la pista dell'aeroporto coperta da una coltre di cenere vulcanica che volontari provano a rimuovere con badili. Alcune strutture, come l'Ha' atafu Beach Resort, sono completamente distrutte. La stima dei danni, sulle circa 170 isole dell'arcipelago, è ancor più complessa in assenza di comunicazioni. Niente telefoni e internet: per riparare il cavo che corre lungo il Pacifico e collega Tonga con il mondo potrebbero volerci settimane. Forse, si spera in tempi brevi, una rete 2G permetterà le prime comunicazioni fra tongani e parenti oltreoceano che oggi, disperati, nulla sanno della sorte dei loro cari. Fra loro c'è anche Viliami Vaki, ex rugbista del Valorugby Reggio Emilia e della nazionale tongana, da anni in Italia. «Non so nulla, non riesco a contattarli. Nella capitale ci sono i miei genitori e tre mie sorelle. Mio fratello a Sydney era riuscito a sentirli poco prima dell'esplosione, poi più nulla. Posso solo aspettare» racconta a Repubblica . Come Vaki, altri tongani stanno provando a scambiarsi informazioni sui social. «È un deserto di cenere e detriti», scrivono nei post di My tongan community sotto le foto delle isole Ha' apai, dove sono state trovate le prime vittime. Lì, come nella capitale Nuku' alofa, si teme sia per la cenere vulcanica che potrebbe contaminare l'acqua potabile sia per l'aria irrespirabile. A portare soccorso, ma non arriveranno prima di ore, ci sono le navi già in viaggio della Nuova Zelanda che ha stanziato 1 milione di dollari locali per aiutare i tongani. Quando i soccorritori giungeranno, si aprirà però un nuovo problema: Tonga è un Paese covid-free e serviranno misure di massima sicurezza per scongiurare possibili contagi e la diffusione del virus. Oltretutto, se per ora sembra rientrato l'allarme tsunami che ha coinvolto le coste di mezzo mondo, non si possono escludere altre esplosioni o tsunami, come ricorda il governo. Dopo il collasso del vulcano, avvenuta in un'area fra due isole dove non resta praticamente più nulla, secondo la marina tongana alcune onde tra i 5 e i 10 metri avrebbero impattato sulle piccole isole vicine al vulcano, spazzando via tutto. Tra onde alte e nuovi rischi alle porte, i trasporti marittimi sono poco sicuri e dove l'acqua non è arrivata, come in certe aree della capitale, ci pensa la cenere a peggiorare le cose, creando disagi per i soccorsi e bloccando anche i voli con aiuti umanitari. Nel frattempo la comunità scientifica sta cercando di comprendere i dettagli di un'esplosione così violenta, la più potente degli ultimi 30 anni sul Pianeta. Se impressiona come le onde acustiche siano arrivate perfino sulla Stazione di Serra la Nave sull'Etna, a 18mila chilometri di distanza dopo un viaggio di 17 ore nell'atmosfera, dall'altra parte preoccupano le incognite sui futuri impatti dell'eruzione: si va dal possibile abbassamento delle temperature per il rilascio di mezzo milione di tonnellate di anidride solforosa, sino ai ipotetici danni a barriere coralline ed ecosistemi marini, passando anche per possibili piogge acide. Le domande sul futuro di Tonga restano tante, ma le risposte per ora continuano ad avere il suono del silenzio».

KABUL CINQUE MESI DOPO IL RITIRO USA

Reportage dall’Afghanistan cinque mesi dopo il ritiro delle truppe occidentali. I talebani si accorciano le barbe nel tentativo di mostrarsi tolleranti: in realtà le donne non lavorano e gli oppositori vengono giustiziati. Pietro del Re per Repubblica.

