La Versione di Banfi

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"Fenomeni limitati"

alessandrobanfi.substack.com

"Fenomeni limitati"

Mattarella esalta la fortissima reazione dell'opinione pubblica alle violenze. Draghi vede Landini alla Cgil. Letta chiede di sciogliere Forza nuova. Il centro destra difende FdI. Oggi G20 su Kabul

Alessandro Banfi
Oct 12, 2021
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"Fenomeni limitati"

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Da Palazzo Chigi e dal Quirinale sono arrivati due messaggi che vanno letti insieme. Ieri mattina Mario Draghi ha reso omaggio alla sede della Cgil, presa d’assalto dai violenti No Green pass di sabato pomeriggio, abbracciando Maurizio Landini in una visita irrituale, di persona. Sergio Mattarella da Berlino ha spiegato in modo chiaro agli osservatori europei: “Il turbamento c’è, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati, che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica”.

Certo, la polemica fra i partiti è molto vivace. Enrico Letta, e lo ripete oggi alla Stampa, vorrebbe che si sciogliesse Forza Nuova. Ma un tweet “scivoloso” del vicesegretario del partito Provenzano è stato interpretato da tutto il centro destra come un tentativo di mettere fuori legge Fratelli d’Italia. Così in serata una telefonata fra Berlusconi, Meloni e Salvini ha sancito una linea comune: se si decide, si deve estendere lo scioglimento a tutte le formazioni eversive, estremiste e violente. Del resto diversi giornali, Stampa compresa, riportano la foto in prima pagina dei manifestanti dei comitati di base a Torino che bruciano l’immagine di Draghi in piazza. E da quelle parti nessuno ha dimenticato l’appoggio dei 5 Stelle alle violenze dei No Tav in Val di Susa. A proposito di allarme, il Viminale studia le mosse per i prossimi giorni che non saranno proprio una passeggiata. Nelle chat dei No Green pass c’è un tam tam per azioni sempre più violente: nel mirino anche giornali e giornalisti.  

Per il resto la politica è agitata ancora dal secondo turno delle amministrative. A Roma dopo Michetti, la Raggi ha incontrato anche Gualtieri ma conferma che starà comunque all’opposizione, “grillina vecchia maniera”, come scrive il Fatto. La domanda è a quanto arriverà l’astensione dei cittadini, già al 50 per cento nel primo turno.

Per i fatti esteri, c’è da segnalare il G20 sull’Afghanistan guidato oggi da Mario Draghi, in collegamento video. In ballo ci sono aiuti economici e linee di comportamento sui profughi. Il governo talebano di Kabul vorrebbe un riconoscimento che nessun Paese vuole concedere, ma si potrà fare pressione, attraverso l’Onu, per i diritti delle donne e dei bambini. In Usa polemiche sul Columbus Day, che pure fu storicamente istituito quando gli italiani cominciarono (dopo vere e proprie ingiuste discriminazioni e violenze) ad essere “considerati bianchi”. A proposito di storia, Lucio Caracciolo cerca di interpretare le spinte della “Polexit” nella chiave del dopoguerra e del dopo Muro. Interessanti i Nobel “sociali” dell’economia: il salario minimo fa bene al profitto?

Concedetemi un momento autoreferenziale. Annunciazione, annunciazione: da giovedì 14 ottobre e per 10 settimane, fino a prima di Natale, potrete ascoltare una mia serie Podcast originale realizzata da Chora Media per Vita.it. con Fondazione Cariplo. Sarà su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e ovviamente sul sito di Chora Media. Il titolo è: Le vite degli altri e racconta storie di chi dedica il proprio impegno e il proprio tempo agli altri. Ritratti e interviste di uomini e donne premiati dal Capo dello Stato Sergio Mattarella.  Drizzate le orecchie, è il caso davvero di dirlo. Eccezionalmente per gli abbonati della Versione ecco la sigla in assoluta anteprima, scaricate da qui e ascoltatela:

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Fino a venerdì avrete di nuovo la mia email entro le 8. Vi rammento anche che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine della Versione. Consiglio di scaricare subito quello che vi interessa perché il file resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete arretrati. Fate pubblicità a questa newsletter, seguendo le istruzioni della prossima frase. Se invece la Versione non vi è piaciuta, beh non ditelo in giro.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Giornali in prima ancora sull’assalto di sabato dei No Green pass alla sede della Cgil e sul ritorno del Fascismo. Il Corriere della Sera non fa distinzioni fra estremismi: Draghi: nessuna tolleranza. Avvenire drammatizza: Altissima tensione. Il Manifesto celebra la solidarietà di Draghi a Landini: Nessun silenzio. La Repubblica suggerisce: Forza Nuova, il governo valuta lo scioglimento. La Stampa intervista Letta che fa un appello esplicito: “Draghi sciolga Forza Nuova”. La Verità è in pieno benaltrismo: Il problema è il pass, non il fascismo. Mentre Libero sottolinea un tweet del vicesegretario Provenzano: Il Pd ha perso la testa: abolire la Meloni per legge. Il Giornale concorda: Vogliono abolire la Meloni. Domani è sull’altro versante: Il fascismo che a Meloni e Salvini conviene tollerare e non vedere. Il Mattino rivela: No Vax, puntavano alle Camere. Il Quotidiano Nazionale sul G-Day di venerdì: Senza pass 2,5 milioni di lavoratori. Mentre il Messaggero riporta: Confindustria e no pass: «Chi provoca danni, paghi». Il Sole 24 Ore resta invece sul tema economico del 110 per cento: Bonus edilizi, pressing per la proroga. Il Fatto si scaglia contro la proposta di abolire l’ergastolo ostativo: L’ultima Trattativa per far uscire i boss. T maiuscola? Mah…

DRAGHI IN CGIL. MATTARELLA: TURBATI, NON PREOCCUPATI

Giornata nervosa, segnata da una visita non formale del presidente del Consiglio alla sede della Cgil, da un’uscita anti-Meloni di Provenzano del Pd e dall’insistenza di Enrico Letta nel chiedere lo scioglimento di Forza Nuova. Saggio il presidente Mattarella che smorza i toni: “Siamo turbati, non preoccupati”. Giovanna Vitale su Repubblica.

«Neppure la mozione depositata dai gruppi Pd di Camera e Senato, per chiedere al governo di «sciogliere Forza Nuova e tutti i movimenti di chiara matrice fascista» che negli ultimi mesi hanno infiammato le proteste di piazza fino a culminare nell'assalto alla Cgil, riesce a mettere d'accordo le forze politiche. Che, invitate ad aderire, sono andate in ordine sparso. Sebbene ciascuno con un proprio testo, l'intero centrosinistra incluso il M5S ha concordato con l'impostazione di Enrico Letta, che ha anche lanciato un appello «a tutto il Parlamento affinché si unisca per approvare un documento per sciogliere tutte le realtà che portano avanti la violenza», mentre il centrodestra - rimasto per l'intera giornata sulle barricate - a sera si è smarcato. Avanzando una controproposta, concertata in una triangolazione telefonica tra Salvini, Meloni e Berlusconi, per invocare «interventi contro tutte le realtà eversive, non solo quelle evidenziate dalla sinistra». Un palese diversivo per impedire al disegno democratico di fare strada. Con tanto di sfida scagliata all'unisono dai leader di Lega e FdI: «Aderiscano loro alla nostra mozione e se ne faccia una comune per prendere provvedimenti gravi contro tutte le organizzazioni responsabili di violenze e devastazioni». Altrimenti, avvisa Meloni, «si capirà ancora una volta che hanno agito solo per tornaconto personale». Ha capito cosa vuol fare il segretario Pd - ossia portare allo scoperto «i legami ambigui» della destra - e non intende stare al gioco. Di più. Complice un tweet un po' scivoloso del vicesegretario dem Giuseppe Provenzano, decide di ribaltare il tavolo. «La vera intenzione della sinistra - tuona - è sciogliere Fratelli d'Italia che è il primo partito italiano ». Anche se Provenzano aveva parlato di tutt' altro: stigmatizzando la sortita di Meloni subito dopo l'aggressione alla Cgil («Non ne conosco la matrice») aveva sottolineato come quelle parole la ponessero «fuori dall'arco democratico e repubblicano». Apriti cielo, la destra si scatena. Finché l'ex ministro non chiarisce: «Volevo semplicemente dire che in questo modo Fdi si sta sottraendo all'unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi. Tutto qui». Ma non basta. Proprio nel giorno in cui Mattarella, in visita a Berlino, rassicura il presidente tedesco sulle scene di guerriglia - c'è «forte turbamento ma non preoccupazione, i casi sono stati limitati e, cosa più importante, l'opinione pubblica ha immediatamente reagito» - lo scontro politico si inasprisce. Costringendo il Nazareno a uscire allo scoperto: «Per Meloni non deve essere un momento facile ed è comprensibile il suo tentativo di rifugiarsi nel vittimismo. Però non le consentiamo di falsificare la realtà: il Pd non ha chiesto di sciogliere Fratelli d'Italia, ma Forza Nuova. Anziché cambiare discorso dimostri una volta per tutte di voler contrastare i movimenti eversivi di stampo fascista. Come mai le viene così difficile?». Ecco il nocciolo della questione, che poi è il fine ultimo della mozione Dem: stanare i sovranisti. «Nei casi straordinari di necessità e urgenza - si legge nel testo depositato alle Camere - il governo può adottare il provvedimento di scioglimento» delle organizzazioni che si ispirano al Ventennio. Potrebbe farlo motu proprio «con un decreto - spiega Letta - ma pensiamo sia importante per il presidente del Consiglio avere un sostegno parlamentare ampio. Stiamo tutti insieme in questa battaglia per la difesa della Costituzione». Sa bene che sarà complicato. Per lui, però, individuare le responsabilità di un eventuale fallimento è cruciale. Perciò «cosa c'è dietro al fatto di non riuscire a dire: condanno questo squadrismo fascista?», incalza. «Vuol dire che esiste un legame con una parte di mondo che considera il fascismo non come il male assoluto?». Domande che troveranno una risposta forse oggi, alla riunione dei capigruppo che dovrà decidere se e quando portare in aula la mozione della discordia».

