Fosse comuni a Gaza
Ancora guerra all'ospedale Al Shifa. Biden ottimista sui 239 ostaggi, 400 funzionari Usa invocano il cessate il fuoco. Stasera Biden-Xi. Salvini riduce lo sciopero a 4 ore. Mostra a Roma su Tolkien
Fosse comuni per i morti a Gaza. Fosse comuni per evitare epidemie. Chissà se Ilham, la donna anziana cristiana, uccisa da un cecchino israeliano sulla porta della Parrocchia di Gaza, è stata sepolta in queste ore. Pensare che i suoi resti possano essere ancora all’aperto ci mette a disagio. La stampa internazionale non ha accesso alla zona da settimane. Fonti da Gaza parlano di 40 pazienti morti negli ultimi giorni, compresi tre neonati prematuri le cui incubatrici sono state staccate per mancanza di alimentazione. I medici, raggiunti per telefono, o attraverso le Ong, garantiscono che staranno fino all’ultimo con i loro 650 pazienti. Nella Striscia ci sono 36 centri ospedalieri e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 22 strutture sono fuori servizio a causa degli scontri armati.
Joe Biden è fiducioso che sia vicina una soluzione per la liberazione dei 239 ostaggi. Ma l’ottimismo americano non è condiviso dal governo di Benjamin Netanyahu. Il rilascio degli ostaggi dovrebbe comportare anche qualche giorno di tregua. L’opinione pubblica americana è scossa, il 66% degli statunitensi vuole il cessate il fuoco. Il New York Times ha pubblicato una lettera all’Amministrazione di oltre 400 membri di 40 agenzie governative inclusi il Consiglio per la sicurezza nazionale, il dipartimento di Giustizia e l’Fbi, in cui si chiede di premere sia per il rilascio immediato degli ostaggi che per il cessate il fuoco, cosa che finora la Casa Bianca ha rifiutato di fare dicendo che aiuterebbe Hamas. Vivian Silver, nota attivista israeliana per il dialogo con i palestinesi, è stata uccisa il 7 ottobre dai terroristi di Hamas nel kibbutz di Be’eri, lo si è saputo solo ora. Il figlio dice oggi all’Avvenire che la reazione di Israele all’assalto del 7 ottobre è stata un errore e non la condivide.
Stasera i Vescovi italiani pregano per la pace nella Basilica di Assisi. Andranno in processione da Santa Chiara alla Basilica Superiore: un momento importante dell’Assemblea Cei. Oggi Avvenire pubblica l’anticipazione di un nuovo libro di Matteo Zuppi, in cui si legge: “Uno dei mantra dell’individualismo che marca tanto del pensiero corrente – e dominante - , pieno di luoghi comuni che immiseriscono chi li ripete e chi li subisce, afferma: «Per stare bene devi pensare di più a te». «Ti devi realizzare». Non è certo questo il linguaggio della Parola di Dio. Realizzare se stessi non può mai essere contro gli altri o indipendentemente dagli altri. È un’idea perdente e “fondamentalista” dell’individuo, una caricatura della vita, pensare che tutto dipenda dal fatto di mettersi al centro”.
Stasera, verso le 20 ora italiana, ci sarà l’atteso incontro tra il presidente usa Joe Biden e quello cinese Xi Jinping a San Francisco, in occasione del vertice economico dell’Apec. I leader di Usa e Cina tornano a parlarsi faccia a faccia, dopo un lungo periodo di freddezza se non di contrasto. Agostino Giovagnoli su Avvenire spiega perché si tratta di una speranza importante per la pace nel mondo, mentre Il Sole 24 Ore sottolinea come sia l’economia mondiale ad avere bisogno di una nuova fase di collaborazione fra i due Paesi.
Una notizia choc viene da Kiev, dalla “dimenticata Ucraina”, come titola Avvenire. Secondo fonti ucraine, Sergej Khadzhikurbanov, uno dei killer condannati a Mosca per aver ucciso, 17 anni fa, la giornalista Anna Politkovskaja, è stato graziato da Vladimir Putin dopo essersi arruolato e aver combattuto in Ucraina.
In Italia tiene banco lo scontro tra Matteo Salvini e Maurizio Landini. Il ministro leghista ha precettato, con una certa soddisfazione, i lavoratori del settore trasporti, riducendo l’annunciata astensione dal lavoro di venerdì 17 a sole 4 ore. Giorgia Meloni ha convocato una riunione in cui affrontare le questioni Mes e balneari, vicende che riguardano in modo stringente i rapporti con l’Europa.
Oggi la premier sarà all’anteprima della mostra sulla figura di J.R.R. Tolkien che si apre domani alla Galleria nazionale di arte moderna di Roma. Bella intervista di Beppe Pezzini, professore ad Oxford e fra i curatori della mostra, oggi sul Corriere della Sera in cui spiega che è provinciale rinchiudere il grande scrittore nelle gabbie della cultura di destra.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il tennista italiano Jannik Sinner, che per la prima volta ha battuto Novak Djokovic, numero 1 del ranking mondiale, in un incontro alle Atp Finals di Torino.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera annuncia: Sciopero, è scontro totale. Mentre La Repubblica commenta: Salvini va allo scontro. La Stampa entra nel merito: Salvini dimezza lo sciopero. Così come Il Messaggero: Sciopero ridotto a quattro ore. Il Quotidiano Nazionale riassume: Cgil e Uil scioperano, Salvini precetta. Per Il Giornale è: La stretta di Salvini. Il Domani articola: Salvini precetta, Landini non cede. Cofferati: «Lo sciopero è un sacrificio». I giornali di destra fiancheggiano il governo. Libero usa le virgolette: «Chi blocca l’Italia paga». La Verità tira ancora fuori la storia No Vax: Landini si piegò al green pass. Ora blocca l’Italia per i bonus. Il titolo davvero irridente è quello del Manifesto: Precetto la qualunque. Il Fatto denuncia, a margine del caso di Indi: Niente test neo-natale: i bimbi muoiono prima. Il Sole 24 Ore rivela il bonus per gli statali: Dirigenti Pa, fino a 15mila € a Natale. Avvenire va controcorrente e tematizza: L’Ucraina dimenticata.
FOSSE COMUNI A GAZA PER EVITARE EPIDEMIE
Ventidue dei 36 centri sanitari della Striscia di Gaza hanno smesso di funzionare. Israele mette a disposizione incubatrici portatili per evacuare i neonati della clinica sotto assedio L’operazione, però, risulta impraticabile. Nello Scavo per Avvenire.
«Parola in codice «Aswad», nero: «Eliminare tutti gli ostaggi». Il prontuario di Hamas per gli uomini sul terreno è stato divulgato ieri da Israele, nelle stesse ore in cui il presidente americano Joe Biden mostrava ottimismo – «credo che il rilascio degli ostaggi (in mano ad Hamas, ndr) avverrà » – e il premier Netanyahu al contrario frenava: «Se e quando ci sarà qualcosa di concreto da riferire, lo faremo». Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, rivendica l’uso della mano pesante. «Quando alcune settimane fa ho ordinato l’avvio della manovra terrestre – ha spiegato alla stampa – una delle ragioni era la necessità di esercitare pressione su Hamas. Se fossimo rimasti invece lungo le nostre linee originali, questa questione si sarebbe trascinata per molti anni». I familiari dei civili catturati intanto proseguono la loro marcia da Tel Aviv a Gerusalemme, dove venerdì si recheranno a protestare contro Netanyahu accusato di non fare abbastanza per salvare gli ostaggi, anteponendo le operazioni militari alla loro sorte. «L’accordo per il rilascio è vicino, il governo non lo fermi», hanno chiesto ieri. E proprio durante uno dei bombardamenti israeliani sarebbe rimasta uccisa la soldatessa 19enne di cui era circolato un video choc nei gorni scorsi. Gerusalemme non ha, però, indicato date e circostanze della morte della giovane. Il braccio armato di Hamas, le Brigate al-Qassam, aveva pubblicato un filmato nel quale la ragazza parlava dei pesanti bombardamenti israeliani, chiedendo che venissero fermati. Quindi erano state mostrate le immagini della giovane ferita in modo grave: secondo le Brigate sarebbe rimasta uccisa in un raid il 9 novembre. Il Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) sta «sostenendo con forza la causa degli ostaggi» dialogando «anche direttamente con Hamas e con attori che potrebbero avere influenza sulle parti», ha detto la portavoce dell’Icrc, Fatima Sator. Ma la Croce Rossa non può farcela da sola: «È necessario raggiungere accordi – è l’appello di Sator – che consentano all’Icrc di svolgere questo lavoro in sicurezza». Dal Cairo, dove sono in corso colloqui riservati tra le diplomazie internazionali, anche il Qatar spinge perché Israele e Hamas giungano a una intesa. «Crediamo che non ci sia altra opportunità per le due parti oltre a questa mediazione», ha avvertito il portavoce del ministero degli Esteri qatariota, Majed bin Mohammad al-Ansari, auspicando che le cose evolvano verso «una situazione in cui si possa vedere un barlume di speranza per uscire da questa crisi terribile». Il primo segnale potrebbe essere una tregua a tempo. A gettare benzina sul fuoco è ancora una volta il presidente turco Erdogan, che ha annunciato di voler denunciare Netanyahu davanti alla Corte penale internazionale. Per i 239 rapiti nelle mani degli estremisti – questo l’ultimo dato –, quanto per la popolazione intrappolata nelle zone di combattimento, ogni giorno che passa accorcia il tempo della speranza. A Gaza City vengono scavate fosse comuni per scongiurare epidemie. Lo stanno facendo il personale ospedaliero e i rifugiati nel più grande ospedale di Gaza, dove devono fronteggiare il blackout delle celle mortuarie. Le forze israeliane hanno circondato il nosocomio al-Shifa, che ad avviso dei militari si trova in cima a un reticolato di tunnel adoperati da Hamas per colpire e nascondersi sfuggendo alle squadre di cacciatori israeliani. Il gruppo islamista al potere nella Striscia nega la presenza di combattenti e afferma che 650 pazienti e 5mila persone sono ancora in pericolo sotto il fuoco incessante di cecchini e droni. Fonti da Gaza parlano di 40 pazienti morti negli ultimi giorni, compresi tre neonati prematuri le cui incubatrici sono state staccate per mancanza di alimentazione. Nell’enclave si trovano 36 centri ospedalieri e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, 22 strutture sono fuori servizio a causa degli scontri armati. Israele ha annunciato di aver messo a disposizione incubatrici portatili, alimentate a batteria, in modo che i bambini possano essere trasferiti altrove. «Non abbiamo alcuna obiezione a trasferire i bambini in qualsiasi ospedale, in Egitto o in Cisgiordania», ha detto un portavoce dello Stato ebraico. L’operazione al momento risulta impraticabile poiché non è permesso alle ambulanze di lasciare i nosocomi e la possibile tregua potrebbe non essere sufficiente a gestire il trasferimento dei degenti. Medici senza frontiere (Msf) anche ieri ha fatto sapere di aver assistito all’esplosione di colpi di arma da fuoco contro uno dei suoi centri vicino a polo sanitario al-Shifa, dove il personale e le loro famiglie, più di 100 persone, si sono rifugiati. «Hanno finito il cibo ieri sera – fa sapere una nota di Msf –. Stiamo cercando di evacuarli da tre giorni e chiediamo all’esercito israeliano e ad Hamas di fornire un passaggio sicuro». I medici della Gaza ancora controllata da Hamas affermano che più di 11mila persone sono morte negli attacchi israeliani, di cui circa il 40 per cento bambini, e innumerevoli altre sono intrappolate sotto le macerie. Circa due terzi dei 2,3 milioni di abitanti non hanno più una casa, sono impossibilitati a fuggire dal territorio dove cibo, carburante, acqua dolce e forniture mediche si stanno esaurendo. L’esercito israeliano continua a ripetere di voler «spazzare via» Hamas, non i civili, e che gli sfollati potranno tornare a casa al termine del conflitto. Il bollettino di guerra racconta però una storia fatta di migliaia di persone uccise. Perciò i pochi contatti che riusciamo a raggiungere a Gaza, dicono di non fidarsi delle promesse di Israele e neanche di quelle di Hamas. La gran parte dei residenti nella Striscia di Gaza sono registrati come rifugiati, dopo che loro i loro antenati erano stati scacciati dalle loro case nel 1948. «Da quando ho memoria ho assistito solo a guerre e la nostra condizione non è mai migliorata», spiega con alcuni messaggi audio un residente di Gaza City costretto a fuggire con la famiglia verso Sud». Si sente in trappola: «So che non rivedrò mai più la mia casa, ma qui non possiamo fare nulla, l’Egitto non ci lascia passare, indietro non possiamo tornare, ci resta solo il mare e forse un giorno ce ne andremo da qui con le barche». Per tutto il giorno i media israeliani hanno mostrato il foglio con le istruzioni che i capi di Hamas avevano affidato ai miliziani in vista del massacro del 7 ottobre. Prima di arrivare alle misure estreme, gli islamisti avrebbero progettato di guadagnare tempo e terreno innescando incendi ed esplosioni per creare una barriera allo scopo di rallentare l’avanzata di Israele nella Striscia di Gaza. Ma se le cose si fossero messe male, si sarebbe dovuti passare al “codice nero”: l’eliminazione di tutti gli ostaggi. Il tempo stringe, ma ogni volta che viene evocata la possibilità di una tregua umanitaria, i combattimenti si intensificano. E neanche il violento temporale che si è abbattuto sul Sud di Israele è riuscito a mascherare il suono delle sirene e il lancio di razzi scagliati di Hamas sulle città meridionali oltre il muro di Gaza, mentre in direzione l’artiglieria di Israele riprendeva a martellare Gaza City».
