La Versione di Banfi

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Ffp2, la mascherina delle Feste

alessandrobanfi.substack.com

Ffp2, la mascherina delle Feste

Nuovi divieti: obbligo del dispositivo per salire sui mezzi, discoteche chiuse e niente veglioni. Milano in tilt per i tamponi. Nessuno vuole Draghi al Colle. Mr. B si vede già eletto. Buon Natale!

Alessandro Banfi
Dec 24, 2021
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Ffp2, la mascherina delle Feste

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Decisioni drastiche ma inevitabili alla vigilia di Natale: niente veglioni, né feste in discoteche o locali da ballo. Obbligo ovunque della mascherina. Per salire su autobus, metropolitane e treni regionali è necessaria la FFP2 che protegge molto di più del semplice dispositivo di protezione chirurgico. Il governo ha varato il nuovo decreto che condizionerà i prossimi giorni di festa, in particolar modo il Capodanno. È la risposta all’ondata di Omicron che si sta abbattendo sul nostro Paese a cominciare dalle regioni del Nord. Ondata, diciamolo con prudenza ma diciamolo, che conferma l’iniziale impressione: con questa variante il virus circola molto di più ma sembra creare conseguenze più lievi. Nel caso della pandemia l’enorme quantità delle persone contemporaneamente colpite crea l’emergenza. Nelle ultime ore è stato evidentissimo per il caos tamponi.

Le farmacie e il sistema di prenotazioni delle Regioni sono andate ieri in tilt, soprattutto in Lombardia. Stanno infatti chiedendo di fare il test in queste ore: coloro che vogliono andare alle feste di Natale in famiglia o a trovare i parenti anziani, chi è colpito da lievi sintomi o da febbre, chi vuole semplicemente viaggiare, tutti i non vaccinati, il cui pass dipende dal tampone. Secondo i primi dati, solo ieri almeno 900 mila persone hanno fatto il test. Sono numeri enormi. Bisognerebbe pensare di mettere in campo l’Esercito, almeno per eseguire i tamponi, visto che farmacie e sistemi sanitari di diverse Regioni sono in grandissimo affanno. Angoscia poi l’idea che questa enorme massa critica, creata da Omicron, impatti sul sistema ospedaliero nelle prossime ore. Vedremo se il governo avrà la prontezza di intervenire.

Macron e Draghi hanno firmato un documento comune, pubblicato oggi da Financial Times e in Italia dal Corriere e dalla Stampa, per proporre un superamento del Patto di stabilità dell’Unione europea. È un passaggio importante perché traccia una linea di politica fiscale ed economica dell’Europa dove viene messo l’accento sulla crescita più che sul rientro dal debito.

Nella politica italiana l’auto candidatura del premier al Quirinale preoccupa leader e partiti: tutti si dicono draghiani ma pochi vogliono davvero Draghi al Colle. Ieri vertice del centro destra a Villa Grande: i presenti raccontano di un Silvio Berlusconi scatenato, che si sente già al Quirinale. A fatica Gianni Letta ne avrebbe contenuto l’entusiasmo e alla fine ufficialmente l’argomento del voto sul Presidente è stato rimandato ai primi dell’anno. Nella Lega c’è grande incertezza e Salvini deve mediare fra sentimenti contrapposti. I 5 Stelle invece stanno convergendo sulla linea tracciata da Renzi (ironia della politica) e puntano sul favorire un candidato, meglio se donna, del centro destra. Ma chi hanno in mente? Ancora Letizia Moratti?  

All’immediata vigilia del Natale molti gli articoli e le riflessioni su questa ricorrenza. Rodari di Repubblica e Agasso della Stampa sono stati ricevuti da papa Francesco a Santa Marta: il Papa racconta della sua infanzia in Argentina e dedica un pensiero ai poveri e ai bambini malati. Bell’articolo anche di Julián Carrón per il Corriere della Sera sul significato profondo della nascita di Betlemme.

Qual è il significato del Natale? Comunque la pensiate, è la memoria di un dono, di una nascita, di una vita data per gli altri. L’invito che vi faccio è allora tornare ad ascoltare, in questi giorni più tranquilli e familiari di festa e di riposo, il mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Sono dieci puntate di circa venti minuti in cui dieci persone raccontano loro stessi e il motivo per cui sono state premiate dal Capo dello Stato per i loro meriti civili o sociali. Potete ascoltarle camminando, lavando i piatti, guidando la macchina (con bluetooth o cuffiette). La voce ha tutta la potenza estetica di un incontro intimo, ravvicinato e spesso profondo. Ci sono giovanissimi, come Mattia-Spiderman che fa visita ai bambini in Oncologia, quarantenni come Ciro che resiste dentro Gomorra dando nuove possibilità ai giovani del quartiere più difficile di Napoli ed anziani come il novantenne Nonno Chef, instancabile con i senza tetto, che ci ha lasciato le sue parole, prima di scomparire. In questa serie ci sono tante donne, che ho imparato ad ammirare e che stimo dal profondo del cuore: Chiara che ha mosso migliaia di giovani, Nicoletta che è una vera cuoca combattente, Rosalba che contende lo spazio alla camorra dalla sua scuola di Scampia, Tiziana che ama, e riscatta con l’impegno, la sua gente nei casermoni di Tor Bella Monaca, Rebecca che si è ripresa Roma cominciando a ripulire l’isolato di casa sua, Anna che ha messo su un’impresa sociale di moda con le eccedenze dei grandi marchi e i lavoratori disabili e suor Gabriella che guida una rete internazionale contro la tratta e lo sfruttamento delle ragazze. Simone Weil nel suo libro La persona e il sacro scrive: “Dalla prima infanzia sino alla tomba, qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini, compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male”. Il Natale conta su questo cuore. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo potrete trovare tutti gli episodi:

https://www.spreaker.com/show/le-vite-degli-altri_1

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Siamo alla vigilia e nei titoli di apertura dei giornali la parola più ricorrente stamattina è “Natale”. Anche se il termine è quasi sempre associato all’ondata pandemica e alle ultime misure del governo. Il Corriere della Sera sintetizza: Picco di contagi, feste vietate. Avvenire cerca di essere positivo: Natale di speranza oltre strette e paure. Il Fatto è all’opposto e mette in copertina gli odiati Draghi e Fontana presidente della Regione Lombardia: Natale da incubo: avvisate quei due. Pessimista Il Giornale: Vaccinati e No vax. Divisi dal Natale. Il Quotidiano Nazionale sottolinea il no alle feste da ballo: Discoteche chiuse, stangata sui no vax. Il Manifesto ironizza sul classico cenone di Capodanno: Tampone e lenticchie. Il Mattino sottolinea l’estensione del certificato verde rafforzato: Super pass per caffè e musei. Il Messaggero è sulla stessa linea: Super pass per il caffè al bar. Per la Repubblica tutta colpa della variante: Omicron, la spallata. La Stampa sottolinea il picco della pandemia: Contagi da record, stop alle feste. La Verità attacca il ministro della Salute: Speranza ci ha fatto la festa. Libero va controcorrente e nota: Boom di contagi, non di ricoveri. Scommessa vinta, Natale da liberi. Il Sole 24 Ore è ancora sulla legge di Bilancio: La manovra al traguardo del Senato. Tagli a Irpef e Irap, superbonus più facile. Mentre Domani analizza il malessere dei partiti nei confronti di Draghi: L’esercito dei no a Mario. Tutti draghiani purché non faccia il grande passo.

FFP2 E DISCOTECHE CHIUSE, ECCO LE NUOVE MISURE

Il decreto con le nuove regole è stato approvato dal governo all’unanimità. Ma per i dubbi espressi dalla Lega, è stato congelato l’obbligo di immunizzarsi nel settore pubblico. Sono vietate le feste e chiuse le discoteche fino al 31 gennaio. Mascherina obbligatoria da subito in tutto il Paese. La sintesi di Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.

«Niente eventi e feste di Capodanno nelle piazze. E fino al 31 gennaio saranno chiuse le discoteche e ogni altro locale da ballo. La stretta è importante, la corsa del Covid e della variante Omicron ha convinto il governo a varare all'unanimità, per il periodo delle festività natalizie e oltre, nuove misure ispirate al massimo rigore. «Non possiamo permetterci assembramenti», ha ammonito Roberto Speranza. La mascherina diventa obbligatoria da subito in tutto il Paese, decisione che di fatto manda in «giallo» l'Italia intera. «Il Governo ha innalzato il livello delle precauzioni - è l'appello del ministro della Salute -. Arrivano i giorni di Natale e Capodanno ed è importante che i comportamenti individuali siano adeguati. Massima attenzione, prudenza, mascherine, igiene e distanziamento». Per salire su autobus, metropolitane e treni regionali non basta più la mascherina chirurgica, diventa obbligatoria la più protettiva Ffp2. E dal 10 gennaio il green pass rafforzato sarà obbligatorio per molte attività: andare al cinema, a teatro e ai concerti, frequentare piscine, palestre, stadi, centri sportivi e spogliatoi. Il ministro Roberto Speranza raccomanda di vaccinarsi al più presto e di prenotare la terza dose: «I richiami offrono una protezione molto significativa da malattia grave o esito fatale, anche con Omicron». I controlli a campione negli aeroporti e ai confini aumenteranno e chi arriva in Italia senza tampone rischia, se positivo, di dover stare 10 giorni in un Covid hotel. A partire dal primo febbraio la validità del green pass sarà ridotta da nove a sei mesi. Scendono anche i tempi per poter ricevere la terza dose: dal quinto mese dopo la seconda somministrazione si passa al quarto. Da quando? La data sarà scritta in una circolare attesa per oggi. Alcune tra le decisioni più divisive sono state rinviate. La Lega ha dovuto digerire la chiusura delle discoteche e non avrebbe accettato anche l'estensione dell'obbligo vaccinale. Ma gran parte dell'esecutivo punta dritto in quella direzione. «Se continua il disastro non si può escludere nulla», conferma preoccupato un ministro. Si arriverà presto a imporre l'immunizzazione ai dipendenti della pubblica amministrazione. E poiché Speranza, Brunetta e gli altri rigoristi premono per l'estensione dell'obbligo a tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, è molto probabile che si vada oltre. Anche fino all'obbligo generalizzato per tutti, nonostante l'opposizione di Salvini. E le scuole? Restano osservate speciali. Con la possibilità che, nei prossimi giorni, si decida di prolungare le vacanze per «raffreddare» la curva epidemiologica, come richiesto dai governatori.».

ONDATA OMICRON, PRIMO EFFETTO È IL CAOS TAMPONI

In tutta Italia il sistema dei test è al collasso. A Milano prenotazioni difficili e sistema sovraccarico con code e caso nelle farmacie. In Veneto si valuta un sistema per processare 350 molecolari all’ora. «Ma manca il personale». La cronaca di Sara Bettoni per il Corriere.

