La Versione di Banfi

Share this post

FT vota per Draghi al governo

alessandrobanfi.substack.com

FT vota per Draghi al governo

Il giornale della City: Supermario deve restare a Palazzo Chigi. Cifra record per Figliuolo: 100 milioni di vaccini. Zaki torna a casa. Inizia il governo Scholz. Il Papa all'alba per l'Immacolata

Alessandro Banfi
Dec 9, 2021
1
Share this post

FT vota per Draghi al governo

alessandrobanfi.substack.com

Una dozzina di giorni dopo le prime notizie allarmanti, c’è un certo ottimismo sulla variante Omicron. Provengono dal Sudafrica, dall’Oms ma anche dalle due aziende più implicate nella fabbricazione e distribuzione dei vaccini anti Covid: Pfizer e Moderna. Tutti ritengono che la nuova variante sia più contagiosa ma meno pericolosa della Delta ed è accertato che la terza dose di richiamo costituisca una barriera efficace contro di essa. Intanto nel nostro Paese l’effetto del Super Green Pass si fa sentire, e molto, nella campagna vaccinale. Negli ultimi 20 giorni 600mila persone hanno deciso di farsi somministrare la prima dose, mentre oggi si tocca il record di 100 milioni di dosi iniettate nel nostro Paese. Una cifra impensabile anche solo l’estate scorsa.

Patrick Zaki è tornato a casa, dai suoi familiari dopo che il tribunale di Mansoura, in Egitto, lo ha finalmente liberato. Parla poco alla stampa italiana e fa bene. Il processo contro di lui è ancora in corso e la vicenda non è del tutto conclusa. Per rimanere all’estero, ci sono altri due grandi temi stamattina: è iniziata l’esperienza del governo tedesco di Scholz, primo socialdemocratico al potere a Berlino dopo 16 anni. Secondo argomento: si ragiona sulla crisi ucraina dopo il faccia a faccia fra Biden e Putin.

Corsa al Quirinale. Sul Colle più alto, Sergio Mattarella sta metabolizzando gli appalusi della Scala e quella richiesta insistita di Bis. Ieri è andato a trovarlo Valentino Rossi: anche il Dottore si è pronunciato per il Bis. Il quotidiano economico della City londinese ha scritto che Mario Draghi deve restare a Palazzo Chigi: troppo rischioso per le riforme economiche e la stabilità del nostro Paese che Supermario si trasferisca al Quirinale. Ne scrive Cottarelli sulla Stampa. Grida di giubilo fra i berlusconiani, mentre Giuseppe Conte, intervenendo alla festa della Meloni, aggiunge che Mr. B ha modernizzato l’Italia. Ma come finirebbe lo spread con Berlusconi eletto al Quirinale? Domanda che è meglio non porsi.

È disponibile da oggi un nuovo episodio da non perdere del mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: LA SCUOLA DI VITA. Protagonista è Rosalba Rotondo, Preside dell’istituto intitolato a Ilaria Alpi e Carlo Levi, elementari e medie nel cuore del quartiere Scampia di Napoli. La scuola conta 1300 studenti di cui 300 di etnia Rom. Un esempio di vera integrazione, premiato anche in Europa. Un piccolo miracolo dove la cultura e l’istruzione contendono ogni giorno il terreno al degrado e alla criminalità. Rosalba interpreta tutto questo in modo vitale, vulcanico, quasi esplosivo. Così facendo, porta la sfida nel cuore dei ragazzi, nelle famiglie, fin nei campi rom di Giugliano. Un racconto da non perdere. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate l’ultimo episodio disponibile e potrete anche ritrovare tutti gli altri:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-rosalba-rotondo-v2

Trovate questa VERSIONE ancora domattina nella vostra casella di posta entro le 8. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Sono ancora sulla pandemia le aperture di molti giornali stamattina. Il Corriere della Sera sottolinea il traguardo raggiunto dalla campagna di Figliuolo: Vaccini, 100 milioni di dosi. La Repubblica spiega: Il governo cerca più  vaccini. Il Quotidiano Nazionale sostiene che per i richiami va benissimo anche quello della casa farmaceutica americana: Terza dose, Moderna rimpiazza Pfizer. Il Messaggero avverte: Omicron circola in sei regioni. La Verità è sempre in cerca delle contraddizioni del governo sui vaccini: La Lamorgese a caccia di No Pass ma i mariuoli sono al Viminale. Della corsa al Quirinale si occupano Il Fatto: Shopping di Natale, B. ne prende altri due. E il Giornale, che esalta l’opinione del Financial Times sull’immutabilità del premier: Draghi inchiodato. A proposito di palazzo Chigi, La Stampa torna sullo sciopero indetto da Cgil e Uil: Draghi, linea dura con i sindacati. Così come Il Manifesto: Delitto di sciopero. Avvenire dedica il titolo principale al nuovo governo Scholz, primo cancelliere socialdemocratico dopo 16 anni: L’altra Germania. Il Mattino ricorda che presto scatteranno nuove norme ecologiche richieste da Bruxelles: Ue, la stretta choc sulle case. Mentre Libero se la prende per i divieti sugli alcolici: L’Europa filo islamica fa guerra a vino e birra. Il Sole 24 Ore si concentra sul bonus: Villette, salta il limite per il 110%. Mentre Domani propone un’inchiesta sulla malavita calabrese: Alla ‘ndrangheta piace ghiacciato, i pm indagano sull’Amaro del Capo.

SUPER GREEN PASS, BOOM DELLE PRIME DOSI

È stata raggiunta e superata la cifra record di 100 milioni di dosi somministrate dall’inizio della campagna vaccinale. Tangibili gli effetti del Super Green pass: negli ultimi venti giorni sono state fatte 600 mila prime iniezioni. La macchina organizzativa ora fa i conti con il nodo delle scorte da qui a gennaio. La cronaca di Fabio Savelli per il Corriere.

«Gli ultimi resistenti al vaccino sono 6,1 milioni: impauriti, diffidenti, ideologicamente convinti che sia meglio non farlo. Ma sono anche 600 mila in meno rispetto a 20 giorni fa. Ieri le somministrazioni dall'inizio della campagna vaccinale hanno superato quota 100 milioni; nell'ultimo aggiornamento delle 19 mancavano appena 36 mila punture che verranno contabilizzate solo oggi dalle regioni. Un successo per la campagna di immunizzazioni, il cui andamento in questi mesi è stato influenzato anche dalle strategie del governo. Ora, però, c'è il rischio che si presenti un collo di bottiglia: molti chiedono di fare la terza dose con Pfizer, le cui scorte si sono ridotte a 2,5 milioni. Se tutti dovessero impuntarsi sul preparato tedesco-americano, i tempi di attesa per riceverlo potrebbero arrivare a un mese. La flessione di luglio Per ricostruire l'andamento delle vaccinazioni è bene partire da luglio. L'11 c'è un primo campanello d'allarme. Le proiezioni di copertura vaccinale della popolazione cominciano a complicarsi. Si nota una flessione non proporzionale delle prime dosi. La struttura commissariale, guidata da Francesco Figliuolo, monitora quotidianamente la curva delle somministrazioni e la crescita degli immunizzati. Quel numero viene rendicontato a Palazzo Chigi. A fine giornata in 53.961 ricevono la prima dose: è il dato più basso dalla metà di febbraio e le piattaforme di prenotazione delle regioni registrano posti vacanti. Due settimane dopo, il 23 luglio, il governo licenzia il primo decreto green pass, che lo avrebbe reso obbligatorio dal 6 agosto per una serie di attività sociali conservando però la possibilità di ottenerlo tramite un tampone negativo. Era appena diventata dominante la variante Delta con un indice di trasmissibilità superiore alle precedenti tra il 40 e il 60%. Quel giorno il report del governo registra quasi 2,5 milioni di non vaccinati tra i 50 e i 59 anni, oltre 1,3 milioni tra i 60 e i 69 anni, 713 mila tra i 70 e i 79 anni. Cambiano allora gli obiettivi: fino a quel momento si era immaginata una prima copertura di comunità all'80% di vaccinati over 12 entro fine settembre. In quella decina di giorni le prime dosi non superano però mai le 150 mila quotidiane. Dunque le proiezioni in mano al governo fotografano un fatto: senza un incentivo alle somministrazioni quell'obiettivo non solo è destinato a slittare nel tempo ma rischia anche di essere non più adeguato. La prima stretta Si decide per una prima stretta secondo il meccanismo progressivo seguito fino ad oggi. Tra l'annuncio e l'entrata in vigore del primo green pass la curva subisce uno scossone, riparte a viaggiare verso l'alto con punte di 170 mila nuovi aderenti al giorno (come il 5 agosto) o persino 180 mila il 6 agosto. Poi si assesta. È la fase in cui devono essere potenziati i controlli, o gli obiettivi immaginati rischiano di allontanarsi. La curva dei nuovi vaccinati resta alta per poi ridursi, complici le ferie agostane: da quota 173 mila del 10 agosto comincia progressivamente a scendere. Alla fine di agosto si viaggia attorno alle 120-130 mila somministrazioni al giorno, ritmo che permette il raggiungimento del target dell'80% di persone coperte dal ciclo completo l'11 ottobre. Il nuovo obiettivo Nel mentre, però, l'asticella viene spostata più in alto: il Cts e il ministero della Salute convergono sulla necessità di arrivare al 90% di immunizzati over 12, complice l'arrivo della Delta, e si fissa la fine dell'anno per raggiungere l'obiettivo. Significa quasi 5 milioni di persone in più da pescare anche tra chi è contrario ai vaccini. Il 24 settembre si decide la seconda stretta. Quel giorno fonti governative parlano di circa 2,5 milioni di lavoratori dipendenti non vaccinati. Troppi. Tra i 50 e i 59 anni i no-vax erano ancora 1,59 milioni (quasi 900 mila in meno di due mesi prima), 902 mila tra i 60 e i 69 anni (425 mila in meno di luglio), 508 mila tra i 70 e i 79 anni (205 mila in meno di luglio). Il governo licenzia dunque un secondo decreto che stabilisce dal 15 ottobre l'obbligo del certificato negli ambienti di lavoro. Nelle tre settimane che passano tra l'annuncio e la disposizione parte l'ennesimo rimbalzo delle prime dosi, anche per effetto dell'intervallo necessario di due settimane dalla prima puntura per ottenerlo. Il 24 settembre si registrano 86 mila prime dosi. Il 14 ottobre sono 76.061, il 15 oltre 71 mila per poi scemare nei giorni successivi. Già il 31 ottobre sono solo 7.400 i nuovi vaccinati, il 1° novembre 5.500, il 7 novembre 7.163. Pochi. Lo scenario epidemiologico si complica di nuovo. Scende l'efficacia L'efficacia vaccinale comincia a scendere in tutte le fasce d'età, per le terze dosi si decide un anticipo a 5 mesi dal richiamo, i non vaccinati sono ancora 6,7 milioni: è il 19 novembre. Il 24 ecco la terza stretta: il governo decide per il green pass rafforzato dal 6 dicembre per tutte le attività sociali, escludendo il tampone come mezzo per ottenerlo. Il report del Commissario registra il 3 dicembre 414 mila non vaccinati tra i 70 e i 79 anni (quasi 115 mila in meno di settembre), circa 690 mila «scoperti» tra i 60 e i 69 anni (257 mila in meno di metà settembre), 1 milione 130 mila tra i 50 e i 59 anni (oltre 568 mila meno di due mesi prima). L'effetto è immediato. Il 20 novembre erano state appena 17 mila le prime dosi, dal 24 in poi viaggiano al ritmo di quasi 30 mila al giorno, soglia superata ai primi di dicembre complice l'avvicinarsi del giorno 6, quando le prime dosi sono 43 mila. Mancano poco più di due punti percentuali al 90%. Non tanti, considerando che ora la platea dei vaccinabili si allarga alla fascia 5-11 anni e forse, nei prossimi mesi, ai bimbi sotto i 5».