«Si sono accorciati la barba e, dismesso il mantello nero da briganti, molti di loro indossano oggi l'uniforme mimetica dell'esercito sconfitto. In giro vedi anche meno kalashnikov e nel traffico di Kabul non senti più i loro pick-up sgommare come una volta. Inurbati da sei mesi nella capitale, e da allora incontrastati padroni dell'Afghanistan, i talebani si sono dati una ripulita: passata l'euforia della vittoria, è anche tramontato il bisogno di affermare il loro potere terrorizzando la popolazione civile. «Ma adesso operano più di nascosto, all'oscuro dei media internazionali agli occhi dei quali vogliono presentarsi con un volto nuovo, più umano e responsabile», dice Alì Jafari, ex funzionario pubblico, licenziato perché appartenente alla minoranza sciita hazara e costretto a nascondersi per paura di ulteriori rappresaglie. «Sono però rimasti gli aguzzini di sempre, poiché non danno la caccia soltanto agli esponenti della mia etnia, ma a tutti gli ex nemici, e cioè a coloro legati al precedente governo». Quanto sostiene Alì Jafari, lo conferma Agha Shireen, pashtun come la maggior parte degli studenti del Corano, ex dipendente del ministero dell'Interno e anche lui ridotto a vivere in clandestinità: «Sono disoccupato dal 15 agosto scorso e da allora continuo a ricevere messaggi in cui mi viene intimato di consegnarmi. Ma se lo facessi mi ucciderebbero, com' è accaduto a una dozzina di miei colleghi». Infatti, oltre a non aver formato un "governo inclusivo", come avevano garantito, i mullah stanno tradendo un'altra promessa fatta all'Occidente, quella di non perseguitare chi in passato li aveva osteggiati e, più in generale, chi aveva lavorato con "l'invasore" americano. «Chiedono a ogni capo distretto la lista di chi ha fatto parte della precedente amministrazione, e poi, siano essi funzionari, poliziotti, soldati o attivisti, li vanno ad arrestare uno per uno. Per questo è da mesi che, ogni giorno, almeno duemila afghani attraversano illegalmente il confine iraniano», aggiunge Shireen, che da quando è in fuga ha già cambiato sei volte indirizzo. I talebani non nascondono invece la volontà di plasmare secondo i loro canoni tribali le donne afghane, diventate dalla scorsa estate cittadine di terz' ordine e da allora vittime di una serie di decreti restrittivi emanati dal nuovo governo. Sono loro il principale bersaglio dei leader religiosi, ma anche la ragion d'essere di questi ultimi, incapaci di mandare avanti il Paese aiutandolo ad attraversare la spaventosa crisi economica che lo funesta. «Non fanno altro che reprimere la nostra indipendenza e la nostra autodeterminazione, con leggi assurde che ci impediscono perfino di uscire e di viaggiare da sole, o che ci proibiscono di studiare e di lavorare», dice Ameera Abdullah, ventidue anni, studentessa in architettura e una delle poche attiviste che ancora coraggiosamente scendono in piazza in difesa dei diritti delle donne, com' è successo domenica scorsa davanti all'Università di Kabul. «Gli stessi talebani che hanno chiuso la mia facoltà, ci hanno aggredite tre giorni fa con lo spray al peperoncino. Il che la dice lunga su quanto ci rispettino. Nessuno sa se un giorno ricominceremo a frequentare i corsi universitari, ma molte amiche mie hanno già rinunciato a proseguire gli studi. A che serve laurearsi, dicono, se poi non potrai mai svolgere il mestiere di architetto?». Prima di andar via, Ameera Abdullah ci tiene a denunciare due inquietanti novità nella Kabul talebana: l'aumento del numero di tossicodipendenti, con un tasso di morti per overdose mai registrato prima d'ora; e, soprattutto, l'improvvisa impennata di casi di violenza domestica, di cui le attiviste vengono a conoscenza solo grazie al passaparola. «È vero, la nostra è da sempre una società patriarcale ma fino alla caduta di Kabul le donne picchiate dai loro mariti potevano bussare alle porte di un commissariato e denunciarli. Oggi, non più. Sono reati che restano per lo più impuniti». Parliamo di queste terribili realtà con il portavoce del governo, Belal Karim, che ci riceve nel suo ufficio nell'ex sede del Tribunale di Kabul. Indossa un elegante turbante nero e ci sorride amabilmente nascondendo sotto la sua folta barba il volto di un trentenne. Con voce melliflua esordisce spiegando che, da quando gli studenti del Corano sono nuovamente al potere, la donna afghana è finalmente al sicuro: «Esce di casa soltanto accompagnata da un membro della famiglia e quindi nessuno può più violentarla. Inoltre, non lavorando più in un ufficio non è più vittima di quei colleghi che le proponevano un salto di carriera in cambio di un favore sessuale», sostiene Karim con un'ingenuità così disarmante da sembrare in malafede. «Per fermare l'emorragia di nostri concittadini verso i Paesi vicini abbiamo smesso di rilasciare passaporti. Quanto alle ragazze, abbiamo deciso che devono smettere di praticare lo sport perché è immorale e dunque sconveniente». Come un politico navigato evita abilmente di rispondere alle domande che non gli piacciono continuando a ripetere che la scorsa estate i talebani hanno riportato la pace in Afghanistan. È il suo mantra. Quando gli chiediamo come pensa il governo di attenuare la spaventosa crisi umanitaria che colpisce il Paese, Karim comincia con l'addossare tutte le colpe di quanto sta accadendo agli Stati Uniti che hanno congelato i fondi della Banca centrale afghana, pari a quasi 8,5 miliardi di euro. «Per superare questo brutto momento chiediamo a tutti i Paesi del mondo di aiutarci. Se lo faranno, sapremo ringraziarli distribuendo concessioni per sfruttare le nostre ricchissime miniere». Certo, aiutare l'Afghanistan implica il riconoscimento dei mullah, e cioè di chi è pronto a giustiziare con ferocia ogni oppositore e di chi vorrebbe trasformare tutte le donne in schiave domestiche. Perciò in Occidente sono in molti a pensare che, volendo rispettare le regole universali dei Diritti dell'uomo, i talebani vadano trattati come dei paria. Ma com' è possibile, attenendosi alle stesse regole, non intervenire di fronte al gelo e alla fame che hanno già cominciato a uccidere i più deboli? E non è illusorio credere che punendo i talebani non si infierisca soprattutto sul popolo afghano? Dice Fahim Sadat, analista politico riuscito a fuggire lo scorso agosto in Germania: «I negoziati potranno riprendere una volta finita l'emergenza. Ma adesso le nazioni più ricche del pianeta devono al più presto trovare i 4,3 miliardi di dollari necessari, secondo l'Onu, a salvare l'Afghanistan e a sconfiggere la carestia».