Sergio Mattarella ha spiegato a Berlino qual è la nostra situazione, “fenomeni limitati”. Marzio Breda sul Corriere.

«Scusa Sergio, ma anche qui in Germania abbiamo visto gli incidenti di sabato tra Roma e Milano, con l'assalto anche a una sede sindacale. I giornali e le televisioni ne parlano molto, da noi. Che cosa sta succedendo? Ci dobbiamo preoccupare?». Ecco la questione che il presidente della Repubblica federale tedesca, Frank-Walter Steinmeier, pone al nostro capo dello Stato, appena giunto al Castello di Bellevue. Domande dirette e non certo protocollari, perché tra amici è così che si fa. Mattarella tira un sospiro, ma non ha bisogno di prendersi tempo per replicare. «Caro Frank, il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati, che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica». E qui chiude il tema, «disturbato» nella sua visita di congedo a Berlino da un'attualità che rischia di gettare nuove ombre sull'Italia. L'idea di un risorgente fascismo in grado di innescare una spirale di violenza è di quelle che inquietano la Germania, che i conti con il lato oscuro della propria storia li ha fatti e continua a farli. Mentre da noi quel passato ancora non passa, specialmente nella destra che si dichiara non nostalgica. Sotto questa luce le parole del presidente hanno un tono relativamente tranquillizzante (il che non significa minimizzatore), e sono traducibili in questa chiave: il Paese non è allo sbando, le azioni di squadrismo vanno inquadrate nelle giuste proporzioni, l'allarme è giustificato, ma gli episodi (gravi) e lo stesso fenomeno sono circoscritti. Cose che Mattarella ha detto, e che pensa, non soltanto per salvare l'onore dell'Italia quanto per amore di verità, ringraziando in cuor suo la reazione, emotiva e razionale insieme, che ha spinto la stragrande maggioranza degli italiani a isolare i violenti. Anche se, certo, in nessuna nazione europea le manifestazioni no vax e no green pass sono sfociate in qualcosa di simile. Per il resto, il colloquio dei due presidenti si è concentrato sui rapporti bilaterali italo-tedeschi e sui nuovi fuochi di crisi nell'Unione Europea. Due i dossier più allarmanti: 1) lo strappo della Polonia, che non intende riconoscere la supremazia delle leggi comunitarie, una spinta centrifuga che preoccupa anche i Paesi cosiddetti «frugali»; 2) la lettera dei 12 Stati che chiedono a Bruxelles finanziamenti per costruire muri anti-migranti lungo le proprie frontiere. Due grane piuttosto serie, mentre l'Ue si prepara a un confronto sul patto di Stabilità e sul progetto di difesa comune che metterà in gioco l'integrazione del Continente».

La Vitale su Repubblica lo definisce “un po’ scivoloso”, ma il tweet del vicesegretario del Pd diventa centrale nel dibattito, soprattutto nel centro destra. Titolone di Libero: Il Pd ha perso la testa: abolire la Meloni per legge. Ecco il commento di Sallusti:

«È vero, la democrazia è in pericolo. Ma non perché quattro pregiudicati di estrema destra hanno trascinato qualche decina di idioti a sfasciare una sede della Cgil, tanto è vero che sono stati arrestati e denunciati. No, la democrazia è più in pericolo perché ieri il vicesegretario del Pd ed ex ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, ha buttato lì l'idea di chiudere per legge Fratelli d'Italia, unico partito democratico di opposizione di questo Paese, oltre che di governo in quasi tutte le più importanti regioni italiane senza che ciò provochi alcun turbamento democratico. Tra le spranghe di Fiore, leader di Forza Nuova a capo dell'assalto alla Cgil, e le parole di Provenzano non vedo una grande differenza: l'avversario va distrutto materialmente con la forza dei bastoni o con quella della legge. C'è però una differenza non da poco: quelli di Forza Nuova vivono ai margini della società e oggi sono in galera, Provenzano e quelli come lui siedono in Parlamento. Ricordate il teorema secondo il quale "Berlusconi non è legittimato a governare" espresso più volte dalla sinistra (anche giudiziaria) nonostante gli oltre dieci milioni di voti raccolti ad ogni elezione? Ecco, ci risiamo. In Italia o sei di sinistra - e allora i conti con la storia e con le tue frange estreme puoi non doverli fare - oppure sei fuori dall'arco costituzionale a prescindere. Altro che fascismo, questa è la peggiore forma di totalitarismo perché non dichiarata, subdola. Ci fu un momento nella storia recente d'Italia - primi anni Settanta - in cui il Pci e i sindacati furono, loro sì, se non collaterali almeno omertosi e quindi protettivi nei confronti del nascente terrorismo rosso, che stava attecchendo nelle fabbriche e nei quartieri popolari come ha raccontato uno che c'era, Giuliano Ferrara. Ma nessuno si permise di chiedere la messa al bando del Pci e il terrorismo fu sconfitto anche dall'argine che quel partito poi innalzò contro la violenza. Ecco, Fratelli d'Italia è l'argine più sicuro e democratico che abbiamo contro rigurgiti fascisti e chi lo nega è in evidente malafede. Se non fosse ridicola, se dovessimo prenderla sul serio, la proposta di Provenzano metterebbe di fatto il Pd fuori dall'arco costituzionale».

NELLE CHAT NO PASS OBIETTIVO I GIORNALISTI

Le indagini sul corteo di sabato, egemonizzato dai violenti, rivelano una strategia che appare eversiva e dalle chat del popolo No Green pass emergono propositi contro istituzioni e giornalisti. La cronaca di Foschini e Tonacci per Repubblica.

«Non è finita. Sono pronti a tornare in piazza, a Roma e non solo. Il giorno dopo, nelle chat dei No Pass non scorre rimpianto né autocritica. Soltanto voglia di ricominciare. «A quando la prossima invasione?», dicono. «Dobbiamo giocare sporco, mettere anziani e bambini davanti alle manifestazioni», propongono. «Vogliono la guerra, e guerra avranno», aizzano. L'arresto dei vertici di Forza Nuova, che sabato hanno condotto la folla verso la sede nazionale della Cgil, è poco più che un inciampo. Secondo le stime del Viminale, ad oggi sono 30mila gli italiani ostili al vaccino che intendono proseguire il "lavoro" cominciato a Roma. Esattamente il numero dei partecipanti al più seguito gruppo Telegram sul tema, condensatore dell'astio nei confronti delle misure anti- Covid decise dal governo. Si chiama "No Green Pass, vinciamo insieme", ha 29.800 iscritti ed è una finestra sull'abisso del risentimento. Impastato di delirio complottista, ammiccamenti al fascimo, propositi di rivolta. Il calendario che preoccupa le forze dell'ordine ha almeno quattro date cerchiate di rosso: 12 ottobre, 15 ottobre, 16 ottobre, 30 ottobre. "Vogliono la guerra e l'avranno" A eccitare gli animi della chat è l'amministratore, che postando due filmati degli scontri tra centinaia di manifestanti e la polizia nei pressi di Piazza del Popolo, scrive ironicamente: «Tutti di Forza Nuova e fascisti, vero?». La sfilza di commenti spiega ciò che si muove nel ventre dei No Pass. Un utente di nome Felsineo: «Avanti tutta! A quando la prossima?». Gli risponde RR: «Nuova manifestazione il 16 contro i sindacati». I messaggi si sovrappongono: «Bisogna agire il 15, primo giorno di obbligo green pass sul lavoro. Attenti alla Digos, sono tra di noi per iniziare le violenze». Mauri: «Ci attaccano come fossimo terroristi, quando siamo pacifici. La gente non ne può più. Vogliono la guerra e guerra avranno, sarà sommossa popolare». Tony suggerisce un altro obiettivo, i giornalisti: «Prossima tappa sfasciare tutta la redazione di TgCom24, dicono una marea di stupidaggini». Sabrina: «Per scendere e protestare non occorre permesso, visto che siamo in dittatura ». Mimì: «Bisogna alzare il livello della lotta entro venerdì, il governo dei migliori composto da vermi di sinistra, centro e destra hanno dichiarato guerra ai lavoratori. Sono tutti nemici, indistintamente». Mita: «Perché non si manifesta il 15 ottobre in modo che tutte le persone che non faranno entrare al lavoro vengano a Montecitorio?». Gabi: «Oppure il 16, quando ci sarà la Cgil in piazza». Krampa: «O il 30 ottobre a Roma, durante il G20». L'odio per i sindacati Leggendo i commenti, si capisce come la devastazione della sede del più antico sindacato dei lavoratori - piano B rispetto al tentativo fallito di raggiungere Palazzo Chigi e il Parlamento - sia stato tutt' altro che casuale. «Datemi pure del fascista - scrive l'amministratore, che non mette il nome - io ne vado fiero, per me non è un insulto. A Roma hanno saccheggiato la Cgil, la sede delle armate rosse e dei comunisti. Questo è quello che serve, con le manifestazioni pacifiche nessuno ci caga di striscio». Reazioni nel gruppo: «Il sindacato non difende da anni i diritti dei lavoratori» (Geba), «Sindacalisti figli di puttana» (Piana), «Servono i fatti: chi è iscritto ai sindacati ritiri la sua iscrizione» (Daniela). Quelli di IoApro Da manuale, per chi conosce i meccanismi dei social, la comunicazione di "Io Apro", il cui leader Biagio Passaro è stato arrestato. Sfruttano il principio delle "camere dell'eco", dove si ripete ossessivamente lo stesso messaggio («combattiamo per la nostra libertà») indicando due nemici: il governo e i poliziotti. Sul calendario hanno segnato una data, il 12 ottobre. Oggi. «Ci stanno chiudendo i social ma noi dobbiamo chiudere il Paese», «Munirsi di viveri e coperte», «bloccheremo le principali arterie del Paese». Si stanno organizzando, ancora una volta. D'altronde che nulla fosse casuale, nella sera romana del 9 ottobre, è ormai chiaro a tutti. Lo confermano le chat su telefoni sequestrati alle persone fermate, al vaglio degli inquirenti. Ma c'è qualcosa di più, che preoccupa («meglio: occupa», dice una fonte) la nostra intelligence. È appunto il fatto che ci siano migliaia di persone pronte a tornare in piazza, e non solo a Roma. Concretizzando, dunque, quel collegamento tra movimenti apparentemente apolitici, come quello No Vax, e i partiti della destra eversiva. Un esempio di tale trait d'union è il barese Roberto Falco. La sua famiglia è stata al centro di diverse inchieste della Direzione distrettuale antimafia (il fratello, Angelo, era in una banda che assaltava portavalori), durante il lockdown è stato leader dei comitati pro aperture. Per poi diventare segretario provinciale di Forza Nuova. «È la prova - ragiona una fonte del nostro servizio segreto interno - di come la destra radicale recluti i propri dirigenti tra i leader della piazza». Dando così vita a una nuova variante del Covid: l'eversione».