HEBRON È UNA PRIGIONE A CIELO APERTO
Reportage di Michele Giorgio per il Manifesto dalla dimenticata Cisgiordania, sotto assedio dal 7 ottobre.
«Abiti qui? No? Allora allontanati. Questa è area militare chiusa, non può passare nessuno, solo soldati, poliziotti e chi ci abita». Inutile mostrare la press card, inconcludente provare a spiegare che la stampa ha il diritto di svolgere il suo lavoro. Niente da fare. Nella zona H2 di Hebron i militari israeliani non ci lasciano entrare. Soldati e poliziotti di guardia al posto di blocco tra la casbah e la Tomba dei Patriarchi non ascoltano ragioni. Ci concedono, solo per pochi minuti, di dare un’occhiata lì davanti. La zona H2 è una città fantasma, persino più che negli ultimi 23 anni, da quando all’inizio della seconda Intifada via Shuhada, un tempo arteria commerciale di Hebron, fu blindata. Da allora centinaia di negozianti palestinesi non hanno più riaperto. Intravediamo solo qualche colono israeliano. Avremmo voluto passare a salutare Munir, uno dei pochi commercianti che ha resistito alle tempeste che travolgono periodicamente questa antica e sfortunata città e ha tenuto il negozio aperto nella zona H2. Arriva implacabile il richiamo a tornare subito indietro da dove siamo venuti. Inutile tentare l’ingresso dall’altro checkpoint, da dove si sale verso Tel Rumeida. È chiuso ermeticamente per chi non abita in quella zona, ci avvertono i militari. È quasi vuota anche la casbah che anche nei tempi più bui, con i suoi negozietti di stoffe, souvenir, prodotti locali e dolci offre un’idea di ciò che era un tempo, movimentata e piena di vita. Su di essa gravano a due-tre metri di altezza reti colme di rifiuti. A lanciarli giù in basso, spiegano gli abitanti palestinesi, sono i bambini dei coloni che vivono negli edifici che affacciano sui vicoli della città vecchia. L’unico accordo che il premier israeliano Benyamin Netanyahu abbia mai firmato con i palestinesi riguarda proprio Hebron. Lo raggiunse con il leader dell’Olp Yasser Arafat nel 1997. Quell’intesa è considerata dai palestinesi la più penalizzante, per i coloni israeliani giunti dopo l’occupazione della Cisgiordania nel 1967 è invece una vittoria. La città fu divisa in due sezioni: H1 sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e H2, dove risiedono centinaia di coloni e oltre 20mila palestinesi, è sotto il controllo israeliano. Nella H2 se non sei un israeliano la vita è davvero complicata e in via Shuhada, anche in periodi tranquilli, è raro incontrare residenti palestinesi, molti per andare al lavoro nella parte H1 ogni giorno devono attraversare posti di blocco militari e affrontare controlli meticolosi. Facciamo qualche domanda a un commerciante della città vecchia, Abu Abed. È nato nella casbah e ha sempre abitato lì, dice di averne viste di tutti i colori. «È dura per tutti a Hebron e non da oggi, però in questi giorni mi considero fortunato – ci dice seduto accanto a un banco di saponi e creme – Quelli che vivono dall’altra parte (la zona H2) sono come dei prigionieri. La loro vita era già difficile, ora è terribile». Si riferisce alle decisioni prese dalle autorità israeliane dopo il 7 ottobre, giorno dell’attacco di Hamas nel sud di Israele che ha ucciso circa 1.200 israeliani tra civili e militari e preso in ostaggio oltre 200 persone. Nonostante gli abitanti palestinesi nella H2 di Hebron non avessero alcuna responsabilità nell’attacco del movimento islamico, l’esercito li ha messi sotto coprifuoco. 750 famiglie di fatto sono rinchiuse nelle loro case. «Per giorni migliaia di persone, tra cui tanti bambini, non hanno potuto mettere il naso fuori casa mentre i coloni israeliani potevano muoversi come meglio credevano – ci racconta un attivista di Hebron, M.F. – Poi il 21 ottobre i militari hanno finalmente permesso ai residenti di uscire di casa. La domenica, il martedì e il giovedì, per un’ora al mattino e un’ora alla sera. In quelle due ore devono affrettarsi ad andare al lavoro e procurarsi il cibo e solo in quelle ore possono rientrare a casa. Per questo tanti hanno deciso di restare gran parte del tempo nella parte sotto il controllo dell’Anp. La considero una forma di sfollamento». Un altro abitante in H2, che incontriamo in H1, ci dice che «attraversare i posti di blocco può prevedere perquisizioni corporali umilianti e lunghe attese» e di conseguenza non sempre si riesce a tornare in tempo al checkpoint, così si resta fuori un giorno o una notte intera finché non riapre». Si vive nell’incertezza, aggiunge, senza sapere quando finiranno queste «restrizioni insopportabili». «Ci sentiamo prigionieri a cui viene data ogni tanto un’ora d’aria e delle volte subiamo minacce solo perché ci affacciamo dai balconi e dalle finestre. Persino ricevere a casa parenti e amici è diventato difficile». Una donna ha raccontato alla ong a difesa dei diritti umani B’Tselem che, giunta a un checkpoint tre minuti prima della chiusura, ha detto a un agente di polizia che il figlio e il marito sarebbero arrivati un po’ in ritardo: «Gli ho chiesto di lasciarli passare ma mentre parlavo con lui gli altri poliziotti hanno chiuso il posto di blocco. Un’altra volta era giovedì e sono rimasta fuori fino aa domenica perché il checkpoint è chiuso venerdì e sabato. Per fortuna sono stata ospitata da mia figlia (nella H1)». L’esercito israeliano afferma che «le forze armate operano in Giudea e Samaria (la Cisgiordania, ndr) con l’unico fine di garantire la sicurezza a tutti i residenti. Di conseguenza, posti di blocco e monitoraggio dei movimenti sono stati istituiti in diverse aree del settore, così come a Hebron». Non può ospitare nessuno anche Issa Amro, noto attivista palestinese della lotta non violenta, premiato per il suo impegno in vari paesi. Ha dovuto addirittura lasciare la sua casa nella zona controllata da Israele. «I soldati – ci dice – mi hanno accusato di aver ricevuto a casa una persona non residente a Hebron, mi hanno intimato di fare subito le valigie e andare nella H1 per tutta la durata della guerra. La persona di cui parlavano era un giornalista israeliano venuto a intervistarmi». Il 7 ottobre, Amro ha detto di essere stato arrestato senza alcuna accusa e detenuto per 10 ore, con le mani legate e la bocca imbavagliata. «Mi hanno insultato e aggredito e ho notato che alcuni coloni israeliani che conosco indossavano uniformi dell'esercito». Lasciando Hebron, sullo stradone principale, poco prima dello stadio, decine di tassisti ieri mostravano cartelli con l’immagine di Issa Al Qadi, il loro collega di 66 anni ucciso all’alba di lunedì durante un raid dell’esercito israeliano nella sede di una associazione nel quartiere di al-Haouz, nella zona H1. Colpito alla testa da un proiettile mentre transitava con la sua auto in quella strada, è morto sul colpo».
STORIA DI VIVIAN, PACIFISTA UCCISA DA HAMAS
La nota pacifista 74enne israelo-canadese, Vivian Silver, è tra le vittime del raid del 7 ottobre. Si pensava fosse prigioniera. Invece la triste verità è emersa dalle prove del Dna. Il figlio dice: da questa guerra non nascerà un futuro migliore. L’articolo è di Lucia Capuzzi per Avvenire.
«Gaza non era un’idea o un valore astratto. Era parte della sua vita. Per questo, tantissimi amici nella Striscia condividono il nostro dolore». Così Doubi Schwartz, collega dell’Alliance for Middle East-peace, ricorda Vivian Silver, il giorno in cui i cui i suoi resti sono stati identificati con il test del Dna. Oltre cinque settimane dopo, le autorità israeliane sono riuscite a riconoscere 859 civili assassinati nel massacro del 7 ottobre. Quasi 400 corpi mancano ancora all’appello. Tra gli ultimi ad avere un nome quello della pacifista 74enne che, dunque, non era prigioniera di Hamas a Gaza come a lungo l’esercito aveva sostenuto e il suo telefono sembrava indicare. La fondatrice di Women wage peace – uno dei maggiori movimenti israeliani per la pace creato nel 2014, all’indomani della quarta guerra tra Gerusalemme e Hamas – è stata uccisa dai miliziani del gruppo armato durante l’irruzione nella sua casa nel kibbutz Be’eri, dove risiedeva dal 1990, sedici anni dopo il suo trasferimento dal Canada. Prima Vivian Silver aveva vissuto a Geser, non lontano da Tel Aviv, dove era stata una delle prime donne a diventare segretaria della comunità. Era stato, però, con il trasferimento insieme al marito a Be’eri, situato a cinque chilometri da Gaza, che aveva avuto modo di conoscere meglio la collettività araba e si era resa conto della necessità di convivere con questa con uguali diritti e dignità. Da quel momento, Vivian si era dedicata con slancio alla difesa dei diritti dei palestinesi. E alla costruzione di percorsi di pace in un Paese avvelenato da decenni di guerra. Non ha mai smesso di farlo – oltre a organizzare marce e manifestazioni contro il blocco israeliano dell’enclave, come volontaria accompagnava i bimbi della Striscia a curarsi negli ospedali dello Stato ebraico –, fino a quell’alba tragica quando, sentendo gli spari, si era chiusa nel bunker. Là aveva iniziato a comunicare con il figlio Yonatan Zeigen a Tel Aviv. «Ad un certo punto mi ha detto che erano riusciti a entrare. E mi ha salutato con “arrivederci”», ha raccontato il giovane operatore sociale ad Avvenire. Il figlio ha fatto proprie le posizioni di Vivian che, quattro giorni prima della strage, aveva manifestato a Gerusalemme insieme alle 50mila attiviste di Women wage peace e alle colleghe palestinesi di Women of the sun per chiedere al governo un impegno serio per la pace. In particolare, era convinta che le donne, troppo a lungo ignorate da entrambe le parti, dovessero avere un ruolo cruciale nei negoziati. «Ci hanno fatto credere che solo la guerra avrebbe portato la pace. Ma è accaduto il contrario. Perché dovremmo continuare in questo modo?», era solita ripetere. In quest’ottica, Yonatan critica duramente l’offensiva su Gaza lanciata da Benjamin Netanyahu in risposta all’attacco di Hamas. «Da questa guerra non nascerà un futuro migliore né per la Striscia né per Israele. Al contrario. Quando esplode, un conflitto distrugge tutto, ecco perché si deve prevenire, non acuire. Oltretutto per cosa stiamo bombardando la Striscia? L’idea di Hamas e le cause che l’hanno generata non possono essere sconfitte per via militare. Stiamo stati vigliaccamente attaccati e vigliaccamente attacchiamo», ha detto Yonatan. «Porteremo avanti i valori per cui Vivian è vissuta ed è morta – hanno dichiarato i colleghi dell’Alliance for Middle East-Peace –: pace, uguaglianza, dignità e un futuro condiviso basato sulla partecipazione e la mutua sicurezza per i suoi nipoti, per tutti gli israeliani, per tutti i palestinesi».