«In Lombardia le opposizioni parlano di «emergenza tamponi», il Veneto guarda all'esperienza di Israele per analisi più veloci, a Roma capita che i genitori non riescano a prenotare il test per i figli che si sono ritrovati un positivo in classe. Accanto alle code chilometriche in farmacia anche il sistema pubblico di sorveglianza anti-Covid è in sovraccarico. Colpa della crescita rapida dei contagi e di una struttura che non riesce a reggere i ritmi. «Da oltre due settimane riceviamo segnalazioni di colleghi che denunciano il malfunzionamento del portale Ats per la prenotazione dei tamponi» attacca Roberto Carlo Rossi, presidente dell'Ordine dei medici di Milano. Sul sito i dottori vedono le disponibilità, ma non riescono a selezionarle. «Ormai abbiamo capito che solo gli appuntamenti più "lontani", ovvero quelli tra sei, sette giorni sono effettivamente prenotabili - racconta uno di loro -. Tempi troppo lunghi però per i pazienti con sintomi sospetti e candidabili, se positivi, alle cure con gli anticorpi monoclonali che sono tanto più efficaci quanto prima vengono dati». Per il consigliere pd Samuele Astuti «la Regione deve potenziare i centri tamponi, il tracciamento è saltato». Ats replica che il sistema è lento ma non bloccato, visto che ogni giorno accoglie 2.800 richieste. Inoltre da ieri i medici possono inviare gli assistiti ai punti per i test con una semplice mail o ricetta. Sempre che i cittadini abbiano voglia di aspettare ore e di correre il rischio di essere rispediti a casa. Come ulteriore strategia Ats chiede ai medici stessi di offrire ai propri pazienti i tamponi rapidi. Oggi negli studi se ne fanno solo 60 al giorno su 2 mila camici bianchi in servizio. Le nuove adesioni permetteranno di far salire i numeri. Non va meglio alle postazioni riservate alle scuole. A Milano, dove sono previsti ambulatori ad accesso diretto, gli studenti devono armarsi di pazienza per ottenere il test. A Roma le famiglie segnalano difficoltà nelle prenotazioni tramite il portale dedicato e posti insufficienti. E nei centri privati, dove i prezzi per l'analisi variano da 50 a 120 euro, non sono mancate discussioni tra i cittadini in fila. Il tema è noto al generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario per l'emergenza Covid. «Come Difesa stiamo cercando di supportare le Asl - spiega -. Siamo intervenuti in sei Regioni dove abbiamo fatto circa 12 mila tamponi in oltre 300 istituti. Mi rendo conto che non è la risoluzione di tutti i mali, ma comunque noi come Difesa il nostro ce lo mettiamo». Stesso problema, piani diversi in Veneto. «Stiamo testando un'attrezzatura israeliana capace di trattare 350 tamponi molecolari all'ora - dice il governatore Luca Zaia - e se potessimo assumere altro personale daremmo una mano più importante, ma non c'è disponibilità sul mercato». Ultima spiaggia dei cacciatori di tamponi sono gli auto-test, ormai merce rara. «Sono sempre stati boicottati in Italia, quindi è ovvio adesso che siano in esaurimento», dice Zaia. «Adesso sono molto difficili da trovare - conferma Andrea Mandelli, presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani -, le consegne dall'estero avvengono a singhiozzo». E in ogni caso si tratta di test che sfuggono al tracciamento ufficiale».

FAUCI TORNA A CHIEDERE I VACCINI PER I PAESI POVERI

Paolo Mastrolilli per Repubblica intervista Anthony Fauci, virologo, 80 anni, consigliere della Casa Bianca per la pandemia di Covid-19.

«Anthony Fauci promuove le misure contro Omicron adottate dal governo italiano, per un motivo preciso: «A questo punto per vaccini e mascherine sono necessari i requirement», ossia le prescrizioni. È una sottile distinzione semantica che il Chief Medical Advisor del presidente Joe Biden adotta in questa intervista esclusiva con Repubblica, per evitare la parola mandate, obbligo, che scatena le reazioni più viscerali degli irresponsabili. La sostanza però è la stessa, e Fauci la chiarisce delineando la strategia che nel 2022 potrebbe consentirci di domare il Covid: «Spero e credo che il prossimo anno si possa ottenere una nuova normalità del virus, rendendolo gestibile. Per riuscirci, però, è necessario che i Paesi ricchi aiutino quelli poveri a vaccinarsi, e al proprio interno superino le resistenze all'immunizzazione». Biden ha prospettato un «inverno di morte per i non vaccinati»: quanta devastazione porterà Omicron? «Certamente ha un livello di trasmissibilità molto alto, assai più delle varianti precedenti. Perciò è diventato dominante molto rapidamente in Sudafrica, Gran Bretagna, e ora Usa. Una cosa interessante è che sembra meno grave di Delta. Non sappiamo ancora il motivo, ma può dipendere da varie ragioni: in Sudafrica ci sono così tante persone infettate, che hanno un grado di immunità residua; oppure Omicron è per natura meno severo. Preoccupa però che se molte persone vengono infettate, anche in maniera non grave, hai comunque tanti ricoveri e decessi. Un grande aumento dei casi provoca un forte stress nel sistema ospedaliero». Perché non è convinto che Omicron sia meno grave? «Vogliamo vedere cosa succede quando colpisce persone non vaccinate o infettate. Sono incoraggiato dagli studi fatti in Sudafrica e Scozia, ma per convalidarli servono i dati degli individui vergini al virus». Cosa risponde a chi non fa la puntura perché anche i vaccinati si ammalano? «È un errore, perché i booster danno un livello di protezione molto molto alto. Sappiamo dal Sudafrica che Omicron reinfetta chi aveva già avuto il Covid, e quindi se vuoi proteggerti devi fare il vaccino». Servirà la quarta dose? «È prematuro. Dobbiamo aspettare di vedere la durabilità della risposta alla terza». Servirà un vaccino specifico per Omicron? «Abbiamo abbastanza protezione dai booster non specifici. Potrebbe servire in futuro, ma non ora». Negli Usa avete appena approvato due farmaci antivirali. Che impatto avranno? «Ogni antivirale che ha un grado di efficacia contro Covid e Omicron potenzia il nostro arsenale, e le cure saranno molto importanti. Per affrontare una pandemia servono strumenti molteplici. Uno sono vaccini e booster, mascherine, test per sapere chi è infetto e frenare la trasmissione; l'altro è curare gli infettati, per evitare che sviluppino le forme più gravi». Bisogna vaccinare i bambini? «Incoraggio vivamente i genitori a farlo, perché nonostante sia più raro che sviluppino le forme peggiori della malattia rispetto agli anziani, molti le stanno subendo. Vaccinarli è importante per proteggere la salute dei bambini, delle famiglie, ma anche per alzare il livello complessivo di protezione nella comunità». Il Covid diventerà gestibile nel 2022? «Lo spero, e penso che sia assai possibile. Sarebbe molto più facile se vaccinassimo più persone, non solo negli Usa o in Italia. I Paesi ricchi dovrebbero dare dosi e risorse a quelli poveri, per sopprimere il virus nelle parti del mondo che non hanno i nostri strumenti. Abbiamo la responsabilità di farlo, Usa, Ue, Gran Bretagna e altri, non solo perché è la cosa giusta dal punto di vista umanitario, ma anche perché è importante per proteggere noi stessi. Quando il virus è libero di replicarsi in qualsiasi luogo del mondo, è sempre una minaccia per tutto il mondo, perché è forte il pericolo di nuove varianti, se non lo sopprimi completamente ovunque». Mercoledì ha parlato con i colleghi europei: qual è la strategia comune, le azioni e gli investimenti da fare nel 2022? «Dobbiamo cooperare per produrre più dosi e renderle disponibili al mondo in via di sviluppo, ma anche aiutarli a costruire sistemi sanitari capaci di distribuirle in maniera efficace e metterle nelle braccia degli individui. Bisogna trasformare i flaconi di vaccini in vaccinazioni». Sul piano interno quale dovrà essere la strategia dei Paesi ricchi nel prossimo anno? «Purtroppo abbiamo ancora troppe persone, Italia inclusa, che rifiutano di vaccinarsi. È il problema principale. Quando c'è una crisi di salute pubblica, non bisognerebbe consentire alle divisioni politiche di mettersi di traverso. Se vuoi un buon controllo sulla pandemia devi avere la gente vaccinata, indossare le mascherine, non riunirti al chiuso con molte persone senza precauzioni, fare i test. Servono molte cose, la risposta non è unidimensionale. La più importante, però, è la vaccinazione». Il governo italiano ha appena varato nuove misure, ma niente chiusure. È la strada giusta? «Sì. Per mascherine e vaccini servono i requirements , le prescrizioni. Se le fai, poi non avrai bisogno dei lockdown estesi». Durante le feste natalizie come possiamo celebrare e cosa dobbiamo evitare? «Se sei vaccinato e hai fatto il booster, tu e la tua famiglia, potete avere una piacevole cena nella vostra casa. Bisogna evitare i grandi ricevimenti affollati, con oltre 30 o 40 persone, di cui non conosci lo status rispetto al virus. Ancora una volta, il vaccino sarà fondamentale».

Morto di Covid uno storico militante No Vax. Bartolomeo Pepe, ex senatore è scomparso ieri a Napoli, era stato eletto nelle file dei 5 Stelle alle politiche 2013, espulso, era poi approdato nel centro destra. Aveva definito la pandemia una “isteria”. La cronaca di Repubblica.

«Ucciso dal Covid. Che aveva definito, un anno fa, «una ridicola isteria». Un tragico epilogo colpisce Bartolomeo Pepe, cinquantanovenne ex senatore del M5S e soprattutto uno dei più agguerriti sostenitori delle teorie complottistiche No Vax. Il ricovero, sabato scorso, all'ospedale Cotugno di Napoli. «Non mi sono vaccinato, per scelta», ha avuto il tempo di dire ai suoi medici, prima che le sue condizioni precipitassero e venisse intubato. Faticava già molto a respirare, valori fuori norma, il male cominciava a prendere il sopravvento. Polmonite bilaterale interstiziale: è stata la diagnosi poco dopo, una condanna che purtroppo non ha avuto appello, e a cui non è riuscito a strapparlo l'impegno di una speciale equipe di sanitari del polo per malattie infettive. L'intraprendente e sulfureo esponente di Palazzo Madama era arrivato in Parlamento con il primo exploit grillino del 2013: ma, tempo un paio di anni, aveva già rotto sia con Beppe Grillo sia con Di Maio, ed era passato per il gruppo Misto attraverso varie fasi compreso il ruolo di rappresentanti della componente Verdi del Misto - prima di approdare nell'area dell'Unione di Cesa e Casini, e con il centrodestra. Le sue battaglie contro i vaccini erano cominciate già sei anni fa. E poco dopo, nel 2016, destò clamore la sua iniziativa di organizzare al Senato, nella sala di Santa Maria in Aquiro, addirittura l'anteprima europea di quel documentario, "Vaxxed - from cover up to catastrophe", ricostruzione assai controversa che mette all'indice tutti i vaccini, stabilendo la temeraria relazione tra l'assunzione del siero e l'insorgere dell'autismo. Autore, Andrew Wakefield, poi radiato dall'Ordine dei medici inglese. Un appuntamento che l'allora senatore fu costretto a cancellare sotto il peso di polemiche e proteste. Battaglie sul cui ricordo scende ora solo il triste addio degli ex colleghi di Camera e Senato. «Apprendo con dispiacere della morte dell'ex senatore. Alla sua famiglia e ai suoi cari le condoglianze del nostro gruppo parlamentare», scrive Davide Crippa, capogruppo del Movimento a Montecitorio».