Michele Serra nella sua rubrica su Repubblica prende in giro uno degli assalitori, che è stato arrestato.

«A differenza dell'assalto a Capitol Hill, l'assalto romano (e romanesco) alla Cgil è stato meno telegenico. Nessuno Sciamano con elmo cornuto, dominava l'antropologia fascista classica, maschi rapati tra i trenta e i sessanta entusiasti di bullizzare il mondo. È un tipo umano arcaico e a suo modo un evergreen, che ha avuto tempo e modo di ricostruirsi con tutta calma, indisturbato, spesso anche omaggiato con biglietti gratis da presidenti conigli, soprattutto nelle curve degli stadi, che da almeno due decenni sono la palestra del nuovo fascismo italiano, nonché del nuovo fascismo europeo. A portare un poco di verve in quella folla fondamentalmente triste ci ha pensato il capo di "IoApro", signor Passaro, che ha documentato e messo in rete il reato del quale è stato tra gli attori. Non ripeteremo, qui, osservazioni già fatte a proposito della irresistibile tentazione di sparare nei social immagini che testimoniano spietatamente contro di noi, e non solo in senso giudiziario. Non solo i ragazzini, anche persone apparentemente adulte, come il signor Passaro, cadono vittime del proprio smartphone. A Milano si dice, quasi amichevolmente, "bel pirla", e si è detto tutto. Piuttosto, colpisce apprendere dai giornali che il signor Passaro, quando non assalta sindacati, è un "brand manager di food franchising". Insomma, vende roba da mangiare. Se davvero si vuole indagare sulla frustrazione sociale come motore principale dei moti di piazza in corso, consiglio questa riflessione: quanta frustrazione sociale ci vuole per trasformare un lavoro onesto e normale, ristoratore, in "brand manager di food franchising"? Se fossi l'avvocato di Passaro, lo metterei tra le attenuanti. "Al mio cliente era stato fatto credere di essere un brand manager. Di qui la sua ribellione"».

Criticata dal centro destra, la ministra Lamorgese ha chiesto una relazione su quanto accaduto sabato in piazza. Il Viminale non vuole che si ripetano episodi simili. Fiorenza Sarzanini sul Corriere.  

«Una relazione su quanto accaduto sabato, ma soprattutto sulle carenze nell'attività di prevenzione delle forze dell'ordine e dell'intelligence. L'ha chiesta la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese in vista del Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza convocato per domattina al Viminale. «Mai si dovrà ripetere quello che è successo due giorni fa», scandisce la ministra. E poi sollecita una ricostruzione di tutti passaggi per individuare le falle nel dispositivo di sicurezza che non ha previsto la presenza di oltre 10 mila persone in piazza del Popolo, ma soprattutto non è riuscito a impedire l'assalto e la devastazione della sede della Cgil pianificato dai leader di Forza Nuova e realizzato dai dimostranti. La tensione è altissima, forti i timori per le proteste già annunciate per il fine settimana, a partire da venerdì quando entrerà in vigore l'obbligo di green pass per tutti i lavoratori. Le questure di mezza Italia stanno ricevendo richieste di autorizzazione per manifestazioni e cortei, la riunione con i vertici di polizia, carabinieri, guardia di finanza e 007 servirà proprio a rivedere la strategia per la gestione della piazza. Da qui alla fine dell'anno la tensione sociale rischia di acuirsi sia per la crisi economica, sia per un dibattito politico sempre più acceso che riguarda soprattutto le formazioni estremiste, come del resto sta accadendo in queste ore riguardo all'opportunità di sciogliere con un decreto Forza Nuova. Tra venti giorni Roma ospiterà il G20, evento internazionale con i capi di Stato e di governo che arriveranno nella capitale con centinaia di persone al seguito. È l'appuntamento più atteso ma anche più temuto dagli apparati di sicurezza perché l'attenzione del mondo sarà concentrata sull'Italia e le frange estreme della protesta mirano a prendersi la scena. Intorno alla Nuvola - luogo che ospiterà il summit - sarà istituita una «zona rossa», ma uno spiegamento di forze dovrà essere predisposto anche a protezione di tutti gli altri obiettivi sensibili, dei percorsi riservati ai leader e alle loro consorti, ai luoghi dove saranno organizzate le cene e gli incontri di gala. L'attività di prevenzione sarà decisiva per evitare che la città sia messa a ferro e fuoco dai gruppi di estremisti che già minacciano di arrivare per «assaltare e sfasciare», come annunciano da giorni sui profili social e nelle chat. Se a fine mese dovranno essere impiegati migliaia di uomini per garantire che tutto fili liscio, l'allerta per i prossimi giorni è già scattato. Tra venerdì e sabato le proteste per l'obbligo di certificazione potrebbero essere di nuovo molto pesanti. La linea di intervento è stata tracciata dal presidente del Consiglio Mario Draghi d'intesa con Lamorgese e prevede di limitare al massimo la concessione delle autorizzazioni a manifestare, impedendo i cortei e lasciando soltanto la possibilità di sit in organizzati in luoghi distanti dalle sedi istituzionali che dovranno essere protette con presidi fissi e blindati come appunto nelle «zone rosse». Una pianificazione che dovrà comunque fare i conti con i vuoti in organico. Le ultime stime sui dipendenti pubblici parlano del 10% di lavoratori che non ha il green pass. Una media che corrisponde anche alla polizia dove la pattuglia no vax risulta piuttosto ampia. Soltanto a Roma si calcola che potrebbero essere circa 600 i poliziotti che non hanno la certificazione verde e dovrebbero rimanere a casa».

Luciano Capone sul Foglio scrive del caso Giorgianni, il magistrato che ha parlato sabato in piazza del Popolo al comizio dei No Green pass.

«C'eravamo occupati di lui 7 mesi fa, a marzo, quando denunciammo la prefazione elogiativa del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri a un libro complottista e No Vax sulla pandemia: "Strage di Stato - le verità nascoste della Covid- 19". Ora l'autore di quel libro, Angelo Giorgianni, magistrato in servizio a Messina, lo troviamo sul palco della manifestazione "No green pass" di Roma, a fianco agli squadristi che hanno assaltato la sede della Cgil, a fare comizi eversivi: "Popolo italiano: il green pass è abrogato! - urla alla piazza - Oggi il popolo sovrano ha dato il preavviso di sfratto a coloro che occupano abusivamente i palazzi del potere!", urla il magistrato. E ancora: "Vogliamo un processo: una nuova Norimberga!". Non è uscito di senno ora, da mesi Giorgianni diffonde teorie cospirazioniste su un complotto globale pharma- pluto- giudaico- massonico e fa discorsi che sono eversivi se pronunciati da un magistrato. Ma per il ministero della Giustizia, la Procura generale della Cassazione e il Csm è tutto normale. Se il Viminale ha sospeso la vicequestore Schilirò per frasi di gran lunga meno gravi, nessuno ha mosso un dito contro Giorgianni. Come se i magistrati abbiano licenza di dire qualsiasi cosa. E' vero che Giorgianni ha annunciato l'intenzione di lasciare la toga, ma la cosa rende la situazione ancor più paradossale. Si è reso conto persino lui dell'incompatibilità con il suo ruolo, ma non le istituzioni».