“MIO PADRE IMAM MI HA INSEGNATO IL DIALOGO”
Maymouna Abdel Qader, mediatrice culturale a Perugia, racconta: «Sono nata e cresciuta in Italia. Spesso mi dichiaro musulmana di cultura cattolica. Qui come in Terra Santa, costruiamo ponti. E restiamo umani». Marina Rosati per Avvenire.
«Non smette di credere in una convivenza pacifica in Terra Santa. Anzi: lei che ha sperimentato sulla propria pelle atti di intolleranza ma allo stesso tempo la forza del dialogo e del bene, ne è convinta più che mai. Maymouna Abdel Qader, mediatrice culturale e portavoce per il Dialogo interreligioso del Centro islamico culturale di Perugia, figlia dell’imam del capoluogo umbro, morto quasi tre anni fa per il Covid e rimasto nella memoria per la sua visione aperta della religione e dell’interculturalità, è una sognatrice con i piedi ben ancorati a terra. Quando si racconta parla con la dolcezza di una bambina ma con la determinazione di una quarantenne, sposata con un italiano e mamma di due figli di 9 e 11 anni, che crede fermamente nella forza dell’incontro e della conoscenza reciproca.
Lei è palestinese: come vive quello che sta accadendo in Terra Santa? Avete parenti nella Striscia di Gaza?
Sono di origine giordana-palestinese. Mia madre è nata e cresciuta in Kuwait perché i miei nonni erano parte dei palestinesi della diaspora del 1948. Mio padre è nato e cresciuto a Jayyous, un villaggio dell’attuale Cisgiordania. A Gaza abbiamo amici e familiari di amici. Il marito di mia sorella è originario di Gaza, ha molti parenti lì. Solo nella sua famiglia ha perso oltre 80 persone tra zii e cugini. Metà di questi sono bambini. Un dolore che ci colpisce da vicino.
Ci racconta la sua storia di musulmana in Italia?
In Italia sono nata e cresciuta: a Perugia, città che mio padre più di 50 anni fa ha scelto per studiare Medicina e dove poi ha fondato la comunità islamica di cui è stato imam per 50 anni. Siamo cinque figli, quattro femmine e un maschio. Negli anni ’80-’90 eravamo le uniche ragazze che portavano il velo a scuola. Prima del’11 settembre 2001, però, eravamo semplicemente delle “straniere velate”, oggetto di curiosità e di conoscenza. Dopo, siamo diventate “straniere velate, forse pericolose”, oggetto di critiche e anche di momenti di ostilità e di paura. L’impegno nel sociale nasce proprio da questa forte esigenza di mostrare a tutti che la donna musulmana non è come lo stereotipo la descrive, e che l’islam non è una religione cattiva, ma soprattutto da una ricerca personale volta ad integrare l’essere musulmani e l’essere italiani. Il ruolo delle seconde generazioni è stato fondamentale per il percorso di apertura delle comunità islamiche.
Quali le difficoltà maggiori che avete dovuto affrontare?
Abbattere i muri della diffidenza eretti dopo l’11 settembre, affrontare stereotipi – un esempio: donna velata uguale donna sottomessa – ed episodi di discriminazione, sui quali potrei scrivere un libro. Ma niente che dialogo e conoscenza reciproca non potessero risolvere. I conflitti della geopolitica non devono farci ripetere gli errori del passato. E non dobbiamo confondere la laicità con il laicismo che elimina le diversità.
Suo padre, imam di Perugia, le ha fatto frequentare l’ora di religione e la scuola dalle suore...
Mio padre ha voluto che noi frequentassimo l’ora di religione, a scuola. A partire dall’asilo dove ci aveva iscritto alle scuole dell’infanzia delle suore, tutt’oggi esistenti sempre ad Elce, un quartiere di Perugia dove abitavamo. Questa scelta è stata spinta dalla volontà di farci crescere all’interno di un contesto religioso, in primo luogo; dopodiché per la grande convinzione che fosse l’unica strada per la conoscenza e la convivenza. Crescendo abbiamo partecipato anche all’ora di religione proprio perché ci diceva sempre: “per convivere bisogna conoscersi, per conoscersi bisogna avvicinarsi e per avvicinarsi bisogna sempre essere promotori del primo passo”. Non abbiamo mai messo in dubbio questa convinzione. E per me e la mia famiglia è stata una crescita naturale all’interno delle fedi diverse. Spesso mi dichiaro musulmana di cultura cattolica.
Cosa porta in sé degli insegnamenti di suo padre?
Il suo amore incondizionato verso l’altro. Non conosceva differenze né difficoltà. Trovava la soluzione nelle parole e nelle azioni gentili. Questo lo ha reso un grande uomo di dialogo con chiunque. Posso dire con grande orgoglio di aver ereditato questo pregio. Perciò ho fortemente voluto prendere in mano la strada del dialogo interreligioso per poter continuare a costruire quei ponti della pace faticosamente creati in 50 anni.
Di recente ha detto che anche nell’islam c’è una carenza nella rilettura dei testi, spesso retaggio di mille anni fa. A cosa si riferisce? Alla guerra santa per esempio?
Oggi abbiamo una grande carenza nella conoscenza della religione e nella lettura dei testi sacri. Spesso ci soffermiamo su interpretazioni legate a retaggi culturali e storici che hanno guardato principalmente alle differenze, esaltando divisioni e distanze fra società e religioni. Si pensi a come mondo musulmano e mondo cristiano raccontano in modo diverso le crociate. O a come il rancore delle invasioni o delle colonizzazioni ha influenzato l’interpretazione religiosa. La sfida è cercare risposte nella fede e nelle parole scritte nei testi sacri e cercare di contestualizzare alcuni concetti per poterli reinterpretare in chiave moderna. Se conoscessimo davvero la fede non saremmo così distanti e non riempiremmo questo spazio con gli estremismi e le radicalizzazioni. Il primo versetto del Corano rivelato al profeta Muhammad è “Leggi!”, inteso come conoscenza e ricerca dell’altro, di tutto: abbiamo fondamentalmente smesso di leggere.
Cosa ha provato il 7 ottobre quando ha sentito cosa era successo?
Appena saputo, è calato il velo del silenzio e dell’amarezza. La violenza su civili innocenti di entrambe le parti non è giustificabile per nessuna ragione.
Come considera Hamas e come valuta ciò che sta facendo Israele?
Da entrambe le parti c’è stata la disumana presunzione di poter risolvere il conflitto con la violenza. Violenza sui civili. C’è da chiarire che dimostrare solidarietà col popolo palestinese non significa sostenere Hamas o il terrorismo islamico. Altresì, affermare che Israele sta compiendo una vera e propria punizione di massa a Gaza, oltre a permettere ai fanatici coloni di usare violenza e discriminazioni sugli abitanti della Cisgiordania, non significa essere antisemiti. Lo dimostrano le manifestazioni organizzate dalle comunità ebraiche nel mondo che stanno condannando fermamente la ferocia con cui Israele si sta scatenando contro Gaza, senza distinzioni tra civili o altro. Ad oggi, contiamo oltre diecimila vittime di cui oltre quattromila bambini. Senza dimenticare che chi è sopravvissuto dovrà vedersela con traumi, depressioni, disabilità dovuta ad amputazioni... E non dimentichiamo, inoltre, le centinaia di bambini che ora sono orfani. Un numero elevatissimo di vittime innocenti. Sotto gli occhi del mondo inerme. Si sono messi in discussione il diritto internazionale e i più basilari diritti umani senza nemmeno un’azione concreta volta ad un cessate il fuoco immediato, al sostegno e al soccorso umanitario agli abitanti della Striscia di Gaza e alle trattative politiche per il rilascio degli ostaggi israeliani. Non possiamo permetterci di disumanizzarci così.
Ci potrà mai essere pace in Terra Santa? Da dove cominciare un percorso e chi può iniziarlo?
La Terra Santa è stata teatro di infinite rivendicazioni, di conquiste, di “guerre sante”, ma ha sempre dimostrato che una convivenza pacifica tra popoli e fedi è assolutamente possibile. Non c’è pace se non ci sarà giustizia. Questo lo potranno fare solo i palestinesi e gli israeliani insieme, scegliendo nel futuro politiche disposte a riprendere i trattati di pace già avviati trent’anni fa. Abbiamo tutti una grande responsabilità: dobbiamo continuare a costruire ponti tra le fedi e le culture. Dobbiamo educare i nostri figli, il futuro di questo mondo, alla misericordia e all’amore verso il prossimo. E tenere sempre alti e saldi i valori della vita. Ci attende una grande sfida: restare umani e tirar fuori la nostra parte buona e trasformarla in azioni concrete volte a costruire e non distruggere. C’è sempre speranza, e ognuno di noi può diventare un mezzo, uno strumento per la pace. Si parte dai piccoli gesti. A piccoli passi».
400 FUNZIONARI USA PER IL CESSATE IL FUOCO
A Washington, sul medio Oriente divisioni tra i dem e dentro gli staff: 400 funzionari chiedono al leader un cessate il fuoco. Viviana Mazza per il Corriere.
«Mentre Biden ieri volava a San Francisco per incontrare Xi Jinping e i leader dell’Indo-Pacifico, migliaia di persone «marciavano per Israele» a Washington denunciando l’antisemitismo e dichiarandosi contro il cessate il fuoco a Gaza. Intanto oltre 400 membri di 40 agenzie governative inclusi il Consiglio per la sicurezza nazionale, il dipartimento di Giustizia e l’Fbi hanno firmato una lettera inviata ieri al presidente, nella quale, dopo avere condannato l’attacco del 7 ottobre di Hamas, gli chiedono di premere sia per il rilascio immediato degli ostaggi che per il cessate il fuoco, cosa che finora la Casa Bianca ha rifiutato di fare dicendo che aiuterebbe Hamas. I firmatari sono in parte funzionari di carriera e in parte di nomina politica e di varie fedi religiose, ma sono soprattutto ventenni e trentenni, illustrando la divisione generazionale su questo tema. Nella lettera, visionata dal New York Times, linkano un sondaggio secondo cui il 66% degli americani vuole il cessate il fuoco. È l’ultima illustrazione delle divisioni nel partito democratico: un sondaggio Ap mostra che il 46% disapprova la posizione di Biden su Israele, il 50% approva. L’amministrazione ha ottenuto «pause umanitarie» ed espresso preoccupazione per il numero di civili palestinesi uccisi, ma questo non basta ai critici. Il segretario di Stato Antony Blinken ha ricevuto tre memo interni di protesta firmati da decine di dipendenti e una lettera da mille impiegati dell’agenzia per lo sviluppo internazionale (Usaid), anonimi per «timore di perdere il lavoro». Blinken ha replicato: «Vi ascoltiamo: ciò che condividete influenza la nostra politica». Un altro gruppo di 115 ex funzionari di Biden e Obama, tra cui l’ex capo dello staff della Casa Bianca Ron Klain e l’ex segretario del Tesoro Lawrence Summers, hanno espresso «il profondo apprezzamento» per la «chiarezza morale» e «la leadership coraggiosa» su Israele».