La variante Omicron provocherebbe una malattia più lieve rispetto a Delta e sarebbe neutralizzata dalla terza dose. I primi test nei laboratori dimostrano infatti che il "booster" moltiplica fino a 25 volte gli anticorpi. La cronaca della Stampa.

«Contro Omicron serve il booster. La terza dose di vaccino garantisce un livello di protezione simile a quello osservato dopo due dosi contro il virus originale e le varianti finora conosciute. Pfizer-Biontech danno la notizia che tutti (per prime le due aziende farmaceutiche produttrici) speravano. I test effettuati in laboratorio hanno mostrato come il richiamo moltiplichi fino a 25 volte gli anticorpi e «sebbene due dosi del vaccino possano ancora offrire protezione contro malattie gravi causate dal ceppo Omicron - ha spiegato l'amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla - da questi dati preliminari è chiaro che la protezione è migliorata con una terza dose del nostro vaccino». In ogni caso, è stato avviato lo sviluppo di un siero aggiornato per contrastare Omicron e «si prevede che i primi lotti potranno essere consegnati nel marzo 2022», ovviamente dopo la procedura di autorizzazione. L'attività di aggiornamento non modificherà la capacità di produzione del vaccino, con una stima di quattro miliardi di dosi in distribuzione nel corso del prossimo anno. Secondo il presidente americano, Joe Biden, i dati forniti da Pfizer «rafforzano quelli che i miei consiglieri medici stanno sottolineando: la dose di richiamo ci dà la massima protezione - ha scritto su Twitter - chiunque sia idoneo e non lo ha ancora fatto, dovrebbe fare il richiamo oggi». Non a caso, dall'Organizzazione mondiale della sanità si affrettano a ribadire l'efficacia dei vaccini al momento disponibili: «Non ci sono indicazioni che facciano dubitare che i vaccini proteggano contro la variante Omicron - ha dichiarato il responsabile Oms per le emergenze Michael Ryan - hanno dimostrato il loro potere contro tutte le varianti comparse finora, in termini di gravità della malattia e di ricoveri, e non c'è alcuna ragione per pensare che non sia lo stesso in questo caso». D'altra parte, il rischio che Omicron provochi un aumento dei positivi al virus è concreto, come ha ammesso lo stesso direttore generale dell'Oms Tedros Ghebreyesus: «Rispetto alle precedenti varianti, può contagiare più facilmente le persone che hanno già contratto il virus o che sono state vaccinate - ha spiegato - I dati che arrivano dal Sudafrica suggeriscono un aumento del rischio di reinfezione, ma ci sono anche alcune prove sul fatto che Omicron causi una malattia più lieve rispetto a Delta». Lo studio in questione, piccolo e preliminare (14 campioni di plasma di 12 vaccinati), è quello eseguito in vitro dal gruppo di ricercatori guidato da Alex Sigal, dell'Africa Health Research Institute: sembra emergere un calo di 40 volte della protezione offerta dal vaccino di fronte alla mutazione che rende il virus più trasmissibile. La contagiosità, quindi, è nettamente maggiore, ma la capacità di neutralizzazione non verrebbe persa del tutto a causa di Omicron: pare si mantenga più elevata nelle persone precedentemente infettate e poi vaccinate con due dosi. In quest' ottica si intuisce il ruolo chiave che potrebbero giocare i booster. In Europa sono 337, in 21 Paesi, i casi accertati di positivi alla variante Omicron, secondo i dati aggiornati dell'Ecdc (Centro europeo per il controllo delle malattie). In Italia sono 13, di cui 7 solo in Campania, dove era stato individuato il primo paziente: il manager Eni della provincia di Caserta, che aveva contagiato tutta la famiglia, proprio ieri ha fatto sapere di essere guarito dopo tre settimane con sintomi lievi».

CACCIARI FONDA IL PARTITO NO VAX, JOHNSON DICE BUGIE

Luciano Capone su Foglio racconta “le follie della Cacciari associati”, nella diretta fiume di dieci ore con i cervelloni della “Commissione dubbio e precauzione”.

«E' stata lanciata ieri, con una diretta fiume di dieci ore, la centrale di controinformazione sul Covid promossa da Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Ugo Mattei e Carlo Freccero. Si chiama "Commissione dubbio e precauzione" e il nome è abbastanza ossimorico, visto che i convenuti manifestano certezze granitiche, a dispetto delle evidenze scientifiche contrarie, sull'inefficacia e la pericolosità del principale strumento di precauzione in questa epidemia: i vaccini. La commissione ha l'obiettivo di agglutinare la galassia anti green pass e anti vax che si oppone al Potere. Ma le posizioni esposte nella maratona sono però tante e confuse. Per comprendere il livello di caos, prima di passare in rassegna le idee più originali, bisogna fare un passo indietro. Qualche giorno fa il volto pubblico di questa galassia, Massimo Cacciari, si era scontrato in tv con un giornalista, Alessandro De Angelis, che gli aveva chiesto se non si sentisse in imbarazzo ad affiancarsi a chi paragona la situazione attuale al nazismo. "Se mi dici che sono d'accordo con quelli lì che dicono che è uguale al nazismo me ne vado. Se fai provocazioni di merda me ne vado!", era stata la risposta indignata del filosofo. Alla vigilia del convegno Giorgio Agamben, sparring partner di Cacciari in questa avventura intellettuale, ha esordito così la sua audizione al Senato su vaccini e green pass: "Voglio ricordare il codice di Norimberga e i processi ai medici che durante il nazismo si erano resi colpevoli di gravi crimini compiendo esperimenti letali sui detenuti nei lager ". Non risulta che Cacciari abbia ritenuto quella del collega filosofo una provocazione di merda e si sia alzato. Eppure quello di Agamben non è l'unico paragone storico eccessivo. La virologa Maria Rita Gismondo, ospite del simposio, evoca "episodi di persecuzione" da parte del mainstream scientifico che ci riportano al "periodo buio dell'inquisizione. Credevamo tutti che fossero momenti storici irripetibili: era un'illusione". La vicequestore Nunzia Schilirò, altra intellettuale invitata, sostiene che il paragone con il nazismo non è infondato, ma è più corretto quello con "l'impero romano, quando la maggioranza scelse di mettere a morte Gesù per salvare Barabba. Voglio ricordare a tutti che Gesù è stato crocifisso perché ha manifestato il suo pensiero". Un No vax ante litteram, insomma. Per quanto la premessa sia che la Commissione non ha affatto una posizione No vax, tutti gli invitati esprimono posizioni che vanno dal moderato scetticismo all'aperta ostilità contro i vaccini. Vengono ad esempio evocati come martiri di questo presunto regime due noti medici antivaccinisti, per questo radiati dall'ordine di appartenenza, come Roberto Gava e Dario Miedico, trattati come due Galileo Galieli o due Gesù Cristi ( a seconda se si ritenga di vivere durante l'inquisizione o l'impero romano). Tra gli ospiti c'è anche Antonietta Gatti, una nanopatologa nonché sedicente "esperta di Guerra del Golfo, Balcani e 11 settembre", che afferma che i vaccini non sono tali: contengono "nanoparticelle che danno istruzioni geniche che possono dare problemi cancerogeni". La tesi che i vaccini non siano vaccini è un refrain, non a caso gli ospiti che si susseguono tendono a chiamarli "sieri" oppure "iniezioni geniche sperimentali". Per precauzione sarebbe meglio non farli, anche perché si ricorda che "nessun vaccino può far meglio della guarigione dalla malattia", trascurando il dettaglio che il vaccino serve proprio a evitarla la malattia, che pare avere dimostrato di avere come effetto collaterale quello di centinaia di migliaia di morti. In ogni caso vaccinare i bambini è "un crimine". Lo psicanalista Massimo Citro, sospeso dall'ordine dei medici perché non vaccinato, dice che "si sta facendo una sperimentazione a livello mondiale" dovuta a un complotto studiato a tavolino: "L'industria farmaceutica stava attraversando una crisi sempre più profonda" e per risollevarla è stata creata un'emergenza e sono state fatte morire le persone "per avere l'approvazione in via di emergenza delle molecole più pericolose". C'è poi il ginecologo francese Hubert Debiolles, costretto a lasciare il suo Paese per la Polinesia a causa dell'obbligo vaccinale, secondo cui "il vaccino diffonde la malattia": "Tutti sanno che questo vaccino non funziona, più ci si vaccina più ci si ammala. Dobbiamo fermare tutto". Ma non basta, il No vax rifugiato in Polinesia dice che oltre ai vaccini bisogna anche abbandonare "la struttura politica europea, che è una specie di Unione sovietica" ( è l'altra variante, dopo il nazismo, l'inquisizione e l'impero romano). C'è anche l'avvocato Virginie de Araujo- Recchia che fa un paio di rivelazioni scientifiche niente male: ha le prove che "le iniezioni di terapia genica sperimentale ( i vaccini, ndr) non dovevano essere messe sul mercato". Mentre l'ivermectina, l'antivermi bocciato da tutte le autorità regolatorie, "è efficace". L'avvocato annuncia inoltre di aver denunciato il governo francese per "genocidio". Meno drastico è Andrea Sigfrido Camperio Ciani, che era stato sospeso dall'università di Padova per non aver voluto esibire il green pass, secondo cui i vaccini non si sa se diffondono la malattia ma di certo sono inutili: "Il virus da solo sta facendo quello che noi ci aspettiamo che facciano i vaccini". Naturalmente l'opposizione ai vaccini e al green pass è solo un tassello della lotta contro il Biopotere, che è una manifestazione dell'attuale assetto capitalista, il volto feroce del liberismo finanziario incarnato in una piovra che ha i tentacoli di Big Pharma, Blackrock, Bill Gates, Amazon, Google, Facebook... Il progetto è più ampio, come spiega l'ingegnere Philippe Guillemant: "La vaccinazione obbligatoria è legata al desiderio dell'alta finanza di accelerare il movimento verso l'euro digitale e la moneta mondiale". E così ci sono anche forme di boicottaggio economico come lo "sciopero dei consumi", proposto dagli "Studenti contro il green pass", che consiste nell'astensione dai regali di Natale ("tranne quelli autoprodotti"), nell'evitare acquisti nella grande distribuzione e online. Una riflessione distensiva e tollerante nei confronti di chi, peraltro in larghissima maggioranza, la pensa diversamente la offre Agamben: "Gli avversari che abbiamo di fronte non sono spiritualmente, moralmente e intellettualmente vivi. Sono dei morti". All'occorrenza, la Commissione Dubbio e Precauzione fa pure le autopsie».