ARRESTATI IN CONGO PRESUNTI ASSASSINI DI ATTANASIO

«Arrestati in Congo gli assassini di Luca Attanasio». L'annuncio è dato nella notte dalla polizia di Goma, fermati sei sospettati. Francesco Battistini per il Corriere.

«Ecco i colpevoli dell'uccisione dell'ambasciatore italiano. Volevano rapirlo. E chiedere un milione di dollari di riscatto». A quasi un anno dall'imboscata assassina in cui morirono Luca Attanasio, il suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l'autista, Mustafa Milambo, la polizia del Congo cattura e mostra al mondo i presunti assassini. Sono sei giovani, seduti sul prato della caserma di Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu al confine col Ruanda. Tutti ammanettati, quattro sono scalzi, alle spalle nove agenti col mitra a tracolla. I sei tacciono. Di fronte hanno un gruppetto di giornalisti e fotografi, invitati per la conferenza stampa: «Signor governatore - proclama con voce solenne il comandante di polizia del Nord Kivu, il generale Aba Van Ang - , vi consegno tre gruppi di criminali che hanno portato il lutto nella città di Goma. Fra di loro, c'è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell'ambasciatore». A dire il vero, l'uomo che ha sparato non c'è: è il capo d'una banda nota col nome di «Aspirant», dicono gli investigatori, ed «è ancora in fuga, ma gli stiamo dando la caccia». Di sicuro, spiega un altro militare, il colonnello Constant Ndima Kongba, su quel prato sono in manette i suoi complici: «Gli uomini d'altre due gang criminali, i Bahati e i Balume. Sappiamo dove si trova il capo di 'Aspirant'. Speriamo di trovarlo». La banda era ricercata da vari mesi. Dopo l'agguato ad Attanasio il 22 febbraio dello scorso anno, sulla strada fra Goma e Rutshuru, ai confini del parco nazionale dei Virunga, in tutta la regione ci sono stati diversi assalti a convogli: in uno, a novembre, era stato ammazzato anche un uomo d'affari della zona, Simba Ngezayo. E sarebbero stati proprio gli indizi raccolti durante l'inchiesta per quest' ultimo assassinio, sostengono i giornalisti di Goma, a mettere la polizia del Nord Kivu sulle tracce di queste tre bande. Il generale Van Ang non racconta come si sia arrivati alla cattura. Non fa cenno alle inchieste italiane che nel giugno 2021 hanno portato a indagare un funzionario congolese del World Food Program, sospettato d'avere trascurato le misure di sicurezza previste per il trasporto dei diplomatici. Nemmeno fornisce elementi particolari che spieghino il collegamento con l'uccisione di Attanasio. Ma i toni sono determinati. «Aspirant» e i suoi uomini, dice l'ufficiale, tesero l'imboscata alle auto dell'ambasciatore italiano e del World Food Program «con uno scopo ben preciso»: volevano rapire il diplomatico e chiedere un riscatto milionario. Secondo gli investigatori, infatti, «quando 'Aspirant' sparò sugli obbiettivi», uccidendo quasi all'istante Attanasio e Iacovacci, «si morsero le mani» perché la loro intenzione era di prendere gli ostaggi bianchi e trattare con l'Italia per rilasciarli. «È la stessa tattica usata in altri casi», viene spiegato, e che doveva funzionare anche per rapire Ngezayo. «Ora lancio un appello alla giustizia - dice il generale del Nord Kivu -: che questi criminali siano puniti tenendo conto di tutto quel che hanno fatto sopportare alla nostra popolazione». Nei mesi passati, la polizia congolese aveva già annunciato possibili arresti smentiti, poi, in poche ore: se sia la svolta giusta, è ancora presto per dirlo».

