Funerale di speranza
Con una bella orazione Gino, il padre di Giulia, riscatta la memoria della figlia. Attacco finale a Gaza. Cop28 davanti al bivio sui fossili. Ok del governo ai migranti in Albania. Patto Ue in bilico
A me, che non sono più giovane, è venuto in mente il magnifico discorso di Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio ucciso dalle Brigate Rosse, alle esequie del padre. “Un funerale pieno d’amore e pacatezza”, ha scritto Niccolò Zancan sulla Stampa. Il discorso di Gino Cecchettin, il padre di Giulia, ha finalmente rotto il disagio crescente provocato in questi giorni dalla televisione e dalla stampa del nostro Paese. Negli otto minuti e 55 secondi dell’orazione finale del padre Gino (trovate più avanti il testo integrale) si è dissolta tutta la “narrazione tossica” di questi giorni. Niente più odio e rancore. Si è fermata la protesta tanto generica quanto astratta. Ha avuto uno stop il morboso tornare sul delitto. Su tutto, è svanita l’emotività superficiale. San Tommaso d’Aquino distingueva l’emozione dal sentimento. L’emozione passa e va, è di un momento. Il sentimento è stabile, è una “sentenza” (stessa etimologia) del cuore. Le parole di Gino pronunciate ieri sono state ricche di sentimenti veri. Ha ragione Massimo Calvi che su Avvenire lo ringrazia a nome di tutti i padri italiani. E speriamo abbia ragione anche Aldo Cazzullo quando sul Corriere vede nelle sue parole “uno spartiacque della storia italiana”. Il padre di Giulia ha concluso il suo discorso in chiesa, dicendo che non sa pregare, ma che spera. Viene in mente il grande Charles Peguy: “La speranza è una bambina irriducibile”. Una bambina che ieri ha inaspettatamente fatto capolino ad un funerale.
La guerra in Medio Oriente riserva ancora tanta distruzione. L’esercito israeliano annuncia di essere arrivato alla fase tre dell’offensiva a Gaza. I tank e i bombardamenti sono concentrati a Khan Younis, mentre Benjamin Netanyahu ha detto ai parenti che non tutti gli ostaggi ancora in mano ad Hamas potranno tornare a casa. L’Onu denuncia condizioni apocalittiche per i civili nella Striscia. Per Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore un milione e 800 mila civili palestinesi sono in cammino, avanti e indietro, da 60 giorni senza sapere perché. Il Qatar sta cercando di rimettere in piedi una tregua e una trattativa. Gli Stati Uniti prendono misure contro i coloni israeliani, protagonisti delle violenze in Cisgiordania.
Veniamo alla Cop28. In sostanza la Conferenza Onu sul clima sta lavorando al documento finale, per cui sono ste già redatte tre ipotesi. La prima prevede un bando totale dei fossili, l’ultima quasi l’opposto. Vedremo che cosa prevarrà. A Dubai oggi c’è anche il regista Usa Oliver Stone, che presenta il suo documentario a favore del nucleare, che fra l’altro va in onda stasera su La7 in Italia.
A proposito del nostro Paese, ieri il Consiglio dei Ministri ha ratificato l’accordo con l’Albania sui migranti. Potranno essere portati nei campi di Tirana solo i profughi raccolti fuori dal territorio Ue. Non è ancora chiaro quanto costerà allo Stato tutto il meccanismo di dislocazione.
Nelle prossime ore si dovrebbe consumare lo scontro finale sul Patto di stabilità europeo. A ieri Francia e Italia sono trincerate dietro l’ipotesi formulata da Paolo Gentiloni, mentre Olanda e Germania vorrebbero introdurre norme potenzialmente devastanti per la nostra economia. Vedremo come finirà. Oggi Giorgia Meloni riceve a Palazzo Chigi la presidente del Parlamento Ue, la popolare Roberta Metsola. La stessa Metsola criticata pesantemente da Matteo Salvini nel raduno sovranista di domenica a Firenze.
Nella coda della Versione c’è anche spazio per fare memoria di Enrico Manfredini, morto 40 anni fa a Bologna dove era arrivato come arcivescovo da soli 7 mesi. Manfredini fu un grande pastore della Chiesa italiana, appassionato e vulcanico. È stato ricordato ieri a Piacenza, diventata per lui lombardo vera patria d’adozione.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae un’esplosione ieri a Khan Younis, come si è vista da Rafah, nei pressi del confine con l’Egitto della Striscia di Gaza. Negli Usa hanno calcolato che in meno di due mesi gli israeliani hanno ucciso lo stesso numero di civili morti in 20 anni di bombardamenti in Afghanistan.
Foto Mohammed Abed France-Presse per il New York Times
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Ai funerali di Giulia Cecchettin sono dedicati diversi titoli di apertura. Il Corriere della Sera privilegia le parole della sorella: «Giulia, ora sei una stella». Scelta singolare del Manifesto, che si è distinto finora per la sobrietà su questo argomento, e che oggi trova nelle parole del padre la chiave giusta per descrivere un funerale: Personale e politico. Il Domani punta invece sui ragazzi del sagrato: Il rumore di Giulia. Il Messaggero sottolinea: La forza di Giulia. Sempre sulla difesa delle donne ma in una declinazione sociale ci sono La Stampa: Il lavoro espelle 44 mila mamme. E il Quotidiano Nazionale, ancora più esplicito: Costrette a licenziarsi 44 mila mamme. Si concentra sulla bocciatura della proposta delle opposizioni La Repubblica: Salario il colpo di grazia. Ma Il Sole 24 Ore è ottimista sui mercati: Piazza Affari supera quota 30mila. Il Giornale preoccupato per la Ue e le sue nuove regole: Patto, rivolta contro Berlino. Avvenire va sulle possibili conclusioni della Cop28: Al bivio sul petrolio. La Verità insiste nella sua campagna contro le Ong: La faida per la gestione dei soldi tra Casarini e la figlia di Strada. Il Fatto critica il governo che ha ratificato l’accordo con Tirana: Deportare i migranti in Albania costa 10 volte più che tenerli qui. Libero amplifica i risultati dei dati Ocse-Pisa sull’ignoranza dei nostri studenti: Emergenza Capre.
IL GIORNO DELL’ADDIO A GIULIA
Cronaca della giornata in cui è stato dato l’ultimo saluto a Giulia Cecchettin, uccisa a 22 anni dal suo ex fidanzato. A Padova la folla, la diretta tv, l’omelia del Vescovo e il discorso del padre Gino in chiesa. L’articolo di Niccolò Zancan è per La Stampa.
«Terra fredda, rosa bianca. Terra fredda, rosa bianca. Terra fredda, rosa bianca. Questo è l'addio alla ragazza che amava condividere i gusti del suo gelato. «Uno lo faceva scegliere alla mamma, l'altro lo decideva lei». È il funerale della ragazza che leggeva Jane Austen. Giulia dell'altalena e delle stelle. Orgoglio e pregiudizio. Giulia dei disegni per bambini. Giulia delle collezione di scatole: «Collezionava anche le scatole per contenere le scatole della sua collezione». Giulia Cecchettin di anni 22, assassinata con più di venti coltellate dall'ex fidanzato Filippo Turetta la sera di sabato 11 novembre e seppellita ieri pomeriggio nel cimitero di Saonara, vicino alla tomba della madre Monica Camerotto. Terra fredda, rosa bianca. Ancora una, l'ultima. «Benedici questa tomba», dice il parroco don Francesco Monetti. Il camposanto è pieno di persone. Una zia suora sta pregando e piangendo, suona un telefono nel silenzio. Il nonno arriva sorreggendosi su un stampella, per andare a baciare la bara. Poi si sente ancora quel rumore: il rumore di una sepoltura. A quel punto è quasi l'imbrunire. L'unica ragazza del cimitero è Giulia. L'unica persona giovane in questa città dei morti. E a accompagnarla lì davanti, in piedi per tutto il giorno e fino alla fine, ci sono loro: il padre Gino Cecchettin, la sorella Elena e il fratello Davide. Si sorreggono l'uno con l'altro. Si abbracciano, si tengono per mano. Sono una famiglia. Sul biglietto di ricordo hanno fatto scrivere: «Il tuo sorriso il regalo più bello. Il tuo amore un messaggio per il mondo». E così è stato, un funerale pieno d'amore e pacatezza. E proprio per questo, un funerale politico. La giornata dell'addio era incominciata molto presto, a dieci chilometri di distanza. Prato della Valle, a Padova, è una delle piazze più grandi d'Europa. La basilica di Santa Giustina contiene 1240 posti a sedere, 400 già assegnati a familiari, amici e conoscenti, a cui si aggiungevano gruppi di Boy Scout, intere classi di scuola, ragazze e ragazzi al cospetto della morte. Alle sette di mattina una signora intabarrata in un giaccone rosso era in coda per cercare di entrare: «Sono qui come cittadina. Sono qui perché Giulia ha l'età di mia nipote. Sono qui perché è stata uccisa per mano di un maschio feroce e anche io, nella mia vita, ho conosciuto quel tipo di violenza». Faceva un freddo cane. Era una giornata livida. Le voci che si erano rincorse nei giorni precedenti, alla fine tutte smentite: «Non verrà la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma in rappresentanza del governo sarà presente il ministro della Giustizia Carlo Nordio». Così è stato. Alle 11 era tutto pronto. La chiesa gremita, il sagrato colmo di persone. «Più di diecimila partecipanti», diceva la prefettura. E mentre altra gente continuava a arrivare, mentre il coro diocesano dei giovani intonava «Io credo» e il cerimoniale seguiva l'ordine prestabilito, una ragazza entrava in chiesa abbracciata a un'amica percorrendo la grande navata laterale. Era la sorella di Giulia, Elena Cecchettin, al riparo per qualche istante dell'insostenibile peso del feretro. Quella di Giulia era la bara bianca dell'innocenza e del candore. La famiglia stava davanti, le autorità di lato. Con il ministro Nordio, il governatore Luca Zaia, il senatore Antonio De Poli, la deputata Laura Boldrini, quaranta sindaci. Ma tutte le parole risuonavano dentro quello spazio enorme con un effetto stridente. Troppo lontane. L'omelia del vescovo, monsignor Claudio Cipolla, iniziava così: «Non avremmo voluto vedere quello che i nostri occhi hanno visto né avremmo voluto ascoltare quello che abbiamo appreso nella tarda mattinata di sabato 18 novembre. Per sette lunghi giorni avevamo atteso, desiderato e sperato di vedere e sentire cose diverse. Ed invece ora siamo qui, in molti, con gli occhi, anche quelli del cuore, pieni di lacrime e con gli orecchi bisognosi di essere dischiusi ad un ascolto nuovo». Prima del momento del segno della pace, il vescovo ha detto: «Chiediamo la pace del cuore anche per Filippo e la sua famiglia. Il nostro cuore cerca tenerezza, comprensione, affetto, amore. La pace del cuore è la pace con se stessi, con il proprio corpo, con la propria psiche». I fiocchi rossi stavano sulle giacche di tutti come simbolo contro la violenza sulle donne. Ed è stato alla fine della cerimonia, che tutto è diventato chiaro. Quando il padre di Giulia Cecchettin si è alzato ed è andato al microfono a parlare per otto minuti e 55 secondi. Senza mai modificare il tono di voce, Gino Cecchettin ha pronunciato parole che nessuno potrà dimenticare: «Carissimi tutti, abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia, ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai». Così, invece, si concludeva la sua orazione civile, quel testo a cui aveva lavorato per giorni con l'aiuto dei suoi figli: «Io non so pregare, ma so sperare. Voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d'amore, di perdono e di pace». La pioggia. La morte. La rinascita. E poi il patriarcato, parole chiare sulla responsabilità dei maschi, sul ruolo della scuola. Sulla responsabilità dei mezzi di informazione. Una citazione di De André: «Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti». Otto minuti e 55 secondi senza mai perdere la gentilezza. «Cara Giulia è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma». Fuori un tintinnio di chiavi. Rumore per lei. Gino Cecchettin annunciava anche, via social, la sua pausa dal lavoro: «Permettetemi di testimoniare l'importanza di prendersi una pausa quando la vita ci sfida in modi inimmaginabili. Sto anche riflettendo su un nuovo impegno civico che accompagnerà il mio cammino». Era il momento di cambiare chiesa, di tornare verso il paese natale di Vigonovo e di fermarsi lungo la strada a Saonara, lì dove Giulia Cecchettin frequentava l'oratorio. «Giulia, ti abbracciamo per dirti grazie e anche per chiederti scusa» ha detto don Monetti. Tutti si guardavano intorno per vedere se i genitori di Filippo Turetta fossero presenti. Ma non c'erano, e nessuno sapeva dire cosa sarebbe stato più giusto fare. Così come nessuno conosceva la forza straordinaria della famiglia Cecchettin. L'ultima rosa bianca sulla bara è stata quella di Elena, la sorella. Adesso Giulia dell'altalena e delle stelle riposa in pace».
“SIAMO NELLA TEMPESTA DEL DOLORE, MA IO SPERO”
Il discorso in chiesa di Gino Cecchettin, il padre di Giulia nella sua versione integrale, oggi giustamente riportate dal Corriere, da Repubblica e dalla Stampa.
«Carissimi tutti, abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai. Ci siamo bagnati, infreddoliti, ma ringrazio le tante persone che si sono strette attorno a noi per portarci il calore del loro abbraccio. Mi scuso per l’impossibilità di dare riscontro personalmente, ma ancora grazie per il vostro sostegno di cui avevamo bisogno in queste settimane terribili. La mia riconoscenza giunga anche a tutte le forze dell’ordine, al vescovo e ai monaci che ci ospitano, al presidente della Regione Zaia e al ministro Nordio e alle istituzioni che congiuntamente hanno aiutato la mia famiglia. Mia figlia Giulia era proprio come l’avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma. Oltre alla laurea che si è meritata e che ci sarà consegnata tra pochi giorni, Giulia si è guadagnata ad honorem anche il titolo di mamma. Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà: il suo spirito indomito ci ha ispirato tutti. Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne, vittime proprio di coloro che avrebbero dovuto amarle, e invece sono state vessate, costrette a lunghi periodi di abusi fino a perdere completamente la loro libertà prima di perdere anche la vita. Come può accadere tutto questo? Come è potuto accadere a Giulia? Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione. Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali. Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza, anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto. A chi è genitore come me, parlo con il cuore: insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ci connette in modi straordinari, ma spesso, purtroppo, ci isola e ci priva del contatto umano reale. È essenziale che i giovani imparino a comunicare autenticamente, a guardare negli occhi degli altri, ad aprirsi all’esperienza di chi è più anziano di loro. La mancanza di connessione umana autentica può portare a incomprensioni e a decisioni tragiche. Abbiamo bisogno di ritrovare la capacità di ascoltare e di essere ascoltati, di comunicare realmente con empatia e rispetto. La scuola ha un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri figli. Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l’importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza. La prevenzione della violenza inizia nelle famiglie, ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti. Anche i media giocano un ruolo cruciale da svolgere in modo responsabile. La diffusione di notizie distorte e sensazionalistiche non solo alimenta un’atmosfera morbosa, dando spazio a sciacalli e complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti. Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere. Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti. Alle istituzioni politiche chiedo di mettere da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere. Abbiamo bisogno di leggi e programmi educativi mirati a prevenire la violenza, a proteggere le vittime e a garantire che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo. Ma in questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi deve essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. Grazie a tutti per essere qui oggi: che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita. Vi voglio leggere una poesia di Gibran che credo possa dare una reale rappresentazione di come bisognerebbe imparare a vivere. «Il vero amore non è né fisico né romantico./Il vero amore è l’accettazione di tutto ciò che è,/è stato, sarà e non sarà./Le persone più felici/ non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto,/ma coloro che traggono il meglio/da ciò che hanno./La vita non è una questione/di come sopravvivere alla tempesta,/ma di come danzare nella pioggia!». Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma. Ti penso abbracciata a lei e ho la speranza che, strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me non solo a sopravvivere a questa tempesta di dolore che ci ha travolto, ma anche ad imparare a danzare sotto la pioggia. Sì, noi tre che siamo rimasti vi promettiamo che, un po’ alla volta, impareremo a muovere passi di danza sotto questa pioggia. Cara Giulia, grazie per questi 22 anni che abbiamo vissuto insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. Anch’io ti amo tanto e anche Elena e Davide ti adorano. Io non so pregare, ma so sperare: ecco, voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace. Addio Giulia, amore mio».