Avvenire con Arturo Celletti intervista Guido Crosetto, co fondatore di Fratelli d’Italia: «Ho visto follia su tanti volti in piazza sabato. Volti di destra e di sinistra. ma la rabbia va prevenuta, tutti i partiti devono aiutare Draghi. Bisogna essere inflessibili con i violenti, ma nella protesta c'è anche del vero malessere».

«Giusta la solidarietà di Mario Draghi a Maurizio Landini. Giusto l'abbraccio dello Stato al sindacato. Il premier è lo Stato, è le Istituzioni. Deve essere sempre accanto a chi subisce violenze». Guido Crosetto guarda una foto oramai su tutti i siti. Il pugno del capo del governo che sfiora il pugno del capo della Cgil. Il segno di un patto. Di una unità. Crosetto riflette in silenzio poi riparte da un ma. «...Ma Draghi deve fare ogni sforzo per non farsi sentire lontano, e magari ostile, dai tre milioni di italiani che non vogliono vaccinarsi. Anche se sono fuori di senno sono sempre cittadini italiani. Ed è uno sbaglio ghettizzarli, uno sbaglio non fare i conti con il loro malessere. In quella minoranza c'è di tutto. C'è la destra, la sinistra, gente disperata, gente che teme di perdere il lavoro, gente che non capisce la forza della scienza... Non possiamo trattare questo pezzo di Paese 'no vax' con disprezzo'». Il cofondatore di Fratelli d'Italia, da tempo fuori dalla politica, guarda gli eventi che si accavallano e non nasconde la preoccupazione. «Lo Stato deve essere inflessibile con i violenti. Questi non hanno alibi. Non hanno giustificazioni. La violenza non ha mai giustificazioni. Ma quanti tra quei tre milioni di anime sono davvero questi violenti? 200mila? E gli altri 2 milioni e ottocentomila? Come è possibile che lo Stato non lavori da subito per attivare canali di comprensione, di dialogo, di confronto». Crosetto, che rischio vede? «Uno. Gigantesco. Quando questa minoranza disperata non avrà più la forza di portare il mangiare a casa, il bidone esploderà. È un ordigno pericolosissimo che lo Stato deve disinnescare subito. In democrazia non si abbandona nessuno. E uno Stato forte ha il dovere di porsi il tema di come restituire attenzione a quei cittadini. Anche a quelli che stanno dalla parte sbagliata». Draghi crede che abbia fatto i conti con il suo allarme? «Draghi da Palazzo Chigi non può avere uno sguardo sempre largo. Non ha sempre la giusta percezione dei rischi che si agitano dietro una protesta, che prendono forma dietro un malessere di persone diverse tra loro ma unite da una comune disperata rabbia. Tocca ai partiti aiutare il premier. A tutti i partiti. Da Leu a Fratelli d'Italia. Tutti hanno il dovere morale di cercare di capire. Perchè ho visto follia in tanti volti di quella piazza di sabato. Volti di destra e volti di sinistra. Come li fermiamo? Sparando? La rabbia va prevenuta. Il confronto va cercato. A ogni costo e con ogni mezzo. Sabato sarà il giorno della piazza antifascista: Fratelli d'Italia ci sarà? Che errore convocare una manifestazione alla vigilia dei ballottaggi. Nell'ultimo giorno di campagna elettorale. Andava fatta il giorno dopo il voto. Lunedì e non sabato». Lei ci sarebbe stato? «Ci sarebbero stati tutti i partiti. E tutti vuol dire tutti. Servono manifestazioni che uniscono, non che dividono. Perché cosa succederebbe se Giorgia sabato andasse e venisse fischiata? E se la manifestazione contro la violenza diventasse la manifestazione di una parte del Paese contro l'altra? Ripeto: tempi sbagliati, per me. E invece andava data a tutti la possibilità di gridare forte 'no alla violenza'». Arriverà quel giorno? «Deve arrivare. Sogno un'Italia unita. Capace di superare insieme i momenti duri. E soprattutto di dire basta una volta per tutte alle parole che dividono. Già le parole. La dittatura sanitaria... Meloni fascista... Bisogna fare attenzione al linguaggio. Io non parlo mai di nemico, parlo di avversario politico. E credo che proprio questo sia il primo passo importante per evitare che il bidone esploda».

IL G DAY FRA TRE GIORNI

Lo hanno ribattezzato il G-Day, venerdì sarà il primo giorno del Green pass obbligatorio sui luoghi di lavoro. Il punto di Claudia Voltattorni per il Corriere.

«Meno tre. Solo 3 giorni a quello che il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta chiama il «D-Day del lavoro». Ma l'introduzione dell'obbligo di green pass per tutti i lavoratori, nel pubblico e nel privato, a partire dal 15 ottobre (e fino al 31 dicembre 2021, termine dello stato d'emergenza) preoccupa il governo, soprattutto dopo i fatti di Roma dello scorso sabato e le numerose proteste scoppiate in molte piazze italiane anche ieri e altre annunciate nei prossimi giorni, come quella dei portuali di Trieste pronti a bloccare il porto quando il green pass sarà obbligatorio: il 40% di loro non lo ha. Ma sul certificato verde, Palazzo Chigi non intende tornare indietro giudicandolo l'ultimo passo per riaprire del tutto il Paese e far ripartire l'economia. Vista la delicatezza della questione, però nulla può essere lasciato al caso. Ecco perché il presidente del Consiglio Mario Draghi sta lavorando ad un Dpcm con le disposizioni attuative sui controlli e le indicazioni chiare sull'applicazione dell'obbligo della certificazione, anche visti i numerosi nodi da sciogliere. Come i controlli appunto: il decreto sul green pass affida la verifica della validità al datore di lavoro o un suo delegato, ma ancora non è chiaro, per il settore privato, come e quando. Molte grandi aziende in realtà si sono già organizzate con controlli automatizzati agli ingressi, ma tutte le altre temono il caos, e questo nonostante il presidente di Confindustria Carlo Bonomi anche ieri abbia ribadito che «l'obbligo va rispettato» e che «dal 15 ottobre non accettiamo più rinvii, obiezioni o aggiramenti, nessuna impresa può venire meno ai doveri fissati per legge». Inoltre, in alcune aziende (le più piccole soprattutto) i datori di lavoro faticano a trovare dei «controllori» disposti ad assumersi una tale responsabilità. E c'è la questione privacy, con i dati sensibili su vaccinati e non che vanno comunque protetti. Ecco perché è stato chiesto un parere al Garante per la protezione dei dati personali. Con molta probabilità il Dpcm ricalcherà le linee guida per il rientro dei dipendenti pubblici preparate dai ministri di Salute e Pa, Roberto Speranza e Renato Brunetta, e ora sul tavolo di Draghi, che prevedono controlli manuali o automatizzati, a campione, o a rotazione o a tappeto, con un software creato ad hoc per la Pa o, per le amministrazioni più piccole, direttamente con la app «Verifica C19» scaricabile sullo smartphone. Ieri il decreto del ministro Brunetta con le modalità di rientro è stato inviato a Regioni, Province e Comuni che lo invieranno alle 32 mila amministrazioni pubbliche. Per aiutarle, sono stati anche creati l'helpdesk Linea Amica Digitale (www.lineaamica.gov.it), una casella email dedicata (lavoropubblico@governo.it) e un numero verde dedicato (800 254 009), attivo da domani».

LA RAGGI ANNUNCIA OPPOSIZIONE

La politica, ricadute di sabato a parte, è impegnata sul secondo turno delle amministrative, a Roma in particolare. Ieri Virginia Raggi ha indossato una mascherina rossa e incontrato, dopo Michetti, il candidato di centro sinistra per la sua successione, Gualtieri. Ma ha annunciato che starà “all’opposizione”, mentre Giuseppe Conte darà un sostegno esplicito al suo ex ministro. Lorenzo d’Albergo per Repubblica.