Il premier inglese Boris Johnson è nei guai: negava che si fosse tenuta una festa a Downing Street durante il lockdown e un video lo ha smentito. Per Il Fatto Sabrina Provenzani.

«Il 2 dicembre 2020, in Inghilterra scattano una serie di restrizioni imposte dall'esecutivo per 'salvare' il primo Natale dell'era Covid. Fra queste, i limiti alle aggregazioni non indispensabili, come i tradizionali drink di lavoro di Natale, le feste dell'ufficio che per gli inglesi sono una irrinunciabile tradizione. Il Paese si attiene. La scorsa settimana uno scoop del Daily Mirror rivela che a non attenersi è stato proprio Downing Street, cioè l'ufficio del primo ministro Boris Johnson, i cui dipendenti si sono concessi almeno un festino senza distanziamento sociale il 18 dicembre. L'effetto "noi siamo noi e voi non siete un c.." è immediato: su Twitter una dottoressa racconta di aver perso il fratello per Covid proprio quel 18 dicembre, mentre a Downing Street si violavano le regole, e quel tweet diventa una valanga di reale e generale indignazione. La linea difensiva ufficiale è un pasticcio: prima Downing Street assicura che nessuna norma è stata violata, poi nega che il festino ci sia mai stato. Ieri mattina il canale Itv sgancia la bomba: un video in cui la responsabile dell'ufficio stampa del governo, Allegra Stratton, durante una prova di conferenza stampa, allude esattamente alla festa finora negata, ridendo dell'assenza di distanziamento. La Stratton si dimette dopo poche ore. Il consenso per il partito conservatore, già in picchiata da settimane, precipita: secondo alcuni sondaggi i Tories al governo questa settimana sono stati superati dal Labour all'opposizione. Ieri, la domanda "cancellare la tessera del partito conservatore" su Google si impenna quasi del 2000%. L'umore fra i deputati conservatori è riassunto nell'inequivocabile "siamo fottuti". Boris Johnson si è scusato, incalzato dal leader laburista Keir Starmer, dicendo di essere stato informato male. Ma ormai l'idea che Johnson sia un bugiardo è passata dall'opinione dei suoi detrattori alla coscienza comune, e mentre prima suscitava simpatia oggi può essere la pietra tombale sul suo governo: perché riemergono, in sequenza, tutte le sue menzogne. Ecco le più gravi. Come mentire alla regina Nel settembre 2020, nel mezzo di una crisi politica scatenata dallo stallo sulla Brexit, il governo ottiene l'assenso della Regina Elisabetta alla sospensione, per cinque settimane, del Parlamento. Decisione considerata 'illegittima' dalla Corte Suprema, con enorme imbarazzo della Corona che ha agito in base alle motivazioni fornite dal primo ministro. I giudici supremi preferiscono non andare a fondo nello scontro tra poteri, ma il primo ministro è costretto a negare pubblicamente di aver mentito alla Regina. Prima i cani, poi gli afghani Nelle ore convulse del ritiro delle forze occidentali da Kabul emerge la vicenda di Pen Farthing, veterano dell'esercito britannico che in Afghanistan gestiva un ricovero per animali. Chiede l'evacuazione immediata delle bestie e, secondo alcune fonti, la ottiene grazie all'interessamento diretto della moglie e consulente di Johnson, Carrie Symonds. I cani trovano posto su un charter per il Regno Unito: i 68 dipendenti li salva la Raf, mentre migliaia di afghani collaboratori delle forze britanniche restano a terra. Il primo ministro nega favoritismi, ma ieri è emersa una lettera in cui uno degli assistenti parlamentari di Johnson si impegnava nell'operazione di salvataggio. I "40 nuovi ospedali" Boris Johnson trionfa alle Politiche del 2019 per molte ragioni, fra cui una serie di impegni elettorali. Alcuni si scontrano in seguito con la realtà, altri sono bugie fin dall'inizio. La principale è la promessa di costruire 40 nuovi ospedali. In dieci anni. I dubbi di fattibilità si susseguono, finché il ministero della Salute chiarisce imponendo alle aziende sanitarie la linea ufficiale per i media: nella definizione 'nuovo ospedale' vanno fatti rientrare anche nuovi reparti o ristrutturazioni di nosocomi preesistenti. I soldi all'Ue Durante la campagna pre-referendum sulla Brexit, con Boris grande campione del Leave, il futuro primo ministro girava su un autobus sulla cui fiancata era scritto che grazie alla Brexit l'Nhs, il sistema sanitario, avrebbe potuto ricevere i 350 milioni a settimana che il Regno Unito inviava all'Unione europea. "Un evidente uso improprio delle statistiche ufficiali", per la Statistics Authority: la somma reale era di 234 milioni, di cui 90 tornavano indietro in fondi Ue. Johnson non ha mai ritrattato».

PATRICK ZAKI È TORNATO A CASA

Patrick Zaki è uscito ieri di prigione a Mansoura. Ecco il racconto delle sue prime ore in libertà. Dice: "Grazie per quello che avete fatto. Sto bene, ma sono sotto choc". Francesca Caferri per Repubblica.

«Ventidue mesi cancellati in un secondo. È il tempo che ci mette Hala, la madre di Patrick Zaki, a saltare al collo del figlio quando esce dal commissariato di Mansoura. Ventidue mesi fatti di notti passate a terra, di affetti mancati, di sogni interrotti: mesi di cui sulla faccia di Patrick si vedono tutti i segni. Dopo l'ordine di scarcerazione firmato due giorni fa dal giudice, lo studente egiziano dell'università di Bologna ieri intorno alle 15 è uscito dall'ultima delle sue prigioni. Lentamente, con in spalla la borsa con gli effetti personali e in mano la busta che gli ha preparato la famiglia con gli abiti puliti: non si è fermato dentro un secondo in più del necessario, neanche il tempo di cambiarsi. Quando appare al cancello, indosso ha ancora la divisa bianca dei carcerati, sul volto lo sguardo serio: è solo al quarto abbraccio che lo stritola - quello dell'amica del cuore Josra, dopo quello della sorella Marise e della fidanzata Reny - che Patrick alza gli occhi, guarda il cielo e finalmente capisce. Il suo volto si apre nel sorriso che tutti abbiamo imparato a conoscere dalle foto: oggi è il giorno della libertà. «Patrick ciao, come stai?», gli chiediamo. «Bene, sto bene. Grazie per tutto quello che avete fatto», risponde. Il tempo di una frase, poi il team tutto femminile che ha gestito questi mesi difficilissimi - sorella, fidanzata e amica del cuore, oltre all'avvocatessa Hoda Nasrallah, che lo aspetta al Cairo - lo carica in macchina. «Lasciateci andare», dicono, severe, in coro. Le ragazze emozionate che fino a pochi minuti prima discutevano di chi avrebbe abbracciato per prima l'oggetto del desiderio, chi dovesse scattare la foto e a dovesse essere inviata, nel giro di pochi minuti si sono trasformate in severissime guardie del corpo. «Non può parlare ora», insistono. Lui le asseconda: «Forza Bologna - dice - ci sentiamo dopo, prometto» dice. Ha le mani completamente nere, ma giura che non è nulla: «Sto bene, davvero», ripete. Lo sportello si chiude e la macchina parte verso una vita che, si capisce subito, almeno per il momento non sarà la stessa che Patrick ha lasciato la notte del suo arresto all'aeroporto del Cairo, il 7 febbraio del 2020. Perché Patrick non è ancora libero del tutto e le sue donne, meglio ancora di lui, questo lo sanno benissimo. Due giorni fa un giudice, accogliendo finalmente la richiesta dell'avvocatessa Nasrallah, lo ha scarcerato, ma il primo febbraio dovrà tornare in aula, qui a Mansoura, per rispondere dell'accusa di diffusione di notizie false e dannose per lo Stato egiziano: rischia fino a cinque anni di carcere. Poi, ancora sospeso, c'è un secondo provvedimento, quello aperto l'estate scorsa, senza che alla difesa ne fosse comunicata notizia: l'accusa è associazione terroristica, reato che l'Egitto imputa oggi a migliaia di detenuti politici. La pena, in questo caso, va fino a 12 anni. La speranza è che questo secondo provvedimento venga lasciato cadere e che per il primo venga una comminata una pena lieve, uguale o inferiore ai mesi già scontati in carcere. In questa maniera i pubblici ministeri egiziani avrebbero la soddisfazione di una condanna, ma Patrick sarebbe definitivamente libero e potrebbe tornare in Italia: completare i suoi studi a Bologna, soprattutto, come chiede dall'inizio di questa vicenda. Perché tutto questo avvenga però, ora occorre tenere un profilo basso, bassissimo: è questo uno dei punti chiave della trattativa che nei mesi scorsi ha coinvolto la rappresentanza diplomatica italiana al Cairo, quella americana e la controparte egiziana. Per questo, ai giornalisti che lo aspettano fuori dal commissariato e che poi lo vanno a trovare a casa, Patrick può dire pochissimo. Per questo, le sue donne vigilano su ogni sua parola con la massima attenzione, molta più di quella che, si percepisce immediatamente, ci metterebbe lui. «Benvenuta, benvenuta». Il sorriso con cui ci apre la porta di casa un'ora dopo averci salutato in strada questo lo illustra benissimo. Abbandonati gli abiti bianchi, indossa jeans scuri e una maglia nera: ai piedi, finalmente, ha delle scarpe normali, con i lacci, non quelle da carcerato con cui lo abbiamo sempre visto. Intorno a lui scodinzola felice Julie, la cagnolina di famiglia: gli ha già riempito il golf di peli bianchi, ma non ne ha ancora abbastanza. Vorrebbe stare sempre in braccio a lui. Patrick ci fa sedere, finalmente rilassato, finalmente simile all'immagine che abbiamo imparato a conoscere dalle foto. È dimagrito, non ha più le guance rotonde: ha sostituito gli occhiali da Harry Potter con una montatura nuova, che lo fa sembrare più grande. Ma è un'altra persona rispetto a quella con cui abbiamo parlato nella gabbia del tribunale poco più di due mesi fa. Avrebbe una gran voglia di chiacchierare e a stento si attiene alle regole che gli sono state dettate: «Sto benissimo. Sono davvero felice. E sono ancora sotto choc - ci dice - quando mi hanno portato alla stazione di polizia non avevo capito cosa stesse succedendo, non mi avevano detto che mi avrebbero rilasciato. Pensavo che volessero farmi rispondere di altre accuse e anche quando mi hanno detto che stavano per lasciarmi andare non ci credevo: ero convinto che mi stessero prendendo in giro. Ma ora sono qui con la mia famiglia, la mia fidanzata e i miei amici. E sono felice». Sulla sua testa, una enorme immagine di Cristo, il simbolo della devozione che non ha mai abbandonato questa famiglia e che ha aiutato soprattutto la signora Hala ad andare avanti in questi mesi. Patrick neanche la guarda, tutto concentrato com' è a seguire quello che accade intorno a lui. Cosa vuoi dire all'Italia? «Grazie. Grazie ai tutti gli italiani, ai partiti politici che hanno preso a cuore il mio caso. E prima di tutto, Bologna: grazie. Bologna è la mia città, la mia università, la mia alma mater. Tornerò il prima possibile, perché lì c'è la mia gente. Grazie a Amnesty International, a Riccardo Noury a tutto il suo gruppo. E grazie alla mia professoressa, Rita Monticelli, la mia mentore».