“GRAZIE A NOME DI TUTTI I PADRI”
Bell’editoriale di Massimo Calvi per Avvenire, che ringrazia il padre di Giulia per aver trovato il tono e le parole giuste per parlare ai funerali della figlia.
«I funerali di Giulia Cecchettin, celebrati dal vescovo di Padova Claudio Cipolla nella Basilica di Santa Giustina, hanno restituito un’immagine che faticheremo a dimenticare, dopo giorni di dolore e di rabbia, di angoscia e di parole necessarie, di confronti e anche di tensioni: è la figura di un padre. La dignità e la compostezza con cui Gino, il papà della giovane uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, è intervenuto al termine della Messa, ma soprattutto le parole che ha scelto nascondendo a fatica l’emozione per la “tempesta terribile” che lo ha investito, hanno avuto la forza di aiutarci ad accantonare per il tempo che è giusto gli strascichi dei dibattiti su patriarcato e narcisismo, le paure che si sono fatte largo nei cuori dei genitori di tanti ragazzi e ragazze che stanno scoprendo giorno dopo giorno che cos’è veramente l’amore, come anche le pretese di giudicare la realtà dal piedistallo della propria esperienza. È emerso un padre, e ne avevamo bisogno. Perché tutti abbiamo vacillato, ci siamo ricordati improvvisamente delle imperfezioni nella fatica di ricoprire questo ruolo, nel grande vuoto che la lenta dissoluzione degli antichi modelli ha lasciato. E che oggi rende difficile capire se si stia facendo la cosa giusta, oppure no. Nei pochi minuti in cui ha parlato, Gino Cecchettin non è stato più soltanto il papà di Giulia, la sua guerriera greca, è diventato, semplicemente, il padre che si deve essere. Ha detto che educare è aiutare i figli a conoscere il sacrificio, l’impegno, l’accettazione della sconfitta, è insegnare a guardare negli occhi degli altri, ad ascoltare, a comunicare realmente con empatia e rispetto. Eppure, forse, non è in queste semplici e verissime parole pronunciate con la voce che a tratti si interrompeva per l’emozione, che sta tutta la forza del messaggio che è importante ricordare. Gino Cecchettin è diventato il padre che fatichiamo a essere, quando nel suo discorso ha distribuito le responsabilità chiamando tutti, la famiglia, la scuola, la società civile, il mondo dell’informazione, a sentirsi impegnati e coinvolti per essere agenti del cambiamento. Perché molto probabilmente lo scenario con il quale stiamo facendo i conti oggi, più della dissoluzione o della crisi della figura paterna all’interno delle mura di casa, è la deresponsabilizzazione rispetto alla funzione genitoriale che dovrebbe essere prerogativa di una intera comunità. I padri ci sono ancora, ma troppo spesso sono soli, perché il villaggio là fuori ha abdicato, rinunciando a essere la guida che indica come procedere in salita, delimita i confini, mostra la ferita del sacrificio, insegna a vivere. Lontano, defilati, consumati da un dolore differente, due altri genitori in questi giorni hanno trovato il modo e la forza di non abbandonare un ragazzo che è pur sempre figlio, Filippo Turetta, e che ora dovrà scontare la sua pena. È un percorso complesso, quello della pacificazione. L’omelia del vescovo di Padova ha invocato il Signore chiedendo di insegnarci proprio questo, la pace tra i generi, la pace tra le generazioni, la pace per i cuori di tutti. Tutti. Il senso del limite e della fragilità è quanto ci restituisce questa straziante vicenda, insieme al desiderio forte che sia realmente lo spunto per cambiare. Nessuno è al riparo dagli errori e dai fallimenti nella crescita dei figli, consapevoli di quante volte, sperando di fare bene, sbagliamo. Sembra facile, a parole: volersi bene e mostrarlo ai figli, essere presenti, saper dire no quando serve, insegnare a camminare, lasciare andare. Poi le cose succedono, perché il male esiste e però si spera non entri mai in casa nostra. Soprattutto si prega che non accada, e lo fa ogni genitore: è nella natura dell’essere padre o madre, anche se non si è credenti. Sapere, cioè, che stiamo provando a fare tutto il possibile, ma alla fine ci troveremo sempre a dover chiedere perdono, a perdonare, a ringraziare. Mentre il padre di Giulia camminava verso la chiesa per i funerali, nella piazza si è udito un grido, commosso: «Grazie a nome di tutti i padri». Proviamo a ripartire anche da qui».
QUEL DISCORSO È UNO SPARTIACQUE DELLA STORIA
Aldo Cazzullo prende una frase del discorso di Gino Cecchettin per farne una riflessione sull’evoluzione della società italiana.
«Ci saranno ancora patriarchi, ma per fortuna ci sono anche dei padri. Ieri il padre di Franca Viola. Oggi il padre di Giulia Cecchettin. Nel 1965, Franca Viola, che non aveva ancora compiuto diciotto anni, fu violentata dal nipote di un boss mafioso. Secondo le consuetudini del tempo, avrebbe dovuto sposarlo: il matrimonio riparatore. Lei rifiutò, e i genitori si schierarono dalla sua parte. Il padre chiese l’aiuto della polizia. L’aggressore non vide estinto il reato, come sarebbe accaduto se Franca si fosse piegata al matrimonio; finì in carcere. «L’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce» disse la ragazza. Fu aperta una via che tante altre giovani donne, non soltanto del Sud, hanno seguito. Quando Franca si sposò con un uomo che amava e la amava, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inviò un dono di nozze, papa Paolo VI ricevette la coppia. Fu uno spartiacque nella storia d’Italia. È possibile che l’assassinio di Giulia Cecchettin e il discorso di suo padre ieri siano un altro di quei tornanti nella vicenda nazionale. Il padre non ha puntato il dito contro nessuno. Non ha neppure escluso che in futuro maturino le condizioni per il perdono. Ma le sue parole più importanti non sono quelle rivolte all’assassino di sua figlia; sono quelle che risuonano per tutti gli uomini. Che non sono ovviamente colpevoli in modo indiscriminato; ma che portano una responsabilità. Tocca agli uomini educare i figli a rifiutare la violenza e a denunciarla. Tocca agli uomini parlare agli altri uomini. Non minimizzare le piccole violenze, perché talora è da lì che nascono le grandi. Rispettare sempre e comunque le donne, molte delle quali portano come un peso nascosto il ricordo di tante piccole prevaricazioni. Non avere paura della libertà della donna, non considerarsi mai proprietari del suo corpo e della sua anima. Non girare la testa di fronte alle violenze e alle ingiustizie. Infine, l’invito forse più importante: accettare le sconfitte. I dinieghi e gli abbandoni, i no e i basta. L’ultima parola spetta alle donne. Giulia Cecchettin non ha potuto dire la sua. L’ha detta il padre per lei. A noi tocca ascoltarla, metterla in pratica, e ripeterla a chi verrà dopo».
“GINO ROMPE LA NARRAZIONE TOSSICA DELLE TV”
Natascia Ronchetti per Il Fatto intervista Stefano Ciccone, fondatore di “Maschile Plurale”, che dice: il padre di Giulia rompe con una narrazione tossica.
«Il padre di Giulia Cecchettin, che si rivolge agli uomini “perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento”. Il padre di Chiara Gualzetti, che ha lanciato una piattaforma online per raccogliere storie di vittime di violenza di genere e testimonianze delle famiglie. E ancora il padre di Martina Rossi, morta dopo essere precipitata da un albergo per sfuggire a uno stupro. “Adesso siamo di fronte a un fatto nuovo”, dice Stefano Ciccone, tra i fondatori di Maschile Plurale, associazione di uomini nata nel 2007 per combattere patriarcato, maschilismo e sessismo.
Ciccone, cosa ci stanno dicendo questi padri?
La loro parola è molto diversa dai commenti che sentiamo nei vari talk show sulla violenza di genere. Commenti che invocano il ruolo dei padri che devono dire di no, che devono imporre regole e disciplina, manifestando in tal modo quasi una nostalgia patriarcale. Questi uomini, questi padri, scelgono invece di essere una cosa diversa. Non portatori di una norma ma agenti di cambiamento rispetto all’idea che ci viene proposta da vari autori secondo la quale la negazione della legge paterna produce disordine. Stanno rompendo una narrazione tossica. Perché il tema vero è che gli uomini non sanno confrontarsi con la libertà e l’autonomia femminili.
Come dovrebbe essere proposta invece la narrazione dei femminicidi e della violenza di genere?
In modo diverso. Non come il frutto di devianza, non come un raptus. Ma come carenza di strumenti culturali per affrontare il cambiamento. Invece il discorso dominante, quello che sentiamo sempre, è: gli uomini sono in crisi. Dunque, il cambiamento è una minaccia per l’identità maschile. Ma perché un uomo dovrebbe sentirsi frustrato dal confronto con una donna autonoma, indipendente? Perché gli viene raccontato che quella libertà è pericolosa. Ciò che manca davvero è la proposta di un percorso di consapevolezza.
Quindi gli uomini sono anche loro vittime del potere patriarcale?
Sì, perché produce una miseria nella loro vita e non è più credibile. O ci offriamo un immaginario diverso o restiamo in un vicolo cieco. La violenza non è l’esercizio di un potere senza contraddizioni. È una manifestazione di angoscia che deriva da una realtà nella quale non hai le risorse per dare un senso diverso a quella realtà. Poi ci sono paradossi come il vittimismo dei dominanti.
A cosa si riferisce?
Al vittimismo dei padri separati, per esempio. Senza rendersi conto che lo stereotipo in base al quale i figli devono stare con le madri danneggia sia gli uomini sia le donne. Penso a quelli che dicono: non si può nemmeno più fare un complimento. E poi ci sono coloro che sostengono: basta con il politicamente corretto, per poi fare commenti misogini senza rendersi conto di essere portatori di una cultura vecchia come il mondo. Tutte queste narrazioni alimentano il vittimismo maschile e l’uso delle violenze di genere anche per giustificare politiche securitarie. La verità è che nessuno ha insegnato agli uomini loro a fare i conti con la dipendenza e la vulnerabilità. Anche le donne soffrono quando vengono lasciate. Ma per gli uomini un abbandono è un attacco all’identità».
GAZA. LA GUERRA ENTRA NELLA TERZA FASE
Assalto finale dell’esercito israeliano a Khan Younis, che ingaggia «gli scontri di terra più duri». Il premier Benjamin Netanyahu promette: «Gaza sarà smilitarizzata». Il presidente Joe Biden: «Condannare gli stupri di Hamas». Ma gli Usa agiscono anche contro i coloni e le loro violenze. Davide Frattini per il Corriere.
«Le riprese sono spesso ad altezza di gambe perché i paramilitari escono da qualche cunicolo o sono distesi nella sabbia. Hamas diffonde sui social media i video per dimostrare quanto le truppe dentro Gaza sarebbero nel mirino, eppure l’intelligence israeliana descrive uomini in mimetica che sbucano nel nord della Striscia e perdono l’orientamento: senza le case come riferimento, tanta sarebbe la devastazione. A due mesi la guerra entra nella terza fase, i caduti tra i soldati sono 82: lo Stato Maggiore annuncia che Khan Younis è accerchiata, tra le vie della seconda città più grande della Striscia «si stanno svolgendo i combattimenti più intensi dall’inizio dell’invasione di terra» dichiara Yaron Finkelman, il generale che guida il comando Sud. È qui che è nato Yahya Sinwar, il capo dei capi fondamentalista, è qui che si nasconderebbe, è qui che potrebbe definirsi il conflitto: le forze jihadiste si sarebbero asserragliate in quest’area dove sarebbe concentrato ormai il «quartier generale» del gruppo con Mohammed Deif e Marwan Issa, assieme a Sinwar hanno pianificato — sono sicuri gli israeliani — la mattanza del 7 ottobre, 1.200 persone uccise. È qui che si sono ammassati i palestinesi in fuga dal nord, lungo le vie di evacuazione indicate dall’esercito, che adesso ordina di spostarsi ancora: più a sud restano Rafah e il confine con l’Egitto a ovest qualche chilometro poi il Mediterraneo. Il distretto di Rafah, nei tempi mai normali di Gaza, conta 280 mila abitanti e potrebbero presto ritrovarsi — avvertono le Nazioni Unite — in 1,35 milioni su una popolazione totale di 2,2. Questi numeri potrebbero portare al collasso umanitario — spiegano le organizzazioni di soccorso — come il piano dell’esercito, rivelato dal Wall Street Journal , di allagare con l’acqua del mare le gallerie scavate da Hamas potrebbe causare il collasso del sistema fognario e delle falde, spiega l’idrogeologo israeliano Eilon Adar. Un bombardamento a Deir El Balah — dicono fonti palestinesi — ha ucciso 45 persone, i morti totali sono oltre 16 mila. Mentre gli americani alzano la pressione per proteggere i civili in Cisgiordania dagli attacchi dei coloni: agli estremisti ebrei verrà vietato di entrare negli Stati Uniti. Joe Biden, il presidente americano, interviene per dire che «le violenze sessuali commesse da Hamas vanno condannate senza equivoci». Riferendosi alle operazioni belliche, Netanyahu ha chiarito la posizione di Israele per il «dopo»: «La Striscia di Gaza va smilitarizzata e solo l’esercito israeliano può garantirlo», ha detto. «Non accetterò alcun accordo che preveda nel luogo una forza internazionale». Poco lontano nel cubo bianco dove si riunisce il consiglio di guerra, il premier ha parlato ai famigliari dei 138 ostaggi, su 240 rapiti nel giorno degli attacchi, ancora tenuti a Gaza, 85 sono israeliani. «Un incontro vergognoso», commenta Danny Miran a Haaretz, è il padre di Omri portato via dal kibbutz Nahal Oz. «Si è limitato a leggere un annuncio preparato». Un discorso con un messaggio molto duro per chi ancora spera: «Adesso non è possibile riportarli tutti indietro». I medici hanno spiegato a una commissione parlamentare che i carcerieri «hanno riempito di sedativi i rilasciati perché sembrassero felici» mentre venivano consegnati alla Croce Rossa nel buio di Gaza».
RAFAH, ULTIMA FERMATA DI UN POPOLO IN FUGA
A Rafah, al confine con l’Egitto, c’è un popolo di palestinesi disperati in fuga dai bombardamenti. Il diario di Sami Al-Ajrami per Repubblica.