«Fuori dalle chat. Stop alle telefonate. Insieme nelle periferie di mezza Roma in campagna elettorale, più lontani che mai durante lo spoglio delle Comunali, ieri Giuseppe Conte e Virginia Raggi si sono finalmente rivisti. Un faccia a faccia per capire uno le intenzioni dell'altra e verificare la consistenza delle voci che vogliono l'ormai ex sindaca pronta a lanciare una sua corrente all'interno del Movimento. «Virginia, non scomparirai», ha subito assicurato il leader dei 5S alla grillina fresca di bocciatura alle urne. Poi, visto che l'incontro convocato da Raggi oggi pomeriggio sarà l'occasione per parlare del futuro di Roma dopo la batosta, Conte ha avvisato l'interlocutrice sul ballottaggio: «Da qui a domenica uscirò a favore di Roberto Gualtieri». Dopo le prime carezze, l'ex premier dichiarerà apertamente il suo sostegno al candidato della sinistra, suo ministro del Tesoro. Una notizia che arriva proprio nel giorno in cui il dem si è presentato in Campidoglio per un caffè con la sindaca e che deve averla fatta riflettere. La sua tattica è nota: ha assicurato più volte che non darà indicazioni di voto. Ora, però, c'è da pesare la variabile Conte. E c'è pure la spinta verso sinistra dei fedelissimi: Giuliano Pacetti e Paolo Ferrara, due big del gruppo 5S in Campidoglio, hanno già detto che non voteranno mai a destra. In più nel Movimento non tutti hanno apprezzato la mossa di Raggi di convocare i parlamentari nel nuovo quartier generale di via Campo Marzio. Tanto che la riunione è finita sotto sfratto: non si terrà più nella nuova sede 5S. C'è infatti chi si è lamentato del blitz per le modalità: «Ha contattato solo chi voleva lei». Chi per i tempi: «Domani saremo in aula dalle 15 alle 20 - dice l'onorevole Francesca Daga - ed è impossibile partecipare». Tutti, compatti, escludono la nascita di una nuova corrente. «Sarebbe contro il codice etico», spiega Sebastiano Cubeddu, deputato di Guidonia. Input in serie che ieri hanno convinto Raggi a spiegarsi meglio nelle solite chat: «Ragazzi, qui nessuno vuole creare correnti e francamente l'accusa la trovo pure offensiva. Il punto è un altro. Nei prossimi anni saremo all'opposizione. Ne ho anche già parlato con Conte: occorre riorganizzarsi sul territorio e le liste civiche sono importantissime». Chiaro. Nei messaggi dell'ex inquilina di palazzo Senatorio manca, però, qualsiasi riferimento al ballottaggio. Dopo aver visto Gualtieri e Conte, Raggi rimane sulle sue posizioni: «No endorsement». Con il candidato del centrosinistra (per quasi due ore, il doppio della durata dell'incontro di venerdì con Michetti) la grillina ha parlato di trasporti e Giubileo, di Expo e Pnrr. Qualche divergenza su funivie e ciclabili. Poi la stretta di mano e le dichiarazioni. Con una piccola strizzata d'occhio all'ex ministro sull'antifascismo e la lotta per sgomberare CasaPound: «Spero che su questi temi si possa andare avanti ». Poi, per tutto il resto, Raggi sarà «all'opposizione senza sconti e collaborando invece dove ci sono possibilità di apertura». Piccoli passi in avanti? Si vedrà. I dem romani incassano in sordina: «Meglio un supporto così, naturale, che un invito al voto». Quindi focus sulla chiusura della campagna di Gualtieri. Oggi il deputato sarà con il sindaco di Milano, Beppe Sala, e il segretario Enrico Letta. Poi incontrerà Alfonso Pecoraro Scanio, ex ministro dell'Ambiente e animatore proprio di una delle civiche di Raggi. Novità sull'evento finale di venerdì sera: trasloco a piazza del Popolo. San Giovanni, già prenotata, verrà lasciata libera per il corteo di sabato dei sindacati dopo l'attacco alla Cgil».

Luca De Carolis sul Fatto sottolinea che la Raggi ha una linea “da grillina vecchia maniera”. Ecco il suo articolo.

«Nel giro di poche ore ha incontrato il suo possibile successore, il dem Roberto Gualtieri, e quello che è certamente il suo leader, il presidente del M5S Giuseppe Conte. E tra un confronto sui programmi per Roma e una riflessione sul futuro del Movimento, Virginia Raggi ha seguito sempre il suo filo rosso. Ovvero la sua linea da grillina vecchia maniera, quella dell'autonomia e dell'equidistanza dai poli, ribadita così: "A livello nazionale c'è un'intesa tra Pd e M5S , ma io a Roma andrò a sedere all'opposizione e da lì mi opporrò senza sconti e collaborando dove ci sono delle possibilità di apertura". Nessuna abiura per l'ormai uscente sindaca, che questo pomeriggio incontrerà un po' di parlamentari e consiglieri comunali romani. Ma non nella sede nazionale del partito a due passi dalla Camera, come aveva inizialmente previsto. Non in quell'ufficio senza mobili ma già impregnato di cattivi pensieri. Ieri Conte, che non sapeva dell'appuntamento, le ha "consigliato" di cambiare posto. E lei si è adeguata. Meglio non forzare, vista l'aria. Perché diversi eletti sospettano che l'ex sindaca prepari una scalata al Movimento o quantomeno una corrente, "e le correnti non ci servono" scandisce la deputata Federica Daga. Proprio per questo, in giornata Raggi si è difesa con un messaggio ai parlamentari romani: "Nessuno vuole creare correnti e trovo offensiva l'accusa. In tanti mi hanno chiesto di vederci e riflettere. Al netto del VI Municipio, dove siamo al ballottaggio, nei prossimi anni saremo all'opposizione e occorre fare alcuni ragionamenti". E da qui passa all'incontro con Conte: "Ne ho parlato con lui, occorre riorganizzarsi a livello territoriale e le liste civiche sono importantissime, facciamolo insieme". D'altronde l'ex premier ieri l'ha incontrata proprio per questo, per tastarle il polso. Una chiacchierata in cui le ha anticipato che darà il suo sostegno pubblico a Gualtieri, il candidato del Pd a Roma a cui finora aveva lanciato "solo" segnali di stima ("è un mio ex ministro, un uomo di valore"). Ma Raggi non appoggerà mai pubblicamente il candidato dem. "Andrà a votare al ballottaggio" assicurano. Per chi, non è dato sapere. Di certo l'ex sindaca non vuole affossare Conte, e all'avvocato lo ha giurato. Però punta forte sue liste civiche - che incontrerà domani - per mantenere una sua visibilità. Nel frattempo rimarrà consigliera comunale, a "sorvegliare" da vicino il nuovo sindaco. Potrebbe essere proprio Gualtieri, a cui ieri ha chiesto di "non smantellare" il suo sistema di microcredito, e con cui ha parlato parecchio di legalità. L'ex ministro le ha promesso di voler liberare le case popolari dal giogo dei clan. Mentre è stato ignorato il tema più spinoso, quello dei rifiuti. All'uscita Gualtieri vede positivo: "Raggi dice di voler rimanere neutrale, non è una posizione contro. Ringrazio Conte e quegli esponenti del M5S che mi hanno espresso stima". Il resto è affare dei 5Stelle».

RENZI “RUSSO”, NUOVA POLEMICA

Nuovo incarico all’estero per il fondatore di Italia Viva ed ex rottamatore: è nel Cda di un’azienda che propone car sharing a Mosca. L'ex premier spiega: tutte le mie attività disciplinate dalla legge. Poi punge sul caso Di Donna: non è il 5% sulle mascherine. Alessia Guerrieri per Avvenire.

«Dopo le consulenze in Arabia Saudita, Matteo Renzi ha un nuovo incarico all'estero (con annesse polemiche). Da agosto, infatti, il senatore di Italia Viva siede nel Cda della Delimobil, la società di proprietà dell'imprenditore napoletano Vincenzo Trani, leader nel car sharing in molte città tra cui Mosca. Una collaborazione che ha indotto qualche partito a gridare al 'lobbismo' dell'ex premier, un po' come successe un anno fa quando il leader di Iv partecipò in Arabia Saudita al «rinascimento» del principe Bin Salman (che a novembre, intanto, incontrerà anche il ministro allo Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, inviato del governo italiano). E a chi agita la bandiera dello scandalo, risponde per le rime il diretto interessato, sottolineando che la sua presenza «nel board Delimobil rispetta tutte le regole della vigente legislazione italiana». Poi nel pomeriggio, dalla Basilicata, Renzi torna sull'argomento aggiungendo che tutte le sue attività «sono assolutamente disciplinate dalla legge e quindi come tali riguardano la mia sfera privata: non sono il cinque per cento sulle mascherine». Il riferimento è all'imprenditore Di Donna, chiamato in causa anche dal compagno di partito Ettore Rosato intervenuto in sua difesa: «Lo attaccano per evitare di discutere di Di Donna: la strategia del M5s è il solito teatrino. Solo che su Matteo si discute della presenza (lecita) nei Cda di società quotate, del fu socio e amico di Conte di tangenti sulle mascherine». Una partecipazione quella nel consiglio di amministrazione di Renzi diffusa ieri mattina da alcuni organi di stampa, dopo che la società di Trani sta per essere quotata a Wall Street e per questo debutto ha dovuto consegnare della documentazione alla Sec (Securities and Exchange Commission). Documentazione in cui si avverte anche delle inchieste che coinvolgono uno dei membri del board, come quella della procura di Firenze sulla fondazione Open nata per sostenere le iniziative politiche di Renzi. Indagine che ieri ha visto due nuovi iscritti nel registro degli indagati, l'avvocato Luca Casagni Lippi e l'imprenditore cinematografico Alessandro Di Paolo accusati di traffico di influenze in concorso con l'ex presidente di Open, l'avvocato Alberto Bianchi. Ma per ora è soprattutto la presenza del senatore di Scandicci nella holding che controlla i marchi più diffusi di car sharing in Russia ad agitare la politica. A partire dal centrosinistra, con il vice segretario del Pd Giuseppe Provenzano per cui se Renzi «vuole continuare a fare il business man sarebbe bene che lasciasse la politica. Sono due mestieri diversi». Anche perché, aggiunge, «che un senatore della Repubblica faccia i suoi interessi privati penso che sia un grande elemento di degenerazione politica». Sono però per lo più i 5 stelle ad attaccare l'ex premier fiorentino, chiedendogli di mettere fine all'ambiguità e di scegliere tra il senatore e l'uomo d'affari. E dal capogruppo M5s al Senato, Ettore Licheri, arriva un appello a tutte le forze politiche, perché si approvi il disegno di legge depositato a Palazzo Madama che regolamenta gli affari extra-carica dei parlamentari: «I conflitti d'interesse del senatore Renzi stanno assumendo una dimensione intollerabile». Se l'auto-disciplina non basta, insomma, «è ora di cambiare le regole».