QUIRINALE 1, IL FINANCIAL TIMES VUOLE DRAGHI AL GOVERNO

Carlo Cottarelli su la Stampa analizza e interpreta la posizione presa dal giornale finanziario della City londinese. FT ha sostenuto in un commento: se Draghi lascia palazzo Chigi per il Quirinale le riforme necessarie all’Italia sarebbero messe a rischio.

«Il Financial Times ieri sollevava un tema che è fondamentale per gli sviluppi economici e politici in Italia non solo per il prossimo anno, ma anche nel medio periodo: se Draghi lasciasse la presidenza del consiglio il sentiero delle riforme sarebbe messo a rischio. Naturalmente si potrebbe notare che, comunque, il governo Draghi giungerebbe al suo naturale termine con le elezioni generali della primavera del 2023. Ma il 2022 è fondamentale per il prosieguo delle riforme. Cerchiamo di capire perché. I dieci mesi da quando Draghi è arrivato a Palazzo Chigi sono stati densi di risultati. La campagna vaccinale è avanzata rapidamente (tanto da essere invidiata da Angela Merkel), il Pnrr è stato presentato e approvato dalla Commissione Europea, e importanti riforme sono state avviate: tra queste la riforma della giustizia civile, quella della giustizia penale, la riforma della concorrenza, la semplificazione burocratica, la riforma fiscale. Una legge di bilancio adeguata alle esigenze del Paese è in corso di approvazione e stanzia fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali e per un primo taglio delle tasse. Certo non ha reso felici né Confindustria né i sindacati, il che forse significa che si è scelta la giusta via di mezzo. Si potrebbe allora dire: ma se si sono fatte già tutte queste cose, non si dovrebbe considerare completato il lavoro di questo governo di emergenza e grande coalizione? No e lo si capisce bene scendendo nel dettaglio. Per quanto importanti, i passi fatti restano da completare. Infatti, le riforme approvate o in via di approvazione utilizzano spesso lo strumento della legge delega: il Parlamento delega il governo a scrivere decreti legislativi aventi forza di legge, ponendo solo dei vincoli, più o meno stretti, che dovranno essere rispettati. È così per la riforma della giustizia civile, per quella della giustizia penale, per parti della riforma della concorrenza e, soprattutto, per la riforma del fisco dove la legge delega in corso di approvazione in parlamento contiene vincoli particolarmente vaghi, lasciando quindi un amplissimo grado di discrezionalità al governo. Ovvio che risulterà cruciale chi sarà responsabile nel 2022 dei decreti legislativi necessari per il completamento delle riforme ora avviate, nonché degli ulteriori passi previsti dal Pnrr nel prossimo anno. Anche per la conduzione dei conti pubblici il prossimo anno assume un'importanza fondamentale. Il deficit pubblico nel 2022, al 5,6 per cento del Pil, riflette ancora le esigenze congiunturali della crisi. Nella legge di bilancio per il 2023 sarà necessaria una sua riduzione e la presenza di Draghi a palazzo Chigi durante la preparazione della prossima legge di bilancio consentirebbe probabilmente un'uscita più bilanciata dalle attuali politiche espansive. Ma non è soltanto questione della prossima legge di bilancio. Nel 2022 verranno riscritte le regole europee sui conti pubblici che influenzeranno la gestione della finanza pubblica nostra e degli altri paesi europei nei prossimi anni. Si tratta di una scelta di importanza cruciale e l'autorevolezza di Draghi può fare un'enorme differenza. Anche per la gestione della politica monetaria il 2022 è un anno molto importante. La tempistica dell'uscita dalle politiche di sostegno alla liquidità (leggi acquisti di titoli di stato) della Banca centrale europea avrà conseguenze immediate sui tassi di interesse in Europa. E sappiamo quanto la sostenibilità dei nostri conti pubblici dipenda dal livello dei tassi di interesse. Ora, la politica monetaria è gestita dalla Bce, una istituzione indipendente. Ma un buon banchiere centrale, pur decidendo autonomamente, parla con tutti, e le persone con cui parla possono avere molta importanza, soprattutto se hanno esperienza nel settore. Qualcuno potrebbe notare che Draghi serve anche come presidente della Repubblica. Vero. Ma, visto che non lo si può clonare, occorre scegliere tra le due posizioni, soprattutto ora che sembra che il presidente Mattarella non sia disponibile per un secondo mandato (cosa che, al di là dei motivi personali, mi sembra anche preferibile da un punto di vista istituzionale). Viene ventilata da alcuni l'ipotesi di portare avanti comunque la legislatura, anche dopo un possibile passaggio di Draghi al Colle, attraverso un governo tecnico che porti avanti il corrente programma di riforme. Se si trattasse di una guida a distanza, questo solleverebbe, compreso in termini di precedente istituzionale, serissime obiezioni. Ma resta, in ogni caso, il fatto che chi siede effettivamente a Palazzo Chigi fa una differenza enorme in un lavoro che richiede un impegno, una credibilità e una capacità di mediazione fuori dall'ordinario. Tutto questo ci dice che, per quanto importanti siano i risultati ottenuti nel corso degli ultimi dieci mesi, una conclusione prematura di questo governo vada evitata. La recente promozione da parte dell'agenzia di rating Fitch e il giudizio positivo dato dalle organizzazioni internazionali su quanto fatto dal governo italiano indica che anche a livello internazionale il recente progresso viene apprezzato. Ma che esistano ancora forti incertezza sul futuro dell'Italia, a mio giudizio condizionale dall'incertezza sul futuro del governo, è provato dal persistere dello spread, l'indicatore più sintetico del rischio attribuito all'investimento nei nostri titoli di Stato, su livelli elevati rispetto a quelli degli altri Paesi del Sud Europa. E lo spread nelle ultime settimane è risalito a livelli che non si vedevano da oltre un anno. Oltre all'aumento dell'inflazione, non conterà anche il percepito avvicinarsi della fine del governo Draghi, con la sua elezione a presidente della Repubblica? Draghi è stato appropriatamente silenzioso sulla questione della futura presidenza della Repubblica. Non spetta a lui decidere. La scelta spetta al Parlamento. Da cittadino spero che possa continuare nel suo attuale lavoro e che la decisione sulla presidenza della Repubblica non rifletta l'attrattività che per qualche partito potrebbero avere elezioni anticipate. Draghi sarebbe un ottimo presidente della Repubblica, ma altri eccellenti candidati (uomini e donne) sono disponibili. Sostituirlo come presidente del Consiglio sarebbe molto più difficile».

QUIRINALE 2, I CANDIDATI DEI DUE MATTEO

C’è un dialogo tra la Lega di Matteo Salvini e Italia viva di Matteo Renzi sul futuro Presidente. C’è stato anche un colloquio alla Camera fra i capogruppo Boschi e Molinari sul tema. Il retroscena per Repubblica è di Emanuele Lauria.

«Il Presidente dei due Matteo ha un identikit preciso: figura esperta, autorevole, distante dai due principali schieramenti. E nell'agenda dei due Matteo, Salvini e Renzi, sono segnati almeno un paio di nomi che corrispondono a quei profili: Pierferdinando Casini, il preferito dell'ex premier, e Giuliano Amato, che nel 2015 fu il candidato in pectore del centrodestra prima che lo stesso Renzi virasse su Mattarella. La certezza è che il confronto fra Lega e Italia Viva, quel dialogo sul Quirinale indicato come prioritario ieri su Repubblica dal vicesegretario del Carroccio Lorenzo Fontana, è già iniziato. I contatti fra i leader non mancano e fonti qualificate raccontano di un colloquio alla Camera, la settimana scorsa, fra la capogruppo dei renziani Maria Elena Boschi e l'omologo leghista Riccardo Molinari. L'ex ministra, con discrezione, ha sondato la disponibilità a ragionare sul nome di Casini, visto come profilo super partes non sgradito a Berlusconi - di cui è stato a lungo alleato - ma neanche al Pd, che nel 2018 lo appoggiò nel collegio di Bologna. I tempi per un qualsiasi accordo, ovviamente, sono prematuri. E Salvini ha un punto d'onore da rispettare: sostenere, finché possibile, il nome di Silvio Berlusconi. Ma sa bene che, per giungere a una qualsiasi intesa preventiva, occorre lavorare su un obiettivo che, come ha detto Fontana, sia quello di indicare «un Capo dello Stato super partes e garante di tutti». Parole che, non a caso, vengono sottolineate da uno dei big di Italia Viva, Ettore Rosato: «Lavoriamo a una scelta unitaria del Parlamento, dobbiamo evitare uno scontro tra centrodestra e centrosinistra sul nuovo presidente». Rosato conferma il dialogo con la Lega ma allarga il campo: «Noi pensiamo anche a Fratelli d'Italia. Dobbiamo scegliere l'arbitro, non un giocatore, e cercheremo di trovare un terreno comune. I candidati di centrodestra e centrosinistra non hanno numeri e creerebbero un problema anche nel governo». Un'ipotesi Casini, o Amato, potrebbe far convergere il centrodestra e una costituenda aggregazione liberal-riformista fra Iv, Coraggio Italia e altri moderati. Da verificare il gradimento del Pd, che non ha mai smesso di sperare in un Mattarella-bis, mentre non mancherebbero le perplessità dei 5Stelle. Luigi Di Maio, in realtà, ha già espresso apprezzamento per l'opzione Amato (oggi vicepresidente della Consulta) ma il Movimento ha poca voglia di andare al traino di Salvini e Renzi, definiti ieri «politici inaffidabili» dal ministro dell'Agricoltura Stefano Patuanelli. Che auspica il proseguimento dell'esperienza di governo di Mario Draghi sino al 2023. Mentre il capo dei 5S, Giuseppe Conte, dal palco di Atreju, precisa che «non sta scritto da nessuna parte che il Capo dello Stato debba essere di centrosinistra. L'importante è che abbia alto profilo morale. E la discussione è aperta a tutti». Ci si muove, ormai da giorni, su due livelli diversi: c'è il piano A, che prevede il trasloco di Draghi sul Colle più alto di Roma, e il piano B, che prevede appunto la permanenza dell'ex banchiere a Chigi, soluzione quest' ultima che eliminerebbe la prospettiva di elezioni anticipate, vista di cattivo occhio dalla maggior parte dei parlamentari. Il piano A avrebbe infatti come subordinata un accordo sulla salvaguardia della legislatura, affidando il governo magari a un attuale ministro vicino a Draghi quale Marta Cartabia o Daniele Franco. Ma è una via d'uscita, questa, che è stata bocciata dal coordinatore di Fi Antonio Tajani, primo sostenitore della nomination di Berlusconi per il Quirinale e della conferma di Draghi nel ruolo di Presidente del Consiglio. Il corridoio è stretto. E il pericolo, avverte il dirigente del Pd Goffredo Bettini, è che il capo del governo, di qui a un paio di mesi, possa uscire di scena: «La mia preoccupazione è che non si elegga Draghi a Presidente, quindi rimanga premier e poi alla fine il governo non regga. Una situazione in cui Draghi sarebbe tolto dalla politica italiana in tutti i ruoli possibili: questo - conclude Bettini - non sarebbe positivo».