ASSE DRAGHI-MACRON SUL PATTO DI STABILITÀ

Iniziativa italo-francese per "ridurre il debito senza alzare le tasse". Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno scritto una lettera documento al "Financial Times" per chiedere la riforma del Patto di Stabilità che regola i comportamenti di bilancio dei 27 Paesi della Ue. Nei pdf il testo integrale pubblicato in Italia dalla Stampa e dal Corriere. La cronaca da Parigi di Anais Ginori per Repubblica.

«Emmanuel Macron e Mario Draghi uniscono le forze per accelerare il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità. «Già prima della pandemia, le regole di bilancio dell'Ue andavano riformate», scrivono i due leader in una lettera pubblicata sul Financial Times. Macron e Draghi non hanno mai nascosto in passato le critiche ai vincoli contabili sospesi all'inizio della pandemia. E lo ribadiscono ora che è all'orizzonte (fine 2022) la scadenza della clausola sospensiva. «Sono regole troppo opache ed eccessivamente complesse», commentano. «Hanno limitato il campo d'azione dei governi durante le crisi e sovraccaricato di responsabilità la politica monetaria. Non hanno creato - proseguono i leader - gli incentivi giusti per dare priorità a una spesa pubblica che guardi al futuro e rafforzi la nostra sovranità». Guardando al futuro, Macron e Draghi aggiungono: «Avremo bisogno di una cornice di regole credibile, trasparente e in grado di contribuire alla nostra ambizione collettiva di avere un'Europa più forte, più sostenibile e più giusta». L'iniziativa del presidente francese e del premier italiano era in preparazione da settimane. Macron voleva lanciare un segnale forte prima di assumere la presidenza di turno dell'Ue, a gennaio, e ha tentato fino all'ultimo di incassare anche la firma di Olaf Scholz. Il nuovo cancelliere tedesco ha preferito glissare. Ci sono stati scambi informali anche con il premier spagnolo Pedro Sánchez e quello olandese, Mark Rutte. Viste le reticenze tedesche, alla fine Macron e Draghi si sono convinti di fare da apripista, anche in un gioco di ruoli che servirà a trovare il consenso finale tra i 27. La Francia aveva immaginato all'inizio un testo più dettagliato, con proposte concrete per riformare il Patto di Stabilità. La lettera pubblicata va meno in profondità e si accontenta di affermare i principi che dovranno guidare le discussioni dei prossimi mesi. «Non c'è dubbio - osservano i leader - che dobbiamo ridurre i nostri livelli di indebitamento. Ma non possiamo aspettarci di farlo attraverso tasse più alte o tagli alla spesa sociale insostenibili, né possiamo soffocare la crescita attraverso aggiustamenti di bilancio impraticabili». Senza citare esplicitamente golden rule e fiscal compact, Macron e Draghi sostengono che la strategia deve essere «mantenere sotto controllo la spesa pubblica corrente attraverso riforme strutturali ragionevoli » ed evitare che le regole impediscano di intraprendere gli investimenti necessari «per prepararci al futuro e garantire la nostra piena sovranità». Il testo dei leader cita come spunto di riflessione anche la proposta di creazione di un'agenzia europea del debito, per ridare margini di manovra alla Bce, contenuta in un documento firmato da uno dei consiglieri dell'Eliseo, Charles-Henri Weymuller, con gli economisti Francesco Giavazzi, Veronica Guerrieri e Guido Lorenzoni. Ora l'obiettivo di Macron e Draghi è che si possa, giocando di sponda con la Commissione, abbozzare una prima cornice condivisa in vista del vertice Ue sulla crescita previsto a marzo in Francia».

IL CENTRO DESTRA SI RIUNISCE A VILLA GRANDE

Vertice a Villa Grande dei leader del centro destra. Foto di gruppo con Berlusconi, Salvini, Meloni, Lupi, Cesa e Toti. Ufficialmente Berlusconi non è ancora in pista per il Quirinale ma le cronache lo raccontano scatenato. Si sente già sul Colle.  Meloni insiste sul voto anticipato. Emanuele Lauria per Repubblica.

«Presidente, c'è la sua disponibilità a candidarsi per il Colle? «Abbiamo parlato anche di questo». Il gioco di Natale, per il centrodestra, è un rischiatutto che va in scena nella residenza romana di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, dopo il vertice, torna a farsi vedere, risponde a qualche domanda dei giornalisti e, nei fatti, si mette per la prima volta davvero in campo. Con il sostegno della coalizione. Anche se, su indicazione di Gianni Letta, i leader decidono di rinviare ogni mossa ufficiale al 10 gennaio. Serve tempo per riflettere, per capire meglio le intenzioni di Mario Draghi. Ai commensali di Villa Grande, in realtà, le ambizioni del premier sono abbastanza chiare anche se ambienti leghisti fanno rimbalzare la cautela di Chigi: «Il presidente del consiglio, nel corso della conferenza stampa di mercoledì, non si è candidato ma ha solo fatto sapere di essere al servizio delle istituzioni ». Matteo Salvini, prima di raggiungere l'Appia Antica, ha avuto un colloquio con Draghi, nel corso del quale - ufficialmente - non si è parlato di Quirinale. Il capo del Carroccio, in ogni caso, nella villa di Berlusconi si presenta nelle vesti di interlocutore principe del primo ministro ma non ha esitazione nel chiedere al Cavaliere la sua disponibilità a competere per la Presidenza della Repubblica. E Berlusconi, come racconta Ignazio La Russa, «non ha accettato formalmente, e neppure doveva farlo: però è inutile negare che ha già l'atteggiamento non solo del candidato ma anche del vincitore». Di più: il fondatore di Forza Italia si dice convinto di poter pescare voti anche oltre il recinto del centrodestra. Sul suo nome - ragiona - potrebbero convergere addirittura 150 grandi elettori estranei alla coalizione. I franchi tiratori? «A questo punto non avrebbero rilievo», assicura il padrone di casa. La prima mossa, dunque, è già pronta. A Berlusconi garantiscono appoggio tutti i partecipanti al pranzo: Salvini, Giorgia Meloni, La Russa, Maurizio Lupi, Lorenzo Cesa e Giovanni Toti. Ci sono anche i forzisti Antonio Tajani e Licia Ronzulli. Gli esponenti di Fratelli d'Italia chiedono tuttavia agli alleati di avere una consultazione permanente su ogni passaggio. Quindi hanno chiesto di spiegare il loro comportamento ove mai Draghi decidesse veramente di correre per il Colle. «Noi siamo e saremo leali - dice Meloni ai colleghi - ma vorremmo sapere come vi comporterete se vi chiederanno di votare Mario Draghi già al primo turno. Siete voi in maggioranza, non noi». Di lì la promessa reciproca di restare uniti, in ogni caso, di mantenere la compattezza della coalizione anche se la candidatura di Berlusconi dovesse venir meno. La musica di fondo si ode con chiarezza. «Se il centrodestra si divide in occasione del voto per il Presidente della Repubblica, il centrodestra è morto», questo il ragionamento che aleggia sul tavolo al centro del salone della villa, fra i ravioli burro e salvia e il babà come dessert. Il clima è cordiale, l'unità è sbandierata ma le incognite rimangono, certo, anche per quanto riguarda futuro del governo. Gli esponenti di Lega e Forza Italia continuano a pensare che Draghi debba restare premier sino al 2023, anche se un'elezione di Berlusconi, con una maggioranza diversa da quella che oggi sostiene l'esecutivo, rischia di portare l'ex banchiere alle dimissioni. Fdi, dall'altro lato, ribadisce che l'unica via, dopo il voto per il Colle, sono le Politiche anticipate: «Se Draghi non viene eletto, si va alle urne. E se viene eletto, pure», ancora La Russa. Il crinale è sottile, mai come in questo momento il destino della legislatura è stato in bilico. Se ne riparlerà, almeno formalmente, il 10 gennaio, tre giorni prima la riunione della segreteria del Pd. Il centrodestra per ora gioca d'anticipo, innalzando la sagoma di Berlusconi: «Sono pronto a impegnarmi e a mediare - dice Salvini - affinché si arrivi a un voto rapido e il più possibile condiviso. Fermo restando che si dovrà fare i conti con una proposta di centrodestra che è maggioranza nel Paese e in Parlamento».

I PARTITI SPIAZZATI DAL PASSO AVANTI DI DRAGHI

Leader e grandi elettori metabolizzano la conferenza stampa di Mario Draghi di mercoledì, che si è di fatto candidato per il Colle. Nella Lega ci sono sensibilità diverse e contrastanti. Carmelo Lopapa per Repubblica.