SI RIUNISCE IL G20 PER L’AFGHANISTAN

Il presidente del Consiglio Mario Draghi riunirà oggi in un vertice virtuale leader ed esponenti governativi del G20 per un piano d'azione comune. Tommaso Ciriaco.

«Un primo segnale concreto. L'impegno dei Venti a destinare fondi per le Nazioni Unite, in modo da dare ristoro alla popolazione afghana. E a stanziarne altri a favore dei Paesi di confine, in modo da sostenere lo sforzo umanitario e garantire l'accoglienza dei profughi che fuggono da Kabul. È questo l'obiettivo politico del G20 straordinario sull'Afghanistan, che Mario Draghi presiederà oggi in videoconferenza. Quello umanitario è il dossier su cui tutti potrebbero trovarsi d'accordo, almeno a dare peso al lavoro preparatorio dei venti sherpa. La ragione è semplice: è un capitolo che tocca solo marginalmente il rapporto con il regime talebano e non interferisce nei delicati equilibri tra le potenze regionali coinvolte a vario titolo nella crisi. Draghi lo considera comunque un passo in avanti. E punta tutto sul rapporto di collaborazione con le Nazioni Unite. A loro toccherà gestire sul terreno le emergenze dei prossimi mesi. Il vantaggio è duplice. In primo luogo, l'Onu opera da tempo nel teatro afghano e può fare affidamento su una macchina già rodata. E poi rappresenta una garanzia nella gestione dei fondi. L'alternativa, impraticabile senza un riconoscimento del regime, sarebbe quella di finanziare i talebani al governo. Ma non basta. Al tavolo del summit saranno ospitati, assieme alle Nazioni Unite e all'Unione europea, anche il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Non è un dettaglio, perché i fondi dei programmi di queste istituzioni in Afghanistan sono stati congelati e aspettano di essere sbloccati. L'obiettivo è permettere un afflusso di risorse, evitando però che finiscano in mano al regime. Sul punto, manca al momento un'intesa in seno ai Venti. È evidente comunque che proprio il fronte umanitario è il più caldo: «Sono particolarmente allarmato - dice il segretario dell'Onu Antonio Guterres - dal vedere tradire dai talebani le promesse fatte alle donne e alle ragazze afghane». Non arriverà, per il momento, un riconoscimento del regime. E non si registreranno passi avanti sui corridoi umanitari. Si tratta però sulla possibilità di impegnare il G20 a stanziare risorse per finanziare i Paesi di confine, in modo da favorire l'accoglienza dei profughi nei duri mesi invernali che attendono i civili. Gli altri punti in agenda sono ovviamente la lotta al terrorismo e la libertà di movimento per le organizzazioni internazionali che agiscono sul terreno. Rispetto alla prima questione, non si dovrebbe andare oltre un generico appello al governo a non finanziare o dare ospitalità alle organizzazioni terroristiche, come accaduto in passato con Al Qaeda. Quanto all'agibilità degli attori internazionali, sarà cruciale il nodo degli aeroporti. I Venti dovrebbero chiedere un impegno a mantenere operativo quello di Kabul. Come garantirne la sicurezza? Una delle opzioni è ritagliare un ruolo al Qatar, invitato non a caso al summit. Molto resterà irrisolto, ovviamente. E d'altra parte l'incontro - nato in salita, ma strappato da Draghi grazie ai colloqui bilaterali con gli altri leader - è soltanto una tappa intermedia. Le tensioni geopolitiche tra le potenze d'Oriente e gli Stati Uniti, invece, emergeranno chiaramente già oggi. Pechino delegherà a partecipare al summit un rappresentante del ministero degli Esteri. E lo stesso dovrebbe fare Mosca».

POLONIA, LE RADICI DEL SOVRANISMO ALL’EST

Lucio Caracciolo dalle colonne de La Stampa ragiona sulla spinta polacca a staccarsi dall’Europa di Bruxelles. E ricorda la storia: l’Est Europa è sovranista, nel senso che dopo il Muro riscopre il valore della nazione.

«La divisione fra Europa occidentale ed Europa orientale è ancora con noi. Semmai si accentua. Chi immaginava che l'apertura della cortina di ferro comportasse l'unificazione del Continente non faceva i conti con la maledizione del lungo periodo. La bipartizione disegnata alla fine della seconda guerra mondiale non era accidentale. Quando il 25 aprile 1945 le avanguardie sovietiche e americane si abbracciarono presso la cittadina sassone di Torgau, lungo il corso del fiume Elba, ristabilivano di fatto un tratto di limes romano, celebrato da Augusto nelle Res Gestae (26,2) quale confine della Germania più o meno assimilabile. Oltre il quale, secondo il fondatore su commissione angloamericana della Germania occidentale, il renano anti-prussiano Konrad Adenauer, cominciava la "steppa asiatica". Dopo l'Ottantanove i russi tornarono a casa da sconfitti. Avendo scaricato l'impero euro-orientale come zavorra nell'illusione di salvare così l'Urss. Noi euroccidentali scambiammo l'entusiasmo di quei popoli oppressi per spontanea adesione ai valori liberaldemocratici. Ma per gente a lungo costretta sotto il tallone di Mosca lo scambio non era tanto fra comunismo e libertà quanto fra comunismo e consumismo. Prima ancora, fra sottomissione allo straniero e indipendenza. Sovranità. Tradotto in geopolitica: prima la Nato, cioè gli Stati Uniti in Europa, poi l'Unione europea, leggi fondi comunitari. Soldati americani e soldi europei: il migliore dei mondi possibili. Ciò varrà ai popoli dell'Est la stizzita accusa di leso europeismo da parte di alcuni intellettuali occidentali, quelli che oggi bollano come "populista" chiunque non ne sottoscriva le verità. Piaccia o non piaccia, così stavano e così restano le cose. Ce lo ricordano in questi giorni tre significativi eventi, con la Polonia massima protagonista: la sentenza della Corte costituzionale polacca che considera incompatibili con la Carta nazionale alcuni articoli dei Trattati europei, così sancendo la superiorità del diritto interno sull'europeo; il prolungamento dello stato d'emergenza alla frontiera con la Bielorussia, dove migliaia fra militari e guardie di frontiera frenano il flusso di migranti in fuga (o inviati) dal regime di Lukashenko; la lettera inviata alla Commissione europea dai governanti polacchi insieme ai rappresentanti di altri undici Paesi, in netta maggioranza già pertinenti all'impero sovietico o alla stessa Urss (più Cipro, Grecia e Danimarca), per chiedere a Bruxelles di finanziare la costruzione di muri e barriere anti-migranti, richiedenti asilo compresi. Sintomatica al riguardo la risposta della commissaria competente, la socialdemocratica svedese Ylva Johansson: vi capisco, fate pure, ma non con i denari della cassa comune. La reazione degli euroccidentali, francesi e tedeschi in testa, è stata secca. Da Parigi si parla di "Polexit di fatto", quasi Varsavia si stesse estromettendo dall'Ue. Analogo il tono di Berlino, che ricorda alla Polonia gli impegni presi (ma non ricorda a se stessa i caveat che la Corte costituzionale di Karlsruhe ha da tempo indicato, specificando come sui diritti fondamentali non esista una supremazia automatica del diritto europeo sull'interno). Festa grande, invece, per i "sovranisti" d'ogni longitudine. Nostrani compresi. Varsavia non saluterà Bruxelles. Conviene però prendere atto che fra le molte e variegate faglie che ritagliano lo spazio dei Ventisette, ce n'è una troppo profonda per essere sanata: quella fra europei occidentali e orientali (alcuni nordici compresi), cresciuta su radici culturali e geopolitiche profonde secoli. La cortina di ferro non fu capriccio della guerra fredda. Né il "sovranismo" è attribuibile a un ciclo politico-ideologico. Europei dell'Est e dell'Ovest abitano tempi, non solo spazi, intimamente diversi. Per i primi, si tratta di consolidare l'indipendenza recentemente riconquistata. Polacchi, cechi, ungheresi, slovacchi, baltici e quanti altri vivono il loro Risorgimento, quando non il fortunoso battesimo di Stati inediti. Difficile concepire che aderiscano di cuore alle parziali cessioni di sovranità che noi euroccidentali concordammo, per impulso soprattutto americano, dopo la sconfitta collettiva nella seconda guerra mondiale. Nell'Ottantanove sembrava che il vento dell'Ovest avrebbe convertito l'Est, autopromosso Centro. Oggi il vento pare soffiare in direzione opposta. Prenderne atto sarebbe già un passo avanti per stabilire quale grado di integrazione sia davvero possibile fra le troppe Europe che chiamiamo Europa. È la storia, bellezza!».