HABERMAS PER LA PACE, MA DIFENDE ISRAELE
Tonia Mastrobuoni dà notizia su Repubblica della presa di posizione di Juergen Habermas, considerato il più grande filosofo vivente.
«Le azioni di Israele non giustificano in alcun modo reazioni antisemite, e tanto meno in Germania ». Sull’infuocato dibattito scoppiato nel Paese che si macchiò ottant’anni fa della Shoah è intervenuto adesso il più grande filosofo vivente, Juergen Habermas. L’allievo di Adorno e Gadamer che criticò ripetutamente Angela Merkel per l’austerità inflitta alla Grecia ha firmato una lettera con i politologi Nicole Deitelhoff e Rainer Forst e il giurista Klaus Guenther. La breve dichiarazione richiama già nel titolo un principio sacro su cui per anni, secondo il filosofo della Scuola di Francoforte, rischiò di infrangersi l’Europa: “Fondamenti di solidarietà”. Scopo della lettera, apparsa sul sito del centro di ricerca francofortese Normative Orders, è esprimere solidarietà a Israele e affermare che alcuni principi «non dovrebbero essere in discussione». Il massacro di Hamas del 7 ottobre, definito «di una crudeltà insuperabile», e «volto esplicitamente a cancellare la vita ebraica in generale», ha scatenato una reazione israeliana che gli autori ritengono «giustificata, in principio». Certo, preoccupa il massacro incessante di civili a Gaza, e bisognerebbe costruire «una prospettiva di pace». Ma qualsiasi riflessione sul conflitto a Gaza non dovrebbe mai sfociare in uno «slittamento della misura del giudizio» tale da indurre a pensare che Israele intenda compiere contro i civili palestinesi un genocidio. Le due cose, ossia l’eccidio di Hamas e i massacri a Gaza, sostiene Habermas, non sono paragonabili, perché la reazione israeliana non è uno sterminio intenzionale. Com’era avvenuto nelle scorse settimane con l’intervento fondamentale del vicecancelliere verde Robert Habeck, che aveva espresso la sua vicinanza a Israele rivolgendosi soprattutto alla sinistra e ai tedeschi, anche Habermas sembra guardare soprattutto alla Germania e ai veleni che stanno tornando a inquinare la vita pubblica tedesca. Niente può giustificare reazioni antisemite, si legge nella lettera, «tanto meno in Germania. È insopportabile che gli ebrei siano di nuovo esposti a minacce fisiche e che debbano avere paura di essere aggrediti per le strade. Alla coscienza democratica e imperniata sul rispetto dei diritti umani che fonda la Repubblica federale si lega una cultura politica che alla luce dei crimini di massa del nazismo riconosce alla sopravvivenza degli ebrei e all’esistenza di Israele un valore centrale e da proteggere in modo particolare. Il sostegno a questi principi è fondamentale per la convivenza politica».
GLI USA DEVONO IMPORRE UN PIANO DI PACE
L’analisi di Thomas Friedman sul New York Times, in Italia pubblicata da Repubblica: “Non è possibile che sette milioni di israeliani vogliano governare in eterno cinque milioni di palestinesi”.
«Nei nove giorni recentemente passati da corrispondente in Israele e in Cisgiordania non sapevo che il momento rivelatore sarebbe arrivato proprio al termine della mia visita. Mentre facevo le valigie per partire sabato sera, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha tenuto una conferenza stampa in cui ha affermato che Israele e gli Stati Uniti non hanno una visione comune su come Israele dovrebbe portare a termine la guerra nella Striscia di Gaza o su come convertire una vittoria di Israele su Hamas in una pace duratura con i palestinesi. In assenza di una strategia comune l’amministrazione Biden, gli americani e in particolare gli ebrei americani che sostengono Israele, sono chiamati a prendere decisioni cruciali. L’alternativa è finire prigionieri della strategia di Netanyahu — che potrebbe trascinarci a fondo con sé — o esprimere la nostra visione americana su come debba terminare la guerra tra Israele e Hamas. Sarebbe quindi necessario un piano dell’amministrazione Biden mirato a creare due stati per due popoli indigeni che vivono nelle aree di Gaza, Cisgiordania e Israele. Sì, intendo un piano di pace in tempo di guerra che, se accettato da Israele, potrebbe contribuire a dargli il tempo, la legittimità, gli alleati e le risorse che necessita per sconfiggere Hamas — senza rimanere incastrato per sempre a governare tutta la Striscia di Gaza e tutta la Cisgiordania, senza alcun orizzonte politico per i palestinesi. E non illudetevi, questa è l’unica visione che Netanyahu propone al momento: sette milioni di ebrei che cercano di governare in eterno cinque milioni di palestinesi — un disastro garantito per Israele, l’America, gli ebrei nel mondo e gli alleati arabi moderati dell’America. Il piano del presidente Joe Biden — udite udite — potrebbe in effetti prendere spunto dalla proposta del presidente Donald Trump per una soluzione a due stati, perché Netanyahu l’ha accolta con entusiasmo nel 2020, quando governava con una coalizione diversa. Tornerò sull’argomento a breve. Parlando in ebraico alla conferenza stampa tenuta assieme al ministro della Difesa Yoav Gallant e al ministro Benny Gantz, Netanyahu ha respinto le preoccupazioni degli Stati Uniti e del mondo intero circa le migliaia di vite palestinesi già andate perdute nella guerra per sradicare Hamas da Gaza. Cosa ancora più importante, ha dichiarato che l’esercito israeliano rimarrà a Gaza “il tempo necessario” per impedire che la Striscia venga nuovamente utilizzata per lanciare attacchi contro i civili israeliani. Gaza “sarà smilitarizzata”, ha detto. “Dalla Striscia di Gaza non verranno ulteriori minacce a Israele, e per garantirlo, per tutto il tempo necessario, l’Idf controllerà la sicurezza di Gaza per prevenire il terrorismo proveniente da lì”. Si tratta di preoccupazioni legittime da parte di Israele, date le atrocità commesse da Hamas, ma Netanyahu ha anche dichiarato che Israele si opporrà al ritorno dell’Autorità Palestinese — che è stata partner di Israele nel processo di pace di Oslo e ora governa i palestinesi in Cisgiordania — a Gaza dopo la guerra. L’autorità, ha detto Netanyahu, è “un’autorità civile che educa i bambini a odiare Israele, a uccidere israeliani, a eliminare lo Stato di Israele... un’autorità il cui leader a 30 giorni di distanza non ha ancora condannato la terribile strage del 7 ottobre.” Bibi — che non dà mai atto all’Autorità Palestinese dell’opera che svolge in collaborazione con le forze di sicurezza israeliane per arginare le violenze in Cisgiordania — non ha indicato come e da dove possa emergere una autorità palestinese alternativa. Si è trattato di un netto rifiuto della posizione dell’amministrazione Biden espressa dal segretario di Stato Antony Blinken mercoledì. Come riportato dal New York Times, Blinken ha dichiarato durante un incontro dei ministri degli esteri a Tokyo che, al termine della guerra, Gaza dovrebbe essere unita alla Cisgiordania sotto l’Autorità Palestinese. Per non alienare gli alleati arabi e occidentali dell’America Blinken ha detto che è necessario enunciare elementi positivi per arrivare a una pace duratura, “Va incluso un governo a guida palestinese e Gaza unificata alla Cisgiordania sotto l’Autorità Palestinese”. In tre parole la proposta avanzata da Blinken a Israele suona così: “Aiutateci ad aiutarvi”. Biden deve mettere in chiaro che l’America non sarà l’utile idiota di Netanyahu. Biden deve mandare questo messaggio a Israele: “ti copriamo il fianco militarmente con le nostre due portaerei, finanziariamente con 14 miliardi di dollari di aiuti e diplomaticamente presso l’Onu. In cambio ti chiediamo di accettare un quadro di pace basato su due Stati per due popoli indigeni a Gaza, in Cisgiordania e in Israele pre-1967”. Questo piano si basa sulle Risoluzioni Onu 242 e 338, che sono state il cardine dei negoziati del piano di pace presentato da Trump nel 2020. “Bibi, ricordi cosa hai detto a proposito del piano Trump che dava ai palestinesi circa il 70% della Cisgiordania per uno Stato, oltre alla Striscia di Gaza ampliata e a una capitale nell’area di Gerusalemme? Per rinfrescarti la memoria ecco l’articolo dell’Associated Press del 28 gennaio 2020: ‘Netanyahu lo ha definito una ‘svolta storica’ pari per importanza alla dichiarazione di indipendenza del paese nel 1948’”. L’Autorità Palestinese ha stupidamente respinto il piano Trump in toto, anziché chiedere di utilizzarlo come punto di partenza. Questa è l’occasione per rimediare a quell’errore. Un piano del genere andrebbe a tutela degli interessi americani — e dimostrerebbe che abbiamo a cuore il bene degli israeliani e dei palestinesi e dei nostri alleati nella regione, non il futuro politico di Bibi che, a detta di vari analisti israeliani, trarrebbe beneficio dal protrarsi della guerra, perché eviterebbe che il suo governo venga rovesciato da manifestazioni di massa o, nella speranza di far dimenticare tutti i suoi errori, potrebbe trascinarci in un conflitto con l’Iran. Se Israele accettasse, anche con riserva, il piano a due stati, rafforzerebbe agli occhi del mondo la sua tesi della guerra a Gaza come necessaria autodifesa. E se l’Autorità Palestinese accettasse, anche con riserva, un piano del genere, rafforzerebbe l’idea che abbia intenzione di porsi come alternativa a Hamas nella definizione di un futuro indipendente per i palestinesi accanto a Israele, senza essere spettatrice o vittima della follia di Hamas».
IL MONDO GUARDA AL VERTICE DI SAN FRANCISCO
Stasera, ora italiana, il faccia a faccia tra il presidente Usa Joe Biden e quello cinese Xi Jinping. Al Golden Gate Xi venne per la prima volta 40 anni fa da burocrate. Oggi torna da presidente. Guido Santevecchi per il Corriere.