BOMBE SUI CRISTIANI IN FUGA

Non c’è tregua nel Myanmar. Lo scontro non risparmia nemmeno chi cerca di scappare dalle violenze: tre le vittime, fra cui una bimba di sette anni, dell'incursione aerea sulla foresta di Loikaw, nello Stato Kayah. L'obiettivo è terrorizzare la popolazione. Stefano Vecchia per Avvenire.

«Il conflitto ormai aperto in Myanmar che sta svuotando intere città del Paese e provocando un esodo della popolazione davanti ai bombardamenti e ai rastrellamenti dei militari agli ordini della giunta al potere del primo febbraio 2021, non risparmia nemmeno chi sperava di avere trovato un rifugio dalle violenze. Il mattino di lunedì un'incursione aerea ha colpito i profughi che si erano rifugiati nella foresta attorno alla città di Loikaw, capoluogo dello Stato Kayah, roccaforte cristiana. Cattoliche le tre vittime, fra cui una bambina di sette anni, e sette i feriti, parte di un gruppo fuggito dal vicino villaggio di Moso. Lo stesso dove il 24 dicembre erano stati ritrovati i resti carbonizzati di 35 persone, pure di fede cattolica. Il 24 dicembre a Hpruso, nello stesso Stato, automezzi in transito su una strada di grande comunicazione erano stati attaccati e incendiati e i 38 passeggeri trucidati. Azioni efferate che hanno come obiettivo quello di terrorizzare la popolazione civile e di isolare le forze che si oppongono al regime. Ieri, segnala l'agenzia Fides, un breve rito funebre celebrato da padre Jacob Khun ha ricordato le nuove vittime e nonostante le parole di speranza, la commozione e la paura erano palpabili. Molti temono un'ulteriore aggravamento del conflitto in cui la popolazione civile si trova tra due fuochi: da un lato le forze armate e dall'altro il coordinamento tra le Forze di difesa popolare impegnate nella difesa delle comunità sotto attacco e le milizie che in molte regioni del Paese proteggono le etnie di cui sono espressione ma anche contendono ai militari governativi il controllo di infrastrutture e risorse. In questo contesto la resistenza segnala l'utilizzo crescente dell'aviazione che ritiene evidenzi le difficoltà delle truppe a operare in aree ostili dove starebbero subendo forti perdite. I fatti più recenti sono anche la risposta più chiara e purtroppo negativa alla sollecitazione di una settimana fa dell'inviato speciale Onu, Noeleen Heyzer, al regime di fermare gli attacchi contro la popolazione civile di Loikaw. La città è oggi svuotata dalla maggioranza degli abitanti che si sono uniti a una massa crescente di fuggiaschi di cui sono parte centinaia di monaci buddhisti i cui templi e monasteri sono stati colpiti insieme a diversi luoghi di culto cristiani. Le sei parrocchie cattoliche della città sono spopolate ma la Cattedrale di Cristo Re ancora accoglie decine di profughi, come fanno altre chiese nei dintorni rischiando rappresaglie. Come è successo il 13 gennaio per quella del Sacro Cuore di Gesù a Doukhu, colpita da un attacco aereo. Come ricorda Fides, i fedeli, esposti alla fame, al freddo, all'indigenza, alla violenza, necessitano di assistenza materiale di conforto spirituale. Tuttavia, mentre crescono ogni giorno dimensioni e necessità di una popolazione in fuga, le forze in campo continuano a negare spazio al dialogo. D'altra parte, il governo formato in clandestinità e le organizzazioni umanitarie presenti nonostante le limitazioni e i rischi, non riescono a concretizzare iniziative internazionali che vadano oltre la semplice condanna delle violenze e la negazione di legittimità al regime».

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