QUIRINALE 3. ANCHE VALENTINO ROSSI CHIEDE IL BIS

Il giorno dopo l’ovazione alla Scala con la richiesta del Bis salita dal pubblico milanese, Marzio Breda sul Corriere racconta gli umori sul Colle più alto.

«Ha visto, presidente? La gente la vuole ancora al Quirinale». Quando l'altra sera Sergio Mattarella si è sentito ripetere per l'ennesima volta l'appello ad accettare il bis, perché «glielo chiedono gli italiani», è sembrato sbuffare per il disappunto. Non era così. In quel momento stava solo prendendo fiato, emozionato e commosso, perché il contesto era quello della calorosissima ovazione della Scala. Di fronte all'insistenza del suo interlocutore ha opposto una replica alla sua maniera. Spiegando laconicamente che «queste cose le decide il Parlamento», e aggiungendo che «la Costituzione non prevede un'elezione diretta del capo dello Stato». Tante grazie a tutti, quindi, ma lui non cambia la propria scelta e comunque non era il caso di dilungarsi lì in chiarimenti tecnico-giuridici per motivarla. La propria posizione, del resto, l'ha già resa esplicita in diversi interventi pubblici. E anche attraverso i richiami a quanto, su questo stesso tema, avevano detto fin da tempi remoti i suoi predecessori Antonio Segni e Giovanni Leone. Tuttavia qualcuno continua a sperare che, dopo un appello eclatante come quello risuonato con gli applausi e i bis gridati nel teatro milanese, il capo dello Stato ci ripensi. Fra i tanti che mostrano di volerci credere c'è anche «il Dottore» Valentino Rossi, ricevuto ieri sul Colle con i vertici della Federazione motociclistica italiana e con i campioni del mondo 2021. Il quale, uscendo dal palazzo, ha detto: «È stato un grande presidente, se continuerà saremo contenti». Siamo a un punto in cui bisogna dire la verità: se anche Mattarella avesse mutato idea, e non l'ha fatto, la sua ipotetica disponibilità rientrerebbe nella sfera dell'indicibile, perché la partita dipende ormai da due cose, più che da lui. Cioè dall'andamento della doppia crisi in cui siamo, tra pandemia e rilancio economico del Paese. E poi dalle manovre della politica, che finora ha dato prova di insufficienza e smarrimento. Il capo dello Stato non c'entra più e il perché lo ha spiegato, quando ha fatto sapere che è meglio «cercare un'altra persona». Un secondo mandato presidenziale, tanto più se dichiaratamente a termine, è contro i suoi princìpi e contro lo spirito della Costituzione. Rappresenterebbe infatti un secondo precedente dopo l'esperienza di Giorgio Napolitano, trasformando in prassi consuetudinaria quella che dovrebbe restare una eccezione. Ecco perché ha sempre detto che sette anni bastano. A maggior ragione perché, se si confermasse l'esempio della rielezione, un presidente della Repubblica vedrebbe gravare su di lui il sospetto di non essere sul serio libero nelle proprie opzioni. Insomma: si potrebbe pensare che certi incarichi di governo siano stati dati, o ostacolati, per conquistarsi un consenso politico. E questa è un'idea insopportabile per uno come Mattarella, che si è sforzato di essere in ogni momento al di sopra delle parti e di adoperarsi per la stabilità del Paese. Basta riflettere sulla nascita dei due governi più discussi di questa legislatura, quello gialloverde e quello giallorosso, per sincerarsene».

CARTABIA E CONTE ALLA FESTA DELLA MELONI

La festa di Fratelli d’Italia a Roma, “Atreju”, continua ad ospitare i protagonisti della politica italiana. Ieri è stata la volta di Marta Cartabia e di Giuseppe Conte. La cronaca di Luca De Carolis sul Fatto:

«Prima lei, la Guardasigilli che al Quirinale pensa ma ovviamente mai lo dirà, e che dal palco dà per "imminente" la riforma del Csm. Poi l'avvocato, che per restare leader dei 5Stelle non dovrà ritrovarsela nelle urne per il Colle, altrimenti il M5S esploderebbe, perché come potrebbe votare la ministra della controriforma della Giustizia? In un'Immacolata che per Roma è tutta una pioggia, ecco la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il presidente del M5S Giuseppe Conte, uno dopo l'altra sul palco di Atreju - il Natale dei conservatori, la festa di Fratelli d'Italia dove da giorni si affollano i big della politica italiana, a poco più di un mese dalla riffa per il Quirinale. Attorno alle 18 tocca all'ex presidente della Consulta, in giacca verde e tanta gentilezza: "Non ho mai partecipato ad alcun dibattito politico, ma questo era un atto dovuto verso l'unico partito d'opposizione". Giorgia Meloni e la platea applaudono. Ergo, se un segnale andava dato eccolo dalla ministra quirinabile, colei che sarebbe - dicono - la sostituta che Sergio Mattarella vorrebbe. Nell'attesa Cartabia fa il suo, annunciando come "imminente" la riforma del Consiglio superiore della magistratura: "Da domattina alle 8 (oggi, ndr) comincerò a consultare i partiti di maggioranza". Ma a occhio introdurre il sorteggio per l'elezione del Csm non la convince: "I sistemi elettorali possono incidere, ma non è lì che cambi gli attori che giocano la partita". Promette: "Il governo lavora per una giustizia che risponda di più ai principi costituzionali". Con lei ci sono il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana e l'ex magistrato Carlo Nordio, che parla di partiti "che si sono consegnati alle Procure", e attacca il trojan introdotto dalla Spazzacorrotti dell'ex Guardasigilli Bonafede ("una vergogna"). Cartabia glissa, lotta con una tosse insistente e parla d'altro, mentre un diluvio si abbatte sulla manifestazione. E prima di salutare giura e rivendica: "Affronteremo tutti i nodi, se avessi scelto un ministero dove avere una comfort zone non mi sarei seduta al ministero della Giustizia". Cartabia se ne va, senza aver detto una sillaba sul Colle. Un quarto d'ora, e sul palco arriva Conte. Dietro di sé ha lasciato altri mugugni nel M5S : tanti, sono per le sue parole su Silvio Berlusconi ("Ha fatto anche cose buone"). Ma a ruminare malumore c'è anche il comitato di Garanzia, composto da Luigi Di Maio, Virginia Raggi e Roberto Fico. Domenica scorsa Conte non li avrebbe pre-avvertiti delle votazioni su vicepresidenti e comitati tematici: e loro non avrebbero affatto gradito. La certezza è che ad Atreju il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano gli chiede subito della petizione di FdI per il presidenzialismo, e Conte schiva: "Non ci sono le condizioni per una fase costituente, piuttosto introduciamo la sfiducia costruttiva". Anzi, davanti alla Meloni che invoca il maggioritario, insiste su una legge proporzionale con sbarramento al 5 per cento. Poi rivendica di non aver voluto correre a Roma per il seggio per la Camera: brusio in platea, e il direttore del Tempo Franco Bechis che morde: "Si è rifiutato di perdere, era un pacco". Conte reagisce - "lei vuole rubare applausi" - e ripete: "Ho declinato il cortese invito di Enrico Letta". Quindi rilancia: "A tempo debito decideremo come scegliere il leader di coalizione, ma l'ipotesi di fare le primarie non mi spaventa". Quindi, il Quirinale. Sangiuliano prova a snidarlo: "Si potrebbe avere un presidente non di sinistra?". E Conte: "Assolutamente sì, l'importante è che sia di alto profilo morale". Chissà come la prenderanno nel Pd. E comunque poi arriva il tiro a porta vuota di Bechis: "Mi elenca due o tre cose buone fatte da Berlusconi?". La gente ride e l'avvocato si rivolge a Meloni: "Giorgia, perché ridono?". Poi cerca di uscirne: "Credo che nel 1994 Berlusconi abbia contribuito a spingere certi partiti verso una destra più moderna". Infine, i referendum sulla giustizia: "Apriremo una discussione nel M5S , alcuni potrei sottoscriverli anche io, ma l'impianto non mi convince". Ma tanto si era già toccato l'acme sul Caimano: modernizzatore».

RENZI PROPONE LA BONETTI PER ROMA 1

A proposito di Conte, dopo il suo rifiuto a partecipare alle suppletive di Roma1, mossa del leader di Italia viva. Renzi propone la ministra Elena Bonetti per il seggio alla Camera «rifiutato» dall'ex premier. Maria Teresa Meli sul Corriere.