«Oggi piove a Rafah. E non c’è scampo all’acqua. Cammino per le strade in cerca di cibo. E vedo file di persone sedute sui marciapiedi, appoggiate ai muri. Non provano nemmeno a rimanere asciutte. Non sanno dove andare, hanno smesso di andare. Come tanti, ieri anche io e la mia famiglia di 26 persone siamo stati costretti a muoverci di nuovo. Ancora una volta siamo scappati. Di sera tardi abbiamo saputo che l’edificio in cui eravamo ospitati - un vecchio magazzino per gli attrezzi - poteva essere colpito e ci siamo messi in cammino. Non è facile spostarsi. Siamo tutti incollati alle radio per cercare di capire a chi toccherà. Qualcuno consulta il sito su cui l’esercito israeliano, l’Idf, pubblica le aree che verranno prese di mira. Ma la connessione internet è un lusso da tempo qui a Gaza, così la maggior parte di noi fa affidamento sulle radio. E poi cerchiamo di avvertirci a vicenda. Non tutti hanno capito in quale “blocco” si trovano, quale è la loro area. Anche perché quella che oggi chiamiamo casa, ieri non lo era e domani può non esserlo più. L’ultima evacuazione poi, non è stata guidata da nessuna mappa. Hanno detto semplicemente; tutti fuori da Khan Yunis. Un’intera città. Evacuare subito. E il contenuto umano di quel pallino sulla mappa israeliana si è riversato qui a Rafah, che già scoppiava. Ecco perché non ci sono tetti per proteggere dalla pioggia. Ecco perché nessuno li cerca neanche più. Noi siamo fortunati, ci ospita una famiglia di agricoltori, hanno una serra, una casa grande. E ci hanno sistemati in qualche modo. Ieri sera ho usato tutte le mie parole e le mie idee per aiutare il mio amico Mohammed. Moglie, 4 figli, due femmine e due maschi. Aveva deciso di rimanere a Khan Yunis. Dove vado, mi aveva detto, non ho nessuno che mi accolga. La gente ha paura ad aprire le porte di casa. Hanno paura che qualcuno possa portarsi dietro un militante di Hamas che Israele tiene sotto controllo e così si giocano tutto, finiscono bombardati. Ho fatto tante telefonate e alla fine ho trovato una stanza per Mohammed e l’ho convinto a muoversi. Stamattina il suo appartamento è in macerie. Ci spiegano che cercano quelli di Hamas, ma quelli sono nella città di sotto, nei tunnel. E noi di sopra paghiamo il prezzo. La gente ha paura di parlare ora. Tace e piange. Ma il rancore cova. Domani quando la guerra sarà finita, sarà l’ora della rabbia e Hamas non potrà più permettersi di governare visto dove ci ha portati. «Si avvicina uno scenario ancora più infernale per Gaza», ha previsto il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per i territori palestinesi. Mi chiedo così ci sia più in basso dell’inferno. Mi raccontano che qualcosa che gli si avvicina molto è l’ospedale Nasser di Khan Younis. Sembra che due capi di Hamas feriti fossero stati portati là, la gente ha cominciato a scappare. Hanno bombardato lì vicino e chi c’era parla di bambini mutilati in lacrime tra le garze sporche sul pavimento, di medici che gridano e ammassano in un angolo quelli che sicuramente non ce la faranno per far posto a chi ha ancora qualche speranza. Un ufficiale israeliano ha detto che per ogni miliziano di Hamas centrato ci sono due civili uccisi, due “vittime collaterali”. Ha aggiunto anche che è un buon bilancio. C’è qualcosa che non torna in questa matematica. Da settimane conto intere famiglie che rimangono sepolte sotto le macerie, bambini straziati, donne uccise. Diciottomila morti, comunica l’Onu. Non credo che quel rapporto due a uno tenga, fatti i conti con la realtà di quello che vedo. Un altro numero che pesa è quello dei giornalisti uccisi. Oggi sono arrivati a 60. Ma noi non ci arrendiamo. Ogni giorno ci mettiamo al telefono, sentiamo amici, parenti in ogni parte della Striscia, ci facciamo raccontare. Per non spegnere la luce su quello che sta avvenendo, per tenere vive almeno le notizie in questa terra morta. L’ultima notizia che ci piomba addosso è che Israele pensa di usare delle gigantesche pompe per allagare con l’acqua del mare i tunnel e stanare Hamas. L’hanno già usata in passato l’acqua del mare per distruggere i tunnel di Gaza. E la nostra terra ne è uscita avvelenata. I nostri campi condannati a non dare più frutti. Lo rifaranno? Sarà un altro tassello per arrivare a fare di Gaza un deserto, senza più nessuno di noi».
IL PIANO USA PER L’AUTORITÀ PALESTINESE
Circola un nome per la nuova leadership palestinese: quello di Salam Sayyad. Il piano di Joe Biden per la Striscia di Gaza prevede una autorità «riformata» e senza Abu Mazen. Michele Giorgio per Il Manifesto.
«Da «rivitalizzata» a «riformata» passando per l’uscita di scena, si dice in primavera, di Abu Mazen, fino ad arrivare alla nomina di un «premier» ad hoc a Gaza. Forse l’ex primo ministro Salam Fayyad, gradito ad americani ed egiziani e che potrebbe essere accettato da Israele. È lo scenario che, più di altri, si affaccia all’orizzonte quando si parla del futuro dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) chiamata dagli Stati Uniti, e a rimorchio dall’Europa, a guidare Gaza quando «Hamas non sarà più al potere» e si dovrà avviare la ricostruzione, se Israele lo consentirà. «Il nome di Salam Fayyad, un indipendente con rapporti pessimi con Abu Mazen, gira da un po’, da quando (l’ex premier) ha pubblicato un articolo in cui spiega la sua visione per Gaza e la necessità di una riorganizzazione dell’Anp», dice al manifesto T.A., giornalista di Ramallah ben informato sulle questioni interne palestinesi che per la delicatezza del tema ha chiesto di restare anonimo. «Fayyad piace all’amministrazione Biden e agli egiziani. Ci sono però due grandi incognite: la posizione di Israele e la portata delle ‘riforme’ che l’Anp dovrebbe avviare. In questo quadro l’uscita di scena del presidente Abu Mazen è un fattore centrale. Gli americani la vogliono in tempi brevi. L’ultimo incontro tra (il segretario di stato) Blinken e Abu Mazen è stato carico di tensione». Da quando è iniziata la catastrofica offensiva israeliana a Gaza, Casa bianca e Dipartimento di Stato hanno indicato nell’Anp l’entità che dovrà subentrare ad Hamas e ribadito sostegno alla soluzione a due Stati (Israele e Palestina). Una Anp però da «rivitalizzare», hanno ripetuto, alla luce dello scarso consenso di cui gode tra i palestinesi. Da parte loro Abu Mazen e il suo primo ministro, Mohammed Shttayeh, hanno replicato che l’Anp a Gaza non ci tornerà «sui carri armati israeliani». Lo farà soltanto nell’ambito di una ripresa dei negoziati per la creazione di uno Stato palestinese. Israele per giorni ha reagito con gelo alla proposta di Biden e Blinken. Quindi è sceso in campo Netanyahu che, con toni oltremodo decisi, ha respinto l’idea che venga coinvolta l’Anp. Ufficialmente perché «legata ai terroristi», cioè ad Hamas, affermazione sconcertante alla luce della frattura insanabile tra le due parti palestinesi e della cooperazione di sicurezza che l’Anp mantiene con Israele. In realtà Netanyahu non intende riprendere il negoziato che ha coscientemente affossato per 14 anni e ridare slancio all’idea dello Stato di Palestina «rivitalizzando» l’Anp che, con tutti i suoi gravi limiti agli occhi dei palestinesi, continua in qualche modo a rappresentare. Per Netanyahu la risposta all’attacco del 7 ottobre non deve concentrarsi solo su Hamas, deve anche affossare le aspirazioni politiche palestinesi. Comunque sia, l’ostilità di Israele nei confronti dell’Anp ha impresso una svolta al processo di pianificazione per Gaza dell’amministrazione Biden. A inizio settimana il coordinatore per la Sicurezza nazionale Usa, John Kirby, parlando dell’Anp ha messo da parte il verbo «rivitalizzare» per adottare «riformare» in modo da avvicinare la posizione americana a quella israeliana. Netanyahu, dicono le indiscrezioni, avrebbe chiarito agli alleati statunitensi che Israele pretende una Anp che combatta, armi in pugno e ogni giorno, Hamas e altre organizzazioni armate. Altrimenti, ha ammonito, i soldati israeliani non lasceranno mai Gaza. In sostanza l’Autorità «riformata» che ha in mente Israele si avvicina molto per ruolo e funzioni a ciò che era l’Esercito del Libano del sud, la milizia mercenaria libanese che per oltre venti anni ha sorvegliato la «fascia di sicurezza» a ridosso del confine con lo Stato ebraico. Un progetto che si sposa con la creazione, da parte di Israele, di una «zona cuscinetto» all’interno di Gaza. «Con ogni probabilità questa è l’idea dell’Anp ‘riformata’ che ha in mente Netanyahu - ci dice l’analista politico Ghassan Khatib, docente all’università di Bir Zeit - In parte è diversa da quella degli Stati uniti che danno più rilievo alla dimensione politica. E riformare per gli americani significa cambiare i leader politici». «Venti anni fa, durante la seconda Intifada - ricorda Khatib - gli Usa allo scopo di isolare Yasser Arafat imposero la nomina di un vice ai vertici dell’Anp. In quel caso fu scelto Abu Mazen che poi nel 2005 divenne presidente». Il problema degli Usa è che ora non ci sono palestinesi pronti a svolgere il ruolo di premier o presidente fantoccio a Gaza. Neppure il reietto di Fatah, sempre molto influente, Mohammed Dahlan, originario di Khan Yunis, è tanto ingenuo da accettare una poltrona tanto scomoda imposta ai palestinesi dagli occupanti e da Washington».
TANTI CIVILI MORTI QUANTI IN 20 ANNI DI AFGHANISTAN
Analisi di Ugo Tramballi per Il Sole 24 Ore: un milione e 800 mila civili palestinesi sono in cammino, avanti e indietro, da 60 giorni senza sapere perché.
«Alla Brown University, Rhode Island, hanno calcolato che in meno di due mesi gli israeliani a Gaza hanno ucciso lo stesso numero di civili morti in 20 anni di bombardamenti americani in Afghanistan. Questo, secondo il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, sta portando Israele «da una vittoria tattica a una disfatta strategica». Austin sa di cosa parla, è un ex generale: vice di Centcom, il Comando strategico in Medio Oriente, e comandante delle forze in Irak. La sua previsione di una sconfitta strategica israeliana si fonda sulla teoria di un collega, il generale Stanley McChrystal che fu capo della missione in Afghanistan: "Insurgent math", la matematica del ribelle. Per ogni vittima innocente, 20 sopravvissuti aderiscono alla guerriglia. È difficile calcolare cosa significhi questo a Gaza. Prima della guerra in un sondaggio di Arab Barometer il 67% dei palestinesi non aveva fiducia in Hamas. La settimana scorsa il 76 ne sosteneva l'aggressione a Israele. Quest’ultimo contesta il bilancio di circa 15mila vittime civili perché il ministero della Sanità, che ne tiene il conto, è controllato da Hamas. Ma non sembra che la vice presidente Kamala Harris, il segretario di Stato Antony Blinken, le Nazioni Unite, la Croce Rossa, le Ong che operano nella Striscia dubitino del massacro in corso, mille morti in più o in meno. Dopo aver ordinato agli abitanti di abbandonare il Nord della Striscia, ora gli israeliani vogliono che se ne vadano anche dal Sud: il nuovo obiettivo dell'offensiva. Un milione e 800 mila civili di Gaza sono in cammino, avanti e indietro, senza sapere dove andare perché lungo i 360 chilometri quadrati della Striscia non c'è più un posto dove andare. Immaginare un dopoguerra è un esercizio difficile; pensarlo con Hamas, impossibile. Solo il turco Recep Erdogan pensa che invece lo sia: ha sempre sostenuto il movimento dei Fratelli Musulmani e Hamas ne è la fazione palestinese. Ma la forbice fra una comprensibile necessità politica e il disastro umanitario di Gaza è sempre più incolmabile: la questione morale prevale. Non c’è diritto alla giustizia (quella rivendicata da Israele) che abbia margini così ampi da assomigliare a una vendetta. Giorno dopo giorno i toni dell’amministrazione Biden cambiano, diventando sempre più critici. Secondo un esperto citato dal New York Times, gli israeliani «stanno usando munizioni estremamente potenti in aree estremamente popolate: è la peggiore combinazione possibile di fattori». Questo tuttavia non ha interrotto il costante rifornimento delle bombe usate su Gaza. Non è difficile per il crescente Sud globale accusare di doppio standard americani ed europei: riconosciamo agli ucraini quello che ai palestinesi non è concesso. Vladimir Putin è un paria, Bibi Netanyahu no. La battaglia per la difesa della democrazia che l’Occidente sta facendo in un mondo diffusamente ostile ai diritti civili, fatalmente ne risente. Il sospetto è che il sostegno al diritto israeliano di difendersi stia diventando un’involontaria sponda a Netanyahu: nonostante la guerra, i giudici stanno andando avanti nei processi nei quali è accusato di corruzione e tangenti. Più dura la guerra alla ricerca di una vittoria elusiva, più Bibi resta al governo».
IN PIAZZA DEL POPOLO: NO ALL’ANTISEMITISMO
A Roma ieri sera la manifestazione organizzata dalla comunità ebraica romana contro l’antisemitismo e il terrorismo. Migliaia in piazza del Popolo, con tutti i leader politici. Ma la senatrice Liliana Segre ripete: “Provo pietà per tutti i bambini”. Luca Monticelli per La Stampa.