COLUMBUS DAY, C’È CHI DICE NO

Una volta celebrazione dell’orgoglio italiano, è diventata la festa più controversa d’America quella dedicata a Cristoforo Colombo. Giuseppe Sarcina sul Corriere.

«In bilico tra storia e scontro politico. Tra i conquistadores del Cinquecento e il movimento Black Lives Matter. Il Columbus Day è la festa più controversa d'America. Sempre più Stati decidono semplicemente di ignorarla. Oggi sono 25, dalla California al Minnesota; dall'Alaska alla Louisiana. In altri territori, come il South Dakota, il 12 ottobre (o dintorni) è diventato l'«Indigenous Day», il giorno dedicato alla memoria dei nativi sterminati dagli esploratori europei. Joe Biden prova a mediare, a tenere insieme la grande impresa del navigatore genovese e il revisionismo promosso non solo dalle comunità di indigeni e dalle tribù. Nel 2020 il movimento di protesta per l'uccisione dell'afroamericano George Floyd guidò la «strage delle statue», abbattendo in diverse città, specie nel Sud, i simboli del passato schiavista. La contestazione si allargò anche alle origini «dell'oppressione coloniale». Una catena che inizia, secondo questa logica, con Cristoforo Colombo. A oggi sono 33 i suoi busti o i suoi monumenti distrutti, da Boston a Richmond in Virginia. Oppure rimossi dai comuni come a Columbus in Ohio o, ancora, «impacchettati» come accade a Philadelphia. Ecco perché la «proclamazione» di Biden, diffusa l'8 ottobre, è soprattutto un esercizio di equilibrio: «Colombo è stato il primo di molti esploratori italiani ad arrivare in questa terre, il 12 ottobre del 1492, che saranno conosciute come Le Americhe. Molti italiani seguiranno il suo percorso nei secoli successivi, rischiando la povertà, la fame, la morte. Oggi milioni di italo-americani...danno un grande contributo al Paese. ...Oggi, vogliamo anche ricordare la storia dolorosa dei misfatti e delle atrocità che molti europei hanno inflitto alle Tribù e alle comunità indigene». La conclusione è in puro stile Biden: «Facciamo in modo che sia un giorno di riflessione, sullo spirito americano di esplorazione, sul coraggio e il contributo degli italo-americani attraverso le generazioni, sulla dignità e la capacità di reazione delle tribù dei nativi e delle comunità indigene, sul lavoro che ci resta da fare per realizzare la promessa di una Nazione per tutti». Il messaggio della Casa Bianca allude anche alla genesi e al significato profondo del Columbus Day. Nel 1892 il presidente Benjamin Harrison decise di celebrare l'anniversario come un'occasione per ricucire lo strappo diplomatico con il governo italiano, l'anno dopo che a New Orleans erano stati linciati 11 italo-americani ingiustamente accusati di aver partecipato all'omicidio del capo della polizia David Hennessy. Erano gli anni, come ha raccontato il giornalista e scrittore Brent Staples, in cui «gli immigrati italiani cominciarono a diventare bianchi». L'8 giugno del 1912 il presidente repubblicano William Taft inaugurò il monumento tuttora più importante: «la Columbus Fountain», la prima cosa che un viaggiatore vede uscendo dalla Union Station di Washington. Nel 1934, infine, Franklin Delano Roosevelt istituì formalmente il Columbus Day a livello federale. Le organizzazioni degli italo-americani, riuniti nella «Conference of presidents» hanno protestato, ricordando l'eccidio di New Orleans e sottolineando come la storia degli Stati Uniti sia segnata dalla schiavitù degli afroamericani e dal confinamento dei nativi nelle Riserve. Ieri, comunque, le celebrazioni sono filate via lisce. Una delegazione dell'Ambasciata italiana ha deposto una corona alla Columbus Fountain nella capitale; a New York nessun problema nella tradizionale parata, di nuovo per le strade dopo la pandemia».

GOVERNO AL FEMMINILE IN TUNISIA

In Tunisia, dopo lo stallo e le accuse di «golpe», via libera del presidente Saied all'esecutivo di Najila Bouden. Camille Eid su Avvenire.

«Ha giurato al palazzo presidenziale di Cartagine il governo tunisino di Najla Bouden. Su un totale di 24 ministri, 8 sono donne nel nuovo esecutivo guidato dalla prima premier nella storia non solo della Tunisia, ma dell'intero mondo arabo. Presentando il suo programma, Bouden ha rimarcato che «ridare fiducia alle persone» sarà l'obiettivo del suo governo. «Dobbiamo ripristinare, ha detto, la fiducia dei cittadini nello Stato tunisino e dei Paesi stranieri nel nostro Paese. Lottare contro la corruzione, che sta peggiorando sempre di più, per restituire ai tunisini la speranza in un futuro migliore». La premier, classe 1958, geologa di professione, ha anche annunciato che sarà data grande importanza al rilancio dell'economia e al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e del loro potere d'acquisto. Il presidente tunisino ha invece sottolineato che la premier «si è assunta una grande responsabilità in queste circostanze». «Stiamo vivendo momenti storici difficili, ha detto Kais Saied subito dopo il giuramento, ma ce la faremo». Un'importante quota è stata, dunque, assegnata alle donne, che occupano i portafogli di Finanze, Industria e Energia, Commercio, Attrezzature, Donne, Cultura, Ambiente. Alcune di loro sono state semplicemente riconfermate al posto loro affidato da Saied nel corso delle ultime undici settimane, ossia dal «golpe istituzionale» del 25 luglio con cui ha assunto di fatto i pieni poteri aprendo una crisi. Tra queste Sihem Boughdiri, già incaricata con un decreto presidenziale di gestire l'economia e i conti del Paese. Stesso scenario per il magistrato Leila Jaffel, anch' essa ricondotta a capo del ministero della Giustizia. Un'altra nomina, molto più significativa, riguarda il ministero dell'Interno. A questo dicastero rilevante nelle vicende del Paese nordafricano, torna infatti Taoufik Charfeddine, uomo di fiducia di Saied, che l'aveva occupato nel 2020. Fino al gennaio scorso, quando il 53enne avvocato è stato "licenziato" dall'allora premier Hichem Mechichi in una mossa che ha incrinato inesorabilmente i rapporti tra quest' ultimo e il capo dello Stato. Confermato gli Esteri il capo della diplomazia uscente, Othman Jerandi, mentre alla Salute resta Ali Mrabet, professore di medicina e colonnello dell'esercito che già guidava il dicastero "ad interim" grazie a un decreto presidenziale».

NOBEL “SOCIALI” PER L’ECONOMIA

Si è premiato chi diffida delle ricette semplici. Claudio Lucifora spiega sul Sole 24 Ore il senso dei Nobel per l’Economia assegnati ieri.