«La rivolta strisciante dei sessantacinque deputati e senatori leghisti con panico da voto imprigiona il leader, ne aggroviglia le mosse, ne moltiplica i dubbi. Matteo Salvini è un capo in mezzo al guado. La processione di parlamentari che nelle ultime 36 ore ha bussato alla porta del suo studio a Palazzo Madama per gli auguri di Natale lo ha spiazzato, confondendolo, ancor più di quanto non lo sia già per intrinseca natura. Sostenere l'ascesa di Draghi e andare ad elezioni o tenere fede al patto con Berlusconi a oltranza e costringere il premier al suo posto ancora per dodici mesi? Un testa o croce in cui il leghista si gioca (politicamente) l'osso del collo nell'arco delle prossime settimane. E così, sta finendo per giocare su due tavoli. Una partita da pokerista della quale la giornata di ieri diventa un'immagine plastica: al mattino faccia a faccia di mezzora all'insegna del fair play a Palazzo Chigi. A pranzo, il serrate le file nella Villa Grande berlusconiana col Cavaliere e l'amica-avversaria Giorgia. Salvini guarda a 360 gradi, del resto. Parla con l'altro Matteo, tesse strategie, non esclude soluzioni alternative. E in buona sostanza prende altro tempo. Che poi è la sua specialità dal tonfo del Papeete in poi. «Se deciderai di candidarti noi ci saremo», ha ribadito il leghista all'ex presidente del Consiglio durante il pranzo con babà finale. Pd e Cinque stelle, insomma, «dovranno fare i conti con una proposta di centrodestra che è maggioranza nel Paese e in Parlamento». Ma sarà davvero così? E fino a che punto la strategia terrà? Nella mezzora di faccia a faccia proprio con il premier Draghi in mattinata il tema Quirinale è stato sfiorato, con tutte le accortezze del caso. Il leghista nelle ore successive l'ha raccontata così ai fedelissimi: «Ho apprezzato quel che ha fatto finora e gliel'ho detto. Capisco e apprezzo anche la disponibilità a tutto campo che ha manifestato, ma non può pretendere un sostegno da parte nostra che comporti la rottura del centrodestra». Ma è tutta tattica. E propaganda, per ora. Perché poi ci sono altre variabili e le grane interne. A puntare i piedi - dopo la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio con virtuale vista Colle - è quel trenta per cento di eletti leghisti che tra Camera e Senato ha la certezza di non staccare più il biglietto d'ingresso della prossima tornata elettorale. Alla luce del taglio dei parlamentari, infatti, nei gruppi leghisti si stima siano 65 degli attuali 196 gli onorevoli che resteranno fuori. Così, l'eventuale scalata al Quirinale dell'ex presidente della Bce aprirebbe un baratro politico per tutti loro. Eccolo il beffardo bivio davanti al quale l'ex ministro dell'Interno si ritrova inchiodato adesso. «Da un lato avremmo l'esigenza di correre al voto il prima possibile, per evitare che Giorgia Meloni ci cucini a fuoco lento per un altro anno - è il ragionamento di uno dei dirigenti più vicini al numero uno di via Bellerio - dall'altro, non possiamo staccare la spina adesso perché i nostri non ci seguono». Sullo sfondo, una coalizione e una Lega che in parte sarebbero fortemente tentate dall'opzione Draghi. Non solo tutto il blocco governativo di Forza Italia, ma anche l'amico di lungo corso del premier, quel Giancarlo Giorgetti che il leader continua a vedere come fumo negli occhi. Ai parlamentari e ai governatori del partito non è sfuggita affatto la rudezza con cui l'indiscrezione su una premiership Giorgetti di fine legislatura, in caso di elezione di Draghi al Colle, sia stata liquidata dal capo con uno sbrigativo: «Giancarlo ha smentito». Non solo perché il ministro dello Sviluppo non lo aveva ancora fatto, ma anche perché si tratterebbe pur sempre del numero due del suo partito. E invece sono proprio "Giancarlo" e "Giorgia" le ossessioni, l'una interna e l'altra esterna alla Lega. Convinto com' è, Salvini, che la leadership sia insidiata dall'escalation del primo e dall'Opa sul centrodestra lanciata da tempo dalla seconda. Il risultato è appunto il guado, come fanno notare con rammarico autorevoli leghisti. I due tavoli aperti. Col rischio che alla fine il leader scontenti Draghi, non sostenendone almeno in prima battuta l'elezione al Quirinale, e illuda invano anche Berlusconi. Pur di controllare le sue paure, di scacciare i suoi incubi. Pur di salvare una leadership sempre più in bilico».

Daniela Preziosi su Domani racconta il maldipancia, soprattutto a sinistra ma non solo, di chi non vorrebbe Draghi al Colle.

«Quello che vale per i draghiani del Pd vale per gli altri parlamentari di maggioranza. Che si confermano grandi estimatori del Draghi di governo, ma franchi nemici del Draghi di Quirinale. Una inimicizia espressa con i migliori complimenti verso il «migliore». «Ha ragione Draghi, è un uomo al servizio delle istituzioni. Per questo deve restare dove sta», è la battuta che circola. I riflessi più pronti, come sempre, li ha avuti Matteo Renzi che ieri su Repubblica ha stoppato l’idea “draghiana” della maggioranza uguale anche per il Colle: «Il Quirinale fa storia a sé». Il leader Iv è lo stesso di quando, un anno fa, fiutò l’aria della crisi del governo giallorosso e se ne mise alla testa. Oggi in parlamento l’aria non è favorevole all’elezione di Draghi. Non sono per il premier i Cinque stelle, né nella fazione guidata da Giuseppe Conte né nelle truppe comandate dal ministro Luigi Di Maio, che guarda alle mosse delle destre. Le destre a loro volta a Villa Grande hanno stretto un giuramento di unità su un nome che sarà indicato «ai primi di gennaio». Difficilmente sarà Draghi: piace solo a Giorgia Meloni – sarebbe il miglior ticket per i tavoli europei per una premier orbaniana –, per gli altri finché non si trova un valido sostituto non se ne parla. Renitente alla leva draghiana anche Art.1. Pier Luigi Bersani in questi giorni spiega: «Prima di cercare di fare l’inedito assoluto, o il semi-inedito, proviamo a essere normali». Tradotto dal bersanese: prima di eleggere presidente un premier, mai successo, e di chiedere a Sergio Mattarella di restare, successo una volta con Giorgio Napolitano, i partiti provino a verificare se c’è un nome su cui si trova un accordo. Eppure può finire così in forza dei fatti, quelli che hanno la testa dura. «Arriva la tempesta. Otto milioni di italiani hanno disdetto le vacanze, la ripresa economica rallenterà. Cambiare comandante della nave in questo momento non parrebbe intelligente», spiega per esempio Matteo Orfini (Pd). Una dottrina che già fa proseliti. I paletti dunque per il Quirinale più che Draghi li metterà la variante Omicron. Ma Orfini spinge il discorso oltre, «se si torna in una situazione di emergenza come quella in cui Draghi è stato chiamato da Mattarella», allora «anche a Matterella arriverà la richiesta di un sacrificio», quello di restare anche lui al suo posto, il Quirinale».

Sul Fatto Gad Lerner esprime tutta la contrarietà per il semi presidenzialismo di fatto, dal sapore tecnocratico, che esprimerebbe Draghi.

«Per i disorientati laudatori dello status quo, secondo i quali non può esistere governo migliore di quello in carica, l'optimum sarebbe revocare la separazione dei poteri prevista dalla Costituzione e consentire a Draghi il cumulo delle cariche: presidente della Repubblica (con annessa sovrintendenza su Forze Armate e Magistratura), presidente del Consiglio dei ministri e in sovrappiù - perché no, visto il suo curriculum? - magari anche Governatore della Banca d'Italia. Un'ipotesi, com' è noto, già accarezzata dai fedelissimi Giorgetti e Brunetta che per primi lo hanno pubblicamente candidato al Quirinale. Peccato che la cura tecnocratica, escogitata per "salvare" l'Italia dal disfacimento della politica parlamentare, debba fare i conti con l'ostacolo rappresentato dalle nostre regole costituzionali. E poi ci sarebbe il suffragio universale, altro fastidioso intralcio. Si può tenere duro fino al 2023, non oltre. Vero è che la pandemia Covid è già servita un paio di volte come pretesto per rinviare elezioni regionali e comunali. Ma è impensabile che basti la variante Omicron a posticipare la scadenza del mandato di Mattarella. O a congelare i pericolanti assetti emergenziali di unità nazionale che martedì Draghi ha voluto svincolare dalla sua persona. Neanche i più entusiasti ammiratori di Supermario hanno finto di prenderlo sul serio quando egli ha dichiarato il suo "missione compiuta". Hanno assistito con disagio all'incepparsi della sua azione di governo, dacché le opposte visioni dei partiti lo hanno costretto a rinviare o annacquare o rimangiarsi buona parte delle riforme pattuite con Bruxelles. Solo sulla giustizia, col M5S recalcitrante, lo hanno incoraggiato a forzare la mano. Da lì in avanti, lo hanno frenato, costringendolo a temporeggiare. Draghi ha capito di non poter più combinare molto a Palazzo Chigi e ha deciso di sfidare anche l'istinto proprietario di Berlusconi - che l'ha fatto accusare di diserzione dai suoi scherani - ritenendosi più adatto al ruolo di garante sul Colle più alto. Spiace per i fautori della cura tecnocratica, spiazzati dal loro paladino, ma la politica si sta prendendo la rivincita. Per adempiere alla richiesta di Draghi, e cioè far propria la prospettiva di lungo periodo del governissimo con tutti dentro, Letta, Conte, Speranza e Salvini dovrebbero ripudiare la missione che si sono dati di fronte ai loro militanti e all'elettorato. Non un rospo da ingoiare momentaneamente, bensì un vero e proprio annullamento. Per questo la candidatura di Draghi al Quirinale segna piuttosto la fine di una breve stagione che non l'inaugurazione di un'era nuova. La pretesa di investire Draghi del ruolo simultaneo di esecutore e garante, in una prolungata sospensione della politica, risuona come un periodo ipotetico dell'irrealtà. Velleitaria. Il governissimo che sognano è una creatura di fantasia che piacerebbe, certo, all'establishment nostrano e internazionale, ma richiederebbe il rinvio sine die di ogni campagna elettorale. Tra le conseguenze nefaste del culto della personalità di Draghi e delle sue decantate virtù salvifiche, c'è anche la falsa illusione propagata nell'opinione pubblica secondo cui per risolvere i problemi dell'Italia ci vuole un "uomo forte", distaccato dalle piccinerie della politica. Non stupisce che in questo clima i sondaggi registrino un favore crescente per una riforma presidenzialista, cavalcata entusiasticamente dalla Meloni, ma contraria allo spirito della nostra Costituzione. L'esatto opposto della scelta di Mattarella che, escludendo la propria ricandidatura, segnala la necessità di un ricambio fisiologico al vertice delle istituzioni, indice di salute dei sistemi democratici capaci di rispettare nonni e bisnonni (quando meritano rispetto) ma anche di rimpiazzarli con energie nuove quando il tempo è venuto. La soluzione tecnocratica, nel mentre prefigura modelli illiberali, sospinge un numero crescente di cittadini insoddisfatti a rifiutare la politica. L'astensionismo dilagante troverebbe in un governo di unità nazionale guidato da uno sbiadito vice-Draghi il più forte degli incentivi. Il messaggio di Draghi è contraddittorio: "La mia missione è compiuta, ma questa formula di governissimo deve continuare". Lo sconcerto con cui è stato accolto, e la volontà ribadita ieri dal vertice riunito a casa Berlusconi di dare vita prima possibile a un governo di destra, senza Pd e M5S , lasciano presagire che l'unità nazionale stia giungendo al capolinea. Anche i draghisti se ne faranno una ragione: dovrebbero pur sapere che la destra italiana ha una vocazione storica estremista che si lascia malvolentieri imbrigliare da chicchessia. Può darsi che alla fine, saziata la volontà di potenza dell'ex Cavaliere, faccia loro comodo trovare proprio in Draghi il garante più utile a legittimarli all'estero.».

Nel suo retroscena per il Corriere Francesco Verderami racconta le condizioni del premier ai partiti. Partiti che però non vogliono farsi commissariare. Sentimento bipartisan.