«Gli ebrei italiani ieri sera si sono sentiti meno soli. Una piazza del Popolo piena ha accolto tantissimi cittadini che hanno partecipato alla manifestazione "No all'antisemitismo, no al terrorismo". Le comunità ebraiche che hanno organizzato l'evento chiedevano una posizione forte da parte della società civile che è arrivata: bandiere di Israele, dell'Europa, tricolori e vessilli arcobaleno con la stella di Davide. «E' un fermo no all'antisemitismo e al terrorismo», chiosa il presidente della Comunità ebraica romana Victor Fadlun. Le parole più forti le dice la senatrice a vita Liliana Segre che affida un messaggio letto dal palco dalla regista Andrè Ruth Shammah: «L'eterno ritorno della guerra mi fa sentire prigioniera di una trappola mentale senza uscita, spettatrice impotente, in pena per Israele ma anche per tutti i palestinesi innocenti, entrambi intrappolati nella catena delle violenze e dei rancori». Sulla piazza cala il silenzio, le bandiere si fermano, risuona ancora Segre: «Provo angoscia per gli ostaggi e per le loro famiglie, provo pietà per tutti i bambini, che sono sacri senza distinzione di nazionalità o di fede, che soffrono e muoiono. Che pagano perché altri non hanno saputo trovare le vie della pace». La senatrice ricorda che nel mondo ancora ci sono «ebrei braccati e uccisi in quanto ebrei; chiamati a discolparsi in quanto ebrei; indotti a nascondersi in quanto ebrei». Il pensiero va alle stelle di David dipinte sui muri, alle pietre d'inciampo vandalizzate, alle minacce agli studenti ebrei ed israeliani nelle scuole e nelle università. Insulti e in alcuni casi aggressioni, come documenta l'Osservatorio antisemitismo del Cdec che ha registrato segnalazioni più che triplicate negli ultimi due mesi. Criticare le politiche del governo di Netanyahu è legittimo, ma le tante persone a piazza del Popolo non capiscono perché 5 mila accademici vogliano boicottare tutti gli atenei israeliani; perché le femministe siano scese in strada a sostegno delle donne palestinesi senza dire una parola sugli stupri e i femminicidi di massa del 7 ottobre; perché le dimostrazioni pro Palestina considerano i tagliagole di Hamas come dei resistenti liberatori. La sinistra è in piazza con una corposa delegazione del Pd guidata da Elly Schlein; Fassino e Gualtieri parlano dal palco. Presente in blocco la destra: ci sono Matteo Salvini, Ignazio La Russa, Antonio Tajani e molti altri ministri. «Saremo liberi quando le bandiere di Israele potranno sventolare senza la protezione della polizia», dice Salvini. E La Russa: «L'antisionismo è una forma di antisemitismo, non ho mai visto antisionisti che non siano contro gli ebrei». Il prefetto Giuseppe Pecoraro, coordinatore nazionale per la lotta contro l'antisemitismo, accusa i sindacati: «Nel mondo sindacale c'è stata sempre un'attenzione alla società civile, ma di fronte al massacro degli ebrei non capisco perché non abbiano deciso un'iniziativa, sono rimasti in silenzio». Resta il rammarico che questa manifestazione sia stata organizzata dalle comunità ebraiche: «Avremmo voluto essere ospiti, spettava alle istituzioni promuovere questa serata», sottolinea la presidente dell'Ucei Noemi Di Segni. In Francia, ad esempio, il grande corteo di Parigi è stato convocato dai presidenti delle Camere, uno macroniano e l'altro conservatore. In Germania, si fa notare, il vice cancelliere verde Robert Habeck ha fatto un discorso storico chiedendo ai musulmani di prendere le distanze dai fondamentalisti, perchè «chiedere o celebrare la violenza contro gli ebrei in Germania deve essere vietato». A piazza del Popolo - dove la maratona oratoria con politici di tutti gli schieramenti appare a tratti una passerella - mancano esponenti dell'Alleanza Verdi e Sinistra e i 5 stelle, Giuseppe Conte fa un'apparizione fugace ma non interviene. C'è invece la Coreis, la Comunità religiosa islamica, con il consigliere Abd al-Ghafur Masotti e l'imam Mustafa di Roma. Al loro fianco la modella israelo-americana Moran Atias e la cantante israeliana Shiri Maimon che intona "Coming home", la canzone dedicata agli ostaggi presi da Hamas. «Sto tornando a casa - canta Shiri - dì al mondo che sto tornando a casa, lascia che la pioggia lavi via tutto il dolore di ieri».
COP28, TRE IPOTESI PER IL DOCUMENTO FINALE
La bozza del documento finale della Cop28 di Dubai fa ben sperare. Per la prima volta l’addio al fossile sarebbe scritto nero su bianco. Ma ci sono altre due ipotesi alternative. La corrispondenza di Lucia Capuzzi per Avvenire.
«L’addio a carbone, gas e petrolio è scritto nero su bianco. Per la prima volta nella storia delle Conferenze Onu sul clima (Cop28). L’unico precedente risale due anni fa a Glasgow quando nel documento finale è stato inserito, dopo un’estenuante maratona negoziale, il termine «fonti fossili» per i quali veniva chiesta la «riduzione graduale». La Cop28 di Dubai potrebbe andare ben oltre. Ma si tratta ancora solo di un testo bozza. In due formulazioni su tre – una più sfumata, l’altra netta – si parla di stop. La comunità internazionale, però, potrebbe optare per la terza, dove la clausola viene cancellata. La prossima settimana sarà cruciale per misurare la concreta volontà di tagliare le emissioni al fine di contenere il riscaldamento entro la soglia di equilibrio di 1,5 gradi. Come la scelta di pubblicare il testo di 193 articoli con 24 ore di anticipo, nella giornata dedicata all’energia, la transizione dal fossile è il filo rosso del summit. Il cosiddetto bilancio globale o “global stocktake” fa, per la prima volta, il punto sull’applicazione degli accordi di Parigi da parte dei 197 Paesi firmatari più l’Unione Europea (Ue). Come anticipato a settembre dalle stesse Nazioni Unite, i passi avanti nella riduzione della CO2 ci sono stati. Non sono, però, sufficienti rispetto alla gravità della crisi climatica in atto. Con gli attuali impegni, le temperature aumenteranno di una quota tra 2,4 e 2,8 gradi entro la fine del secolo, quasi il doppio rispetto al livello che la scienza considera come sostenibile. Oltre a fotografare l’esistente, la Cop28 ha il compito principale di indicare nuovi obiettivi per il prossimo decennio in modo da correggere la rotta. Il tasto dolente è come farlo. L’ultimo rapporto dell’Inter-governmental panel on climate change (Ipcc) considera indispensabile l’uscita – ovviamente graduale – dai combustibili fossili. Entro il 2050, spiegano i ricercatori internazionali più autorevoli in materia, l’impiego del carbone dovrà essere azzerato e quello di petrolio e gas ridotto rispettivamente del 60 e 70 per cento. Un’ulteriore conferma è arrivata ieri dall’ultimo rapporto del Global carbon project, gruppo di decine di studiosi di oltre novanta istituzioni internazionali che monitora l’andamento del diossido di carbonio, il principale gas serra. Negli ultimi 17 anni, l’industria fossile ne ha costantemente aumentato la quantità immessa nell’atmosfera, ad eccezione il 2008, l’anno della crisi economica, e il 2020, durante la pandemia. Nel 2023 – il più caldo della storia – ci sarà un nuovo rialzo dell’1,1 per cento. Di questo passo – conclude il Global carbon project – la soglia di 1,5 gradi diventa un miraggio. La scienza, però, deve fare i conti con l’economia. O meglio, con gli interessi miliardari legati all’estrazione di idrocarburi: 4mila miliardi di dollari di profitti nel 2022, oltre il doppio rispetto alla media degli anni precedenti di 1.500 miliardi. La posta in gioco per i Paesi produttori è enorme. Questo spiega la mobilitazione record di lobbysti inviati dalle compagnie fossili a Dubai: 2.456, quattro volte quelli presenti al precedente vertice di Sharm el-Sheikh. Nonostante gli annunci, nessuna delle nove maggiori compagnie mondiali ha piani concreti di sospensione delle trivellazioni, come dimostra l’analisi di Net zero tracker, un consorzio indipendente di cui fa parte l’Università di Oxford. Sulle 69 imprese tracciate, appena tre hanno intenzione di fermare la produzione. Il resto intende continuare o espandersi. Inclusa la Abu Dhabi national oil company (Adnoc), guidata dal sultano Ahmed al-Jabar, amministratore delegato e, al contempo, presidente della Cop28. Carbone, petrolio e gas sono ormai la faglia della diplomazia ambientale. Le differenti formulazioni dell’articolo 35 – come risulta dalla bozza – riflettono la spaccatura della comunità internazionale. La prima versione del punto C chiede senza mezzi termini «l’eliminazione giusta e ordinata delle fonti fossili», come vorrebbero 106 nazioni, in primis gli Stati insulari. La seconda parla di «accelerare gli sforzi» verso lo stop. La terza riflette il punto di vista delle petro-potenze – dall’Arabia Saudita alla Russia agli Usa in posizione ambigua –: la loro idea è far sparire ogni riferimento ai fossili dal documento finale, inclusa la fine degli «inefficienti sussidi» agli idrocarburi, circa sette miliardi di dollari. Maggior consenso riscuote la prima parte dell’articolo 35 che triplica la capacità delle rinnovabili e raddoppia l’efficienza energetica entro il 2030. «Senza lo stop ai fossili sarà solo greenwashing», hanno tuonato anche ieri gli attivisti, presenti in forze a Dubai, dove, però, possono manifestare solo all’interno del Centro espositivo. I limiti, imposti dagli Emirati, non li hanno, però, scoraggiati. Dall’inizio della Cop, le proteste sono quotidiane. A Sharm el-Sheikh il loro ruolo è stato determinante per dare il via libera alla creazione del fondo per aiutare i Paesi poveri a far fronte agli impatti del riscaldamento globale. «Stavolta – dicono – siamo ancora più determinati».
OLIVER STONE PRESENTA IL SUO DOC SUL NUCLEARE
Cristina Battocletti intervista per Il Sole 24 Ore Oliver Stone, regista e sceneggiatore, che è a Dubai per parlare di energia nucleare e del suo documentario Nuclear now, in onda stasera in Italia su La7. Dice: «Sul nucleare stiamo perdendo tempo»
«Il premio Oscar Oliver Stone è oggi a Dubai agli incontri della Cop 28, assieme a Stefano Buono, fisico e Ceo di Newcleo, per presentare il suo ultimo lavoro, il documentario Nuclear now, che questa sera sarà trasmesso in Italia su La7 (alle 21.15). Stone si è basato sul libro A bright future dello scienziato Joshua S. Goldstein con cui ha scritto la sceneggiatura. Per spiegare al Sole 24 Ore perché ha cominciato a leggere Goldstein usa due volte la parola “paura”, modulando toni e pause. «La paura per il futuro. Se uno viaggia molto, come me, capisce quanto calda sia diventata l’Europa: mi ha fatto tornare in mente il Vietnam, ma quella era la giungla, non è normale che la gente muoia in città. Il 2023 è stato un anno record per l’aumento delle temperature».
Un pungolo per questo lavoro è stato anche il film di Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti e già premio Nobel per la pace nel 2007, «Una scomoda verità».
Gore parla di rinnovabili ma non di nucleare, il che è piuttosto bizzarro. Il suo film ha avuto grande successo, la distribuzione del mio invece è stata un incubo. La gente non vuole sentire parlare di nucleare, ma è un pregiudizio idiota. Hollywood ha le sue responsabilità con gli horror degli anni Cinquanta, in cui erano protagoniste creature mutate sotto l’effetto di radiazioni, e film come «Sindrome cinese» di James Bridges del 1979. Paghiamo ancora il fio delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, ma la bomba nucleare è cosa diversa dall’energia nucleare, perché contiene uranio arricchito.
È stato l’argomento dell’estate con «Oppenheimer» di Christopher Nolan…
Mi è piaciuto moltissimo. L’ho visto due volte. Ma è proprio qui il problema: l’efficienza nucleare è stata scoperta da un italiano, Enrico Fermi, con il suo team a Chicago. Hanno costruito la bomba perché era in corso la Seconda guerra mondiale e temevano la Germania. E ora la gente associa il nucleare con la bomba. A Fukushima nessuno è morto, ma i media, che hanno una grande responsabilità, hanno parlato di disastro nucleare. Dopo Chernobyl la tecnologia è migliorata moltissimo. La Germania ha speso una fortuna in pannelli solari e turbine per lo sfruttamento dell’energia del vento. Avevano centrali nucleari, spente per volere dei Verdi. È disgustoso. Ora hanno un sistema energetico insufficiente e devono acquistare energia dalla Francia a caro prezzo, il che pesa sulle tasche dei consumatori.
Ma per lei esiste solo il nucleare?
No, naturalmente. Rinnovabili e nucleare devono essere combinati, ma nel frattempo il climate change continua la sua corsa implacabile. Lo sfruttamento dell’energia solare, idrica e del vento attualmente può arrivare a provvedere al 50% del fabbisogno e a che prezzo... Non solo gli incidenti, ma anche le scorie radioattive fanno paura. Queste scorie sono le più sorvegliate nella storia. Non si può nemmeno comparare la vigilanza cui sono sottoposte rispetto a quelle di gas, petrolio e carbone, che sono un vero disastro nell’atmosfera. La radioattività si spegne più velocemente, in circa 40 anni nel 99% dei casi.
Secondo gli esperti ci vogliono molti anni per costruire siti nucleari.
Lei non guardi all’America, dove tutto è enorme ed è costoso. Le assicuro che bastano dieci anni a partire da ora: in Cina sono velocissimi, hanno costruito più di cento siti in pochi anni. L’Europa invece è divisa. Ci sono Paesi che sono fortemente contro, come l’Italia e la Spagna, mentre l’Olanda si sta riconvertendo. La Francia ha 58 reattori e in Svezia si stanno attrezzando. Il fatto di star perdendo tempo mi fa così arrabbiare… E qui Stone si infervora, con espressioni colorite da partigiano qual è».
COMUNITÀ ENERGETICHE
E in Italia? Per le comunità energetiche c’è un decreto che dovrebbe essere presentato «a giorni». Avvenire racconta che Diocesi e Cooperative sono pronte ad accelerare.