«Il premio Nobel per l'Economia è stato assegnato, da una parte al canadese-americano David Card dell'Università di Berkeley, per i suoi contributi empirici all'economia del lavoro, e dall'altra congiuntamente all'israelo-americano Joshua Angrist e l'olandese-americano Guido Imbens, rispettivamente del Mit di Boston e dell'Università di Stanford, per i loro contributi metodologici all'analisi delle relazioni causali in economia. Il loro contributo all'economia moderna è stato fondamentale, e non a caso i nuovi metodi introdotti e applicati a vari problemi economici sono stati salutati come una vera e propria rivoluzione - la cosiddetta credibility revolution - del modo di fare analisi empirica nelle scienze economiche. Alla base di tutti i comportamenti economici, c'è il concetto di scelta che i soggetti operano massimizzando il loro benessere introducendo una selezione tra chi partecipa e chi no. L'esito finale viene quindi a dipendere dalla scelta iniziale. Così per esempio per capire gli effetti di un ricovero ospedaliero sulla salute, non si possono confrontare i soggetti che sono andati in ospedale con quelli che non ci sono andati, perché i malati per costruzione avranno una salute media peggiore dei soggetti sani. Questo fenomeno di "selezione" si applica a una infinità di situazioni economiche in cui la scelta confonde l'esito finale: per esempio la scelta di quanto e cosa studiare, la decisione di migrare in un altro Paese, fino al vantaggio di cui può godere un politico al momento dell'elezione. Molte delle grandi questioni economiche che vengono affrontate nel dibattito pubblico soffrono della eccessiva semplificazione con cui i problemi vengono trattati e della superficialità con cui vengono proposte le ricette di politica economica. Il grande merito di questo Nobel è quello di aver premiato degli scienziati che hanno sfidato la saggezza convenzionale e le risposte semplici, proponendo nelle scienze economiche degli esperimenti "naturali" che replicano il metodo sperimentale per conoscere gli effetti economici di molte questioni importanti per il benessere delle persone e della società. Salario, migranti e rendimenti: tra i vincitori del Nobel, spicca David Card che nel corso della sua carriera si è occupato di molti dei grandi dibattiti che vedono l'opinione pubblica schierata su fronti opposti con posizioni ideologiche difficilmente conciliabili. Dagli effetti economici del salario minimo, agli effetti dell'immigrazione sul mercato del lavoro, fino al rendimento degli investimenti in istruzione. Per ciascuna di queste grandi questioni Repubblicani e Democratici, negli Stati Uniti, e più in generale i partiti di destra e di sinistra, nel resto del mondo, si sono sempre scontrati proponendo ricette di politica economica spesso totalmente opposte. A sinistra, il salario minimo viene considerato come una risposta efficace per ridurre le diseguaglianze salariali, mentre a destra il salario minimo viene ritenuto responsabile degli elevati tassi di disoccupazione. David Card assieme ad Alan Krueger hanno mostrato come nei settori a basso salario (i fast food), il salario minimo non solo consente di aumentare le retribuzioni dei working poor, ma può avere effetti benefici anche sul livello dell'occupazione. Anche nel contesto dell'immigrazione le posizioni di destra e sinistra sono opposte e si traducono in un diverse ricette di politica economica. Anche in questo caso Card ha mostrato come i flussi migratori - la fuga dei profughi cubani (i Marielitos) verso Miami - abbiano effetti nulli sull'occupazione e i salari dei lavoratori nativi e molto modesti sugli altri immigrati. Ma il vero contributo non sta tanto nei risultati, ma proprio nell'aver adottato un disegno sperimentale che si avvale di un evento naturale per replicare un assegnamento trattamento-controllo ai soggetti analizzati. La creatività nella ricerca dei cosiddetti "esperimenti naturali" è quello che caratterizza anche il contributo di Joshua Angrist che nel corso degli anni ha applicato questi metodi ai fenomeni più disparati dando risposte fondamentali alla scienza economica. Tra i contributi più importanti lo studio dei rendimenti dell'istruzione utilizzando lo schema di una lotteria che, durante la guerra del Vietnam, consentiva ad alcuni soggetti "estratti a sorte" di evitare la leva militare introducendo quindi delle differenze (casuali) nell'investimento in istruzione. Oppure applicando la cosiddetta regola di Maimonide, un rabbino che nel XII secolo aveva proposto classi di alunni con massimo 40 allievi, alle scuole pubbliche israeliane per capire gli effetti del rapporto studenti-insegnanti sul profitto degli studenti. Assieme ad Alan Krueger, che se non fosse deceduto qualche anno fa avrebbe senz' altro meritato il Nobel, Joshua Angrist ha utilizzato la data di nascita degli individui e le regole sull'obbligo scolastico che prevedono che gli studenti stiano a scuola fino al compimento dei 16 o 17 anni, per investigare la relazione tra istruzione e reddito. Tuttavia, tutti questi risultati non avrebbero potuto essere interpretati correttamente senza il contributo di Guido Imbens che ha mostrato come dagli esperimenti naturali si possano trarre conclusioni precise su causa ed effetto, e se un determinato risultato possa essere esteso a tutti i soggetti, anche ai non trattati, o quali siano le differenze negli esiti tra i soggetti trattati e i non trattati».

A TARANTO LA SETTIMANA SOCIALE DEI CATTOLICI

Presentata la 49esima Settimana Sociale dei cattolici dall'arcivescovo di Taranto Filippo Santoro: «Il lavoro è per la vita». Dalla città in cui si cerca di riconnettere occupazione e ambiente, e dove si svolgerà la Settimana, l'invito alle Diocesi è di diventare "carbon free". Mimmo Muolo per Avvenire.

«Dalla Settimana sociale in programma a Taranto dal 21 al 24 ottobre verrà un appello a tutte le diocesi italiane a diventare "carbon free". E parimenti, in collaborazione con la Coldiretti, un invito alle comunità ecclesiali della Penisola ad acquistare solo prodotti "caporalato free". Lo ha anticipato l'arcivescovo Filippo Santoro, presidente del Comitato scientifico e organizzatore, spiegando che i 934 delegati non intendono fare richieste solo alla politica e alle istituzioni, ma anche a se stessi, cioè alle Chiese che rappresentano. L'arcivescovo di Taranto è intervenuto, presso la sede della Lumsa a Roma, alla conferenza stampa di presentazione dei lavori che si terranno nella sua città, sottolineando anche il doloroso problema delle morti sul lavoro, dato che occupazione, salute e tutela dell'ambiente saranno gli argomenti portanti dell'ormai prossimo appuntamento. «Il lavoro è per la vita, non può essere per la morte - ha ricordato -. Troppe persone perdono la vita a causa del lavoro e ciò è gravissimo. Siamo vicino alle famiglie, sentiamo il loro grande dramma. C'è una contraddizione stridente: il lavoro è per la vita, non può essere per la morte», ha ribadito. Taranto è in un certo senso città simbolo di questa sofferenza, data la presenza delle acciaierie con tutte le questioni collegate. «Ho visto con i miei occhi i volti di persone distrutte dalla contaminazione ambienta-le, soprattutto i bambini. Li ho visti ammalarsi di cancro a causa dell'inquinamento. Prima delle teorie o delle analisi socio- economiche c'è il dramma delle persone: è questa la grande sfida». «La Settimana sociale - ha proseguito Santoro - vuole essere vicina ai problemi, alla vita della gente, e nello stesso tempo portare avanti un'interlocuzione con la società e con il Parlamento italiano, partendo dall'ascolto della realtà e dalle buone pratiche sul territorio e coinvolgendo i giovani sul tema della sostenibilità ambientale». Il tema del resto è stato studiato proprio per questo: "Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. #tuttoèconnesso". E anche le opere simbolo che verranno messe in atto vanno nella stessa direzione. La piantumazione di 50 platani, alberi che producono molto ossigeno, sarà effettuata in ricordo dei bambini morti a causa dell'inquinamento e per dare un contributo a ripulire l'aria. L'avvio di una cooperativa che riciclerà i materiali di scarto della coltivazione delle cozze, tipico prodotto tarantino, vuole essere un segno del coniugio su basi nuove tra lavoro e ambiente. Tra l'altro concorrerà a risanare anche il Mar Piccolo, è stato fatto notare. «Siamo in un momento cruciale - ha spiegato Sergio Gatti, direttore generale di Federcasse e Vice presidente del Comitato -, perché ci sono risorse a disposizione (quelle del Pnrr, ndr), e anche se sono insufficienti rispetto ai bisogni, vanno spese in maniera efficace». Per questo, ha aggiunto, la Settimana sociale di Taranto partirà da domande semplici e fondamentali: che cosa c'è da fare? E che cosa c'è da scoprire? Infatti non partiamo da zero. Le buone prassi già in atto, che anche durante i lavori saranno illustrate (e alcune anche visitate dai delegati, ndr) lo dimostrano». A tal proposito, l'economista Leonardo Becchetti ha ricordato che in preparazione ai lavori ne sono state censite 271 in tutta Italia, con l'intento di metterle in rete. Becchetti ha perciò declinato alcune parole d'ordine della Settimana di Taranto. Generatività, in quanto si continuerà a lavorare su idee e proposte anche dopo il momento assembleare. Giovani, che saranno tra i protagonisti (in tal senso è stato sottolineato che un terzo dei delegati sono al di sotto dei 35 anni, un terzo donne e che tra le donne la maggior parte sono anche anch' esse sotto quella soglia di età). Alleanze, ad esempio tra imprese e amministrazioni, tra le diverse generazioni, tra parrocchie e diocesi. E poi la mentalità nuova per cercare di cambiare le cose dal basso. «Spesso chiediamo il cambiamento - ha detto Becchetti -, ma dobbiamo renderci conto che il cambiamento siamo noi. Le istituzioni, che sono tendenzialmente adattative e seguono il consenso, faranno cambiamenti seguendo i nostri comportamenti». Tra gli altri l'economista ha richiamato il tema a lui caro del "voto con il portafoglio", comprando prodotti di aziende che seguano buone prassi, come appunto l'essere 'caporalato free'. Tra i temi della Settimana sociale anche lo sviluppo del Mezzogiorno. Al Sud è destinato il 40% delle risorse del Pnrr («ma ne occorrerebbe il 70», ha chiosato Santoro), senza contare altri 92 miliardi fondi strutturali. Tuttavia «dobbiamo imparare a spendere bene questi soldi», ha detto Gatti, ricordando che finora si è riuscito a spendere solo la metà delle risorse che l'Ue ci metteva a disposizione. E Becchetti ha aggiunto: «L'Europa ci giudicherà anche su due criteri: addizionalità, cioè quante risorse aggiuntive di privati (le banche ad esempio) l'impiego di queste risorse avrà saputo creare, e impatto». In definitiva, è stato ricordato nel corso della conferenza stampa, Taranto sarà un laboratorio. «Non il traguardo - ha concluso Gatti -, ma una piattaforma. Ci interessa incidere e non fare solo un bel documento. E non a caso monsignor Santoro alla fine non tirerà delle conclusioni, ma delle 'prosecuzioni'».

Leggi qui tutti gli articoli di martedì 12 ottobre:

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