«Ci sono due Xi Jinping. Quello che a marzo, parlando all’Assemblea del popolo a Pechino, ha tradito il suo nervosismo per le difficoltà dell’economia incolpando «gli Stati Uniti che perseguono una strategia di accerchiamento, contenimento e soffocamento delle legittime ambizioni di crescita della Cina». E poi c’è il leader comunista che a ottobre ha ricevuto una delegazione di senatori venuti da Washington e ha assicurato che «ci sono mille ragioni per migliorare le relazioni e nemmeno una per rovinarle» (tra le prime, i circa 700 miliardi di dollari di interscambio commerciale, con surplus cinese da 380 miliardi). La missione di Xi a San Francisco ha soprattutto l’obiettivo di ripresentarsi come uno statista con il quale si possono fare affari. Un rivale geopolitico, ma un amico del popolo americano (e dei suoi investitori che vuole rassicurare, perché hanno cominciato a ritirare decine di miliardi di profitti dal mercato cinese). L’agenzia Xinhua ieri ha accarezzato l’America con un lungo articolo che si apre su una fotografia del 1985: Xi Jinping, magro e sorridente, in posa davanti al Golden Gate Bridge. Era il primo viaggio all’estero del giovane funzionario comunista, alla guida di una piccola delegazione arrivata dalla sperduta contea di Zhengding nella provincia dello Hebei per studiare l’industria agricola americana. San Francisco era solo il porto d’ingresso, la meta era l’Iowa, dove una famiglia lo ospitò per due settimane nella sua casa di Muscatine, facendolo dormire nella stanza del figlio che era partito per il college. Al trentunenne futuro segretario generale comunista furono mostrate le tecniche più avanzate per allevare gli animali e restò impressionato: «Aveva un sorriso che non si spegneva mai, era curioso di tutto e faceva sempre domande», ha ricordato uno dei testimoni americani rintracciati dalla Xinhua. Xi è stato ancora negli Stati Uniti da vicepresidente e poi da presidente, per incontrare Obama e Trump, questa è la prima volta che viene accolto da Joe Biden. Nel portfolio dell’articolo dell’agenzia cinese, che esalta «la continua amicizia e interazione coltivate dal leader con il popolo americano», ci sono immagini di Xi che nel 2012 tornò nell’Iowa a visitare la famiglia di cui era stato ospite nel 1985 e si mise alla guida di un trattore, spiegando alla brava gente del posto che «voi per me siete l’America»; poi di Xi che riceve una maglietta dei Los Angeles Lakers, che assiste a una partita di baseball «alla quale si interessò in modo notevole»; e ancora di Xi felice mentre studenti del college di Tacoma gli donano una maglia da football americano. La partita di questo vertice è stata preparata con estrema cura da Pechino: nelle scorse settimane Xi ha ricevuto una quantità di ospiti americani e parlando con il governatore della California Gavin Newsom ha aggiunto ai mille motivi per cooperare quello della lotta contro il cambiamento climatico, che potrebbe essere uno dei pochi punti di intesa tattica con Biden. Ha anche arruolato, facendoli invitare per una cerimonia commovente a Pechino, due aviatori ultranovantenni, veterani delle «Flying Tigers», lo squadrone aereo inviato in Cina dagli Stati Uniti nel 1941 per aiutare nella lotta contro gli invasori giapponesi. Ha scritto una lettera agli industriali Usa esaltando la «coesistenza pacifica» per il bene del mondo. Però, ai suoi generali continua a ordinare di tenersi pronti a combattere. E sul tavolo del faccia a faccia con Biden riporterà la questione di Taiwan, che per la sua Cina rappresenta «una linea rossa»: la provincia da riconquistare, forse a ogni costo».
UN VERTICE DI PACE IN UN MONDO IN GUERRA
Editoriale illuminante dello storico Agostino Giovagnoli su Avvenire di oggi.
«L’incontro tra Joe Biden e Xi Jinping è un segno di pace mentre il mondo brucia nelle fiamme della guerra. È un’importante conferma della speranza suscitata dal loro primo incontro in presenza esattamente un anno fa, a Bali, che fece balenare l’uscita dall’incubo di una nuova guerra fredda. Il mondo non ha certo bisogno di una contrapposizione tra le due più grandi potenze che potrebbe portare a esiti devastanti: incontrandosi di nuovo, Biden e Xi mostrano che è possibile un bipolarismo responsabile tra Usa e Cina pur dentro un multipolarismo ormai irreversibile. Alle spalle di questi incontri c’è stato un lungo percorso per cui sembrava che i rapporti sinoamericani potessero solo peggiorare. A partire dalla crisi economica del 2007 questi rapporti hanno cominciato a incrinarsi. Con la presidenza Trump il conflitto si è aggravato sempre di più finché da entrambe le parti si è cominciato a parlare di nuova guerra fredda. Le opinioni pubbliche americane e cinesi sono diventate sempre più, rispettivamente, anticinesi e antiamericane. Il primo incontro tra Blinken e Sullivan e i loro omologhi cinesi si è risolto in un violento litigio pubblico. Nel 2022 alla visita di Nancy Pelosi a Taipei, Pechino ha reagito con una prova di forza militare di una gravità senza precedenti. Dopo l’incontro di Bali, l’incidente del pallone spia cinese nei cieli americani sembrava dover portare nuovamente allo scontro. Ma è sempre possibile resistere alle spinte del momento e alle pressioni delle opinioni pubbliche. Anzi, sulle grandi questioni è ciò che devono fare i veri statisti. S ia l’incontro di Bali sia quello di San Francisco sono stati lungamente preparati, con pazienza e tenacia, dalle diplomazie americana e cinese. L’attività diplomatica è generalmente disprezzata in un tempo in cui tutto deve essere pubblico, urlato, conflittuale. Ma questi incontri sono la dimostrazione che in un mondo sempre più in guerra c’è un grande bisogno di una diplomazia vera, robusta, lungimirante. Non quella degli accordi per salvare gli interessi di pochi, degli inganni tra potenti alle spalle dei popoli, del cinismo del tanto peggio-tanto meglio. Ma una diplomazia basata su volontà di incontro, sforzo di comprensione, capacità di sopportazione. Soprattutto, fondata sulla convinzione che “la pace è il destino” del mondo, come ha detto alla Cei il cardinale Matteo Maria Zuppi: solo questa idea può ispirare visioni che diano alla diplomazia lo slancio necessario. Gli incontri tra Biden e Xi non si richiamano (ancora?) a una visione compiuta, ma si intravede una prospettiva. Se i contrasti tra Usa e Cina vengono da lontano, occorre un’alternativa che parta anch’essa da lontano. La tela della pace ha cominciato ad essere lacerata subito dopo la caduta del Muro di Berlino, con un susseguirsi di occasioni perse: la mancata stabilizzazione di rapporti amichevoli tra Russia ed Europa, la non realizzazione degli Accordi di Oslo tra Arafat e Rabin, l’indifferenza verso il genocidio in Ruanda... Nel clima degli anni Novanta, Samuel Huntington profetizzò lo scontro di civiltà non solo tra Occidente e Islam ma anche tra Occidente e Cina. È da allora che la comunità internazionale si è messa sulla strada della guerra ed è riprendendo quelle occasioni perse e rifiutando lo scontro di civiltà che bisogna ripartire. Biden che incontra Xi Jinping è lo stesso che ha raccomandato a Netanyahu – fermo restando il diritto di autodifesa di Israele – di non ripetere gli errori degli Stati Uniti dopo l’attentato alle Torri Gemelle. È la strada indicata da tempo dai Papi e dalla Santa Sede. Giovanni Paolo II si è opposto fermamente alla guerra in Iraq e ha ripreso con forza il dialogo con Pechino. Pur tra problemi e difficoltà, i suoi successori hanno continuato su questa strada. Papa Francesco ha resistito a chi lo voleva allineato ad un Occidente contrapposto a tutto il mondo ed è la sua voce ad insistere opportune et inopportune per la pace in Ucraina. La costruzione di una grande alternativa alla “terza guerra mondiale a pezzi” è un dovere anzitutto verso i bambini innocenti per cui bisogna piangere indipendentemente dalla nazionalità, come ha detto Liliana Segre».
L’ECONOMIA IN CRISI SPINGE AL DIALOGO
Non solo ragioni politiche e diplomatiche, l’atteso vertice è motivato dalla crisi economica mondiale. L’analisi di Fabrizio Onida per Il Sole 24 Ore.
«Sullo sfondo della guerra Russia-Ucraina e della tragedia israelo-palestinese, quale ruolo la Cina intenderà svolgere nel contesto geopolitico mondiale? Qualche elemento potrà forse indirettamente emergere dall’ incontro ravvicinato di Xi Jinping con Joe Biden a San Francisco in occasione del CEO Summit leaders dell’Apec (Asia Pacific Economic Cooperation: iniziativa nata nel 1989 con sede a Singapore di 21 paesi membri, inclusi Usa, Cina, Russia, Giappone, Sud Corea e Taiwan). Sono passati sei anni dal primo incontro dello stesso Xi Jinping con Trump nella lussuosa cornice della residenza privata del presidente Usa a Mar-a-Lago. Più di recente, nel novembre 2022 i due leader si sono incrociati a Bali nell’ambito del Summit Apec. Questa terza volta il contesto è profondamente cambiato, non solo per le guerre in corso ma anche per i segnali di debolezza dell’economia cinese che si sono moltiplicati dopo la crisi del Covid-19. Per la prima volta da decenni, la congiuntura economica prevista dai vari osservatori ed esperti vede un forte rallentamento della crescita, secondo alcuni fino a rasentare una temporanea stagnazione dell’economia cinese, interrompendo il ruolo di traino che da tempo la Cina ha esercitato nell’economia mondiale. Fondo monetario internazionale e Banca mondiale per ora prevedono una crescita nell’intorno del 3-5 per cento nel prossimo quinquennio, molto inferiore all’8-10 per cento di non lontana memoria. Come tutte le analisi congiunturali, le previsioni sono soggette a oscillazioni e cambiamenti di rotta, ma soffermiamoci sulle ragioni sottostanti questi mutamenti di scenario da cui trapela una qualche fragilità nello sviluppo del gigante cinese. Un segnale forse significativo: un recente sondaggio del US-China Business Council riporta che più di un terzo dei membri hanno smesso o prevedono di smettere tra poco di investire negli Usa. Innanzi tutto, sotto il profilo macroeconomico di politica interna, abbandonata la linea pragmatica di Deng Xiaoping degli anni ’80-’90 (“arricchirsi è glorioso, socialismo con caratteristiche cinesi”) la Cina presenta una vistosa anomalia, cioè un peso del risparmio e degli investimenti sul Pil intorno al 40 per cento (contro livelli intorno al 20-25 per cento in media nei paesi maggiormente sviluppati) a scapito della quota dei consumi privati e pubblici, da cui dipende in buona misura il livello e la diffusione di benessere nella popolazione: quasi un modello da “economia di guerra in tempo di pace”. Una crescita fortemente squilibrata degli investimenti, soprattutto in infrastrutture e costruzioni. E ancor più in una edilizia residenziale che fatica a trovare un’altrettanto vivace domanda di alloggi e infrastrutture turistiche, genera sprechi di risorse, danni all’ambiente e conti bancari in sofferenza (una bolla del debito immobiliare che non è prossima a sgonfiarsi), anzi che innescare il classico processo moltiplicativo virtuoso domanda-offerta. Processo virtuoso che si autoalimenterebbe e verrebbe incontro ai bisogni crescenti di una popolazione rurale che continua a riversarsi dalle campagne sottosviluppate verso l’esplodere di un urbanesimo accelerato. Invece l’elevatissima propensione al risparmio delle famiglie è l’altra faccia dell’insicurezza sul futuro, dato il ruolo troppo modesto dello Stato del benessere, che dovrebbe invece garantire l’accesso a servizi sanitari pubblici e a pensioni adeguate. La popolazione cinese è in calo (deficit demografico), superata ormai dall’India, e invecchia rapidamente come effetto ritardato e vischioso della politica del figlio unico e dei femminicidi che ha segnato l’era di Mao Tse Tung e della fallita rivoluzione culturale con il disastroso “grande balzo in avanti”. I consumi sono penalizzati da una preoccupante disoccupazione giovanile (oltre il 20%), che ostacola il dinamismo del ricambio generazionale e accresce le disuguaglianze tra fasce alte e basse di reddito urbano. A queste ombre sempre più evidenti sul terreno della politica interna si accompagnano segnali preoccupanti per Pechino in politica estera, un campo in cui Xi Jinping ha giocato e sta ancora giocando carte importanti soprattutto con l’iniziativa della BRI (la cosiddetta “nuova via della seta”) mirata ad aprire e consolidare traffici ferroviari e marittimi di beni e investimenti tra Cina e Occidente, aggirando la grande Russia, favorendo il coinvolgimento dell’Asia centrale, dell’area mediterranea e di paesi africani del “Sud globale”. Il progetto toccherebbe quasi 70 paesi e si articola in progetti infrastrutturali finanziati in parte a fondo perduto ma in misura maggiore indebitando i paesi beneficiari a medio-lunga scadenza. Proprio sull’accumulo di debito pubblico di molti paesi emergenti e sull’affacciarsi delle prime insolvenze stanno crescendo le preoccupazioni dei mercati finanziari internazionali, che risentono ancora la scottatura della crisi finanziaria del 2008-09 a seguito della quale i governi dei paesi ricchi dovettero intervenire iniettando risorse nei bilanci bancari per ammontari ingenti superiori al 3% del Pil globale. A San Francisco Xi Jinping cerca, da un lato, di recuperare la fiducia dei mercati finanziari nell’economia statunitense e, dall’altro, di rilanciare il ruolo di una “pax americana” per allontanare i rischi crescenti di conflitti armati forieri di una terza guerra mondiale. L’Europa, pur priva di una voce unica autorevole ma dotata di personale politico intelligente e aperto a soluzioni cooperative, può incoraggiare la ricerca di future coalizioni tra la Cina e l’Occidente nell’affrontare grandi sfide superando le tentazioni nazionalistiche e le ideologie dello scontro fra civiltà: sfide che si chiamano lotta al cambiamento climatico, lotta al terrorismo, prevenzione e cura delle pandemie, negoziati per la non-proliferazione nucleare, cooperazione internazionale per la stabilità macroeconomica, finanziamento della ricerca scientifica, promozione della mobilità internazionale degli studenti e dei ricercatori. Prima di morire lo scorso ottobre, il 68enne ex premier Li Kequiang, emarginato da Xi Jinping dopo i contraccolpi del Covid-19, aveva auspicato una «mondializzazione con caratteristiche cinesi».