«L’atto finale è atteso a giorni. La firma di Gilberto Pichetto Fratin sul decreto italiano sulle Comunità energetiche, dopo l’approvazione europea del 22 novembre alla bozza del provvedimento, «potrebbe arrivare entro la fine di questa settimana», fanno sapere dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica. A quel punto, l’unione delle forze per costruire sistemi di produzione energetica da fonti rinnovabili potrà contare ufficialmente su una cornice normativa chiara e definita. La misura prevede incentivi per 5,7 miliardi – dei quali 2,2 finanziati con il Pnrr – tutti destinati ai territori per incentivare la produzione e la condivisione di energia rinnovabile. Dovrebbero essere confermati tutti i punti chiave del testo. Per cui, la potenza finanziabile è pari a cinque Gigawatt complessivi, con un limite temporale a fine 2027. Per le Comunità realizzate nei Comuni sotto i 5.000 abitanti è previsto un contributo a fondo perduto fino al 40% dei costi ammissibili in relazione all’investimento effettuato per realizzare un nuovo impianto o per potenziarne uno esistente. I benefici previsti riguardano tutte le tecnologie rinnovabili: dal fotovoltaico, all’eolico, dall’idroelettrico alle biomasse. I destinatari del provvedimento possono essere gruppi di cittadini, condomini, piccole e medie imprese, ma anche enti lo-cali, cooperative, associazioni del Terzo settore ed enti religiosi interessati a costituire una Cer. La potenza dei singoli impianti non può superare il Megawatt. In attesa della firma del ministro Pichetto Fratin, già dopo il via libera di Bruxelles di due settimane fa (che ha fornito alcune certezze necessarie sul piano normativo) c’è stata una forte accelerazione della “macchina” delle Cer. Chi si è mosso in anticipo sulla legge sta definendo i business plan e chi guardava con interesse all’autoproduzione di energia green ora può concretizzare i progetti. Fratello Sole è un’impresa sociale che si occupa di sostenibilità aperta esclusivamente agli enti del Terzo settore e, in tema di Cer, rappresenta un punto di riferimento per tante realtà sociali e del mondo cattolico. « Finora abbiamo attivato 60 studi di fattibilità e per i primi 16 stiamo arrivati alla fase esecutiva – racconta il presidente di Fratello Sole, Fabio Gerosa –. Ovviamente passare dalla valutazione alle azioni operative richiede tempo e una serie di analisi necessarie sulla fattibilità e la sostenibilità di un progetto, però è fondamentale poter contare su un decreto che confermasse alcuni valori economici e una serie di parametri». Diocesi e parrocchie sono tra i soggetti che si sono attivati per primi per cogliere le opportunità delle Cer, anche sulla scia dell’appello alla mobilitazione lanciato ormai due anni fa in occasione della 49esima Settimana sociale dei cattolici di Taranto. Da Milano a Verona da Alba a Mestre molti progetti sono stati avviati o in fase di studio. «Come Fratello Sole abbiamo stretto accordi e avviato interlocuzioni con varie diocesi, congregazioni religiose e ETS per valutare la costituzione di Cer: dalla diocesi di Santa Rufina nel Lazio a quella di Brescia, da Mantova a Pavia, da Reggio Emilia a Pistoia – afferma Gerosa –. Inoltre abbiamo rafforzato la parte tecnica con un accordo con Enel che valorizza l’impatto sociale prodotto dalle Cer fraterne». Secondo il presidente di Fratello Sole le comunità energetiche rappresentano una sfida che va oltre gli aspetti economici e ambientali: « Noi riteniamo che il vero obiettivo da centrale attraverso le Cer sia quello di riuscire a favorire la fraternità e l’inclusione sociale, migliorando i legami territoriali e la coesione tra le persone». Il sistema delle Cer può rappresentare anche una risposta efficace al contrasto alla povertà energetica in Italia, condizione in cui si trovano 2,2 milioni di famiglie. E le stime indicano che l’emergenza possa aggravarsi nei prossimi mesi: dagli ultimi dati dell’Osservatorio italiano sulla povertà energetica (Oipe) si prevede che nel nostro Paese arriveranno a vivere in povertà energetica il 12% delle famiglie nel 2024. La creazione di gruppi che producano e condividano energia rinnovabile è una questione particolarmente cara anche al mondo cooperativo, che da tempo è operativo in questo campo con progetti e iniziative. « Nel settembre 2022, attraverso il nostro fondo mutualistico Coopfond e in collaborazione con Banca Etica e Ecomill (piattaforma di crowdinvesting per la transizione energetica), abbiamo lanciato il progetto “Respira” per creare Comunità Energetiche Rinnovabili in forma cooperativa», racconta Simone Gamberini, presidente nazionale di Legacoop. Con Respira, nonostante la mancanza di un quadro normativo definito, sono già state costituite 9 Cer: «E abbiamo altri 80 progetti “potenziali”, ovvero pronti a partire non appena il decreto sarà in vigore», aggiunge Gamberini. Negli ultimi due anni Legacoop non ha fatto mancare il proprio sostegno “energetico” a migliaia di cooperative sparse sul territorio nazionale, soprattutto a quelle realtà alle prese con esigenze particolari di produzione e autoconsumo: « Finora abbiamo contribuito a installare 1.455 impianti – annuncia Gamberini -. In oltre la metà delle imprese associate a Legacoop abbiamo attivato iniziative di efficientamento energetico e il 38% delle coop iscritte a Legacoop può contare su un impianto di autoproduzione di energia rinnovabili che copre almeno una parte del fabbisogno complessivo». Insomma, non si parte da zero nel percorso di costituzione delle Cer. Dopo una fase di stallo, con il disco verde della Commissione Europea adesso anche tra gli operatori del settore energetico il tema è tornato a essere molto caldo. A confermarlo è Davide Tinazzi, ad di Energy Spa, società italiana attiva nei sistemi di accumulo per l’energia da fonti rinnovabili sia per uso residenziale sia per applicazioni commerciali e industriali: «C’è fermento e nelle ultime settimane si sta rimettendo in moto tutto molto velocemente». Per Tinazzi facilitare l’autoconsumo al fine di aumentare l’efficienza energetica di imprese e famiglie sarà sempre più necessario in futuro, anche alla luce dei continui sbalzi dei costi dell’energia e della doverosa riduzione del ricorso alle fonti fossili: «Grazie al traino dato dalla diffusione delle Comunità energetiche, ci aspettiamo in ambito residenziale un aumento di circa il 20% in un anno dei volumi di energia rinnovabile. Tra i primi a partire nella costituzione delle Cer potrebbero essere per esempio quei condomini che hanno già deliberato interventi in questo senso». Se migliaia di cittadini, parrocchie e cooperative si sono già mobilitati sulle Cer, lo stesso non può dirsi per i settori industriali e commerciali. « Finora c’è stato molto interesse ma pochi volumi, anche perché non c’era una norma di riferimento su cui si poteva contare – spiega Tinazzi –. Ora però è diverso: tra il decreto che dà certezze su parametri, volumi e incentivi e il caro-energia che è tornato a farsi sentire nel quarto trimestre di quest’anno, per ricominciare a battere da inizio 2024, sempre più aziende saranno tentate di cogliere le opportunità economiche e sostenibili che possono garantire le Comunità energetiche».
SALARIO MINIMO, BAGARRE SULLA VERSIONE RISCRITTA DAL GOVERNO
Sul salario minimo i partiti di maggioranza bocciano la legge proposta dall’opposizione e la riscrivono. In aula la rivolta plateale delle opposizioni. Andrea Carugati per il Manifesto.
«Giuseppe Conte straccia platealmente in aula il disegno di legge sul salario minimo nella versione riscritta dal governo. Elly Schlein tuona dal suo banco alla Camera: «Siete il governo dalla parte degli sfruttatori, non avete neanche il coraggio di votare no al salario minimo, avete trovato dei sotterfugi per soffocare il dibattito, pugnalate alle spalle oltre 3 milioni di lavoratori poveri perché non riuscite a guardarli negli occhi, ma la Costituzione non vi autorizza a compiere questi abusi di potere contro le minoranze». È tardo pomeriggio a Montecitorio quando va in scena lo scontro finale sul salario minimo: la maggioranza boccia tutti gli emendamenti delle opposizioni, che su questa proposta si erano unite, dal M5s a Calenda (tranne Renzi) raccogliendo 500mila firme. Il disegno di legge delle minoranze in commissione è già stato trasformato in una delega al governo, dove non c’è più traccia del salario a 9 euro l’ora e spuntano le gabbie salariali. Tutti i parlamentari delle opposizioni ritirano la propria firma da un testo che è diventato il contrario di quello che avevano proposto: «Non in mio nome», dicono uno dopo l’altro. E proprio nel giorno in cui il commissario europeo al Lavoro Nicolas Schmit è stato audito in Parlamento, dove ha ribadito che «in Italia i salari sono troppo bassi, una situazione non sana che va affrontata». E ancora: «La contrattazione collettiva per molti settori non funziona e il salario minimo può essere una soluzione, dando anche una spinta a produttività e crescita». In aula la maggioranza non sente ragioni e boccia a raffica gli emendamenti, a partire dal primo, quello che mirava a cancellare la delega al governo e a ripristinare il testo originario: 149 no, 111 sì. È il passaggio fondamentale della giornata, quello che, di fatto, cancella il salario minimo. «Con questo no Meloni ha gettato la maschera, con la stessa arroganza con cui un ministro ha fermato un treno oggi fermate la speranza dei lavoratori sottopagati di avere una equa retribuzione». Il leader M5S è il primo a ritirare le firma, e lo fa stracciando i fogli di carta. Segue Nicola Fratoianni, che parla di «un atto di pirateria politica e istituzionale». Parole che indignano i banchi del centrodestra, a partire da Maurizio Lupi, l’unico che interviene per dire che questo governo non vuole il salario minimo. E a disvelare la pantomima che va in onda da questa estate, da quando Meloni convocò le opposizioni a palazzo Chigi per poi decidere di passare la palla all’inconcludente parere del Cnel fino a ieri. Si indigna anche il capogruppo di Fdi Tommaso Foti (in aula non ci sono né Meloni, né i vicepremier e neppure la ministra del Lavoro Calderone), che prova a citare qualche episodio del passato (come la legge sulla prescrizione diventata "ex Cirielli") per tentare di dimostrare che «ci sono già stati atti di pirateria in queste aule». Francesco Mari, di Sinistra-Verdi, contrattacca: «Vi siete offesi? Ci abbiamo provato ma un altro termine ma non lo abbiamo trovato: la nave del salario minimo è stata abbordata e poi portata alla Tortuga per farne tutta un’altra cosa». Schlein ricorda che, tra l’altro, la delega che sarà approvata con voto finale oggi dalla Camera prevede che siano applicati i «contratti collettivi nazionali maggiormente applicati» e non quelli firmati dalle associazioni più rappresentative. «Così fate ancora più spazio ai contratti pirata», denuncia la leader Pd. Riccardo Magi di +Europa conferma: «Con la vostra legge il quadro rischia di complicarsi, sarà più difficile capire quale contratto si deve applicare in alcuni settori come la logistica». Persino Luigi Marattin di Italia Viva vede che c’è qualcosa di grave: «Non è mai successo che una proposta dell'opposizione non sia stata emendata ma cancellata e sostituita con una delega di segno contrario». Calenda si rivolge a Meloni via twitter: «Faccio un appello politico e personale affinché riconsideri questa scelta». Intervengono in tanti dai banchi delle opposizioni. La capogruppo Pd chiara Braga: «La vostra è una ammissione di impotenza, fate decreti per tutto tranne che per difendere i lavoratori più poveri». Francesco Silvestri del M5S si mostra sicuro: «Avete perso la battaglia politica nel Paese, l’apprivazione del salario minimo è solo rallentata, alla fine la vinceremo». Andrea Orlando avverte: «Cercano di riscrivere le relazioni industriali senza coinvolgere le parti sociali». Oggi si torna in Aula per le battute finali. «Il governo ha fatto un grave errore», la sentenza di Maurizio Landini».
IL DIVARIO TRA NORD E SUD COMINCIA DALLE SCUOLE
Indagine Ocse-Pisa sul sapere in Italia: meridione in ritardo nell’istruzione. Il ministro Giuseppe Valditara dice: è necessaria la riforma dell’istruzione tecnico-professionale. Claudio Tucci per Il Sole 24 Ore.
«Dopo Invalsi, Istat, Fondazione Agnelli ieri anche l’indagine internazionale Ocse-Pisa 2022 ha confermato come l’Italia dell’istruzione sia drammaticamente divisa in due. Con un Nord che va meglio, e un Meridione sempre più distaccato. In quadro di un generalizzato, e preoccupante, crollo della preparazione degli alunni che accomuna tutto il mondo, anche Germania e Francia, dove infatti i rispettivi governi hanno subito annunciato interventi. Insomma, un gap di competenze che non è una buona notizia oggi dove digitalizzazione e intelligenza artificiale vanno assumendo un ruolo sempre più ampio (anche nel mercato del lavoro). Nel nostro Paese la situazione è preoccupante: più dell’80% degli studenti del Settentrione ha raggiunto almeno competenze minime (livello 2 e superiori) in matematica, lettura e scienze. Nelle aree del Mezzogiorno invece si scende a circa il 70% in lettura, poco più del 60% in scienze e circa il 55% in matematica. Materia, quest’ultima, dove i nostri quindicenni si avvicinano, per la prima volta - soprattutto per demerito degli altri, alla media Ocse (471 punti contro 472), ma con il più alto divario di genere al mondo (i ragazzi hanno infatti superato, in questa disciplina, le ragazze di ben 21 punti - nessun altro Paese ha fatto peggio) e, anche qui, con un forte squilibrio territoriale. Nel Nord Ovest più del 10% degli studenti si è collocato nella categoria dei “top performer” in matematica. Nelle aree meridionali, la percentuale di questi studenti è di appena il 3% circa. Complessivamente, gli alunni italiani che hanno raggiunto competenze almeno minime (livello 2 e superiori) sono il 70% in matematica (media Ocse 69%), il 79% in lettura (media Ocse 74%), e il 76% in scienze (media Ocse 76%). Gli studenti che hanno livelli eccellenti di competenza sono meno del 10% in tutti e tre gli ambiti analizzati, mentre quelli che non possiedono le competenze minime sono più del 20%. Il campanello d’allarme è però mondiale: il rendimento medio nei paesi Ocse è sceso di 16 punti in matematica e di 11 punti in lettura. Ciò equivale all’incirca a mezzo anno scolastico in lettura e a tre quarti di anno scolastico in matematica. Unica nota positiva, il rendimento medio in scienze che non ha subito variazioni significative. Nei licei e negli istituti tecnici, in matematica, lettura e scienze, più di due terzi degli studenti italiani ha raggiunto il livello base o superiore di competenza. Le percentuali vanno da un minimo del 67% negli istituti tecnici in matematica, a un massimo del 90% nei licei in lettura. Negli istituti professionali e nella formazione professionale la percentuale di questi studenti va da un minimo del 36% in matematica, a un massimo del 52% in lettura. «Dobbiamo ridurre il divario tra Nord e Mezzogiorno - ha sottolineato il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara -. Orientamento, docenti tutor, linee guida sulle Stem, Agenda Sud sono fondamentali, così come la riforma dell’istruzione tecnico-professionale che ha tra gli obiettivi il rafforzamento delle competenze degli studenti nelle discipline di base».
MIGRANTI 1. IL CDM APPROVA L’INTESA CON L’ALBANIA
Accordo con l’Albania, ecco le regole. Ma ci sono ancora dubbi sui costi dell’operazione. Energia, fine del mercato tutelato: prezzi calmierati per i fragili. Adriana Logroscino per il Corriere della Sera.
«L’accordo di Giorgia Meloni e Edi Rama per il trasferimento dei migranti diretti in Italia in due centri albanesi è stato ratificato: il disegno di legge, illustrato dai ministri dell’Interno, Matteo Piantedosi, degli Esteri Antonio Tajani e dal sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano, è stato licenziato dal Consiglio dei ministri di ieri. Quindi, come fortemente sollecitato dalle opposizioni, proseguirà il suo iter in Parlamento. Dove è facile prevedere che sarà battaglia. Il disegno di legge chiarisce alcuni aspetti dell’intesa annunciata a Palazzo Chigi il 6 novembre. Nelle strutture albanesi le autorità italiane trasferiranno, con i loro mezzi, solo i migranti soccorsi in acque extraeuropee. Per la gestione, tutta italiana, dei centri saranno assunti 135 tra funzionari e dirigenti dei diversi ministeri coinvolti: Giustizia, Salute, Interno, Difesa. La realizzazione dei centri sarà eseguita in deroga in materia di contratti pubblici a ogni norma, a eccezione del codice penale e delle leggi antimafia. Le strutture saranno equiparate agli hotspot, ai centri di permanenza per il rimpatrio. Nei centri «è sancita l’applicazione della disciplina italiana (e, quindi, europea) in materia di immigrazione e di ammissione degli stranieri nel territorio nazionale», e la competenza sarà «del Tribunale di Roma». I migranti potranno rilasciare a distanza la «procura speciale al difensore», i contatti confidenziali con l’avvocato saranno assicurati tramite videocollegamento e il trasferimento di documenti tramite posta certificata. In caso di reati, chi sarà trattenuto nei centri albanesi sarà sottoposto alla legge italiana, salvo che il reato sia in danno di un albanese. Un capitolo rispetto al quale, invece, non ci sono certezze è quello del costo dell’operazione: nel testo approvato in Cdm si riportano 60 milioni di spese previste, ma resta in bianco la quantificazione di un fondo «per l’attuazione dei restanti oneri», distribuiti su una «dotazione iniziale per il 2023» e dotazioni per ciascuno degli anni dal 2025 al 2028. Una stima se la fa sfuggire il ministro Tajani, commentando il provvedimento polemicamente: «Costi inferiori a quanto si è detto, siamo sotto i 200 milioni. Saranno soldi ben spesi per affrontare la lotta all’immigrazione irregolare e sono molti di meno di quelli sequestrati dalla Guardia di finanza per un cattivo uso del Superbonus». In vista della discussione in Aula, l’opposizione affila le armi. «Prima il governo è stato costretto ad ammettere che fosse necessario passare dal voto del Parlamento per la ratifica, smentendo così importanti esponenti della maggioranza — dice il pd Matteo Mauri —. Adesso iniziano le note dolenti dei costi. La prima stima prevede centinaia di milioni di euro. Soldi letteralmente buttati nel cestino». Il Consiglio dei ministri ha approvato anche modifiche al decreto energia per graduare il passaggio al mercato libero di nove milioni e mezzo di utenze domestiche. In particolare per i vulnerabili, 4 milioni e mezzo di famiglie, è previsto che continuino a usufruire di forniture a prezzo calmierato anche alla cessazione del regime del mercato tutelato. Per gli altri, disposte campagne informative e per chi dovrà cambiare fornitore, la semplificazione del trasferimento della domiciliazione bancaria delle bollette. Approvato anche il disegno di legge quadro per la ricostruzione post calamità. Infine Fabrizio Saggio è stato nominato consigliere diplomatico di Meloni e coordinatore della struttura di missione del piano Mattei».