«Sapendo che la strada verso il Colle è disseminata di trappole, Draghi ha deciso di provare a sminarla. Per avere poi il tempo di percorrere quel sentiero, che resta comunque accidentato. La sua esternazione - irrituale in alcuni passaggi - ha prodotto la reazione dei partiti. E ha mostrato l'essenza della sfida: le forze politiche, che da un anno si sentono commissariate da Palazzo Chigi, non vogliono farsi commissariare per altri sette anni dal Quirinale. Questo è il sentimento bipartisan. E il premier, che ne è a conoscenza, ha fatto sapere ai leader della maggioranza - e ieri direttamente a Salvini - che riconosce il primato dei partiti nella scelta del prossimo presidente della Repubblica. Che da servitore dello Stato sarebbe pronto ad accettare l'alto incarico o anche a restare alla guida del governo. Ma in tal caso - ecco il punto - nell'ultimo anno di legislatura non accetterebbe di guidare una coalizione in piena trance elettorale, che gli impedisse di svolgere il suo mandato. Un implicito avviso a ritenersi libero se sentisse di non avere le mani libere per decidere. Sostiene Meloni che «Draghi dispone di molti strumenti politici per imporsi». E questo sembra sufficientemente convincente: i partiti faticano già a trovare un nome condiviso sul Quirinale, figurarsi se dovessero cercarne uno anche per Palazzo Chigi. Come non bastasse, il patto di consultazione deciso l'altro giorno nel centrosinistra e il patto di unità d'azione sancito ieri nel centrodestra offrono la rappresentazione di due minoranze, peraltro divise al loro interno. Nel Pd, che un tempo egemonizzava la corsa al Colle, i gruppi parlamentari attendono il vertice di gennaio con Letta, sospettato di voler sfruttare l'elezione di Draghi per andare alle elezioni anticipate. Come sostiene un deputato dem, «i motivi alla base dell'accesa contrapposizione alla candidatura del premier sono tanti. Ma al fondo convergono sul timore del voto». E Letta, preoccupato che le tensioni interne possano scaricarsi sulla sua leadership, attenderà prima di uscire allo scoperto. Anche perché nel centrodestra i problemi non mancano. Tutto ruota attorno a Berlusconi, che al momento si muove da quirinabile con la padronanza di chi non teme avversari nella coalizione. Né teme quanti un tempo ne facevano parte: «Casini è un ragazzo di bottega». Piuttosto è piccato con Draghi, «che da un anno è a Palazzo Chigi ma non si è mai fatto vivo». Raccontava l'altra sera di non aver seguito la conferenza stampa del premier, «ma mi dicono che sia andata male. È vero? Lui è bravissimo però non piace perché appare algido. Nemmeno Di Maio lo vuole al Quirinale». Non si sa da dove il Cavaliere tragga questo suo convincimento, ma un contatto dev' esserci stato se è vero che ha confidato di aver regalato al ministro degli Esteri dei dipinti provenienti dalla sua quadreria. In ogni caso è certo che, dopo le dichiarazioni di Draghi, i grillini hanno iniziato a scambiarsi sui loro cellulari il file audio della canzone «Meno male che Silvio c'è». Ecco, Salvini deve gestire un alleato che intanto sostiene di non avere rivali, «nemmeno Amato c'è. Un mio amico gli ha parlato e lui ha risposto che non ci pensa proprio». E che inoltre si considera un candidato bipartisan: «Quelli del Pd dovrebbero annunciarlo che mi votano, invece di farmi sapere che non lo possono dire». Il tema è fino a dove si spingerà Berlusconi. Ne parlavano l'altro ieri Casini e Renzi, reduce da una telefonata abrasiva con Draghi. Dopo aver seguito insieme la conferenza stampa del premier e aver espresso un giudizio a luci e ombre, l'ex presidente della Camera ha detto al leader di Iv: «Tutti parliamo di cosa potrebbe succedere dalla quarta votazione in poi. Vuoi vedere che Silvio un minuto prima della corsa frega tutti e annuncia di ritirarsi per candidare Draghi nell'interesse del Paese»? E si torna alla casella di partenza».

UCRAINA, PUTIN CHIEDE AIUTO ALL’ITALIA

Crisi ucraina. In una conferenza stampa Vladimir Putin chiede garanzie a Nato e Stati Uniti ma coinvolge anche l’Italia che, dice, “può aiutare”. Rosalba Castelletti per Repubblica.

«Quando una giornalista britannica gli ha chiesto se potesse garantire che la Russia non avrebbe attaccato l'Ucraina, come farebbe pensare il recente dispiegamento di migliaia di militari russi al confine, Vladimir Putin l’ha rintuzzata rabbiosamente. «Siete voi a doverci dare garanzie: voi! E dovete farlo subito, adesso. E non parlarne per decenni». Il monito del presidente russo è arrivato durante l'annuale conferenza stampa a cui quest' anno, per restrizioni anti-Covid, erano ammessi solo 507 giornalisti selezionati dal Cremlino e costretti a sottoporsi a tre tamponi e a passare attraverso un "tunnel disinfettante". L'Occidente, per Putin, ha «tradito, palesemente truffato» Mosca quando negli anni '90 promise: "Non un pollice a Est!". «L'ulteriore espansione della Nato verso Est è inaccettabile. Siamo noi a piazzare missili ai confini Usa? No. Sono gli Stati Uniti che sono già sulla soglia di casa nostra. Come reagirebbero gli americani se portassimo i nostri missili al confine statunitense con il Canada o il Messico?», ha proseguito il presidente russo definendo tuttavia «positive» le prime reazioni statunitensi ai due progetti di trattati presentati da Mosca che chiedono di vietare allargamento dell'Alleanza Atlantica a Paesi ex Urss, in particolare all'Ucraina, e di porre fine ad attività militari ai confini russi. «La palla è nel loro campo, devono risponderci. Spero che l'annuncio dell'inizio di negoziati a Ginevra in gennaio ci permetta di andare avanti». E alcune ore dopo l'amministrazione Biden ha confermato: «Gli Stati Uniti sono pronti a impegnarsi nella diplomazia», sia bilateralmente sia attraverso «canali multipli». Nella «normalizzazione delle relazioni Russia-Ue e anche attraverso i negoziati in programma fra Russia e Nato», «l'Italia può avere un ruolo», ha aggiunto Putin rispondendo alla Rai e definendo i rapporti tra i nostri Paesi «buoni e stabili», dal «carattere apartitico». Omaggiato Silvio Berlusconi, «è stato lui a iniziare il rafforzamento delle relazioni», ha poi definito i colloqui telefonici con l'attuale premier Mario Draghi «amichevoli e molto significativi». Quanto all'inedita repressione che proprio ieri ha visto un'udienza del processo contro Memorial, la storica Ong per i diritti umani minacciata di scioglimento per "estremismo e terrorismo" aggiornata al 29 dicembre, Putin ha argomentato di volere solo contenere le operazioni di influenza straniera: «La Russia non può essere sconfitta, può essere distrutta solo dall'interno». Senza citarlo, ha messo in dubbio l'avvelenamento dell'oppositore in carcere Aleksej Navalnyj sentenziando: «I detenuti ci sono sempre stati in ogni Paese. Non bisogna commettere reati nascondendosi dietro attività politiche». Nel corso della maratona durata circa quattro ore, Putin ha come sempre affrontato i temi più disparati: ha negato che Gazprom abbia a che fare con l'aumento dei prezzi del gas sul mercato europeo sostenendo che si tratta di «un problema creato dagli europei stessi»; ha ammesso l'«aumento della mortalità» causato dalla pandemia in Russia; ha definito «inaccettabile ed erronea » la decisione degli Usa di voler boicottare le Olimpiadi invernali di Pechino; e attaccato «l'oscurantismo » transgender: «Ho un approccio tradizionale: una donna è una donna, un uomo è un uomo». Scherzando, Putin ha infine ringraziato Ded Moroz, Nonno Gelo, il Babbo Natale russo che distribuisce i regali a Capodanno, per averlo aiutato a diventare presidente il 31 dicembre di 22 anni fa. «Gli sono grato, ma sono ancora più grato al popolo russo che si è fidato di me».

HONG KONG, RIMOSSA LA MEMORIA DI TIENANMEN

La “cancel culture” formato cinese: il “Pilastro della Vergogna” rimosso nella notte ad Hong Kong era l'ultimo memoriale della strage di Tienanmen. Le autorità si giustificano: «Una vecchia statua pericolosa». Guido Santevecchi per il Corriere della Sera.

«Sono entrati nel campus della University of Hong Kong di notte: una squadra di operai con elmetti gialli, guanti e mascherine. Hanno recintato l'area intorno al «Pilastro della Vergogna» che ricordava il massacro di Tienanmen con alte barriere di plastica, non per motivi di sicurezza, ma per non avere testimoni: sulla «scena del delitto» la polizia aveva l'ordine di tenere alla larga studenti e stampa. Ma le immagini, riprese di nascosto da un ballatoio, sono filtrate lo stesso, sfidando anche la Legge sulla sicurezza nazionale cinese che dal luglio 2020 ha spento la protesta democratica nell'ex colonia britannica. Così, sui social network internazionali ora corrono le scene dello smantellamento della statua: una colonna di rame alta 8 metri, composta da cinquanta corpi nudi, schiacciati da una forza opprimente come quella dei carri armati cinesi che il 4 giugno del 1989 avevano spazzato via in piazza Tienanmen a Pechino gli studenti che invocavano un governo decente. Una macchia vergognosa sul Partito-Stato, e per questo la statua era stata chiamata «Pillar of Shame», Pilastro della Vergogna. Donata dall'artista danese Jens Galschiot, la piramide commemorativa era arrivata a Hong Kong nel 1997, poche settimane prima che la città fosse restituita dai colonizzatori britannici alla Repubblica popolare cinese. Per ventiquattro anni la scultura era stata l'unico memoriale in territorio cinese del sacrificio di migliaia di giovani uccisi in una notte a Pechino. A Hong Kong vigeva il principio «Un Paese due sistemi», che formalmente dura ancora, ma in realtà è stato cancellato dalla Legge sulla sicurezza nazionale cinese e dallo stillicidio di arresti per sovversione e secessionismo che negli ultimi due anni hanno messo a tacere l'opposizione anti-comunista. Pochi giorni fa un tribunale di Hong Kong ha condannato ad altri 13 mesi di carcere Jimmy Lai, l'editore il cui giornale libero Apple Daily è stato soffocato e chiuso in estate: la sua colpa, aver partecipato il 4 giugno del 2020 all'ultima veglia in ricordo di Tienanmen. Jimmy Lai dalla cella ha scritto: «Se ricordare quei morti è un crimine, sono orgoglioso di condividere la gloria di quei giovani che hanno versato il loro sangue». Restava ancora la statua nel campus della più antica università della città e gli studenti ancora si facevano fotografare davanti nelle occasioni importanti, come la laurea. Inaccettabile nel nuovo corso «patriottico» imposto a Hong Kong. Già a ottobre era arrivato l'ordine di rimuoverla. Senza il clima di paura calato su Hong Kong, migliaia di studenti si sarebbero concentrati nel campus per difendere il simbolo. Invece ora nessuno ha sfidato le nuove norme repressive; per precauzione gli operai sono stati mandati nel cuore della notte. Il rettorato ha comunicato che «la decisione di smantellare la vecchia statua è stata presa sulla base di consiglio legale e valutando il rischio per l'università. Eravamo anche preoccupati per la fragilità dell'opera». Una motivazione ipocrita. Il «Pillar of Shame», tagliato e avvolto in un telone bianco, è stato trascinato via come un cadavere. «Una fine brutale, sono sconvolto», ha detto lo scultore Galschiot».