SCIOPERO, SALVINI PRECETTA
Veniamo alle vicende italiane. Matteo Salvini precetta i trasporti, nel giorno che doveva essere di sciopero. È lite aperta con Maurizio Landini. Il ministro impone di ridurre l’agitazione di venerdì a sole 4 ore. Il leader della Cgil chiede che intervenga Giorgia Meloni. Enrico Marro per il Corriere.
«Precettazione. Come aveva annunciato, il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, ha disposto ieri sera la limitazione dello sciopero di venerdì 17 proclamato da Cgil e Uil contro la manovra. Nel settore dei trasporti il fermo non potrà superare quattro ore, invece dell’intera giornata come deciso dai sindacati. A nulla è servito l’incontro tra Salvini e Cgil e Uil. Le due confederazioni sono state irremovibili: quello di venerdì è uno sciopero generale e quindi anche i lavoratori dei trasporti possono fermarsi per l’intera giornata. Per questo i due sindacati avevano già respinto l’invito della Commissione di garanzia sugli scioperi a ridurre lo sciopero nei trasporti a quattro ore. Invito motivato col fatto che quello di venerdì non sarebbe uno sciopero generale, ma plurisettoriale, poiché molte categorie sono escluse dall’agitazione (che i sindacati hanno articolato in cinque date, dal 17 novembre al 1° dicembre). Per la Commissione, non essendoci uno sciopero generale, valgono le regole che nei trasporti impongono di limitare la prima agitazione di settore a quattro ore. Salvini ha sposato questa posizione e ha deciso di precettare i lavoratori del comparto, che potranno incrociare le braccia solo per quattro ore, dalle 9 alle 13 di venerdì. «Lo sciopero è sacrosanto — dice il ministro — ma il diritto alla mobilità di milioni di persone non può essere messo in discussione da Landini». La precettazione è un «atto politico gravissimo», ribatte il segretario della Cgil, che sottolinea il «silenzio assordante di Meloni, che dovrebbe intervenire» e parla di «Commissione compiacente» verso il governo. Prima dell’incontro, uno scambio di lettere tra il ministero dei Trasporti e le due confederazioni ha fotografato il muro contro muro. La prima è firmata dal capo di Gabinetto di Salvini, Alfredo Storto. Si richiama la pronuncia del 9 novembre della Commissione di garanzia che invita i sindacati a ritirare lo sciopero del settore aereo (per il principio della rarefazione oggettiva tra uno sciopero e l’altro) e a limitare la durata del fermo negli altri settori, dalle ferrovie al trasporto locale. Poco dopo è arrivata la risposta, firmata dai segretari generali Maurizio Landini (Cgil) e Pierpaolo Bombardieri (Uil): «Non sono venute meno le ragioni dello sciopero che continuiamo a considerare sciopero generale». I due leader sottolineano di aver escluso dalla protesta il trasporto aereo «con senso di responsabilità» e che i servizi minimi saranno garantiti. Con queste premesse era inevitabile il fallimento dell’incontro con Salvini — al quale non sono andati Landini e Bombardieri ma due segretari confederali — e la precettazione. Un finale già scritto da quando la questione da scontro tecnico sulla definizione di sciopero generale si è trasformata in scontro politico tra il leader della Lega e quello della Cgil».
ENERGIA, FRANCIA E GERMANIA HANNO DECISO. NOI NO
Energia e mercato: Parigi e Berlino hanno già varato politiche di aiuto ai cittadini e alle imprese. In Italia si esita. L’editoriale è di Osvaldo De Paolini per Il Giornale.
«La guerra in Ucraina ha portato i Paesi europei a disporre sussidi e forme di sostegno a imprese e cittadini per fare fronte al caro energia per effetto di una deroga temporanea sugli aiuti di Stato concessa dalla Commissione Ue. Salvo proroghe, la deroga dovrebbe cessare il 31 dicembre, ma poiché l’emergenza in Europa non è finita, diversi Stati membri, a cominciare da Francia e Germania, stanno chiedendo singolarmente la sua estensione. La Germania, in particolare, ha già stabilito un pacchetto di aiuti da 28 miliardi in 5 anni a favore delle proprie imprese, grazie a una riduzione dell’imposta sull’elettricità per l’industria manifatturiera e prezzi fissi pari a 60 euro il megawattora, meno della metà di quanto costa in Italia, per le aziende energivore particolarmente colpite dal caro energia. La misura fa seguito a un sussidio fiscale di 7 miliardi già approvato ad agosto. A sua volta la Francia sta cercando di creare una deroga che le consentirebbe di vendere ai cittadini francesi l’energia elettrica generata nelle centrali nucleari a prezzi molto al di sotto di quelli di mercato. Insomma, Parigi e Berlino si stanno dando un gran daffare per risolvere il problema a vantaggio dei loro cittadini. Curiosamente in Italia non si accelera nemmeno su soluzioni che sono già sul tavolo e che potrebbero modificare radicalmente il peso dei costi dell’energia per i prossimi anni. Nella bozza del Decreto Energia, che probabilmente domani approderà sul tavolo del Consiglio dei ministri, sono già contenute misure utili a tutelare imprese e consumatori e favorire investimenti, ma da settimane la discussione viene rinviata senza un perché comprensibile e, soprattutto, nel pieno di voci su possibili variazioni al testo che potrebbero vanificare gli effetti più rilevanti. Per avere un’idea della sua importanza, basti osservare che la semplice proroga del mercato tutelato eviterebbe a quasi 10 milioni di soggetti fra famiglie e imprese di finire nella rete del mercato libero, dove l’energia costa di più, senza piena consapevolezza dei rischi. Secondo Arera, l’autorità di regolazione dell’energia, a giugno scorso le offerte di elettricità sul mercato libero erano circa 2.000, ma tra queste solo 200 risultavano più convenienti rispetto alle tariffe tutelate. Discorso analogo per il gas, settore in cui tra oltre 2.000 offerte solo due risultavano più vantaggiose della tariffa regolata. In concreto, ad agosto la spesa massima sul mercato libero a prezzo variabile raggiungeva 1.853 euro su base annua, per quella a prezzo fisso addirittura 3.554 euro, contro un prezzo della maggior tutela di 892 euro. C’è di che riflettere. Discorso analogo per il rinnovo delle concessioni idroelettriche. La bozza del Decreto introduce una nuova modalità che le Regioni possono utilizzare per l’assegnazione delle concessioni: la riassegnazione (quindi non una proroga) al concessionario uscente sulla base di linee guida adottate dalle Regioni nel rispetto di un atto di indirizzo approvato dalla Conferenza Stato -Regioni e previa autorizzazione di Arera. Si tratta di proposte che potrebbero attivare investimenti per oltre 15 miliardi, che aiuterebbero a incrementare la produzione di energia da fonte rinnovabile - e dunque a centrare gli obiettivi Ue legati alla transizione energetica - e ad alleggerire ulteriormente la dipendenza energetica da fornitori esteri. La possibilità di riassegnare le concessioni agli uscenti, a fronte di robusti piani di investimento, costituirebbe un’alternativa che, oltre a essere particolarmente valida in termini di decarbonizzazione e autonomia energetica, metterebbe l’Italia al riparo dalla concorrenza dei gruppi stranieri, evitando di indebolire i player nazionali e la loro competitività nel settore. Come si vede, si tratta di misure urgenti e strategiche. Non agire con determinazione nel timore di reazioni in sede europea - dove peraltro non si è esitato ad autorizzare analoghi provvedimenti per Francia e Germania- significherebbe provocare gravi disparità a danno dei nostri operatori del settore che, oltre a non poter partecipare a gare negli altri Stati membri (dove sono in vigore divieti impossibili da superare), subirebbero in Italia la concorrenza di player esteri».
VERTICE SU MES E BALNEARI
Rapporti con l’Europa: Giorgia Meloni convoca un vertice a sorpresa su Mes e balneari e sottolinea il «clima di sintonia e collaborazione». La ratifica del fondo legata alle nuove regole finanziarie Ue. Il nodo delle concessioni. Il punto è di Antonio Troise per il Quotidiano Nazionale
«Un vertice a sorpresa su Mes e concessioni balneari, due nervi scoperti nei rapporti tra Italia e Europa, che incrociano la difficile trattativa sul patto di stabilità e sulla revisione del Pnrr. Un’ora di discussione a Palazzo Chigi fra la premier, Giorgia Meloni, i suoi due vice, Matteo Salvini e Antonio Tajani, il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, e quello degli Affari Ue, Raffaele Fitto, non ha sciolto i nodi. E, sul Mes, in particolare, tutto è rimasto in stand by. La decisione è stata infatti ancora rinviata. Ufficialmente nessuno parla apertamente di uno scambio. Ma l’Italia ormai è l’unico Paese a non aver ancora firmato la riforma del cosiddetto fondo salva-Stati, un argomento che è stato anche affrontato nell’ultimo vertice Ecofin dedicato proprio alla riforma del Patto di Stabilità. Stesso discorso anche per la questione balneari, con Bruxelles che insiste da anni sulla messa a gara delle concessioni evitando, così, una nuova proroga. Da Palazzo Chigi parlano di un «clima di piena sintonia e collaborazione», mentre subito dopo la riunione Salvini posta parole rassicuranti per la maggioranza sulla questione spinosa delle concessioni per i balneari: «Avanti compatti a difesa del lavoro, delle spiagge e del mare italiano». In realtà la trattativa con Bruxelles è tutt’altro che chiusa. Giorgetti ha fatto il punto sulla riforma del patto di Stabilità e soprattutto sulla posizione italiana, ostile all’ipotesi di compromesso franco-tedesca che prevede regole pesanti sul contenimento del deficit. Una battaglia che, per l’Italia, passa anche dal Mes, la cui ratifica per il governo rimane legata a doppio filo al restyling del Patto di Stabilità e al completamento dell’unione bancaria. Per la premier resta necessario un «ripensamento» del Meccanismo europeo di stabilità, trasformandolo in una potenziale leva per la crescita. Oltre al fatto che, per Meloni, non si può approvare uno strumento se non si conosce la cornice e, allo stato attuale, il Mes richiama a vecchi equilibri del Patto di stabilità in discussione. Tra una manciata di giorni, però, il Parlamento sarà chiamato a dire la sua, mentre dall’Ue continua il pressing per il disco verde di Roma. Ma la decisione, almeno per ora, non c’è. Le posizioni all’interno della maggioranza restano diverse mentre il capogruppo in commissione Esteri del Pd, Enzo Amendola, ha lanciato un’ipotesi di mediazione, con l’introduzione della cosiddetta «clausola alla tedesca», per la quale la «eventuale futura attivazione può essere fatta solo con una maggioranza parlamentare qualificata». Più chiara, invece, la posizione sul fronte dei balneari. La direttiva Bolkestein, approvata nel 2006, impone agli Stati membri di liberalizzare le concessioni demaniali, come appunto quelle balneari: in Italia invece vengono prorogate da decenni in modo quasi automatico sempre agli stessi proprietari, peraltro con canoni d’affitto molto bassi. Per evitare la procedura di infrazione il governo ha fatto partire una mappatura delle spiagge per dimostrare che non si tratta di «risorsa scarsa» e che ci sarebbero molti chilometri di costa che potrebbero essere dati in concessione».