MIGRANTI 2. I ROSARI DEL MARE, OPERA SOCIALE VERSO IL GIUBILEO
I rosari del mare saranno realizzati con il legno delle barche della speranza che trasportano chi cerca una vita in Europa. Attenzione anche al mondo carcerario: da settembre un detenuto di Rebibbia lavora come elettricista nella Fabbrica di San Pietro. La Basilica di San Pietro a Roma si prepara al cammino verso il Giubileo del 2025. Gianni Cardinale per Avvenire.
«Gratuità, giustizia, perdono ». Sono queste le tre parole tipiche che «risuonano nell’anno giubilare ». Lo ha ricordato il cardinale Mauro Gambetti, arciprete della basilica vaticana, vicario generale del Papa per la Città del Vaticano e presidente della Fabbrica di San Pietro, nella conferenza stampa di presentazione delle «azioni di carattere sociale» della basilica di San Pietro in preparazione al Giubileo. Due in particolare, rivolti a persone rifugiate e carcerate: i “Rosari del mare”, in collaborazione con la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, e un programma di reinserimento lavorativo di detenuti, in collaborazione con l’Associazione Seconda Chance. Una iniziativa, quest’ultima, che ha dato un primo frutto con un detenuto di Rebibbia che dal primo settembre ha cominciato a prestare lavoro come elettricista presso la Fabbrica di San Pietro. Parlando della gratuità il porporato ha rimarcato la necessità che «le diseguaglianze sociali, le sperequazioni, vengano quanto più possibile ridotte, dove non del tutto eliminate”». Di qui l’appello alla giustizia. «Certamente - ha osservato Gambetti - gli indigenti non mancheranno mai, ma dobbiamo lottare per contrastare la miseria economica, culturale, spirituale, per consentire a tutte e a tutti di avere le medesime opportunità di crescita e di godere dei beni della terra e del cielo». Quindi il perdono. Per il porporato infatti occorre inoltre «essere operatori di pace nel proprio ambiente, a partire da quello familiare, praticando il perdono», che significa «rispondere con mitezza alle parole offensive, porre gesti di riconciliazione dove vi è divisione, fare del bene a chi si pone come nemico». Questi sono «alcuni degli atteggiamenti che costruiscono la pace, distruggono il potenziale del male e lo trasformano in bene». Il cardinale Gambetti ha annunciato che in questa ottica la sera del 9 dicembre, in occasione dell’accensione dell’albero e della benedizione del presepe di Greccio in piazza San Pietro la parrocchia di San Pietro organizza insieme al Dicastero per il Servizio della Carità e con il supporto del Governatorato una cena con 150 persone senza fissa dimora. «In preparazione al giubileo - ha soggiunto il porporato abbiamo inoltre ampliato gli orari per la preghiera in basilica, aggiungendo al sabato alle 21 l’appuntamento settimanale dell’adorazione eucaristica serale all’Altare della Confessione». Inoltre continuerà il ciclo delle “Lectio Petri”, già iniziate dalla Fondazione Fratelli tutti in collaborazione con il Cortile dei Gentili. Alla conferenza stampa hanno partecipato anche Arnoldo Mosca Mondadori, fondatore e Presidente della Fondazione “Casa dello Spirito e delle Arti”, Flavia Filippi, fondatrice dell’associazione “Seconda chance” e Giovanni Russo, Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia (che ha dichiarato l’«obiettivo» di « raddoppiare il numero di detenuti che lavorano entro il 2024»). Il progetto “Rosari del mare” impiega persone rifugiate nella produzione di rosari destinati all’acquisto da parte dei pellegrini che giungono nella Basilica di San Pietro. Il materiale utilizzato è il legno delle imbarcazioni dei migranti. I rosari vengono completati e assemblati presso la Fabbrica da due persone rifugiate, assunte dalla Cooperativa sociale Casa dello Spirito e delle Arti, il cui presidente e fondatore è Mosca Mondadori. Il progetto “Seconda Chance” invece promuove il reinserimento dei detenuti nella società tramite l'attività lavorativa. Da qui il detenuto elettricista alla Fabbrica, che, sempre in collaborazione con l'associazione fondata dalla Filippi, ha inoltre aderito al progetto Mammagialla Sailin', in corso presso il Carcere Mammagialla di Viterbo, dove è allestita una sartoria di alto livello. La Fabbrica ha infatti richiesto ai detenuti sarti di Viterbo borsoni da proporre ai visitatori nei punti vendita della Basilica».
PATTO DI STABILITÀ: GERMANIA (E OLANDA) CONTRO ITALIA (E FRANCIA)
La discussione sul Patto di stabilità. L’italiano Giorgetti e il francese Le Maire vogliono più concessioni sugli investimenti. Il pressing di tedeschi e olandesi. Per il Corriere il punto è di Federico Fubini.
«Di tutto possono essere accusati i governi europei, salvo che di lavorare in segreto alle regole di bilancio destinate a guidarli nei prossimi anni. Il negoziato avviene a porte chiuse e il prossimo passaggio, forse decisivo, è fissato domani in una cena dei ministri finanziari che potrebbe durare fino al mattino. Ma gli obiettivi dei principali Paesi ormai sono pubblici. Da una parte c’è la Germania, con un maggiore appoggio dell’Olanda da quando l’euroscettico di estrema destra Geert Wilders ha vinto le elezioni due settimane fa e lavora per diventare premier. Dall’altra l’Italia e la Francia, con un coordinamento più stretto di quanto le frequenti querelle fra i due governi lascino sospettare. Christian Lindner, il ministro delle Finanze tedesco, ha radicalizzato le proprie pretese a Bruxelles man mano che la sua coalizione a Berlino sprofondava nel caos dopo la sconfessione da parte della Corte costituzionale degli enormi fondi costituiti dal governo fuori bilancio. La Germania non ha un problema di deficit né di debito pubblico, in confronto alle altre grandi economie europee. Ma aveva scorrettamente escluso 60 miliardi di costi (sulla transizione energetica) per non farli apparire nei conti pubblici. Lindner sa ora di avere un problema di credibilità di fronte ai propri elettori, e cerca di risolverlo a spese degli altri governi alzando sempre più il prezzo di un accordo in Europa. Nel merito, il ministro tedesco presenta richieste di due tipi. Vuole inserire nelle regole precisi obblighi di riduzione annuale del debito e obiettivi di deficit molto sotto al 3% del Pil, che è previsto nel Trattato europeo. Ultimamente poi ha iniziato a chiedere che questi vincoli scattino subito, ossia dal 2025, invece che dopo un primo periodo di aggiustamento che arriverebbe fino al 2032. Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia che con Lindner ha un buon rapporto personale, ieri ha reagito in Parlamento alle idee del collega tedesco. In primo luogo, ha lasciato planare la minaccia di un veto dell’Italia, se dal negoziato dovessero uscire vincoli troppo rigidi. Ha detto Giorgetti: «Non ci si può chiedere di andare non semplicemente contro l’interesse dell’Italia ma, a nostro giudizio, contro quello dell’Europa». Quindi ha aggiunto la frase più tagliente: «Il pacchetto legislativo (delle nuove regole di bilancio, ndr ) si compone di tre parti, ma l’accordo deve raggiungere un equilibrio complessivo». Il senso è inequivocabile: solo uno dei tre regolamenti del nuovo patto di Stabilità richiede l’approvazione unanime di tutti i Paesi, ma questo conferisce a ciascuno — Italia inclusa — un diritto di veto sull’intero pacchetto. Un punto di attrito fra Lindner e Giorgetti riguarda i tempi entro cui scatterebbero le nuove norme. E chiama in causa i costi del Superbonus e degli altri crediti fiscali immobiliari, che aggiungeranno circa venti miliardi (1% del Pil) al debito italiano in ciascuno dei prossimi quattro anni. Lindner vorrebbe che l’obbligo di ridurre il debito almeno dell’1% o dell’1,5% del Pil all’anno scattasse subito, non appena il nuovo Patto dovesse entrare in vigore (magari con impegni più stringenti per i Paesi più indebitati). Giorgetti sa che l’eredità dei bonus rende oggi quasi impensabili dei vincoli del genere: l’italiano preferisce la proposta del commissario Paolo Gentiloni e di tutta la Commissione, di una fase iniziale fino a sette anni in cui l’Italia dovrebbe ridurre un po’ il debito e il deficit, nel frattempo realizzando sul serio le riforme del Piano nazionale di ripresa. Ma soprattutto, Giorgetti e il suo collega francese Bruno Le Maire hanno una controproposta per bilanciare la pressione di Lindner. Che i due lavorino insieme si è capito ieri quando, da Roma e da Parigi, hanno ripetuto la stessa frase: «Le regole di bilancio non sono un fine in sé, ma un mezzo». Per entrambi gli obiettivi sono la sostenibilità del debito, il calo dei costi da interessi, ma anche poter spendere in difesa, tecnologie, transizione verde e nel sostegno all’Ucraina. Oggi le bozze di accordo sul Patto prevedono un po’ di indulgenza nel valutare l’impatto sul deficit delle spese per la difesa e l’impatto sul debito dei prestiti del Pnrr. È un primo passo. Ma Giorgetti e Le Maire vogliono inserire nelle regole incentivi più espliciti per altre spese e investimenti — dall’ambiente, all’Ucraina — previsti dalle politiche ufficiali dell’Ue. La chiave di un compromesso con Lindner potrebbe essere lì».
MELONI, SALVINI E LA POPOLARE METSOLA
La premier Giorgia Meloni riceverà oggi a Palazzo Chigi la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola. Che il suo vice, Matteo Salvini, aveva attaccato dal palco del meeting fiorentino delle destre europee. Il punto è di Tommaso Ciriaco per Repubblica.
«L’unico momento lieto degli ultimi giorni risale a domenica scorsa, a Belgrado. Dopo il punto stampa con Aleksandar Vucic, Giorgia Meloni accetta l’invito «frugale» del presidente serbo. Finiscono in un ristorante della capitale. Appuntamento per pochi selezionati ospiti dello staff e per un solo diplomatico, il resto della delegazione resta in attesa nel Palazzo presidenziale. Carne, ottimo vino e, soprattutto, un karaoke improvvisato ed effervescente. Due ore di chiacchiere e canzoni italiane, amate in Serbia. Con performance canore della premier e del suo collega, ma anche del capo segreteria Patriza Scurti e del portavoce Fabrizio Alfano. Dura poco, come detto. Tornata a Roma, la leader si ritrova a dover gestire i ripetuti attacchi a Bruxelles orchestrati da Matteo Salvini. Una sfida lanciata proprio mentre il governo cerca di strappare condizioni migliori per il Patto di stabilità. La reazione di Meloni è duplice. Ricevere già oggi la popolare Roberta Metsola a Palazzo Chigi. E preparare con i suoi consiglieri l’unico percorso possibile in vista delle Europee: quello che porta al sostegno al bis di Ursula von der Leyen. Sia chiaro, non è questione di oggi, né di domani: la prossima Commissione difficilmente sarà votata prima del settembre del 2024. La presidente del Consiglio non ha dunque alcuna intenzione – e neanche bisogno – di anticipare oggi la strategia. Anche perché Meloni non intende regalare a Salvini un argomento che il leghista già sbandiera, pensando all’alleata: quello dell’inciucio con i socialisti e i liberali. E però, esiste un dato che non può essere messo in discussione, e che parla da solo: nessun Paese europeo del G7 – hanno spiegato i diplomatici alla premier – ha mai negato il proprio voto a un nuovo Presidente della Commissione europea. Sarebbe una prima volta devastante. Anche di questo, ufficiosamente, ragionerà oggi Meloni a Palazzo Chigi con Roberta Metsola (invitandola anche ad Atreju, al pari di von der Leyen). Ma sul tavolo ci sono soprattutto i dossier più caldi, quelli da affrontare con l’Europa nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Il primo, calendario alla mano, è il Mes, la cui ratifica è in teoria calendarizzata come secondo punto all’ordine del giorno nella seduta della Camera del 12 dicembre, poche ore prima del Consiglio europeo del 14. Uno snodo delicatissimo, perché anticipa di poche ore il Consiglio europeo del 14, dedicato con ogni probabilità al Patto di stabilità, su cui Roma rischia di porre il veto. Ma è chiaro che ogni possibile strappo, ogni battaglia che Meloni intende portare avanti con Bruxelles non può non tenere conto di un dato indiscutibile, almeno secondo tutti i più recenti sondaggi: socialisti, liberali e popolari godranno comunque di una maggioranza solida. Davvero Meloni può assumersi il rischio di negare sostegno a von der Leyen, senza neanche essere decisiva? Glielo sconsigliano i suoi mediatori con Bruxelles, al pari di Antonio Tajani, che conosce bene l’aria che si respira nel Ppe: tanto più salgono i sondaggi dell’estrema destra di Le Pen e Salvini – riuniti in Identità e democrazia – tanto più si rafforza il veto dei popolari verso quel gruppo. Meloni deve dunque costruire un percorso che porti a Ursula, senza regalare slogan alla campagna elettorale di Salvini. Ben sapendo che l’approdo è quasi obbligato, oltreché utile, visto che sul rapporto con la politica tedesca ha investito a tal punto da messaggiarsi quasi quotidianamente e senza mediatori. Per questo, Meloni cerca argomenti solidi per negare la firma al patto anti-inciucio che il leghista intende sottoporgli: spiegherà ad esempio che la proposta di Salvini non ha senso perché a Bruxelles esiste un solo voto di fiducia, all’avvio della legislatura. Ma non basta. La premier ha anche bisogno di individuare una soluzione che tenga insieme le diverse sensibilità dei Conservatori europei, di cui è leader. Astenersi è un’opzione, ma non basterebbe a salvaguardare il rapporto con von der Leyen. L’alternativa su cui si riflette in queste ore è di proporre all’Ecr la libertà di voto (i polacchi del Pis, ad esempio, potrebbero esprimersi per il “no”) e contestualmente chiedere agli eurodeputati di Fratelli d’Italia di sostenere il bis. Restano i rischi dell’operazione, non banali. L’ultima volta che due alleati si sono divisi sulla Commissione – era il 2019 - è caduto un esecutivo (quello gialloverde guidato da Giuseppe Conte). Da qui la tensione che precede questo passaggio. Un cruccio che neanche il karaoke in Serbia – capace di far posticipare di quasi due ore il volo di rientro a Ciampino - è riuscito a lenire».
L’EUROPA VA A PECHINO IN CERCA DI DISGELO
Davide Carretta sul Foglio traccia il quadro della nuova missione europea a Pechino. Cambieranno le relazioni Europa-Cina, dopo la relativa distensione con gli Usa?