«Con una delle mosse a sorpresa che gli sono abituali Matteo Renzi ha fatto filtrare la voce che Italia viva ha in mente di presentare una sua candidatura nel collegio di Roma centro. Quello che il Partito democratico aveva offerto a Giuseppe Conte, il quale, dopo la ventilata discesa in campo di Carlo Calenda, aveva rinunciato a correre per il seggio lasciato libero da Roberto Gualtieri. Il nome che Italia viva fa filtrare è quello di Elena Bonetti, ministra per le Pari opportunità e la Famiglia. È la sua candidatura che Iv fa sapere di voler proporre ai possibili alleati Pd e Movimento 5 Stelle. Sia i dem che il M5S hanno lasciato cadere nel vuoto, almeno finora, la proposta avanzata da Iv. Nel senso che non hanno dato nessuna risposta, se non il silenzio. Anche perché la mossa del leader di Iv è stata interpretata dai 5 Stelle e dai dem romani come una provocazione. Di più: come un modo per mettere in difficoltà il Partito democratico. È noto infatti che Enrico Letta aveva intenzione di puntare per quel collegio su una donna. Tanto che il leader pd aveva frenato sulla candidatura di Enrico Gasbarra, nonostante fosse sostenuta dai maggiorenti del partito capitolino. Nei giorni scorsi si era parlato di Cecilia D'Elia, responsabile delle donne, nonché zingarettiana di ferro, e della ex segretaria della Cisl Annamaria Furlan. Dunque non è un caso che Renzi abbia deciso di proporre una donna. Per di più ministra di un governo in cui sia il Partito democratico che il Movimento 5 Stelle collaborano con Italia viva. È chiaro che l'obiettivo del leader di Iv non è quello di spuntarla in un braccio di ferro e di ottenere un sì dai dem e dai grillini sul nome di Bonetti. E la sua, nonostante il retropensiero di Pd e M5S, non è nemmeno una provocazione fine a se stessa. L'ex presidente del Consiglio ha un obiettivo ben preciso: quello di condizionare il Pd e di far sì che Letta si decida per una candidatura di stampo «riformista», si muova, cioè, per allargare il campo e per non «lasciarlo ristretto solo ai 5 stelle e a Leu», spiega un autorevole dirigente di Iv. «Altrimenti - prosegue sempre quel dirigente - vuol dire che il Pd in realtà non punta affatto a un effettivo campo largo». Per intendersi, al leader di Italia viva il nome di Furlan (che ieri a sera aveva preso quota) andrebbe benissimo. Se Letta avanzasse quella candidatura, Iv sarebbe della partita».

NASCE IL NUOVO GOVERNO TEDESCO

Dopo sedici anni un socialdemocratico, Olaf Scholz, torna al governo di Berlino. Le prime sfide sono rappresentate dal Covid e dal Nord Stream 2, messo in discussione per condizionare la Russia di Putin. Le prime trasferte saranno a Parigi e a Varsavia. Scholz ha voluto un giuramento laico da cancelliere. Al Bundestag ovazione bipartisan per salutare Angela Merkel. La cronaca di Tonia Mastrobuoni per Repubblica.

«Alle nove e qualche minuto scatta il primo, lunghissimo applauso: è l'addio del Parlamento alla cancelliera uscente Angela Merkel. E lei, anche in questa occasione, ormai ospite in tribuna, non rinuncia alla sua proverbiale sobrietà. Dopo un po' si alza in piedi e si risiede, come a dire, grazie, adesso basta, non siamo qui per me. Oggi è il giorno del suo erede. E la presidente del Bundestag, Baerbel Bas, avvia prontamente la chiama dei parlamentari per il voto segreto. Un'ora e rotti dopo, il risultato è netto: Olaf Scholz è cancelliere. L'hanno votato 395 parlamentari, una robusta maggioranza, non la "sua" maggioranza "semaforo" che conta su 416 parlamentari. «Ci sono state un po' di assenze, sei-sette positivi al coronavirus», minimizza uno dei suoi uomini. Ma le defezioni restano una quindicina. Nelle immagini ravvicinate che qualche tv ha restituito di quegli istanti, si coglie l'attimo in cui Scholz sente quella cifra e strizza gli occhi, sollevato. Scholzomat, il "cancelliere automa" dalla tempra nordica, l'ex sindaco di Amburgo noto per i modi asciutti e misurati, si è concesso ieri tanti momenti di commozione e tanti sorrisi. È il primo cancelliere socialdemocratico che torna a governare la Germania dopo sedici anni. E tra le tante cose che lo accomunano con Merkel - la sobrietà, il talento negoziale o il sangue freddo - ce n'è una che riguarda anche la loro vita privata. Se Joachim Sauer è sempre stato il principale consigliere di Merkel, Britta Ernst lo è di suo marito Scholz. Anche il sessantatreenne neo cancelliere non ha figli, come Merkel, e da 23 anni è legatissimo a sua moglie, che fa la ministra della Cultura in Brandeburgo. In una recente intervista, Scholz ha dichiarato solennemente che «l'amore è la cosa più importante della vita». Ma il padre 86enne Erhard Scholz ha un po' incrinato quel romanticismo. Ieri anche lui era seduto in tribuna con la moglie Christel, e ai giornalisti ha raccontato che il figlio «voleva fare il cancelliere a dodici anni». Al pomeridiano passaggio delle consegne alla cancelleria, anche Merkel è calorosa: «È un compito eccitante, che sazia e sfida; quello di assumersi la responsabilità del Paese, se esercitato con piacere, può essere uno dei compiti più belli che ci siano». Una nota di colore è che dopo il passaggio di rito della nomina del presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmeier, Scholz è tornato in Parlamento per il giuramento e ha voluto omettere, da ateo, la frase «che Dio mi aiuti». Il nuovo cancelliere tedesco è nato in una famiglia protestante, ma è uscito dalla Chiesa. Un altro momento che dimostra quanto la Germania sia ancora un baluardo di civiltà politica è stato il gesto del suo sfidante della Cdu/Csu alle elezioni, Armin Laschet, tra i primi a precipitarsi da lui per congratularsi. La maratona di Scholz per la conquista del cancellierato dovrà trasformarsi ora in uno sprint per affrontare le grandi sfide del momento, pandemia in testa. E la grave crisi tra Mosca e Kiev, le pressioni degli americani per costruire una risposta forte all'eventuale invasione russa, sta già imprimendo una svolta a Berlino. Ieri alcune fonti governative assicuravano che nel caso di un attacco, Scholz considererà «tra le altre opzioni» anche quella di bloccare il gasdotto Nordstream 2 che collega la Germania alla Russia. Domani, intanto, Scholz vola a Parigi per incontrare Macron; sarà anche a Bruxelles e domenica a Varsavia per parlare con il premier Morawiecki. Il primo incontro da cancelliere con Draghi la prossima settimana, al Consiglio europeo».

Secondo l’analisi di Giovanni Maria del Re per Avvenire la vera incognita del nuovo governo Scholz è il «fattore g». G come grunen, i Verdi della coalizione.

«È iniziata l'avventura del «Semaforo» guidato dal neo cancelliere Olaf Scholz. Un'avventura seguita con non poca ansia in Germania e in Europa. Anzitutto, il nuovo governo, neanche insediato già deve affrontare subito, senza neppure il tempo di un rodaggio, la gravissima crisi Covid che flagella la Germania. Con pazienti spediti in giro per il Paese, ma anche fuori (pure in Italia) per il sovraffollamento delle terapie intensive. Segnale dei gravissimi errori commessi dal precedente esecutivo. Scholz, che ha già promesso misure per un «controllo preciso» della pandemia, lo sa bene. Anche per questo un po' a sorpresa ha deciso di nominare come nuovo ministro della Salute il responsabile Sanità dell'Spd Karl Lauterbach, medico virologo e onnipresente sui talk-show, senza però esperienze di governo e non amato da buona parte del suo stesso partito. Un segnale che le competenze tecniche in questo frangente fanno premio su ragioni politiche. Non sarà impresa facile, a fronte di un movimento no-vax ormai anche violento e difficile da controllare, ancor più di fronte al «lockdown per i non immunizzati» in salsa austriaca e obblighi vaccinali per varie categorie di lavoratori, misure varate con la nuova maggioranza «Semaforo». Del resto i tedeschi sono già molto stanchi di due anni di pandemia e non tollereranno pasticci dal governo Scholz. E meno male che i Liberali (Fdp) guidati da Christian Lindner, nuovo ministro delle Finanze, hanno rinunciato a molte posizioni anti-divieto dei mesi passati. Pandemia a parte, l'esperimento «Semaforo» reca con sé molte incognite. Ci sono promesse inconciliabili, come il rifiuto dei socialdemocratici di toccare le pensioni, anche le più ricche e pure l'età pensionabile a fronte di un invecchiamento della popolazione e al tempo stesso il no secco dei Liberali a qualsiasi benché minimo aumento di tasse e a una modifica della norma costituzionale che impone un «freno ai debiti». E pesa non poco il malumore dei Verdi - che già qualcuno definisce il «fattore G», da Grünen -, che hanno subito due smacchi: hanno dovuto rinunciare non solo al dicastero delle Finanze (cui ambiva il copresidente e ora vicecancelliere Robert Habeck), come detto assegnato al leader Fdp Lindner, ma anche, a sorpresa, a quello dei Trasporti, dato al segretario generale (numero due) dei Liberali Volker Wissing, fedelissimo di Lindner. Habeck, certo, ha ottenuto il nuovo mega-ministro dell'Economia e del clima, ed è Verde anche il potente ministero dell'Agricoltura. Resta però che il copresidente verde dovrà fare i conti con il leader Fdp che detiene i cordoni della borsa, vari commentatori sospettano che il neo ministro delle Finanze preferirà dare miliardi al suo fido Wissing piuttosto che al rivale ambientalista. Tra Lindner e Habeck Der Spiegel vede anzi uno scontro di «ego» foriero di problemi nei mesi a venire. Anche perché, sostiene il settimanale, su molti fronti Scholz si è mostrato decisamente più vicino alle istanze dei Liberali che a quelle dei Verdi. La base degli ambientalisti ha digerito l'accordo per il «Semaforo», ma rimane in subbuglio e difficilmente sarà pronta ad accettare ulteriori smacchi e soprattutto cedimenti sugli obiettivi ambientali e climatici che i Verdi sono riusciti a far passare nell'Accordo di coalizione. E si sa che invece i Liberali non sono disposti a sacrificare l'economia e le imprese sull'altare del clima e dell'ambiente. Molto dipenderà dalle capacità di Scholz. Durante i negoziati, raccontano i media tedeschi, ha fatto da mediatore o è addirittura rimasto in silenzio lasciando che Verdi e Liberali litigassero fra loro. Quando però si tratterà di governare davvero il cancelliere dovrà sapere intervenire. Se non ci riuscirà, l'esperimento «Semaforo» potrebbe non sopravvivere a lungo».

DOVE VA LA POLONIA SOVRANISTA

Tonia Mastrobuoni intervista il premier polacco Mateusz Morawiecki alla vigilia del suo incontro a Roma con Mario Draghi.