RACCOLTA DI FIRME PER DIFENDERE I MIGRANTI
Dal basso in favore dei migranti. Al via l’«iniziativa dei cittadini europei» per chiedere alla Commissione Ue atti legislativi che sanzionino le brutalità delle polizie di confine e il divieto di esternalizzazione di frontiere e centri di raccolta. Necessario un milione di firme. La Commissione ha registrato la domanda: ora sei mesi per la campagna informativa e 12 per raccogliere le sottoscrizioni nei Paesi europei. Luca Liverani per Avvenire.
«Un’azione politica “dal basso” per chiedere alla Commissione Ue un intervento legislativo che ponga fine a violenze e trattamenti disumani ai danni dei migranti alle frontiere d’Europa. A intraprendere la strada dell’Ice (Iniziativa dei cittadini europei, strumento di democrazia partecipativa introdotta dal Trattato di Lisbona del 2009) è il cartello “Stop border violence” sostenuto da oltre 120 realtà, tra cui anche Migrantes, Pax Christi, Scalabriniani, Comboniani, Beati i costruttori di pace. L’iniziativa - presentata alla sala stampa della Camera dal deputato del gruppo misto Soumahoro Aboubakar, parte dalle dichiarazioni del 2000 a Nizza nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali della Ue: «L’Unione Europea si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà ». L’obiettivo è dare efficacia normativa all’articolo 4: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti degradanti ». La realtà, per chi fugge da violenze e povertà spesso è molto diversa: «Da anni assistiamo alla sistematica violazione di questi principi», dicono i promotori, citando «la militarizzazione ed esternalizzazione delle frontiere interne ed esterne, i respingimenti brutali, le violenze negli Stati membri e nei paesi terzi con cui l’Europa ha stretto accordi per impedire l’ingresso nel proprio territorio dei richiedenti asilo». Lo strumento dell’Ice permette ai cittadini dell’Ue di mobilitarsi su questioni di interesse comune, favorendo il dibattito fino ad avviare riforme per modifiche legislative. Per mettere in moto una Ice servono un milioni di firme di cittadini provenienti da un quarto degli Stati membri dell’Ue. La richiesta così sostenuta può chiedere alla Commissione di presentare una proposta legislativa nell’ambito richiesto. A far partire l’iter bastano sette cittadini di altrettanti paesi membri diversi che chiedano alla Commissione di registrare l’iniziativa. Se risponde ai criteri, la Commissione la approva. «L’idea di una Ice - spiega Rita Giacomini, vicepresidente dell’associazione “Sottosopra” è partita nel 2020 da otto cittadini. E dalla Commissione è stata registrata. Ora abbiamo 6 mesi per avviare una campagna, 12 per raccogliere un milione di firme, online o su carta, entro il 10 luglio 2024». Le adesioni - in attesa dell’avvio della raccolta firme su una piattaforma on line della Commissione - possono essere fatte sul sito www.stopborderviolence. org. Una Ice sugli stessi temi è stata lanciata anche in Francia. Raccolte le firme necessarie, e validate dagli Stati, i promotori avranno un incontro con i rappresentanti della Commissione, poi un’audizione pubblica del Parlamento Europeo, e entro sei mesi l’esposizione da parte della Commissione dell’eventuale azione che intende intraprendere a seguito dell’Ice: un’iniziativa legislativa o di altra natura. Spiega Francesca Romano, ex magistrato e membro dell’associazione “Le veglie contro le morti in mare”: «Con questa Ice vogliamo chiedere al legislatore europeo un’adeguata tutela dei migranti attraverso, ad esempio, norme e sanzioni in caso di mancato rispetto». Per impedire azioni brutali delle polizie di confine, come nei Balcani. Ma anche divieti per le esternalizzazioni delle frontiere, come per il progetto del governo italiano di centri in Albania per chi attraversa il Mediterraneo. «Oggi i molti governi, quello italiano compreso, vogliono far passare un paradigma non giuridico spiega l’ex magistrato - per cui l’immigrazione è illegale, e diventa regolare se e quando lo decidono gli Stati. Non è così: esistono normative europee, oltre alla Costituzione, che ribaltano questa lettura. L’Ice vuole rimettere al centro del dibattito i diritti che si stanno progressivamente erodendo. Come diceva Gino Strada, “ I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi”».
FRANCIA, SINISTRA DIVISA ALLE EUROPEE
Le altre notizie dall’estero. Alle prossime elezioni europee non ci sarà l’alleanza della sinistra francese. I partiti si sono divisi. Su Gaza e non solo. Anna Maria Merlo per il Manifesto.
«Alla prossima scadenza elettorale - le elezioni europee tra 7 mesi - l’alleanza della sinistra francese, la Nupes, non esisterà più. I partiti che la compongono - Ps, Pcf, Ecologisti e France Insoumise - correranno ognuno per conto proprio, per spartirsi un elettorato che al massimo rappresenta un terzo dei votanti, nella tripartizione in cui è ormai diviso il panorama politico francese (destra estrema, centro europeista, sinistra). Se restavano ancora dei dubbi su qualche possibilità di intesa, almeno parziale, prima dell’inizio della guerra tra Israele e Hamas, la Nupes è esplosa in seguito al rifiuto della France Insoumise di definire Hamas un gruppo terrorista e di condannare l’attacco del 7 ottobre in Israele. I socialisti hanno chiesto una “moratoria” sui lavori dell’intergruppo parlamentare all’Assemblée nationale, cioè una sospensione del coordinamento. Il Partito comunista si era già allontanato e gli Ecologisti avevano già approvato una lista autonoma alle europee. E persino all’interno della France Insoumise è cresciuta una fronda, che ormai esprime il suo dissenso ad alta voce. La Nupes è nata come alleanza elettorale per le legislative della primavera del 2022, dopo le presidenziali dove il candidato Jean-Luc Mélenchon aveva raccolto il 22%, sbarazzando i concorrenti (al primo turno la socialista Anne Hidalgo aveva ottenuto l’1,7%, il comunista Fabien Roussel il 2,2%, l’ecologista Yannick Jadot il 4,6%). Alle legislative la Nupes ha ottenuto 151 seggi, dominata dai 75 andati alla France Insoumise. Lo squilibrio delle forze interne è stato fin dall’inizio un elemento perturbatore. Ma soprattutto, malgrado il programma comune di 650 proposte, l’alleanza ha avuto fin da subito la difficoltà di passare da intesa elettorale a movimento comune. In un anno, le differenze si sono esasperate: laicità, polizia, politica estera, strategia politica. La Nupes è stata presa nel turbinio del dibattito politico, su terreni scelti da altri o causati dall’attualità - immigrazione, sicurezza, rivolte delle banlieues, identità, politica estera - senza mai arrivare a imporre un’agenda sui temi prioritari della sinistra, a cominciare dalle questioni di giustizia sociale ed economica. La lunga sequenza sulle pensioni è stata certo una parentesi unitaria, ma rappresenta un’eccezione. L’esplosione sul Medioriente ha messo in evidenza posizioni irriconciliabili. Alla Marcia contro l’antisemitismo, domenica a Parigi, c’erano Ps, Pcf e Ecologisti ma non la France Insoumise, mentre la fronda (François Ruffin, Clementine Autain, Raquel Garrido, Alexis Corbière) ha manifestato a Strasburgo, nel corteo organizzato dalla Licra (Lega contro il razzismo e l’antisemitismo). Ruffin dopo il 7 ottobre ha affermato: «Non siamo stati all’altezza». La Nupes è finita? «È morta» ha affermato l’ecologista Yannick Jadot. Per Fabien Roussel del Pcf «è ora di voltare pagina», Sophia Chikirou, parlamentare France Insoumise molto vicina a Mélenchon, l’aveva paragonato al collaborazionista Doriot. Olivier Faure del Ps giudica che «Mélenchon è ormai un ostacolo a sinistra». Per l’ecologista Marine Tondellier «il problema della Nupes è il suo pseudo-leader che passa il tempo a provocare tutti con tweet intempestivi». Mélenchon ha parlato di «punto di non ritorno». I malumori sono venuti alla luce anche prima dell’attacco di Hamas, in particolare sulla rivolta delle banlieues, sulla polizia, anche sul caso Adrien Quatennens (condannato per violenze coniugali e difeso da Mélenchon) e più in generale sulla scelta di esacerbare la conflittualità in parlamento e sull’assenza di democrazia interna. Anche se, per il momento, nel gruppo parlamentare l’unione non è rotta e c’è la proposta di un’assemblea generale dei deputati per cercare di rimettere assieme i pezzi. La base vuole l’unità. Ci sono alternative? Nel Ps c’è chi spera di tornare al passato. L’ex presidente François Hollande sostiene che la social-democrazia abbia «perso l’anima» con l’intesa della Nupes, definita un «fallimento morale». Ma Hollande ammette: «Lo spirito di rivincita non basta» per ridare alla social-democrazia il «posto centrale» che aveva a sinistra. Anche l’ala che viene dai socialisti in Renaissance (il partito di Macron) è sempre più a disagio e senza voce. Le placche tettoniche della scena politica francese sono in movimento, il superamento della divisione destra/sinistra proposto da Macron è in stallo».
PUTIN GRAZIA UN KILLER DELLA POLITKOVSKAJA
Era stato condannato per l’omicidio di 17 anni fa della giornalista Anna Politkovskaja. Ora Vladimir Putin grazia, per aver combattuto in Ucraina, Sergeij Khadzhikurbanov, che nel 2014 era stato condannato a 20 anni di prigione. Rachele Callegari per Avvenire.