«Le difficoltà economiche che sta vivendo la Cina basteranno a convincere Xi Jinping a fare concessioni economiche e geopolitiche all’Unione europea? E’ con questa speranza, più che convinzione, che Charles Michel e Ursula von der Leyen sono partiti per Pechino, dove domani si terrà il primo summit Ue-Cina dal 2019. I due leader dell’Ue si augurano come minimo di ottenere un segnale di disgelo analogo a quello che il presidente cinese ha lanciato verso l’America dopo il faccia a faccia con Joe Biden il 15 novembre. Ma le aspettative di una svolta che permetta di ottenere da Pechino gesti reali sull’economia e sulla guerra russa in Ucraina sono basse. La pandemia di Covid-19, la crescente aggressività di Pechino sulla scena internazionale e l’amicizia senza limiti sottoscritta dal presidente cinese, Xi Jinping, e da quello russo, Vladimir Putin, pochi giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, hanno aperto un periodo di tensioni senza precedenti nelle relazioni tra Ue e Cina. Appena tre anni fa, Ursula von der Leyen firmava in teleconferenza (alla presenza di Angela Merkel ed Emmanuel Macron) uno storico accordo sugli investimenti con Xi. Quell’intesa è stata congelata e ora è considerata da molti come morta e sepolta. Von der Leyen ha adottato un tono sempre più duro nei confronti della Cina, inseguendo la retorica e le politiche dell’Amministrazione Biden. La presidente della Commissione ha lanciato la strategia del “de-risking” (la riduzione dei rischi), che non è un “decoupling” (disaccoppiamento), ma ci si avvicina. L’ultimo affronto è l’inchiesta della Commissione sui sussidi alle auto elettriche che potrebbe portare a dazi contro i costruttori cinesi. Prima di partire per Pechino, von der Leyen ha lanciato un altro avvertimento. “Abbiamo visto un crescente squilibrio commerciale. Il deficit commerciale è raddoppiato negli ultimi due anni a quasi 400 miliardi di euro”, ha detto la presidente della Commissione. “I leader europei non tollereranno nel lungo periodo uno squilibrio nella relazione commerciale. Abbiamo strumenti per proteggere il nostro mercato”, ha avvertito von der Leyen. Riequilibrare i rapporti economici è una delle priorità dell’Ue nel summit con Xi. La speranza è che il presidente cinese si faccia convincere dai dati economici che è meglio avviare la distensione economica e commerciale con l’Ue. Moody’s ha appena cambiato la sua previsione di notazione della Cina da stabile a negativa. Economicamente “la Cina entra in un’èra difficile”, spiega un diplomatico europeo, che ha preparato il summit. “Secondo le stime dell’Fmi, la Cina avrà una crescita del 3,5 per cento nei prossimi 5 anni contro una media dell’8,5 per cento negli ultimi 20 anni”. Pechino avrebbe tutto l’interesse a lavorare con l’Ue per risolvere le dispute e normalizzare le relazioni economiche. “Se ci sono barriere agli investimenti, non vedrete molti investimenti diretti europei affluire”, dice il diplomatico. Anche Von der Leyen ha detto che è “nell’interesse della Cina” trovare “soluzioni negoziate”. Agli occhi dell’Ue, lo stesso vale per la geopolitica. “La Cina non ha interesse ad avere un alleato (la Russia, ndr) che modifica unilateralmente le frontiere e invade un paese”, spiega il diplomatico. Michel e von der Leyen chiederanno a Xi anche di usare la sua influenza su Putin per porre fine alla guerra in Ucraina, di reprimere l’elusione delle sanzioni da parte delle società cinesi e di fare pressioni sulla Corea del nord sulle munizioni alla Russia. Ma nel regno di Xi la razionalità sembra aver lasciato definitivamente il posto all’ideologia. Le risposte che i leader dell’Ue si attendono non sono positive. Durante il summit – prevede il diplomatico europeo – la Cina chiederà di “avere massimo accesso al mercato interno”, esprimerà “mancanza di entusiasmo sull’inchiesta sui sussidi alle auto elettriche”, cercherà “rassicurazioni sul continuo accesso alle tecnologie di punta” e farà conoscere “il suo nervosismo per il de-risking”. Anche sulle munizioni che la Corea del nord fornisce alla Russia, secondo il diplomatico, la risposta sarà negativa: “Abbiamo influenza limitata”».
BIELORUSSIA, DUE PRETI ARRESTATI SENZA ACCUSE CHIARE
Padre Henryk Akalatovich e padre Vyacheslav Pyalinok sono stati fermati senza accuse chiare. Il regime afferma di voler combattere l’estremismo, ma le tensioni tra la Chiesa e le autorità locali sono aumentate dopo le elezioni del 2020. Giacomo Gambassi per Avvenire.
«La nota dell’arcidiocesi di Minsk Mohilev è asettica: «Padre Henryk Akalatovich, parroco della chiesa di San Giuseppe a Valozyn, a causa della detenzione, non può svolgere al momento i propri compiti pastorali ». Poche parole confermano l’arresto del sacerdote cattolico che era stato anticipato dal portale “Christian Vision for Bielorussia”, organizzazione che monitora la libertà religiosa e di culto nel Paese alleato di Putin. Il comunicato arriva a distanza di poche ore dalla cattura di un altro prete cattolico: padre Vyacheslav Pyalinok, ex segretario personale dell’allora nunzio apostolico in Bielorussia, l’arcivescovo Claudio Gugerotti, oggi alla guida del Dicastero vaticano per le Chiese orientali e neo-cardinale dallo scorso settembre. Due sacerdoti fermati in meno di una settimana che raccontano il giro di vite anti-ecclesiale in Bielorussia. Nel mirino non solo la Chiesa cattolica, ma anche numerose denominazioni cristiane. Una tenaglia che si stringe sempre di più intorno a voci ritenute critiche verso il regime filo-russo di Alexander Lukashenko e “silenziate” con arresti e incarcerazioni facendo leva su accuse dai contorni ambigui. Come dimostrano i casi dei due sacerdoti appena finiti in cella. Quando padre Akalatovich è stato fermato nella canonica insieme con la sua perpetua, non gli è stata mossa alcuna specifica contestazione. Tanto che, non avendo lo status di «arrestato», non ha potuto né vedere il suo legale di fiducia (ma solo quello d’ufficio), né ricevere vestiti per l’inverno o cibo. Poi è arrivato il capo d’imputazione: tradimento dello Stato. Un reato per il quale rischia dai 7 ai 15 anni di carcere. Nato in una famiglia d’origine polacca, 63 anni, è stato uno di quei preti ordinati clandestinamente durante gli anni dell’Unione Sovietica. Era il 1984. In cella padre Akalatovich può contare su pochi farmaci. Secondo “Christian Vision”, le sue condizioni di salute sono precarie: di recente ha avuto un infarto ed è stato operato per un tumore allo stomaco. Non è ancora ufficiale il motivo dell’arresto di padre Pyalinok. Secondo informazioni filtrate dalla forze dell’ordine, dovrà rispondere di estremismo. Un’accusa generica dentro cui è possibile far ricadere dichiarazioni sgradite al potere. Il sacerdote ha 48 anni e stava prestando servizio nella parrocchia della Santa Croce a Brest. La polizia lo ha bloccato alla fine della Messa del mattino. E gli ha sequestrato il cellulare e il computer portatile. Dopo il doppio arresto il nunzio apostolico, l’arcivescovo Ante Jozic, ha incontrato il ministro degli Esteri bielorusso, Sergei Aleinik. La notizia è stata rilanciata dai siti cattolici dell’Ucraina. «Le tensioni tra la Chiesa e le autorità bielorusse sono aumentate dopo le elezioni presidenziali del 2020 quando Lukashenko è stato rieletto con l’80% dei voti », spiega il portale Credo. E si sono intensificate le repressioni che Vatican News non esita a definire «massicce». Ufficialmente il governo ribadisce di voler combattere l’estremismo. Più volte le autorità di Minsk sono intervenute contro la Chiesa cattolica alla quale appartiene il 10% della popolazione. Già quest’anno un altro sacerdote cattolico, padre Vladislav Lazar, era stato arrestato per tradimento allo Stato ed era rimasto per sei mesi in un centro di detenzione preventiva fino al rilascio».
40 ANNI FA IL CICLONE MANFREDINI
A Piacenza sono state ricordate l’opera e la figura del vescovo Enrico Manfredini, a 40 anni dalla morte avvenuta a Bologna dove era diventato arcivescovo da 7 mesi. Un grande pastore che voleva l’unità fra Cl e AC. Barbara Sartori su Avvenire.
«Era chiamato il «pastore della mobilitazione ». L’instancabile vescovo che passava con nonchalance dagli incontri in parrocchia alla Messa nella fabbrica occupata. Energico e pragmatico, da buon lombardo, non si sottraeva mai al confronto. E non importa a che ora rientrasse in vescovado, si fermava in cappella. La sua regola era: almeno un’ora al giorno davanti al Santissimo. Da lì traeva la forza per affrontare le sfide di un’epoca di rinnovamento - quando non di rottura - dentro e fuori la Chiesa. Forse è anche per questo che, nella natia Varese come a Piacenza, la diocesi che guidò dal 1969 al marzo 1983, fino a Bologna - dove fu arcivescovo per sette mesi, prima della prematura morte il 16 dicembre 1983 - l’eredità di monsignor Enrico Manfredini è ancora viva e presente. «La grandezza di un vescovo sta nel legare le opere non alla sua persona, ma nel farle camminare anche dopo di lui. Vogliamo recuperarne la memoria per capire come anche noi, oggi, possiamo camminare al servizio della Chiesa», ha evidenziato il vescovo di Piacenza-Bobbio Adriano Cevolotto alla serata, organizzata dalla diocesi insieme al settimanale diocesano Il Nuovo Giornale, che ha aperto le celebrazioni nel 40° della morte. Manfredini seppe scuotere la realtà piacentina, facendo crescere ciò che sapeva dare una risposta alle situazioni di bisogno che man mano emergevano. Il suo progetto, nella linea di Giovanni Paolo II, era una Chiesa a servizio dell’uomo, che metteva Cristo al centro di tutto. Di qui l’attenzione al mondo della fragilità con la Caritas (volle due sposi come primi presidenti), delle dipendenze con l’associazione La Ricerca, della disabilità con Il Germoglio, la prima cooperativa sociale per l’inserimento lavorativo, e Assofa, per l’accompagnamento alle famiglie. L’apertura all’orizzonte missionario, culturale ed ecclesiale portò, per limitarci ad alcuni esempi, alla nascita di Africa Mission, della Libreria diocesana Berti, della Scuola di teologia per laici, della Consulta dei giovani. Tutte realtà ancora ben radicate. «Grazie a lui Piacenza ha potuto far proprie le novità del Concilio Vaticano II», ha sottolineato monsignor Giuseppe Busani, liturgista, in curriculum incarichi a livello nazionale, che da Manfredini fu ordinato sacerdote nel 1979. Aveva partecipato all’assise come parroco uditore: impostò il suo episcopato sull’Eucaristia - introdusse l’Adorazione eucaristica perpetua in San Donnino, ogni domenica sera celebrava in Duomo per offrire un segno di unità alla diocesi - e aprì la strada agli organismi di partecipazione, «invitando a passare dalla collaborazione alla corresponsabilità ». Di richiamo all’unità ha parlato anche il professor Mauro Monti, che faceva parte della schiera di ventenni coinvolti dal vulcanico Vescovo. «Voleva evitare le contrapposizioni su cui in quegli anni spingevano i giornali: da un lato, l’Azione cattolica con la scelta religiosa, dall’altro Comunione e Liberazione con l’idea della presenza. Lui ci spingeva a lavorare insieme». Emblematico l’incontro con Rosy Bindi, in autogrill, di ritorno dal convegno ecclesiale di Loreto del 1985. «Io, che ero di Gioventù Studentesca, le venni presentato dall’amico Enrico Corti, di Azione cattolica. “Si vede che vi volete bene”, fu il suo commento». Il 16 dicembre una delegazione, guidata dal vescovo Cevolotto e dall’emerito Gianni Ambrosio, sarà a Bologna per la Messa in Duomo presieduta dal cardinal Zuppi. Il 17, Manfredini sarà ricordato anche a Piacenza nella Messa alle 18.30 in Cattedrale».
ELISA FUKSAS NEI SACRI PALAZZI
Elisa Fuksas sul Domani racconta di essere stata invitata a parlare alla Penitenzieria apostolica. Scrive: «“Un prete mi ha detto che “peccato” viene dal greco hamartia e significa “mancare il bersaglio”. Questo sacramento è un modo per riaccendere una combustione, far ripartire un dialogo».