IN SERBIA SCONTRO SULLA MINIERA DI LITIO

Marcia indietro del premier serbo Aleksandar Vucic dopo le proteste in tutto il Paese contro lo sfruttamento della miniera da parte di Rio Tinto. Ritirata tattica in attesa delle elezioni? Alessandra Briganti per il Manifesto.

«La corsa al nuovo oro ha subìto una pesante battuta d'arresto, ma vincere una battaglia non equivale a vincere una guerra. E così il passo indietro del presidente serbo, Aleksandar Vucic, dinanzi alle proteste esplose in tutto il Paese contro il progetto di sfruttamento della miniera di litio da parte di Rio Tinto, potrebbe essere una ritirata tattica in attesa dell'assalto finale. Epicentro delle proteste è Loznica, cittadina della Serbia nord-occidentale al confine con la Bosnia-Erzegovina. Qui, nella valle del fiume Jadar, sono custodite le più grandi riserve di litio in Europa e tra le più grandi al mondo, elemento essenziale nella produzione di batterie per le auto elettriche. La spinta alla decarbonizzazione ha accelerato i piani della multinazionale anglo-australiana che già da tempo aveva puntato gli occhi sulla valle del Jadar. E così dopo un'esplorazione lo scorso anno dei territori intorno a Loznica del valore di 200 milioni di dollari, Rio Tinto è passata all'azione, annunciando un investimento da 2,4 miliardi di dollari per la costruzione di quella che si ritiene sarà la più grande miniera di litio nel continente europeo. Le stime della società sono da capogiro: secondo quanto rivelato dal Guardian, dalla miniera verrebbero estratti circa 2,3 milioni di tonnellate di carbonato di litio all'anno e 160mila di acido borico, materiale impiegato per la costruzione di pannelli solari, ad esempio. La miniera sarebbe in grado di fornire litio in quantità tale da garantire la produzione di un milione di veicoli elettrici all'anno, la nuova frontiera dell'auto motive. Una manna dal cielo inattesa per la Serbia, la cui produzione di litio potrebbe generare miliardi di dollari di entrate per il Paese e centinaia di posti di lavoro. Una manna dal cielo anche per l'Europa, costretta ad importare il nuovo oro da Australia, America Latina e Cina. Non è un caso che nel suo viaggio di commiato nei Balcani, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, abbia sottolineato proprio la dimensione europea dell'affaire litio serbo: in ballo non c'è solo l'interesse tedesco, ma quello dell'Ue nel suo insieme, ha spiegato Merkel, ricordando l'importanza della neutralità climatica nelle politiche europee. Più entrate, più posti di lavoro, più autonomia nella lotta al cambiamento climatico, quindi: ma il progetto Jadar rappresenta davvero tutto questo? Per gli ambientalisti le cose stanno diversamente. Ad alimentarne i dubbi sono da una parte la reputazione della multinazionale, implicata in diversi casi di corruzione, violazione di diritti umani e disastro ambientale; dall'altra l'impatto della miniera sull'ambiente. Secondo la professoressa di Chimica Ambientale dell'Università di Belgrado, Dragana Dordevic, intervistata dal Guardian, lo sfruttamento della miniera di litio nella valle del Jadar si tradurrà nella produzione complessiva di 57 milioni di tonnellate di rifiuti. A questo vanno aggiunti danni per più di 145 specie protette nell'area e un utilizzo di acqua talmente elevato da mettere a rischio i bacini dei fiumi Drina e Sava. Un prezzo troppo alto da pagare sull'altare di un capitalismo selvaggio che ha fatto carta straccia dei diritti sociali ed ambientali soprattutto in una regione, come quella dei Balcani, in cui la debolezza dello Stato di diritto ha lasciato comunità e cittadini privi di tutele dinanzi agli abusi del mercato, oltre che della politica. E così all'ennesima prevaricazione, la Serbia ha reagito con l'unica arma a sua disposizione: la piazza. Il mese scorso il governo aveva presentato due proposte di legge che avrebbero spianato la strada al progetto di Rio Tinto. Con la prima, si intendeva ridurre a cinque giorni i termini per ricorrere contro l'esproprio di terreni in aree interessate da grandi investimenti. L'obiettivo era vincere le resistenze di quanti si oppongono alle pressioni della multinazionale che ha già comprato circa l'80% dei terreni interessati dal progetto. Con la seconda, si proponevano delle modifiche allo strumento referendario, imponendo una tassa per la raccolta delle firme, abbassando la soglia del quorum necessario per rendere valida la consultazione, e prevedendo, infine, la possibilità di ripetere il referendum sullo stesso tema ogni anno. Un modo, questo, per sbarrare la strada al referendum, promesso dallo stesso Vucic per placare la prima ondata di proteste che aveva attraversato il Paese la scorsa estate. Il tentativo del governo di disinnescare la bomba ambientalista forzando la mano (e la legge), si è rivelato però un boomerang: per settimane migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in tutta la Serbia per tentare di fermare i piani dell'esecutivo. Immagini che hanno fatto il giro del mondo, costringendo Vucic ad un clamoroso passo indietro. Dopo aver denigrato le proteste, bollate come 'politiche' e fomentate da 'attori stranieri', Vucic si è detto in parte d'accordo con le motivazioni dei manifestanti. Risultato: ritiro della proposta di legge sull'esproprio e inserimento delle modifiche richieste dai movimenti in quella sul referendum. La mossa di Vucic, però, ha tutta l'aria di essere più una tregua che una resa. In primavera la Serbia andrà di nuovo alle urne e quello per il presidente serbo sarà il vero banco di prova. Specie se, per la prima volta da quando è al potere, dovrà confrontarsi con un'opposizione degna di questo nome. Per ora il litio può aspettare».

NATALE 1. I RICORDI DI PAPA FRANCESCO

Domenico Agasso per la Stampa e Paolo Rodari per Repubblica sono stato ricevuti da Francesco per una “conservazione nell’imminenza delle feste”, in cui il Papa spiega il senso del Natale.   