«Arruolato dal carcere per la guerra, dopo 6 mesi il leader del Cremlino gli ha concesso di scontare la pena combattendo Diciassette anni fa ha preso parte all’omicidio della giornalista russa Anna Politkovskaja. Oggi ha ricevuto la grazia da parte del presidente Vladimir Putin dopo aver combattuto per sei mesi in Ucraina. Si chiama Sergeij Khadzhikurbanov e nel 2014 era stato condannato a 20 anni di prigione per aver organizzato l’omicidio della giornalista della Novaja Gazeta (pubblicazione oggi censurata in Russia), conosciuta soprattutto per aver documentato gli abusi perpetrati dai soldati russi durante la seconda guerra in Cecenia (1999-2009), nonostante le numerose minacce di morte ricevute e le continue fughe a cui era costretta. A rivelarlo ci ha pensato Anton Gerashenko, consigliere del ministero dell'Interno di Kiev, mediante un post su X, in cui cita anche l’avvocato di Khadzhikurbanov, Alexeij Mikhalchik. Il legale ha infatti reso noto che l’ex agente delle forze dell’ordine ha approfittato di un meccanismo che gli ha permesso di arruolarsi dal carcere come detenuto, sistema che era utilizzato soprattutto dalla brigata Wagner all’inizio del conflitto per armare truppe da mandare in Ucraina. «Grazie a quest’azione è stato graziato e ora continua a prendere parte all’“operazione militare speciale” come volontario, dopo aver stipulato un contratto con il ministro della difesa. Ha lavorato nelle forze speciali negli anni Novanta, ha esperienza ed è probabilmente per questo che gli è stata immediatamente offerta una posizione di comando» ha continuato Mikhalchik. Khadzhikurbanov è stato condannato al carcere nel 2014, insieme ad altri quattro uomini ceceni. Nel 2018, la Corte Europea di Strasburgo per i diritti dell’uomo ha scoperto che, nonostante le autorità preposte avessero incriminato e arrestato il gruppo di cinque uomini direttamente coinvolto nell’esecuzione dell’omicidio, hanno tuttavia fallito nella ricerca dei mandanti, ancora oggi ignoti. Immediata la reazione della famiglia della giornalista che, insieme al quotidiano russo, ha definito il condono della pena «un’ingiustizia enorme».
“TOLKIEN NON ERA DI DESTRA”
Paolo Conti per il Corriere intervista il docente di Oxford Giuseppe Pezzini, che prende le distanze dalla propaganda politica che vorrebbe imbrigliare l’opera di J.R.R. Tolkien. Pezzini ha contribuito alla mostra che apre domani a Roma, alla Galleria Nazionale di Arte Moderna.
«Il professor Giuseppe Pezzini, 39 anni, è Tutorial fellow al Corpus Christi di Oxford. È consulente e autore di un testo in catalogo per la mostra Tolkien/Uomo-Professore-Autore che si apre domani alla Galleria nazionale di arte moderna di Roma. Tolkien, professore, piace molto a Giorgia Meloni… «Tolkien piace alla presidente Giorgia Meloni? Benissimo. Ma piace a Zerocalcare ed era molto amato da Michela Murgia. Io ho 39 anni, vivo e lavoro in Gran Bretagna da venti. Quando sento dire che in Italia ancora si parla di un “Tolkien di destra” resto allibito, sono considerazioni assurde di un provincialismo pazzesco che ci riportano indietro in un mondo scomparso. Negli stessi anni lontani in cui Tolkien era studiato a destra in Italia, negli Usa gli hippy impazzivano per lui».
Comunque c’è chi dice che la mostra sia stata voluta da Palazzo Chigi e chiesta al ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.
«In questa mostra non c’è nemmeno l’ombra della politica. Io stesso provengo da una sensibilità politica e da radici molto lontane dall’attuale governo. Ma il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha lasciato ai curatori Oronzo Cilli e Alessandro Nicosia piena e assoluta libertà, non c’è stata alcuna interferenza. Come avviene nel mondo universitario: l’etimologia stessa della parola spinge verso il concetto di universale, di vasto».
Non ideologica, lei dice. Allora come definirebbe la mostra?
«Scientifica e di ricerca. Il mondo dell’ immaginario di Tolkien è vastissimo e sarebbe un errore prendere una parte per farne il tutto, anche se c’è chi vorrebbe appropriarsene. Sarebbe bello se si lasciasse stare la mostra così com’è, da destra e da sinistra. Perché è una rassegna da osservare a occhi aperti senza pregiudizi di alcun tipo».
Quale Tolkien racconta?
«La mostra è all’insegna dell’ampiezza e dell’inclusione. Come tutti i grandi classici, Tolkien ha saputo parlare a cuori diversissimi tra loro. Infatti Il Signore degli Anelli ha venduto almeno 150 milioni di copie in tutto il mondo. È il libro più venduto nel Pianeta dopo la Bibbia e il Corano. L’universo di Tolkien è fluido, tiene insieme mondi differenti e anche contrastanti tra loro. Ci sono gli elfi, personaggi conservatori che vogliono mantenere tutto così com’è non accettando la storia che cambia. Ci sono i grandi eroi. E poi gli hobbit, nascosti nelle tane. C’è il mago Saruman. Posizioni eterogenee che però riescono a integrarsi in un viaggio narrativo comune. Perché camminano tutti insieme».
ZUPPI: IL NEMICO DELLA VITA È L’INDIFFERENZA
La riflessione del cardinale Matteo Zuppi sulla scorta del filosofo Martin Buber, secondo il quale la relazione tra le persone costituisce il centro dell’esistenza umana. La Parola di Dio è l’antidoto a un’idea fondamentalista dell’individuo che porta, anche nella cultura di massa, a mettere al centro se stessi invece dell’altro. Anticipazione dal libro di Zuppi Dio non ci lascia soli. Riflessioni di un cristiano in un mondo in crisi, in uscita oggi per Piemme. Da Avvenire.
«Il discepolo di Gesù è interessato al prossimo e ne è vulnerabile. Il prossimo non è una categoria morale, ma concreta, affettiva: sono le persone, gli altri, la folla che nel Vangelo accompagna sempre Gesù. Ognuno di noi è frutto di tanti incontri. Non sarei quello che sono senza l’incontro all’inizio del liceo, poco più che adolescente, con quella che sarebbe diventata la Comunità di Sant’Egidio, e con quel Vangelo dell’amicizia intriso di voglia di cambiare il mondo senza violenza, assumendosi gli uni i pesi degli altri, quelli dei poveri come se fossero i nostri, i miei. Qualche volta pensiamo che il Vangelo ci chieda una vita grama, giusta magari, ma compressa da troppi limiti, da quelli che alcuni giudicano sacrifici inutili e che altri considerano giusti, ma sempre un po’ come un dovere. Gli altri non sono un dovere e non sono una limitazione, sono una ricchezza per la nostra vita. Tutto il Vangelo parla di amore e quindi di vita. Gesù non parla di un “altro” mondo, lontano dalla realtà, di una vita per pochi eletti dotati di particolari virtù, impossibili ai più. La vita del Vangelo la comprendono i peccatori, i poveri, quelli che la vita l’hanno perduta e quelli che la cercano, che vengono da lontano, che hanno sbagliato tutto e non ne possono più, i malati che la agognano e ne capiscono il valore e sanno che tutto è come un soffio. Il valore del Vangelo lo comprende l’uomo mezzo morto, cui i banditi di ogni tempo rubano metà della vita e che perderebbe anche l’altra metà se non ci fosse un samaritano che si ferma perché ha misericordia. L’indifferenza è il vero nemico della vita, non gli altri. La vita del Vangelo sembra dura quando si cerca, con poco successo, di salvarsi da soli. La verità più profonda di Gesù, vero segreto della vita, è che solo se cade in terra il chicco di grano può dare frutto e non resta solo. Da soli non c’è vita. Ma questa non è una vita grama, è una vita che dà frutti, in cui tutti possiamo diventare madri e padri, e trovare un’esistenza più ampia. Realizzare se stessi comprende sempre anche gli altri. Una buona guida è Martin Buber, che afferma che «l’io costituisce se stesso nel tu». Per lui la relazione tra persona e persona è il centro dell’esistenza umana, «qualcosa che non ha l’eguale nella natura» ( Il problema dell’uomo, Marietti, 2004). Il centro è l’incontro. In cui l’io non si appiattisce nell’altro e l’altro non è solo annullato dal nostro io. Anzi: trovo l’io trovando Dio e il noi, capendo che la domanda di fondo della vita «per chi, a che scopo?», come sempre scriveva Buber ha solo una risposta: «Non per me». Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé. «Non di te stesso, ma del mondo ti devi preoccupare!». E se avviene questo troviamo finalmente l’io e non le infinite interpretazioni che lo nutrono e lo ingannano. Non ci siamo neppure noi senza dialogo e senza incontro. Quando incontriamo qualcuno dopo un tratto di strada, sappiamo quello che noi abbiamo già affrontato, e non il percorso dell’altro. Siamo interessanti per gli altri anche per questo, e le nostre strade acquistano ricchezza e futuro. L’amore ci precede, è realtà “ontologica”. L’amore, con Gesù, è entrato nella storia. C’è un superamento di idea circolare della storia, ciclica, che ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale. E che fornisce il quadro concettuale, e anche spirituale e personale, per non credere che il cambiamento sia possibile, che le strutture di solitudine o di ingiustizia possano essere cambiate e che, in questo, il contributo di ognuno è importante. In un’idea ciclica e ricorrente della storia perde di significato la persona, quello che possiamo fare noi. La grande buona notizia è che Dio, con Gesù, è entrato e rimane nella storia, quella che contiene anche la nostra miseria, le contraddizioni e le ferite del mondo, e questo è davvero Vangelo. Il Vangelo non ci chiede di annullare la nostra storia o di rendere quella che viviamo uno scenario sempre uguale, ma è nella nostra storia che comprendiamo meglio anche il Vangelo. Si tratta di entrare nella storia per capire il Vangelo, non di uscirne! Altrimenti ridurremmo il Vangelo a benessere individuale e resteremmo individui, senza quel noi che è indispensabile per trovare e vivere l’amore. Se si riduce il Vangelo a fatto intimistico e privato, alla fine, non si trova né se stessi, né Dio, né il prossimo. La Parola di Dio più la si frequenta e più la si capisce e si scopre ogni volta come nuova. Se proviamo a farlo, ci accorgiamo che è vero. E ci aiuterà anche a crescere e trovare noi stessi. Uno dei mantra dell’individualismo che marca tanto del pensiero corrente – e dominante - , pieno di luoghi comuni che immiseriscono chi li ripete e chi li subisce, afferma: «Per stare bene devi pensare di più a te». «Ti devi realizzare». Non è certo questo il linguaggio della Parola di Dio. Realizzare se stessi non può mai essere contro gli altri o indipendentemente dagli altri. È un’idea perdente e “fondamentalista” dell’individuo, una caricatura della vita, pensare che tutto dipenda dal fatto di mettersi al centro. A volte proprio questo è il ritornello in famiglia, sul lavoro, nei consigli di buon senso delle rubriche popolari dei settimanali quando inviuna tano a dedicarsi agli altri ma sempre “con misura”, senza esagerare, per evitare i burnout, per non scoppiare. È fondamentalista perché è deformante. Sono gli altri che ci aiutano a ritrovare noi stessi: nell’interesse per un altro ritrovo il meglio di me. È fondamentalista perché è come chi isola alcune righe di un testo sacro e cristallizza lì dentro l’intero messaggio religioso. L’amore non è mai mediocre, e supera i limiti con la sua forza straordinaria. Certo: è necessario avere attenzione verso se stessi, non buttarsi via, ognuno deve capire quando è il tempo per la propria solitudine o per il suo spazio personale, che è anche il tempo della coscienza di sé e della responsabilità. Pensandoci anche per gli altri, però, non solo per noi stessi, o la nostra vita appassisce. La Parola di Dio è in realtà un antidoto al fondamentalismo, anche ai fondamentalismi laici. Dentro ci sono tutte le debolezze umane: violenza, ingiustizia, ma anche la salvezza, l’incontro con l’amore appassionato di Dio che entra nella storia e la cambia. C’è una comprensione progressiva di quello che conta nella vita, fino alla pienezza, fino a Gesù. E, se la leggiamo, ci aiuta a crescere, a comprendere il senso e a conoscere il “per chi” sei e “per chi” cammini. Più liberi dal conformismo del pensiero corrente».
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