«Se qualcuno mi avesse detto che a un certo punto sarei stata invitata alla Penitenzieria apostolica (che fino a ieri non avevo idea di cosa fosse), non ci avrei creduto. Come però non avrei creduto praticamente a niente di quello che è la mia vita, compreso il fatto di innamorarmi, battezzarmi a 37 anni, incontrare persone orrende e straordinarie, diventare grande, a un certo punto magari morire, eccetera. E così a maggio ricevo la proposta di partecipare al seminario “Celebrare il sacramento della confessione oggi” organizzato proprio dalla misteriosa Penitenzieria apostolica. Superate sorpresa e lusinga, ecco la sindrome dell’impostore (o impostora?). Perché proprio io? Davanti a teologi, che posso dire di non già detto? Pentendomi, appunto, ho accettato. Eccomi oggi in pieno scirocco che salgo le scale del palazzo della Cancelleria, sede del tribunale della misericordia. Penso che dovrei tornare a casa, mentre guardo il cortile magnifico – ci sono anche la Sacra Rota e la Segnatura apostolica – perché ho accettato? Incrocio qualche suora, un paio di preti giovani, poi vedo gli altri che parleranno, come me: religiosi, una ragazza con i capelli inzeppati sotto il velo, un signore laico con la faccia da prete, e io? Piena di vanità, il serpente e la fede tatuati sulle dita, i capelli lucidi, il rossetto. I jeans attillati. Che c’entro? Nella sala affrescata, immensa, le virtù cardinali mi fissano dall’alto. Mi siedo, inizio a parlare. La prima volta «La prima volta che mi sono confessata è andata malissimo. È successo parecchio tempo dopo il mio battesimo in una gigantesca basilica romana; pensavo che confondermi tra turisti e pellegrini fosse il modo migliore per avvicinarmi all’incontro con il perdono. Avevo aspettato tanto perché mi pareva inaccettabile pareggiare i conti con questa e ogni dimensione semplicemente raccontando i miei “peccati” a uno sconosciuto. E poi non volevo cancellare i miei errori e non so perdonare; esistono la cattiva memoria e l’oblio. Non mi serviva altro. Dopo il mio iniziale imbarazzo: buongiorno? C’è qualcuno? E il tentativo scocciato del prete di spiegarmi la formula giusta, gli ho raccontato la mia vita dal battesimo in avanti. E poi lui: va a messa il giovedì e non la domenica, fa sesso fuori dal matrimonio, ma secondo lei Dio è contento? E allora abbiamo iniziato a litigare. A dire la verità ho iniziato io. È a causa di persone come lei che le chiese sono vuote. Poi gli ho fatto notare che se riduciamo il Mistero a una questione morale, allora viene meno il senso di tutto. Sono scappata via pensando che potevo credere in Dio senza confessarmi: non mi sarei mai più messa in una situazione così umiliante. Eppure sapevo che quella scena l’avevo voluta io. Avevo ridotto un sacramento a un individuo, in più odioso. Invece dovevo parlare direttamente con quello che rappresentava, di cui era un simbolo, e usare la liturgia per assicurarmi il dialogo, altrimenti muto, con il Mistero. Con un Dio che così si mostra a noi tutti vivente. Per fortuna noi umani siamo incomprensibili e per una serie di reazioni e incontri e ripensamenti, ho cambiato idea, basilica e soprattutto confessore. E così ho scoperto il potere di questa relazione, che Jung definiva “l’anticamera della psicanalisi”. Ma, a ripensarci oggi, la vera difficoltà di quella prima volta e poi di sempre era il racconto. Quale storia raccontare al prete, o scrivere, o trasformare in film? Come faccio a scegliere i fatti giusti (che in questo caso sono quelli sbagliati)? E quali fatti-azioni-intenzioni oggi possiamo chiamare peccati? Peccare è ancora trasgredire i dieci comandamenti o anche altro, che ha a che fare con l’uomo contemporaneo, i suoi problemi, i pericoli che incontra, la salvezza che sfiora, desidera e ripudia. Un prete mi ha detto che “peccato” viene dal greco hamartia, e significa “mancare il bersaglio” con il tiro con l’arco. Niente a che fare con il latino peccatum che evoca un errore di altra natura, pieno di colpa. Oggi, però, quello che mi pare il mio vero peccato è la poca fede nel senso che dovrebbe appartenere cose e persone, le nostre azioni, relazioni, sentimenti, quindi anche le nostre opere, e non dovrebbe, nella mia idealizzazione infantile e insopportabile, avere a che fare con il nostro successo – il dispiegarci nel mondo secondo i criteri del mondo – ma solo con il nostro talento di esseri umani. Dal mio battesimo in poi è successo di tutto, pandemia, guerre, malattie mie e di persone vicine. In questa antologia di sciagure, a un certo punto c’è stata una bella notizia: dovevo girare il film tratto dal mio romanzo Ama e fai quello che vuoi, la storia (anche) della mia conversione. Ma il film non trovava la sua forma. Mi pareva sbagliato ripetere cose già dette; pura vanità. Finché, dopo infiniti tentativi, io e la sceneggiatrice eravamo riuscite ad aggiornare il libro. La vita era andata avanti, per fortuna: quindi non più come si diventa cristiani, ma come si resta cristiani nel tempo e sé stessi (anche all’interno di un’istituzione discutibile come la chiesa). Il film era il racconto della prima confessione della protagonista, e iniziava con questa battuta (da niente): “Non sono più sicura di credere in Dio, è un peccato, no?” Nel tempo sono diventata amica di un giovane prete che è diventato il mio confessore. Spesso al bar ha imposto le mani sopra la mia testa per lasciarmi raccontare “i miei peccati”. La volta in cui mi sentivo “meno cattiva”, con meno miserie, mi sono sentita anche meno “fedele”, meno innamorata. Come se la relazione (anche con Dio) fosse diventata tiepida. Allora quale era il vero peccato? Quelli che avevo raccontato o questa sensazione, quest’abitudine a una “cosa” cui avevo promesso di non abituarmi mai? Mi aveva assolto senza penitenze (sempre riflessioni, mai preghiere). Io però sapevo che la mia vera penitenza era stata ascoltarmi parlare di quest’amore sbiadito, quest’ardore annoiato. La confessione è un modo per riaccendere una combustione, far ripartire un dialogo, più sommesso o più chiassoso, tra le cose e il resto, tra questo mondo e tutto l’invisibile da cui è circondato. E allora ecco che la Riconciliazione, in cui si inverte il rapporto causa-effetto e si rimette in piedi una cosa crollata, permette di tornare al momento prima della rottura della relazione, qualunque sia, compresa quella tra noi e il Mistero di Dio. In qualche modo si riavvolge il nastro, ma non è ipocrisia. L’errore non si annulla, ma smette solo di essere un ostacolo e si trasforma in storia. D’altronde l’irreversibilità è tipicamente umana. Il tempo ha una freccia, la forza di gravità ha una freccia, i nostri anni, le nostre giornate, la nostra faccia che invecchia eccetera. C’è però una strana cosa che è la reversibilità che concede la grazia del Mistero. Ed è questa per me la vera Riconciliazione, il rinnovamento di un patto: continuare a fare un discorso anche quando non hai voglia di ascoltare, non interrompere la costruzione del mondo. Non sono più sicura di credere in Dio, è un peccato, no? Ecco, sono certa che qualcuno risponderà con le parole che mi ha detto un cardinale: puoi non essere più sicura di credere in Dio, ma Dio però non smette di credere in te. Certo, a volte questa fiducia, sguardo benevolo su noi e tutto, sembra impossibile. Proprio come impossibile sembra l’eternità, punto di fuga di ogni rappresentazione del mondo, fuori dall’immagine ma necessario alla costruzione di quella stessa immagine. E di quel mondo che poi è il nostro. E la cosa che mi sconvolge ogni volta, è che tutto questo, che è un universo di libertà e dolore, di inadeguatezza e compimento, d’amore, passa sempre per la parola. Nostra e non solo. Grazie». Che c’entro in questo seminario? Non lo so. C’entro qualcosa? Forse, no, sì? Dopo di me hanno parlato signori austeri ed entusiasti, pieni di dolore, con storie enormi e tristissime. Mi sono sentita fuori posto e nel posto giusto, ho desiderato scappare, chiedere scusa, impormi e pure sparire. Ma alla fine il reggente della Penitenzieria mi dirà grazie. E io: mi rendo conto dell’anomalia che sono. E lui: Grazie proprio per quella. Tutto brilla in questa stanza. Non lo vede?».
GUGLIELMO MARCONI NEI RICORDI DELLA FIGLIA ELETTRA
Nel 2024 saranno 150 anni dalla nascita di Guglielmo Marconi, padre delle comunicazioni senza fili, premio Nobel nel 1909, vero inventore della radio. La figlia Elettra Marconi parla con il Corriere della Sera.
«Nel 2024 si celebreranno i 150 anni dalla nascita di Guglielmo Marconi, padre delle comunicazioni senza fili, premio Nobel nel 1909. Sono in programma una miniserie sul grande inventore con Stefano Accorsi e un museo a cura del Comune di Santa Marinella e di Livio Spinelli a Torre Chiaruccia, la sua ultima stazione radio. Elettra Marconi, la figlia, ci ha aperto il suo palazzo a via Condotti per ricordarci chi era suo padre.
Se pensa a lui che parola le viene in mente?
«“Radio”. Perché la comunicazione senza fili ha cambiato la vita delle persone».
C’è un luogo che glielo fa sentire vicino?
«Il mare. Se vedo il mare, penso a mio padre. Mio padre c’è dov’è il mare».
Avete viaggiato molto per mare?
«Sì, con lo yacht Elettra. Era la nostra casa. Navigavamo da marzo a fine novembre. Quando non lavorava, mi parlava, giocava insieme a me con l’elettricità».
Come si svolgeva una giornata sull’Elettra?
«Ci alzavamo presto. Papà passava molto tempo nella sua cabina-stazione radio, piena di valvole, apparecchi, orologi con i diversi fusi orari. Chiamava lo yacht Elettra “il mio laboratorio galleggiante”. Diceva: “Senza l’Elettra non avrei potuto realizzare tutti gli esperimenti che ho fatto”».
Le capitava di aiutarlo?
«Stava creando il radar. Aveva costruito un apparecchio e posto due boe a distanza precisa, perché l’Elettra potesse entrare di prua. Chiamava me e mia madre per mettere delle lenzuola bianche intorno alla cabina del comandante, così che lo yacht procedesse alla cieca, con il solo ausilio della sua invenzione».
Cosa lo muoveva alla scoperta?
«Voleva che gli esseri umani avessero una vita migliore».
Anche la radio è nata con questo spirito?
«Sì, la gente di mare diceva “Marconi l’ha inventata per noi”. Infatti voleva aiutare i naviganti che solcavano gli oceani senza notizie della famiglia, senza poter chiamare soccorso».
Nelle navi c’erano i «marconisti».
«I Marconi man! Avevano la M sul cappello. Io mi sono battuta per loro quando hanno voluto sostituirli con i computer, ma non è servito».
Suo padre aveva previsto il cellulare?
«Nel 1931 inventò il primo radiotelefono per Papa Pio XI. Era ancora uno strumento ingombrante, ma diceva sarebbe arrivato un momento in cui le persone, con “una scatoletta in tasca”, avrebbero potuto parlare con la fidanzata, la famiglia o con chi avessero voluto».
Parlava molto con suo padre?
«C’era grande dialogo tra noi. Crescendo ho capito di avere un carattere simile al suo. Era un uomo retto e pretendeva che anche gli altri lo fossero. In famiglia era dolce, ma in certi momenti, era molto concentrato sul suo lavoro. Io ho sempre saputo e rispettato la grandezza di mio padre. Quando arrivavamo nei porti lo aspettava una folla».
Suo padre amava l’Italia?
«Teneva molto al suo Paese. Quando è scoppiata la Prima guerra mondiale, ha lasciato il lavoro in America, dove costruiva stazioni radio, per arruolarsi e andare nel Genio, alle comunicazioni. Poi è stato in Marina».
E l’Italia lo amava?
«È stato un dolore quando ha presentato la sua invenzione a 21 anni al governo italiano ricevendo indifferenza. Quindi ha deciso di andare con la madre irlandese in Inghilterra. Lì lo hanno accolto con entusiasmo, gli hanno fatto mostrare le sue invenzioni, hanno visto che funzionavano e lo hanno sostenuto. Avevano capito che erano importanti per l’impero della regina Vittoria».
Sono gli anni del grande esperimento?
«Nel 1895 ha fatto la prima trasmissione radio a Sasso Marconi, dalla villa dei genitori, attraverso la collina. A partire da lì ha presentato l’invenzione, poi accolta in Inghilterra. Ha costruito stazioni radio nel mondo. La prima che ha ricevuto una trasmissione transatlantica era in Canada, il 12 dicembre 1901, alle 12:30, sull’Isola del Newfoundland».
Sono racconti che le faceva lui stesso?
«Sì. Me ne parlava. Il giorno della prima trasmissione c’era poi un assistente che lavorava al Ministero delle Comunicazioni di Londra, Mister Kemp. Mio padre, che lo portava con sé, disse: “Can you hear anything?”, e lui, “Yes!”. Erano i tre punti della lettera S. Il telegrafo senza fili era diventato realtà».
Un uomo capace di superare ostacoli...
«Ha avuto una vita avventurosissima. La stazione radio restò poi distrutta da una bufera di neve. Lui non si è perso d’animo, ne ha costruita subito un’altra».
Quanto è stato importante il contesto familiare per lo sviluppo delle invenzioni di suo padre?
«La mia nonna irlandese ha creduto ciecamente nel figlio. Il padre invece era preoccupato, temeva perdesse gli anni più importanti dello studio per giocare con l’elettricità. Però lo aveva abbonato a una rivista sulle scoperte in questo campo. In fondo anche lui lo sosteneva. E poi mia madre, Maria Cristina Bezzi-Scali, lo ha seguito sempre».
È stata testimone anche dei colloqui tra Pio XI e suo padre.
«Pio XI obbligava mia madre a portarmi alle udienze private. Mio padre era legatissimo al Papa, al Vaticano, era un uomo di grandissima fede, credeva in Dio, quell’Essere superiore che gli aveva messo a disposizione le forze della natura per dare beneficio agli uomini, per salvare le loro vite, per dare loro la possibilità di comunicare».
Non è scontato per uno scienziato avere questo rapporto con il divino.
«Mio padre ha offerto al Papa la Radio Vaticana. Il Pontefice aveva espresso questo desiderio e lui era d’accordissimo, infatti aveva pensato: “Il Papa dovrebbe avere la stazione radio per parlare al mondo e dare la benedizione Urbi et Orbi”. Così nel febbraio 1931 è stata inaugurata».
Anche Pio XII ha avuto un ruolo importante nella vostra vita familiare.
«Eugenio Pacelli era già legato a mio nonno, il conte Francesco Bezzi-Scali, veniva in questa casa, per dare lezioni di religione a Cristina, mia madre. È stato il responsabile del matrimonio dei miei, capì il loro grande amore. Da segretario di Stato mi battezzò e da Papa mi amministrò la prima comunione e la cresima».
Grazie a Marconi si salvarono molte vite del Titanic.
«Nel 1912 c’è stata la tragedia. Lui era stato invitato a bordo del Titanic come ospite d’onore, ma per fortuna non ha preso parte. Non amava la mondanità. Da New York ha seguito tutta la tragedia, è poi andato al porto a ricevere i sopravvissuti».
Pensa che suo padre dovrebbe essere più ricordato?
«I ragazzi vengono da me a lamentarsi perché non trovano niente sui libri. Se uno va all’estero c’è un grande entusiasmo. La scuola in questo è carente, c’è solo il nome e la data del primo esperimento. Mio padre è un grande esempio».
Era più Marconi l’inventore o era più suo padre?
«L’inventore. Ovviamente era anche mio padre, che adoravo. Vedevo, però, la sua importanza. Quando è mancato ci è cascato il mondo addosso. Mia madre ha voluto fossi presente a tutte le commemorazioni che gli hanno dedicato. Papà è morto il giorno del mio settimo compleanno. Dopo ho sentito la differenza. Nessuno è stato come mio padre».
Come fa a ricordare tutto?
«Ricordo meglio il tempo con mio padre che quello successivo. Dopo... dopo è come una nebbia. E poi non c’era niente da ricordare, la guerra... quando mio padre è mancato, nel 1937, tutte le stazioni radio, anche in Paesi lontani e nemici tra loro, tacquero per due minuti. Il mondo per due minuti tornò al silenzio precedente il 1895».
OGGI SAN NICOLA, FESTA A BARI E NEL MONDO
La consueta rubrica su Avvenire di Matteo Liut sul Santo del Giorno, oggi merita di entrare nella Versione, vista la ricorrenza di San Nicola.
«Donare speranza, ecco la più grande opera che i cristiani possono compiere a favore dell’umanità, perché la speranza è il più grande motore di cambiamento, è radice di futuro e fonte di gioia, quella autentica. E il giorno in cui si ricorda san Nicola è quello perfetto per comprendere questo enorme dono che il Vangelo porta al mondo. Questo antico testimone della fede, nel quale la tradizione rintraccia l’archetipo di Babbo Natale, con la sua testimonianza ci ricorda l’urgenza della carità e dell’amore autentico verso le sorelle e i fratelli che si trovano nel bisogno. San Nicola di Bari (o di Mira) era nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, e si trovò a guidare la comunità locale di Mira mentre infuriava ancora la persecuzione anticristiana. Secondo la tradizione anche lui visse la prigionia a causa della fede, sebbene non sia chiaro se questo avvenne prima dell’Editto di Costantino nel 313, oppure dopo, nel contesto di una persecuzione scatenata in Oriente da Licinio. Fu probabilmente tra i partecipanti al Concilio di Nicea nel 325 e il suo impegno a difesa della vera fede fu sempre affiancato a quello a favore dei poveri e degli ultimi. L’episodio più famoso narrato dalla tradizione è proprio il dono da parte di Nicola di una dote per due giovani donne, figlie di un benestante caduto in disgrazia, che poterono così sposarsi. Morì attorno all’anno 335 e nel 1087 le sue reliquie furono portate a Bari, città di cui oggi è patrono».
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