«Mateusz Morawiecki chiede il blocco di Nord Stream 2 per dare un segnale alla Russia e apre all’ipotesi di un esercito europeo autonomo. Perché Vladimir Putin “vuole dividere l’Europa” e va affrontato con fermezza. Alla vigilia del suo incontro di domani con Mario Draghi, il premier polacco rivela che la Russia e i ricatti energetici di Putin saranno anche al centro dei colloqui con Roma. Ma il premier conservatore respinge l’ipotesi di accogliere i profughi bloccati alla frontiera della Bielorussia e non risponde, in quest’intervista scritta con Repubblica, alla domanda su come l’Ue dovrebbe risolvere il nodo dei migranti, né se Varsavia ha intenzione di introdurre davvero il “superprocuratore” che interverrebbe nei processi su aborti, divorzi e famiglie Lgbt+ e che è in discussione in Parlamento.

La Russia minaccia un’invasione dell’Ucraina. Secondo lei Putin vuole solo scongiurare un allargamento a est della Nato?
“Putin segue il vecchio principio del 'divide et impera'. Vuole dividere l'Europa perché solo così può perseguire i suoi interessi. Il suo obiettivo principale è ricostruire il potere imperiale della Russia a spese dei suoi vicini. Oggi è l'Ucraina a essere sulla prima linea del fuoco. Mai negli ultimi 30 anni lo spettro di un conflitto armato al confine orientale dell'Ue è stato così reale. La Russia sta testando fino a che punto può spingersi con l'Europa. Vladimir Putin utilizza la forza su tutti i piani. Anche in economia. Sa che il suo potere dipende dai prezzi del gas. E sta facendo di tutto per mantenere l'Europa dipendente solo dalle sue forniture. Nel contempo, nella parte orientale del continente, viola brutalmente l'integrità territoriale degli Stati e congela i conflitti. Abkhazia, Ossezia del Sud, Transnistria, Donbass e Crimea – sono trattati da Putin come strumento e arma nella sua spietata strategia”.
Il colloquio tra il presidente americano Biden e Putin è stato tesissimo. Cosa si aspetta da Mosca?
"Se i colloqui Biden-Putin dovessero portare a una riduzione delle azioni della Russia nei confronti dell'Ucraina e dell'Europa, ringrazierò e mi congratulerò personalmente con il presidente Biden. L'esperienza mostra, tuttavia, che non ci si può fidare di Putin e che la politica delle concessioni non funziona. Il presidente russo deve capire che l'Ucraina non è sola e che, in caso di aggressione, deve aspettarsi delle sanzioni che colpiranno il sistema finanziario russo. Oggi è una condizione sine qua non per ulteriori negoziati”.

L’Europa come dovrebbe comportarsi con la Russia?
“La Russia deve scegliere se vuole essere in Europa o essere contro l'Europa. Vladimir Putin oggi sceglie il conflitto. È dannoso non solo per l'Europa, ma anche per la sua nazione. L'Europa non vuole il conflitto con la Russia. Ma l'Europa non può permettersi di sottostare a intimidazioni e ricatti energetici. Per questo, di fronte alla provocazione di Putin, dobbiamo restare uniti. Il tempo delle concessioni è finito. Dobbiamo avere reazioni dure a politiche dure sotto forma di sanzioni dure”.

Il gasdotto Nord Stream 2 dovrebbe essere fermato secondo lei?
“Sì. Senza il minimo dubbio. Nord Stream 2 è un progetto usato politicamente fin dall’inizio. Dovrebbe essere un simbolo e uno strumento del dominio della Russia sull'Europa centro-orientale. E devo dire che le conclusioni dopo il colloquio tra il presidente Biden e il presidente Putin sono preoccupanti. Il consenso condizionato al Nord Stream 2 e l'assenza di sanzioni contro la Russia significherebbero una politica di concessioni alla politica imperiale del Cremlino. Sarebbe un'espressione della debolezza europea. È un progetto pericoloso per l'Europa per almeno due ragioni. Innanzitutto, rende il continente ancora più dipendente da un unico fornitore. In secondo luogo, toglie ai Paesi di transito ulteriori argomenti per difendersi dalle tentazioni del loro vicino orientale. La Bielorussia è il miglior esempio di quello a cui porta la dipendenza dalla Russia”.

Il dittatore bielorusso Aleksandr Lukashenko ha reagito alle sanzioni occidentali annunciando un taglio delle importazioni e dei voli dall’Europa. Putin, secondo gli analisti, lo aiuterà con crediti convenienti e gas a prezzi scontati. Come dovremmo reagire?
“La reazione di Lukashenko alle sanzioni mostra due cose. Primo, che chi guida dal sedile posteriore è Vladimir Putin. Secondo, che la fiducia in sé di Lukashenko è falsa, perché egli dimentica il prezzo che pagherà nei prossimi anni per la dipendenza permanente dalla Russia e per il taglio dalle libere relazioni economiche con l’Europa".

L’Europa dovrebbe creare una forza militare autonoma?
“L'Europa dovrebbe fare di tutto per garantire la sicurezza dei propri cittadini. Un esercito europeo comune ad integrazione delle forze della Nato è un progetto per il futuro di cui vale la pena parlare, ma abbiamo bisogno di azione qui e ora”.

Il suo governo sostiene che ci sono ancora 7mila profughi alla frontiera con la Bielorussia. Ma non lasciate ancora accedere i giornalisti. E perché non accogliere quei migranti? 
“I migranti sono stati portati dal regime bielorusso e Aleksandr Lukashenko ne è personalmente responsabile. Ogni concessione è solo un incoraggiamento a ulteriori provocazioni. E non devo ricordare agli italiani gli effetti della crisi migratoria. La mancanza di una reazione decisa dell'Ue nel 2015 ha fatto sì che Paesi come Italia, Grecia e Spagna sono tuttora alle prese con la pressione migratoria”.

Lei domani incontrerà a Roma il premier Mario Draghi. Di cosa parlerete?
“Il motivo principale della mia visita è parlare dei pericoli relativi alle azioni della Russia sul fianco orientale della Nato, della situazione al confine polacco-bielorusso, cioè al confine orientale dell'Ue. Un altro argomento è la manipolazione russa dei prezzi del carburante e delle forniture di gas. Le conseguenze di questa politica ricadranno su tutti, ne risentiranno sia polacchi che italiani. Ma anche all'ombra di questa minaccia, credo che riusciremo a parlare del futuro dell'Europa. Le minacce esterne non devono oscurare ciò che è cruciale: la ripresa dalla pandemia e lo sviluppo che riporterà agli europei la speranza di un domani migliore”.

Le donne protestano da anni nel suo Paese contro il bando contro l’aborto. E di recente una donna è morta perché non ha potuto abortire un feto malformato. Non pensa che le sue leggi stiano punendo le donne, di fatto?
“L'aborto in Polonia è consentito in alcuni casi. Una settimana fa il Sejm ha respinto la bozza del divieto totale di aborto. La maggior parte dei parlamentari del nostro partito di governo ha respinto quel progetto. Le donne hanno il diritto di interrompere la gravidanza se essa minaccia la loro salute e la loro vita. Minaccia nel senso lato del termine. Hanno il diritto di interrompere la gravidanza anche quando essa è frutto di un qualsiasi atto criminale. Nel tragico caso a cui si riferisce, la legge era dalla parte della donna. Purtroppo, qualcuno probabilmente ha commesso un errore reagendo troppo tardi”».

LA STRATEGIA DI BIDEN SECONDO CARACCIOLO

Separare Mosca da Pechino è il vero obiettivo della Casa Bianca. L’Ucraina sarebbe dunque una pedina in un gioco globale in cui il Presidente usa Biden è pronto a cedere qualcosa a Putin per convincerlo a staccarsi da quello cinese Xi. Lucio Caracciolo per La Stampa.

«Nel 2014 gli Stati Uniti spinsero la Russia nelle braccia della Cina appoggiando il rovesciamento del regime ucraino, considerato marionetta del Cremlino, e stroncando la mediazione franco-tedesca. In questo modo riuscirono a costruire un'improbabile ma effettiva coppia sino-russa, a tutto vantaggio della Cina. Mettere insieme il Numero Due e il Numero Tre non è esattamente il compito del Numero Uno. Eppure è accaduto e resta un fatto. Ma non occorre leggere Clausewitz per stabilire che rafforzare il proprio avversario principale (Pechino) offrendogli le notevoli risorse militari, energetiche e tecnologiche dell'avversario secondario (Mosca) non è mossa da manuale. Dopo il vertice virtuale Putin-Biden possiamo intuire che qualcuno a Washington comincia a chiedersi se aver strappato Kiev a Mosca con ciò regalando Mosca a Pechino sia stato un affare. Mentre al Cremlino ci si è resi conto che stringere troppo il legame con Pechino porterebbe al suicidio. Non per caso Putin rifiuta il termine "alleanza" per descrivere l'intesa con Xi. Nel summit a distanza fra i due presidenti il convitato di pietra era proprio l'omologo cinese. Perché parlare oggi di Ucraina fra russi e americani significa parlare soprattutto di Cina. Mesi di propaganda al massimo volume in Russia contro il rischio esistenziale dello scivolamento dell'Ucraina nella Nato e di contropropaganda in America sull'imminente invasione russa per riportare Kiev sotto il proprio controllo hanno prodotto un vertice interlocutorio ma rivelatore. Biden e Putin hanno insistito sulla "diplomazia", così mettendo provvisoria sordina all'isteria bellica che dominava la vigilia. Negoziatori russi e americani stanno stabilendo i formati del nuovo dialogo informale, che mira a congelare il conflitto nel Donbas e a lasciare impregiudicato lo status geopolitico dell'Ucraina. Ma guardando ben oltre la nuova cortina di ferro. Né Putin né Biden vogliono la guerra, consapevoli che i rispettivi fronti interni non reggerebbero (l'americano meno del russo). Il leader russo conta però sul vantaggio asimmetrico di poter operare un blitz per strappare altri territori a Kiev, già privata della Crimea e con il Donbas fuori controllo. Americani, britannici e altri paesi Nato - fra cui la Turchia, con i suoi droni che saranno presto prodotti anche in Ucraina - rispondono armando e addestrando le Forze armate locali, che allo stato non sono in grado di sostenere l'impatto con i russi. E la "minaccia" americana di rispondere con dure sanzioni economiche a un attacco dell'Armata russa conferma che a Washington non eccita la prospettiva di morire per qualche spicchio di un remoto Paese della cui collocazione nel planisfero l'americano medio non ha idea. Qui subentra il fattore Cina. Posto che Russia e America trattano sull'Ucraina, i cinesi hanno ragione di sospettare che il negoziato possa sfociare nell'allentamento della loro presa su Mosca. Il viaggio di Putin a Delhi alla vigilia del vertice con Biden per firmare un corposo accordo di aiuti militari e tecnologici all'India, arcinemico di Pechino, supporta le interpretazioni dei maliziosi. Oltre a confermare che l'India - come gli altri partner asiatici che Washington considera vitali per il contenimento della Cina - gioca su diversi tavoli contemporaneamente. Considerate le condizioni strutturali di partenza, con la Russia costretta sull'estrema difensiva perché l'Ucraina nell'impero europeo dell'America - Nato o non Nato - sarebbe pericolo esistenziale, osserviamo che questo round è stato vinto da Putin. Ai punti. Perché ha acquistato spazio e tempo di manovra sulle due scale, la regionale e la globale. L'Ucraina è più lontana di ieri dall'Alleanza Atlantica, anche perché i principali Paesi euroccidentali - Francia, Germania, Italia - oltre a una consistente fetta della sua stessa popolazione lo escludono. E la Russia sta riconquistando margine di manovra nel triangolo con Cina e Stati Uniti. Ma basta davvero poco - l'allargamento dello scontro nel Donbas, un incidente navale nel Mar Nero, un contro-colpo di mano russo a Kiev - per incendiare di nuovo l'intera Ucraina, epicentro di due guerre mondiali».