«Sono trascorsi pochi mesi dal ricovero al Policlinico Gemelli ma i pensieri di Papa Francesco, nel suo ottantacinquesimo Natale, vanno ancora lì, in particolare ai bambini malati e ricoverati. Li ha visitati nei giorni di degenza lo scorso luglio. E oggi ancora pensa a loro, costretti a passare le feste in ospedale: «Non ci sono parole, possiamo solo aggrapparci alla fede, a Dio, e chiedergli: "Perché?». E ai genitori che hanno i figli fuori dall'ospedale, il Pontefice ricorda «quanto sono fortunati. Li abbraccino forte, e dedichino loro più tempo». Riceve La Stampa e Repubblica a Casa Santa Marta, Jorge Mario Bergoglio, per una conversazione nell'imminenza delle feste. Parla del significato del Natale oggi, dei poveri, degli emarginati, degli sfruttati, e di come viveva le feste da piccolo, nella Buenos Aires degli anni Quaranta. Santità, che cosa ricorda del Natale in Argentina? «Alcune volte andavamo da una zia, alla sera, perché a Buenos Aires e nella nostra famiglia non c'era in quel tempo l'abitudine di festeggiare la vigilia come oggi. Si festeggiava il 25 di mattina, sempre dai nonni. Ricordo una volta una cosa curiosa: siamo arrivati e la nonna stava ancora facendo i cappelletti, li faceva a mano. Ne aveva fatti 400! Eravamo sbalorditi! Tutta la nostra famiglia era lì: venivano anche zii e cugini. Solo da adolescente ho cominciato a festeggiare un po' anche la vigilia, a casa di una sorella di mia mamma che abitava vicino». E oggi come vive il Natale? «Mi preparo bene, perché il Natale è sempre una sorpresa. È il Signore che viene a visitarci, e io vivo questo arrivo con la mistica dell'Avvento: aspettare un po' di tempo e predisporsi per incontrare Dio, che rinnova tutto in bene. E poi, amo tanto le canzoni natalizie, che sono piene di poesia. "Silent Night", "Tu scendi dalle stelle" trasmettono pace, speranza, creano l'atmosfera di gioia per il Figlio di Dio che nasce sulla terra come noi, per noi». A chi pensa in particolare in questo Natale? «Ai poveri, sempre. Come Gesù, che è nato povero: quel giorno Maria era una donna di strada, perché non aveva un luogo adeguato per partorire. E poi penso a tutti i dimenticati, gli abbandonati, gli ultimi, e in particolare i bambini abusati e schiavizzati. A me fa piangere e arrabbiare sentire le storie di adulti vulnerabili e di bimbi che vengono sfruttati. E poi, penso ai bimbi malati che trascorreranno il Natale in ospedale, non ci sono parole, possiamo solo aggrapparci alla fede, a Dio, e chiedergli: "Perché?". E i genitori che hanno i figli fuori dall'ospedale non si dimentichino quanto sono fortunati, li abbraccino forte e dedichino loro più tempo. Voglio anche spendere qualche parola di ammirazione per il lavoro che compie il personale sanitario di ogni ospedale e reparto pediatrico per alleviare le sofferenze di quei piccoli. Al Bambin Gesù c'è una dottoressa che è il capo: conosce il nome di ognuno dei giovanissimi pazienti. È straordinaria. Noi spesso non ci accorgiamo della grandezza dell'opera quotidiana di questi medici, infermieri e collaboratori sanitari, e invece dobbiamo tutti essere grati a ciascuno di loro». Pochi giorni fa ha compiuto 85 anni… «Vi sbagliate, ne ho compiuti 75! (Scherza e ride, ndr)». Come festeggiava il suo compleanno da bambino? «In casa eravamo cinque fratelli. Oltre a me c'erano Marta Regina, Alberto Horacio, Oscar Adrian e Maria Elena. Il giorno del compleanno era sempre una festa per tutta la famiglia. Venivano i nonni, gli zii Mia mamma faceva il cioccolato da bere, molto denso». Quali erano i suoi giochi d'infanzia? «Vicino a casa nostra c'era una piccola piazza. Vi arrivavano tre strade e formavano una specie di triangolo. Quello era il nostro campo da calcio. Tutti i ragazzi del quartiere giocavano lì, a volte veniva anche qualche ragazza. Non sempre c'era qualcuno che portava il pallone di cuoio e allora giocavamo con un pallone di stracci, la "pelota de trapo". In Argentina il pallone di stracci è diventato un simbolo culturale di quell'epoca, a tal punto che un poeta popolare ha scritto una poesia chiamata "Pallone di stracci", e c'è anche un film intitolato "Pallone di stracci", che fa vedere questa "cultura" dell'epoca». Giocava bene a calcio? «Mi chiamavano "pata dura", letteralmente "gamba dura": questo soprannome me lo avevano dato perché non ero molto bravo. Allora stavo in porta, dove mi arrangiavo. Fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere ai pericoli che possono arrivare da ogni parte». Ha praticato altri sport? «Ho giocato anche a basket, mi piaceva perché mio papà era una colonna della squadra di pallacanestro del San Lorenzo». Da bambino leggeva? Quali libri? «I miei genitori avevano la preoccupazione di farci leggere. Ricordo che era uscita una collana di venti volumi, "Il tesoro della gioventù". La leggevamo insieme, di pomeriggio. In casa non avevamo ancora la televisione. Più volte, dopo cena, papà ci leggeva a voce dei volumi. Ricordo benissimo che ci lesse tutto "Cuore" di Edmondo De Amicis, e anche oggi ricordo il racconto "Sangue romagnolo", che mi ha colpito tanto all'epoca». Quale segno le hanno lasciato quelle ed eventuali altre letture, da bambino e da ragazzo? «Fra i primi libri che lessi da giovane ci fu "Don Segundo Sombra" di Ricardo Güiraldes; e poi i romanzi di Jorge Luis Borges e Fëdor Dostoevskij, e le poesie di Friedrich Hölderlin. Quest' ultimo fu per me una seduzione. E poi, nella adolescenza ho letto "Anni verdi" di Archibald Joseph Cronin: l'ho infine ripreso nella versione italiana, e mi ha aiutato quando ero in seminario a rispolverare la vostra lingua. Queste letture sono state il tesoro della mia infanzia e della gioventù, perché mi hanno trasmesso emozioni forti, indelebili, insieme a quelle che ci leggeva mio padre, a cominciare dal libro "Cuore": ricordo che i miei fratelli e io piangevamo spesso commossi quando lo ascoltavamo. "Cuore" è stata parte della nostra formazione e resta per me un libro indimenticabile. La nonna ci leggeva qualche capitolo de "I promessi sposi", e anche ci aiutava a studiarli a memoria. Recentemente li ho ripresi, perché ogni volta che li apri vi trovi qualcosa di nuovo. Spesso "I promessi sposi" mio padre ce li recitava a memoria e poi ce li spiegava». Suo padre era un grande e appassionato lettore… «Sì, leggeva tanto. Aveva una grande biblioteca, ed è diventato una persona colta. Ci recitava a memoria anche Dante. Da lui sentii per la prima volta questi versi: "Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d'etterno consiglio, tu se' colei che l'umana natura nobilitasti sì, che 'l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura". E poi il terzo canto dell'Inferno: "Lasciate ogni speranza, o voi che entrate". Lavorava tanto per darci da mangiare, ed è riuscito a diventare anche sapiente. Il sabato la radio trasmetteva la registrazione delle opere liriche, e la mamma mentre le ascoltava ce le raccontava. Ci portava anche a teatro, ricordo che vedemmo il tenore Tito Schipa al Teatro Colón». Quale libro consiglierebbe ai ragazzi di oggi? «Non consiglierei testi specifici. Ognuno deve avere i propri interessi. Più che un libro consiglierei di leggere. Perché c'è il pericolo della televisione che ti riempie di messaggi che poi non rimangono, mentre leggere è un'altra cosa, è un dialogo con il libro stesso, è un momento di intimità che né la tv né il tablet possono dare». Com' era un pasto a casa Bergoglio? «A tavola eravamo cinque fratelli. Si parlava di tutto. Spesso prendendo spunto da La Nación, che era presente ogni giorno a casa nostra». Da Papa ha mille incombenze quotidiane. Ma ogni tanto ha dei momenti in cui le prende un po' di malinconia, di nostalgia della giovinezza? «Quando ricordo le cose belle. Momenti specifici e speciali. Per esempio un compleanno particolare: quando ho compiuto 16 anni. In Argentina si portavano i pantaloncini corti con le calze lunghe fino al ginocchio. Ma a 16 anni il rito prevedeva di iniziare a portare i pantaloni da uomo. A quel tempo era come un'entrata in società. "Ma varda!" (in piemontese significa "Ma guarda!" con espressione stupita, ndr) diceva la gente meravigliata e compiaciuta quando mi ha visto con i pantaloni lunghi dopo che sono andato a comprarli con mamma e papà. Mi ricordo che a quel compleanno mia nonna materna, Maria ve la mostro in foto, perché era una matrona quella nonna (sorride, si alza e va a prendere una foto dei suoi nonni, ndr). La nonna è venuta a casa mia, mi chiama da parte, e mi dà un po' di soldi come regalo di compleanno. Poi guarda i pantaloni lunghi, e si mette a piangere, commossa». E nonna Rosa? «Era più riservata. Nonna Maria è stata una migrante con la sua famiglia quando aveva 13 anni: subito ha incominciato a lavorare in una casa di francesi, dove si occupava dei bambini, e lì ha imparato la lingua. E poi a noi nipoti cantava tante canzoni francesi. Mentre nonna Rosa parlava poco, ha sofferto tanto, ma capiva tutto. Il primo nonno che ho perso è il materno, Francisco, quando io avevo 16 anni. Nonno Giovanni Angelo se n'è andato quando avevo 25 anni. E poi le nonne quando ero già superiore provinciale dei Gesuiti d'Argentina (tra il 1973 e il 1978). Dei miei nonni e dei ricordi con loro ho nostalgia. Ma la malinconia non mi prende». Perché secondo Lei? «Forse per mia formazione personale, non me la permetto. E un po' forse perché ho ereditato il carattere di mia mamma, che guardava sempre avanti». Le manca qualche altra persona in particolare che ora non c'è più? «Penso soprattutto ai miei tre fratelli che sono morti. Ho ancora solo una sorella, Maria Elena. Ma ricordo loro e tutti gli amici serenamente, perché li immagino in pace». Cinque mesi dopo l'operazione chirurgica al Policlinico Gemelli, come sta? «Grazie a Dio sto bene. Zoppico solo un po' perché si sta rimarginando la cicatrice dell'operazione, non sono più un ragazzino, ma sto bene. Dopo l'intervento chirurgico di luglio ho già compiuto due viaggi apostolici internazionali: a Budapest e in Slovacchia a settembre, e a Cipro e in Grecia a dicembre, tornando nel campo rifugiati di Lesbo, dove abbiamo toccato una piaga dell'umanità; e poi, sono andato ad Assisi. E altri viaggi ne farò, se il Signore vorrà, nel 2022». Ha cambiato le Sue abitudini? «Nulla è cambiato nella mia giornata: mi alzo sempre alle 4 di notte e inizio subito a pregare. E poi avanti con gli impegni e appuntamenti vari. Mi concedo solo una breve siesta dopo pranzo». Il mondo sta lentamente uscendo dalla pandemia mentre ancora in più luoghi permangono conflitti e divisioni. Come vede il futuro dell'umanità? «L'avvenire del mondo sarà florido se sarà costruito e, dove serve, ricostruito insieme. Solo la vera e concreta fraternità universale ci salverà e ci permetterà di vivere tutti meglio. Questo però significa che la comunità internazionale, la Chiesa a cominciare dal Papa, le istituzioni, chi ha responsabilità politiche e sociali e anche ogni singolo cittadino in particolare dei Paesi più ricchi, non possono né devono dimenticare le regioni e le persone più deboli, fragili e indifese, vittime dell'indifferenza e dell'egoismo. Ecco, prego Dio affinché in questo Natale trasmetta sulla Terra più generosità e solidarietà. Ma vere, pratiche e costanti, non solo a parole. Spero che il Natale scaldi il cuore di chi soffre, e apra e rafforzi i nostri affinché ardano dal desiderio di aiutare di più chi è nel bisogno».

NATALE 2. “ANCHE IL VIRUS CI FA CAPIRE QUESTA FESTA”

Il Papa ricorda che la nascita del Messia non è una favola, ma una rivoluzione con la quale i potenti hanno fatto i conti. Una riflessione di Antonio Socci su Libero.

«Il Natale non è una bella favola che, una volta nell'anno, fa dimenticare la crudeltà delle cronache, a cominciare dalla pandemia. Anche la pandemia permette di capire cos' è il Natale, perché ci ricorda che l'umanità è "malata": in realtà è malata da sempre, nel profondo e non (solo) di Covid, ed è per questo che è venuto sulla terra il Figlio di Dio. Ieri il Papa, negli auguri alla Curia, ha usato un'immagine impressionante: «Tolte le nostre vesti, le prerogative, i ruoli, i titoli, siamo tutti dei lebbrosi bisognosi di essere guariti». Dietro «le maschere e le armature» del «riconoscimento sociale» e del «luccichio della gloria di questo mondo» siamo malati, intossicati dal male o creature ferite, poveri peccatori, mendicanti bisognosi di un Salvatore che cambi la nostra vita e ci salvi. Le miracolose guarigioni fisiche di Gesù, documentate dai Vangeli e anche dai testi non cristiani (ciechi che tornano a vedere, muti che ritrovano la parola, paralitici che camminano e perfino morti che resuscitano) erano il segno visibile della vera guarigione che il Salvatore era venuto a portare: dal male, dalla disperazione e dalla morte. Il Figlio di Dio è venuto a riempire la solitudine degli uomini e la loro mai appagata sete di felicità. Infatti la Bibbia annuncia la nascita del Messia come la guarigione dal grande Male, la grande «pandemia spirituale» che affligge l'umanità fin dalle origini e che ha portato nel mondo il dolore e la morte. Inoltre la Bibbia profeticamente annuncia: la venuta del Messia sarà una rivoluzione per il mondo, l'unico vero Grande Reset della storia (l'"atto politico" di Dio stesso). Certo, in apparenza gli eventi accaduti a Betlemme sembrano il contrario di una Rivoluzione che vince il mondo, perché non c'è un condottiero che irrompe come Alessandro Magno o Napoleone, con un formidabile esercito, ma viene alla luce un inerme bambino che oltretutto nasce in una miserabile stalla, da due umili genitori. E ha attorno solo gente semplice come i pastori, commossi e stupiti. Un bambino così vulnerabile da trovarsi subito minacciato di morte e braccato da un sovrano crudele. Un bambino che, una volta cresciuto e iniziata la sua missione pubblica, non usa la forza, né i poteri o le ricchezze mondane degli altri re. Non ha neanche una dimora e subisce un supplizio da schiavo morendo ignominiosamente su una croce. Eppure poco prima aveva dichiarato «io ho vinto il mondo» (Gv 16:33) e aveva rivelato al procuratore romano di essere il Re dei Cieli. Pilato ne era affascinato, ma lo ritenne un illuso. Eppure, invece di essere dimenticato, come qualsiasi ingenuo sognatore, ha diviso la storia in due e miliardi di persone da duemila anni riconoscono in lui il Salvatore del mondo. Illusi anche loro? Un grande cristiano, Dietrich Bonhoeffer, scriveva: «Il trono di Dio nel mondo non è nei troni umani, ma negli abissi e nelle profondità umane, nella mangiatoia e nella croce. Qui vacillano i troni, cadono i violenti, precipitano i superbi, perché Dio è con gli infimi». Bonhoeffer scriveva queste parole nel 1933 e aveva davanti a sé l'ascesa del nazismo a cui si oppose fino al martirio perché era certo dell'annuncio del Natale: «Non è un idillio familiare, bensì l'inizio di una conversione totale, di un riordinamento di tutte le cose di queste terra... un capovolgimento... è lo stesso bambino Gesù nella mangiatoia a compiere il giudizio e la redenzione del mondo: lui respinge i grandi e i violenti, lui rovescia i potenti dai troni, lui umilia i superbi... e innalza ciò che è umile e lo fa grande e glorioso nella sua misericordia». Bonhoeffer parlava anzitutto del regime nazista che mirava a dominare il mondo. Chi fu un illuso, Bonhoeffer o Hitler? Hitler il cui sogno di dominio infatti fu abbattuto. Tutti gli imperi della storia sono stati (e saranno) abbattuti, ma l'inerme misericordia di Dio per gli uomini, il cui segno è la Chiesa (con i suoi martiri), mai. Resterà per sempre. C'era, a quel tempo, un'altra potentissima tirannia che dichiarò guerra a Dio e ai cristiani: il comunismo sovietico. Nel febbraio 1945, a Jalta, quando qualcuno fece presente che il Papa voleva dire la sua parola sul futuro assetto europeo, Stalin replicò sarcastico: «Quante divisioni ha il Papa?». Voleva dire che il Papa è irrilevante perché conta solo la forza. In effetti chi rappresenta il Bambino di Betlemme non ha eserciti in questo mondo. Ma nel 1953, quando arrivò la notizia della morte del leader sovietico, il Papa esclamò: «Ora Stalin vedrà quante divisioni abbiamo lassù!». Perché i poteri di questo mondo saranno sempre vinti dall'inerme Figlio di Dio. La nostra generazione è stata testimone di un fatto straordinario. Quella rivoluzione bolscevica che voleva essere il "Grande Reset" che avrebbe sradicato per sempre Dio dall'anima degli uomini e costruito in Russia un impero ateo, è crollata proprio il giorno di Natale del 1991. Esattamente trent' anni fa quel giorno la bandiera rossa fu ammainata dal Cremlino sostituita dalla bandiera della Santa Rus'. C'è perfino un'altra "coincidenza" significativa: l'Urss cessò legalmente di esistere l'8 dicembre 1991, il giorno dell'Immacolata, come la Madonna aveva annunciato a Fatima profetizzando la rivoluzione bolscevica: «Alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà». Non dimentichiamo che tutto era cominciato con l'elezione di Wojtyla e con la fuoruscita dal comunismo della Polonia ad opera di Solidarnosc: una rivoluzione incruenta e pacifica perché Walesa seguì la guida del Papa. Fu un evento mai visto, il "miracolo" più grande e inimmaginabile. Così, di conseguenza, anche a Mosca nessuno spargimento di sangue e nessuna guerra. Questi eventi sono un monito per i "forti" che oggi in Occidente sognano altri "Grandi Reset" per costruire un mondo contro Dio e sopra la testa dei popoli e dei più deboli. Di recente un giornalista ha interrogato papa Bergoglio sul documento dell'Ue in cui si cancellava il Natale. Il papa ha risposto che sperava fosse ritirato (come è avvenuto) e ha aggiunto che «nella storia tante dittature hanno cercato di farlo, pensa a Napoleone, pensa alla dittatura nazista, comunista», ma «non funzionò»: l'inerme Bambino di Betlemme non è stato sopraffatto dagli "invincibili" poteri di questo mondo. Egli infatti compirà fino alla fine la promessa che Dio ha fatto agli uomini, specie quelli soli che si sentono abbandonati: «Il Signore stesso cammina davanti a te. Egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d'animo» (Deut. 31,8)».

NATALE 3. UNA NASCITA CHE SFIDA IL RITIRO DALLA VITA

Lettera di Julián Carrón al Corriere della Sera: il bimbo di Betlemme ci viene incontro e risponde alla sindrome della fuga che vive l’uomo d’oggi.

«Caro direttore, leggendo i giornali di questi giorni mi è risultato inevitabile imbattermi in tanti indizi della situazione umana in cui ci troviamo. In un articolo apparso sul Corriere della Sera , l'amico Mauro Magatti richiamava l'attenzione su ciò che egli ha definito «la sindrome del "ritiro"». Un numero sempre maggiore di giovani fa una grande fatica a stare nel reale e «decide di lasciare un buon lavoro perché non riesce più a trovare motivazioni per andare avanti» (22 dicembre 2021). Ma il ritiro comincia prima, nella scuola. Ipsos, con Save the Children , stima che nel 2020 abbiano abbandonato la scuola 30.000 studenti in più rispetto ai 120.000 che già la lasciano ogni anno. «In forte crescita gli adolescenti "ritirati" in casa» era il titolo di un articolo di Elisabetta Andreis, sempre sul Corriere (12 dicembre 2021). Questo fenomeno non riguarda solo i giovani che frequentano le scuole o si affacciano al lavoro. Negli Stati Uniti, «tra luglio e agosto scorso, più di 8 milioni di lavoratori hanno mollato il posto di lavoro, il 28% dei quali al buio, senza alternativa. (...) I grandi giornali usano titoli d'effetto, come Great Resignation (Le grandi dimissioni)» ( ilfattoquotidiano.it , 22 ottobre 2021). Si fa strada l'impressione di una crescente inermità di fronte alla vita. La fuga dalla realtà appare perciò a molti come l'unica possibilità di acquietarsi. Eppure, neanche in questo «ritiro dal mondo» le persone riescono a darsi pace. Per quanto diverse siano le situazioni delle persone, in ognuna di esse riemerge in tutta la sua imponenza l'irriducibilità dell'io, della sua esigenza di senso. E l'uomo continua a cercare a tentoni, ovunque, anche in luoghi che, in piena «modernità», nell'epoca dominata dalla ragione scientifica, non ci aspetteremmo. In un articolo pubblicato il 29 novembre scorso sulla rivista online Persuasion , Mark Alan Smith, professore all'Università di Washington, segnala che il ricorso all'astrologia, al karma, ai tarocchi e al «mercato dei servizi mistici» (per un giro di affari di 2,1 miliardi di dollari negli Usa) dilaga tra le persone più diverse, e nota che non c'è una grande differenza tra atei, cristiani, musulmani o ebrei. Sono sintomi di uno smarrimento che diventa sempre più pervasivo e della difficoltà a trovare risposte pertinenti, adeguate. Riguardo alla conoscenza del vero, san Tommaso affermava che «la verità che la ragione potrebbe raggiungere su Dio», cioè sul significato ultimo del vivere, «sarebbe di fatto per un piccolo numero soltanto, e dopo molto tempo e non senza mescolanza di errori» ( Summa Theologiae , I, q. 1, art. 1). Mi pare una buona sintesi rispetto ai tanti tentativi umani di raggiungere una qualche certezza sul significato che i propri giorni e la quotidiana fatica e durezza del vivere reclamano. È in questa situazione che arriva il Natale, e come ogni anno entra nella nostra storia in modo sommesso, ci si pone davanti senza clamore, disarmato, come all'inizio, quando passò inosservato per la maggioranza della gente, tranne che per alcuni pastori. Il Natale accade di nuovo oggi, come allora, sfidando il nostro modo di affrontare la vita e le sue sfide. Come? Dio non si ritira nel mondo «spirituale», ma entra nella storia come un bambino, come una presenza carnale, reale. La decisione di entrare nella storia come uomo espone Dio alle obiezioni che ben conosciamo: prima fra tutte, il rischio di essere ridotto. «Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria?» (Mt 13,55), si domandavano i concittadini di Gesù. Sempre è in agguato la possibilità di ridurre, di non cogliere l'eccezionalità che si cela in una umanità come quella di tutti. Ma niente può impedire, oggi come duemila anni fa, che proprio attraverso l'umano arrivi a noi qualcosa di irriducibile, che sfida la nostra misura, il nostro modo di pensare. «Non abbiamo mai visto nulla di simile!» (Mc 2,12), si dicevano stupefatti davanti ai gesti di Gesù. Che cosa hanno visto coloro che Lo hanno incontrato per compiere una affermazione del genere? Egli è venuto e continua a venire - qui, ora - per cercare l'uomo smarrito di oggi, che soffre la «sindrome del ritiro» dalla vita. Viene nei suoi testimoni, attraverso un'attrattiva irresistibile, il fascino di una umanità eccezionale, che ridesta il desiderio. Come ripete spesso papa Francesco: «La Chiesa non cresce per proselitismo ma "per attrazione"» ( Evangelii gaudium , 14). Questo è il modo con cui si comunica il cristianesimo: una attrattiva. Certo, il metodo usato da Dio per venire incontro all'uomo reale di ogni tempo non può che scontrarsi con i limiti degli uomini che portano l'annuncio della Sua presenza nel mondo. Ma nessun limite può bloccare l'iniziativa del Mistero. Ce lo ricorda Joseph Ratzinger con parole liberanti: «Come la realtà di un uomo si rivela nella storia della sua vita e nelle relazioni che intesse, così Dio si rende visibile in una storia, in uomini, attraverso i quali la sua natura si rende manifesta, a tal punto che egli in riferimento a loro può essere "denominato", in loro può essere riconosciuto: il Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe. Attraverso la relazione con persone umane, attraverso i volti di persone umane, egli si è manifestato ed ha mostrato il suo volto». Per questo, osserva ancora, «non possiamo, trascurando questi volti, voler avere solo Dio, per così dire nella sua forma pura: questo sarebbe un Dio pensato da noi al posto di quello reale, sarebbe un altezzoso purismo, che ritiene i propri pensieri più importanti delle azioni di Dio» ( Maria. Chiesa nascente , San Paolo, Cinisello B., Mi, 2005, pp. 5253). È questa la provocazione che il Natale ogni anno lancia a ciascuno di noi: un fatto umano, reale, sfida i nostri pensieri, la nostra confusione, la nostra fuga in mondi misterici, il nostro ritiro dalla vita, e ci «prende» con l'attrattiva di una presenza umana eccezionale. «Cristo me trae tutto tanto è bello», diceva il grande Jacopone da Todi. È questo il Natale: Cristo, Dio fatto uomo, che ci viene incontro attraverso persone che sono presenze così affettivamente attraenti da liberarci dalle gabbie in cui ci rinchiudiamo per sopportare gli urti della vita. Come mi testimoniava di recente un amico, che si è sentito dire da una persona, per la diversità di umanità che aveva notato in lui: «Guarda, oggi per me è Natale!».

Leggi qui tutti gli articoli di venerdì 24 dicembre:

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