LA QUESTIONE DEI TELEFONINI KASHER

Elena Loewenthal sulla Stampa racconta un caso che agita Israele: rabbini ortodossi si oppongono alla liberalizzazione della telefonia mobile nel Paese.

«C'è ben altro a cui pensare, eppure per la delegazione di rabbini ortodossi che qualche giorno fa ha chiesto udienza a Yoaz Hendel, ministro delle Telecomunicazioni del governo israeliano, la faccenda è talmente cruciale che hanno chiamato in causa il rischio di un nuovo «olocausto» - o più semplicemente un infausto salasso demografico nei loro ranghi di osservanti. La questione risale all'ingresso in Israele, come nel resto del mondo, dei telefoni cellulari, che in questo Paese hanno raggiunto prestissimo una diffusione capillare. Da sempre, cioè da quando esistono i telefonini, gli ebrei osservanti possono attivare un piano tariffario dedicato perché l'uso del device è di per sé vietato il sabato e nelle feste. Anche le compagnie di assicurazione auto hanno un'offerta di questo tipo, che esclude la copertura quando secondo la legge religiosa è vietato spostarsi. I religiosi garantiscono di non usare né telefono né automobile nei giorni festivi. Le cose si sono complicate con l'avvento dello smartphone e delle sue potenzialità di navigazione. I rabbini della comunità ultraortodossa d'Israele sono corsi ai ripari anni fa con un rigoroso comitato di controllo che impone ai fedeli l'uso di una linea «kasher», cioè solo con determinati e tracciabili prefissi. Lo smartphone è, nella loro ottica, un pericoloso affaccio sull'idolatria e su una miniera di informazioni e immagini inammissibili. Internet e televisione sono banditi dalle case ultraortodosse. Israele è un Paese complesso, ricco di identità in conflitto fra di loro senza bisogno di entrare in quello che è il conflitto per antonomasia, quello arabo/ebraico: c'è una Tel Aviv che è la città più gay friendly del mondo e dell'innovazione digitale, dove però a pochi chilometri dal centro si trova una delle aree a più alta densità demografica del Medio Oriente, popolata di ultraortodossi vestiti di nero, donne con il capo coperto e frotte di bambini. Da quando esistono gli smartphone il comitato rabbinico per le questioni di telecomunicazioni li ha tassativamente vietati e ha proibito la portabilità dei numeri con i prefissi kasher. Ma ora, a quanto pare, le cose stanno cambiando: il ministro sta approntando una riforma che consentirà a tutti di cambiare operatore senza restrizioni. Questo farà sì che i numeri kasher non saranno né bloccati né tracciabili: nessuno, neanche i rabbini, potrà più avere la certezza che l'utente stia usando un telefono kasher - cioè senza accesso alla rete internet e a gran parte delle applicazioni di comunicazione. Nessuno potrà più fermare il «discreto» passaggio a piani tariffari non kasher di osservanti apparentemente insospettabili. Questa infausta prospettiva ha spinto l'autorevole delegazione a compiere un passo decisamente irrituale per i rappresentanti di una comunità tanto composita quanto diffidente delle istituzioni nazionali e di governo - come si è visto anche nella ritrosia che ha avuto di fronte alla campagna vaccinale in Israele. Quello, per l'appunto, di rivolgersi al ministro per chiedere di bloccare questo passo. Che viene non a caso alla luce dell'esperienza pandemica, quando i telefonini sono diventati uno strumento più indispensabile che mai. Se già prima la pubblica utilità della rete cellulare era per gli israeliani evidente - tutti hanno una app che segnala il lancio di missili da Gaza o dal Nord e indica all'utente il rifugio più vicino e i secondi che ci metterà a raggiungerlo -, con la pandemia questa funzione si è moltiplicata: Israele ha tenuto sotto controllo il Covid con il tracciamento dei contatti, la vaccinazione precoce e l'invenzione del «tav yaroq», che in Europa è diventato «green pass». Questo e altro motivano dunque la riforma volta a dare alla clientela ultraortodossa gli stessi diritti degli altri utenti avviata dal ministro Hendel, che non pare turbato dalle rimostranze del comitato rabbinico. La libertà, di navigazione così come di pensiero, passa anche e forse soprattutto dall'innovazione tecnologica».

L’OMAGGIO PRIVATO DEL PAPA ALL’IMMACOLATA

Ieri mattina, alle 6,15 è ancora buio a Roma in piazza di Spagna, quando il Papa rende omaggio alla Vergine Immacolata. Sceglie di andare da solo in preghiera per evitare assembramenti: un'orazione silenziosa per i malati, i popoli sofferenti, per la conversione dei cuori. Su Avvenire ne scrive Mimmo Muolo.

«Ore 6,15 del mattino. Temperatura di Roma, 4 gradi. Il sole non è ancora sorto e in piazza di Spagna ci sono solo sparuti passanti, ma un'auto si ferma davanti alla colonna che reca in cima la statua dell'Immacolata e ne discende il Papa. Non è mancato neanche in questo secondo anno di Covid l'omaggio del Papa alla Vergine, l'8 dicembre. Anzi è giunto in un orario ancora più antelucano, sempre evitare gli assembramenti e i possibili contagi, nell'interesse della salute pubblica. Intatti però restano il valore del gesto e la profondità della sua preghiera, primi atti di una giornata poi continuata con la tappa a Santa Maria Maggiore, l'Angelus festivo in piazza San Pietro durante il quale papa Bergoglio ha parlato del viaggio a Cipro e in Grecia e ripetuto l'appello a favore dei migranti: «Davanti alla storia, davanti ai volti di chi emigra, non possiamo tacere, non possiamo girarci dall'altra parte», ha sottolineato. Infine nel pomeriggio la visita a sorpresa alla Comunità Cenacolo, dove è stato accolto dai circa 25 fratelli e sorelle della fraternità Buon Samaritano, presente a Roma, e da altri provenienti da alcune fraternità sparse per l'Italia, uniti a famiglie nate nella comunità e alle persone assistite regolarmente. La notizia della sortita mattutina di Francesco in piazza di Spagna è stata data dalla Sala Stampa vaticana. «Questa mattina - si legge nel comunicato diffuso ai giornalisti - poco prima delle 6,15, papa Francesco si è recato in piazza di Spagna per un atto di venerazione a Maria Immacolata, anche quest' anno in forma privata. Mentre attorno era notte - prosegue la nota - il Papa ha deposto un cesto di rose bianche alla base della colonna sulla cui sommità si trova la statua della Madonna e si è fermato in preghiera». In particolare, secondo la Sala Stampa, il Pontefice ha chiesto a Maria «il miracolo della cura, per i tanti malati; della guarigione, per i popoli che soffrono duramente per le guerre e la crisi climatica; e della conversione, perché sciolga il cuore di pietra di chi innalza muri per allontanare da sé il dolore degli altri». Prima di andar via, Francesco ha salutato l'ambasciatrice della Spagna presso la Santa Sede, María del Carmen de la Peña Corcuera, dinanzi al portone di Palazzo Monaldeschi (sede dell'Ambasciata) e quindi alle 6,20 ha lasciato la piazza, recandosi a Santa Maria Maggiore dove ha continuato la preghiera davanti all'icona di Maria Salus Populi Romani. Poco dopo le 7 ha fatto ritorno in Vaticano. E a mezzogiorno si è affacciato dal Palazzo Apostolico per l'Angelus. Alla fine della preghiera mariana Francesco ha fatto quasi un reportage del suo viaggio a Cipro e in Grecia. Dell'isola, definita «una perla di rara bellezza », ha ricordato però che «porta impressa la ferita del filo spinato, il dolore per un muro che la divide». All'arcivescovo ortodosso Chrysostomos ha detto: «Mi ha commosso, quando mi ha parlato della Chiesa Madre». E poi si soffermato sui volti dei migranti ospitati a Lesbo. «Ho potuto guardare la loro sofferenza: per favore, guardiamo negli occhi gli scartati che incontriamo, lasciamoci provocare dai visi dei bambini. Lasciamoci scavare dentro per reagire alla nostra indifferenza; guardiamo i loro volti, per risvegliarci dal sonno dell'abitudine », ha invocato il Pontefice. Infine il Papa ha citato l'incontro con Ieronymos II, arcivescovo di Atene, e ha chiesto di continuare a pregare perché crescano la comunione e la fraternità. L'Angelus si è chiuso con la menzione dell'Anno dedicato a san Giuseppe, patrono della Chiesa universale, chiuso ieri. E la conclusione è avvenuta proprio durante la visita a Comunità Cenacolo. Dopo aver visto un film sulla vita di San Giuseppe, realizzato dai ragazzi ospiti delle due fraternità a Medjugorje, e aver ascoltato alcune delle storie di accoglienza e rinascita, il Papa ha ha esortato a «non avere paura perché a Gesù piace la realtà come è, non truccata; al Signore non piace la gente che si trucca l'anima, che si trucca il cuore» e ha aggiunto: «Aiutate tanti giovani che sono in situazioni come la vostra, dicendo 'Pensa che c'è una strada migliore'». Infine Francesco ha benedetto la cappella, costruita dagli stessi membri con oggetti di recupero, recitando la preghiera a San Giuseppe e contenuta nella Lettera apostolica Patris Corde».

Leggi qui tutti gli articoli di giovedì 9 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/gt5q30x952g8bs6/Articoli%20La%20Versione%20del%209%20dicembre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Share this post

FT vota per Draghi al governo

alessandrobanfi.substack.com
Comments
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing