La Versione di Banfi

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Germania: vince, di poco, la SPD

alessandrobanfi.substack.com

Germania: vince, di poco, la SPD

Vittoria dei socialdemocratici di Scholz, crolla la Cdu del dopo Merkel. E' ancora incerto l'esito per il nuovo Governo. Letta felice: dalla crisi si esce a sinistra. Ma tornerà l'austerità europea?

Alessandro Banfi
Sep 27, 2021
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Germania: vince, di poco, la SPD

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Dunque le elezioni tedesche hanno dato un verdetto incerto: vincono i socialdemocratici di Scholz ma avranno bisogno di alleati per governare. Crolla la Cdu del dopo Merkel, ma la cancelliera rischia di rimanere in carica ancora per molti mesi. Per Enrico Letta è la conferma che dalla crisi pandemica si può uscire “a sinistra”. Per Luca Caracciolo il destino della Germania e dell’Europa, di cui i tedeschi sono i principali “azionisti”, è più che mai incerto. Sarà una Ue di falchi che tornerà sulla politica dell’austerità o si proseguirà sulla strada del Recovery? I liberali tedeschi, che potrebbero avere un ruolo nel nuovo governo di Berlino, hanno una linea oltranzista contro il debito. Scholz, invece da ministro della Merkel, ha spinto per il Next Generation Ue. Vedremo quale sarà il finale di partita.

In Italia due fronti aperti per l’esecutivo nella settimana in cui inizia ottobre: oggi colloqui governo – sindacati, sullo sfondo il “patto” sociale proposto da Draghi, e riunione al CTS sulle nuove regole anti Covid, soprattutto per cinema e teatri. I dati sulla pandemia sono confortanti, al netto del fatto che i numeri domenicali sono sempre un po’ falsati dalla festività. Il Sole 24 Ore mette in fila obblighi e buchi normativi per lavoratori e datori di lavoro, pubblici e  privati: fra 18 giorni ci vuole il Green pass sui luoghi di lavoro.

Ultimi cinque giorni di campagna elettorale per le amministrative. Giancarlo Giorgetti, ministro leghista, spiega alla Stampa che la soluzione migliore per il Paese sarebbe l’elezione di Draghi al Quirinale, il prossimo febbraio. Non perché stia facendo male a Palazzo Chigi, ma perché i partiti finirebbero per paralizzare la sua azione, a ridosso dell’appuntamento elettorale. Incursione finale della Versione nel mondo dell’arte: colpa di Socci che scrive di Andy Warhol e di Montanari che si occupa di chiese chiuse. Dall’estero bella storia di una pallavolista ventenne di Kabul salvata dallo sport italiano e angoscia per i profughi haitiani, ultimi tra gli ultimi, sulla terra. Ieri era la Giornata dei migranti, lo ha ricordato papa Francesco.

Prima di andare sulle prime pagine dei quotidiani, due parole sulla Versione. È un mese che questa rassegna vi arriva entro le 8 di mattina e sarà sempre così dal lunedì al venerdì. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine della rassegna. Consiglio di scaricare subito quello che vi interessa perché il file resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete arretrati.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

La Germania al voto domina la scena. Il Corriere della Sera: Spd in vantaggio, crolla la Cdu. Per la Repubblica: La Germania sospesa. Anche la Stampa sottolinea l’incertezza del risultato elettorale: Germania, non vince nessuno. Per il Mattino c’è già uno scontro sulla leadership: Germania, lite su chi governa. Per Libero ci potrebbe essere un’opportunità per il nostro Paese: Via la Merkel. Il piano di Draghi per comandare in Europa. In diversi giornali restano sulla pandemia in attesa di capire meglio che succede in Germania. Il Giornale: Covid, rimandate 400 mila operazioni. Il Quotidiano Nazionale è sulla stessa linea: Col Covid saltati 400 mila interventi. Il Messaggero anticipa: «Stadi e teatri, si riparte così». Il Sole 24 Ore fa il punto: Effetto green pass: i punti da chiarire sul ritorno al lavoro. La Verità è ottimista anche oggi: Siamo sempre prigionieri di Speranza. Il Domani pubblica un’ inchiesta su Conte: L’avvocato del sistema. Mentre il Fatto già lamenta che si accantoni il salario minimo: I padroni atterriti dalle paghe giuste. Ma Draghi li rassicura.

VINCE AI PUNTI LA SPD, CROLLA CDU DEL DOPO MERKEL

Un risultato incerto, che pure condanna la Cdu del dopo Merkel e fa vincere, ai punti, la Spd di Scholz. Verdi ancora indietro e liberali forse decisivi (con lo spettro di una politica economica tedesca da falchi europei dell’austerità). Elena Tebano sul Corriere della Sera.

«Per la prima volta nel Dopoguerra i due maggiori partiti tedeschi sono entrambi sotto il 30%. Per l'Unione, la federazione formata dai partiti gemelli Cdu e Csu che sotto la guida di Angela Merkel ha vinto le ultime quattro elezioni politiche, è il peggior risultato di sempre. Per i socialdemocratici della Spd, fino a pochi mesi fa 20 punti sotto l'Unione, un successo relativo, perché senza un mandato schiacciante per governare. Per i Verdi il miglior risultato di sempre, ma comunque una delusione. Mai il panorama politico in Germania era apparso così frammentato e soprattutto imprevedibile, una parola che ai tedeschi piace pochissimo. Ieri sera le proiezioni davano la Spd al 25,8%, la Cdu/Csu al 24,1%, i Verdi al 14,6%, i liberali di Fdp all'11,5%, l'estrema destra AfD al 10,4%, la sinistra radicale Linke al 4,9%, con la possibilità che non riesca a superare lo sbarramento. La Cdu, quando ancora i risultati non erano definitivi, ieri sera perdeva anche nel distretto dove ha votato Laschet, ad Aquisgrana. A Potsdam invece Scholz ha prevalso nell'elezione diretta su Annalena Baerbock. Nel «giro degli elefanti», il confronto tra i leader che chiude la giornata elettorale in Germania, sia il candidato socialdemocratico Olaf Scholz che quello cristiano-democratico Armin Laschet hanno detto di voler guidare il prossimo governo tedesco. Laschet ha ripetuto più volte che per farlo serve avere una maggioranza in parlamento, non necessariamente essere il primo partito. Ma sembra un tentativo disperato. Di certo c'è che ci vorrà una coalizione a tre. E questo dà un potere inedito ai due partiti «minori»: Verdi e Fdp, con i liberali che già ieri sera hanno fatto agli ambientalisti «l'offerta», subito accettata, di trattative dirette a due, indipendenti da quelle del possibile partner di maggioranza. Esclusa la riedizione della «grande coalizione» con o senza terzo incomodo (non la vuole né l'Spd né la Cdu), e con il pessimo risultato della Linke, le coalizioni possibili restano quella «semaforo», la più probabile (dai colori dei partiti: il rosso di Spd, i Verdi e il giallo di Fdp) e la «Giamaica» (cioè il nero di Cdu/Csu, i Verdi, e Fdp). Da oggi le forze politiche avvieranno le loro trattative. Hanno promesso tutti di volerle portare a termine velocemente, perché le urgenze per il Paese sono tante e «tutta l'Europa guarda alla Germania». L'ultima volta, nel 2017, ci sono voluti sei mesi di discussioni puntuali per trovare una maggioranza. Intanto resterà in carica la cancelliera Angela Merkel: in molti si chiedono se toccherà ancora a lei pronunciare il discorso di capodanno. Ieri Scholz ha promesso che il nuovo governo arriverà prima di Natale». 

Lucio Caracciolo analizza, in prima pagina su Repubblica, le contraddizioni del voto tedesco, così importante anche per il nostro destino.

«Il voto tedesco inciderà sul nostro futuro più di quanto potranno le elezioni italiane, quando che siano. Soprattutto se a Berlino nascerà un governo con i liberali ago della bilancia - a oggi la soluzione meno improbabile li assocerebbe ai socialdemocratici e ai verdi, ma quasi nulla è escluso - e con il loro leader Christian Lindner alle Finanze. In tal caso, la spinta tedesca per tornare al più presto all'austerità fiscale (e monetaria) si farà pesante. Per noi, il patto di stabilità e crescita in versione ante-Covid significa instabilità e decrescita, con in più il fardello di un debito enorme, che non cessa di crescere. Una simile restaurazione sarebbe un disastro anche per la Francia, il che avvicina di fatto Roma e Parigi alla vigilia della firma del loro trattato bilaterale, che i francesi battezzano "del Quirinale". Il prossimo scontro fra "cicale" e "formiche" s' annuncia tremendo. Nell'attesa, l'intera Eurozona è in fibrillazione. Il nuovo cancelliere, quasi sicuramente il socialdemocratico Olaf Scholz, dovrà tenere insieme una coalizione molto eterogenea. La Germania avrà difficoltà a governare sé stessa. E siccome è stata finora il riferimento di ultima istanza in campo europeo, la tendenza al ciascuno per sé nessuno per tutti ne uscirà rafforzata, con buona pace delle eurocrazie brussellesi. Non resta molto più dei soldi a tenere insieme l'Unione Europea. E proprio mentre gli Stati Uniti hanno la testa altrove - a casa propria prima, in Cina solo dopo. Se la futura politica fiscale dell'area euro sarà di tono opposto all'attuale, i fantasmi esorcizzati dalla cancelliera uscente, esausta maestra del rinvio, finiranno per materializzarsi. Riscopriremo la costituzione materiale dell'Europa, radicata in secoli di storie contrapposte, del tutto aliena ai flautati minuetti dell'europeismo. La Germania è a un bivio. Intende rientrare consapevolmente nella storia, oppure continuerà a considerarsi una "Grande Svizzera" vestendo dei pallidi colori europei i propri esclusivi interessi nazionali? Questo il nodo che Merkel non ha voluto sciogliere, preferendo temporeggiare, manipolare, mediare perfino con sé stessa. Come osservò il ministro degli Esteri, il socialdemocratico Heiko Maas, con Merkel la società tedesca "era in coma vigile discorsivo", convinta che "tutto fosse scontato: la sicurezza, il benessere - niente di cui preoccuparsi". Questa Germania non pare capace di stabilire il suo posto nel mondo».

LETTA CONTENTO: “DALLA CRISI SI ESCE A SINISTRA”

Stefano Cappellini intervista Enrico Letta per Repubblica, in commento ai primi risultati delle elezioni tedesche. Il successo dei socialdemocratici e il crollo della Cdu fanno ribadire al segretario del Pd che dalla crisi si esce a sinistra.

«Ora abbiamo la prova che di ciò che ho sempre pensato e che è una delle ragioni fondamentali che mi hanno spinto a tornare e assumere la guida del Partito democratico: dalla pandemia si esce a sinistra». Enrico Letta, dopo una giornata di comizi e incontri nel collegio di Siena dove è candidato alle suppletive per la Camera dei deputati, ha accolto i primi dati dello spoglio tedesco con grande soddisfazione. «Si tratta - spiega a Repubblica - di un risultato clamoroso, e di una conferma molto importante dal punto di vista culturale. Hanno prevalso i valori di solidarietà, i diritti del lavoro, l'attenzione al sociale e alla riduzione delle diseguaglianze». Segretario Letta, lo scrutinio sta restituendo però un quadro ancora incerto. Scholz chiede per sé il ruolo di cancelliere ma il distacco dalla Cdu è contenuto e il quadro frammentato. Sicuro si tratti di una vittoria così chiara? «Il cancelliere sarà Scholz, non ho alcun dubbio su questo. E lo sarà perché è stato capace di strappare alla Cdu l'eredità positiva dell'era Merkel». Quale eredità? «Negli ultimi cinque anni, oltre alla efficiente gestione della lotta alla pandemia, Merkel ha dimostrato la capacità di rimettere la Germania al centro di uno progetto europeista forte, che è alla base del Next generation Eu. Scholz è stato bravo a rivendicare una continuità e a presentarsi come il vero erede di Merkel. La Cdu, invece, paga la sua svolta a destra con una sconfitta drammatica e il minimo storico dei consensi». La Spd, come molti altri grandi partiti socialisti e progressisti, era praticamente data per finita ancora fino a pochi mesi fa. Erano sbagliate le previsioni o è stato bravo Scholz a rimetterla in partita? «Scholz è stato molto sottovalutato, ma nella politica europea ha avuto un ruolo decisivo, perché la linea tedesca è cambiata quando la gestione delle Finanze nel governo tedesco è passata da Schäuble a lui. L'ho incontrato a fine giugno, in quel momento i sondaggi davano la Spd terzo partito, con la Cdu al primo e i Verdi al secondo. Mi disse che era certo che aveva impostato bene la campagna e sarebbe arrivato in testa. Rimasi molto colpito dalla sua determinazione, parlava già da cancelliere». Con questi risultati, però, la formazione di una maggioranza di governo sarà un'impresa complicata. «Dal voto tedesco esce un Parlamento all'italiana, una frammentazione che potrebbe portare a trattative di mesi prima di arrivare alla formazione del governo. Dalle urne la Germania esce più fragile. Uno scenario nuovo anche a livello europeo, che apre prospettive interessanti per l'Italia nella costruzione dei nuovi equilibri». Per gli obiettivi di Scholz meglio allearsi con i cristiano-democratici in una nuova Grande coalizione che imbarcare i falchi Liberali? «Dal punto di vista degli interessi italiani, non c'è dubbio che sia bene che i Liberali non ci siano nel nuovo governo». Nel programma di Scholz ci sono aumento del salario minimo, patrimoniale e un provvedimento simile al reddito di cittadinanza. In Italia qualcuno, probabilmente anche nel Pd, lo definirebbe bolscevico. «Bisogna essere netti nelle scelte che facciamo, solo così si riesce a essere credibili. Il mio impegno è fare come Scholz: progressisti nei valori, radicali nei comportamenti e riformisti nel metodo». Per il Pd l'aumento del salario minimo è un obiettivo già in questa legislatura? «Mi auguro di sì. Ci confronteremo, ma si tratta di un punto qualificante nell'agenda di tutti i progressisti europei. Nel nostro programma ci saranno sicuramente riduzione della tasse sul lavoro, salario di ingresso per i giovani, nuove protezioni per i lavoratori». Se qualcuno le dicesse di fare come Scholz e intestarsi l'eredità del governo Draghi, la troverebbe un'analogia fondata? «Ci sono grandi differenze tra la situazione tedesca e la nostra. Ma risponderei che il Pd è già il perno politico di questo governo e il garante dei suoi risultati». Spera che il risultato tedesco sia un traino anche il Pd? «Questo risultato rafforza il mio ottimismo e la convinzione che stiamo entrando in una fase completamente nuova. L'estrema volubilità dell'elettorato, confermata dall'oscillazione dei sondaggi tedeschi in questi mesi, dimostra che la credibilità e la chiarezza della proposta pagano e che anche in Italia è totalmente falsa la narrazione di chi considera ineluttabile la vittoria di Salvini e Meloni». Le amministrative del 3 e 4 ottobre sono un test in questo senso? «Me lo auguro. La sfida si gioca su diritti civili, questione sociale e sostenibilità ambientale, che sono tre facce della stessa medaglia e il Pd è l'unico che può tenerle insieme. Se la partita è giocata bene, il mio Pd può vincerla». Il voto tedesco è la resurrezione della socialdemocrazia europea troppo presta data per morta? «Segna una grande ripartenza di tutti i progressisti e spazza via un'altra falsa previsione, l'idea che in futuro la contesa sarebbe stata tra liberal-conservatori e sovranisti» . ».

SALARIO MINIMO E PATTO SOCIALE

Oggi Draghi incontra i sindacati. Per Il Fatto oggi però non parleranno di salario minimo. Lorenzo Giarrelli spiega che la proposta di Letta e Conte non piace.

«È bastato anche solo accennare l'ipotesi di un salario minimo per mandare nel panico industriali e sindacati. Per loro fortuna, Mario Draghi è pronto a rassicurarli, tenendo fuori dal tavolo la questione almeno per i prossimi mesi. Ieri lo ha scritto Repubblica, senza ricevere smentite da Palazzo Chigi: "Il tema al momento non compare nell'agenda del governo". E così all'incontro di oggi tra il presidente del Consiglio e i sindacati si parlerà d'altro: "Non credo che il salario minimo sarà oggetto della discussione a Palazzo Chigi - ha detto ieri il leader della Cgil Maurizio Landini - Andiamo a discutere di sicurezza sui posti di lavoro". Con tanti saluti, almeno per il momento, alle richieste di Giuseppe Conte ed Enrico Letta. Due giorni fa il segretario del Pd si era augurato "una discussione matura, pronta, che avviene in tutta Europa e che è giusto ci sia anche in Italia". Posizione condivisa da Conte, tornato ieri sulla necessità di un intervento: "Il salario minimo è un tema che dobbiamo assolutamente affrontare se vogliamo fare un patto sociale. Ci sono tantissimi lavoratori che viaggiano sulla media di due, tre, quattro euro lordi l'ora". D'altra parte l'Italia è tra i pochissimi Paesi nell'Unione europea a non avere norme in materia - presenti in 21 Stati membri su 27, tra gli esclusi ci fanno compagnia Danimarca, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia - e proprio a Bruxelles si sta discutendo una direttiva per promuovere il salario minimo in tutta l'Ue. Ma in Italia in molti non ne vogliono sentire parlare. È il caso del presidente di Confindustria Carlo Bonomi, intervenuto ieri a Mezz' ora in più, su Rai Tre: "Il salario minimo nasce in quei Paesi che hanno stipendi molto bassi come la Bulgaria, non dove ci sono contratti nazionali. Abbiamo la stessa posizione dei sindacati: noi siamo per rafforzare la contrattazione perché garantisce tutti". Il problema sono quei milioni di lavoratori che, da anni, lavorano con paghe ben sotto la soglia di dignità perché non rientrano nelle categorie tutelate dai contratti nazionali. Giovedì scorso però il "Patto per la ripresa" illustrato da Draghi ha garantito al premier la ola degli industriali, che dunque ora contano sull'ex presidente della Bce per non avere sorprese. Anche i sindacati però sono tutt' altro che entusiasti della proposta. Settimana scorsa Landini aveva aperto - per la prima volta in maniera decisa - all'introduzione del salario minimo, ma ieri ha preferito annacquare gli annunci, rimandando la novità a una riforma più ampia dello Statuto dei lavoratori: "Abbiamo troppi contratti pirata, sento la necessità di una legislazione che sostenga la contrattazione collettiva e dentro questo schema ci sono tutti gli altri diritti: gli orari, il salario minimo, la malattia, gli infortuni". E ancora più negativo è il leader della Cisl Luigi Sbarra, che all'evento "Futura" di Bologna stronca l'idea di una nuova legge: "Temo che un salario minimo darebbe la stura a tante aziende per uscire dall'applicazione dei contratti nazionali e peggiorerebbe la qualità della vita di milioni di lavoratori". Ragionamento condiviso dal leader della Uil Pierpaolo Bombardieri: "Bisogna fare molta attenzione su questo tema. Rischiamo di ridurre lo spazio contrattuale". La posizione dei sindacalisti non è così diversa da quella espressa ieri dall'onorevole Sestino Giacomoni a nome di Forza Italia: "Il salario minimo farebbe aumentare la disoccupazione e il lavoro nero". Sarà anche per accontentare i berlusconiani, Confindustria e i sindacati che lo scorso aprile il salario minimo è sparito dal testo finale del Pnrr, dopo che per settimane era rimasto nelle bozze del Piano. Difficile che adesso, visti gli umori intorno a lui, Draghi cambi idea».

Ezio Mauro vede una nuova fase per il governo Draghi: dalle necessità dettate dall’emergenza alle opportunità contenute in un nuovo patto sociale.

«Uscendo dal Palazzo, nella convinzione di controllarlo, Mario Draghi cerca adesso di costruire un sistema di alleanze nel Paese, guardando oltre il sistema politico e istituzionale. È il momento della società. Va investita e coinvolta nelle sue energie e nei suoi bisogni se si vuole sfruttare fino in fondo la possibile fine dell'emergenza per avviare una vera fase di ricostruzione, come negli anni del Dopoguerra. È questo il senso del "patto per la rinascita" presentato giovedì 23 settembre dal presidente del Consiglio agli imprenditori riuniti nell'assemblea di Confindustria, e oggi illustrato ai vertici sindacali. Una proposta che nasce da un'ambizione e da una preoccupazione: il sistema politico da solo non riesce a garantire il percorso, i tempi e la portata del piano di riforme indispensabili per usufruire del Recovery Fund; bisogna dunque cercare forze di sostegno e di propulsione nel sociale, anche per organizzarlo e non lasciarlo in balia delle dinamiche del virus, che ha scaricato proprio qui i suoi effetti di trasformazione, convertendo la paura nella ribellione dei No Vax. È l'atto di passaggio da un governo tecnico a un governo politico. La pandemia non agisce soltanto sul fronte della salute, ma investe l'economia, il lavoro, la scuola, l'autonomia degli individui, i loro ambiti di relazione, gli spazi di movimento, la libertà. Dopo il vaccino, l'azione di contrasto a questa forza cieca del Covid può venire solo da un progetto che non punti esclusivamente a tamponare le debolezze del sistema ma ridisegni il suo profilo modernizzandolo, spostando la sfida sul terreno dell'innovazione. C'è dunque una chance per il cambiamento, uscendo da una logica clientelare, di scambio, di corruzione e di cambiali elettorali, da sistema chiuso e asfittico. Quella logica in passato ha fatto spesso comodo anche agli industriali, che nella loro assemblea hanno scaricato le vecchie e ormai tradizionali pulsioni antipolitiche in una standing ovation per il premier, invitando i partiti a non compromettere la coesione del governo: ma gli imprenditori, intanto, oggi sono pronti a fare la loro parte, dentro le regole? La fase che si sta aprendo, a ben guardare, sembra più avanti dei loro applausi. Il presidente Bonomi ha salutato in Draghi "l'uomo della necessità", contrapponendolo agli uomini della provvidenza che il Paese ha sperimentato e agli uomini del possibile, che non scelgono mai e non decidono. E lo stato di eccezione che ha portato alla nascita di questo governo del presidente spinge il premier a privilegiare le decisioni necessarie rispetto al pieno consenso preventivo dei partiti che lo sostengono, nella convinzione che oggi nessuno può assumersi la responsabilità di una crisi. Ma nello stesso tempo oggi Draghi sembra in realtà interessato a uscire dalla logica stretta della necessità per entrare nella fase delle opportunità. Nell'emergenza si decidono infatti le misure impellenti e indispensabili, tutto è preordinato, l'unica opzione è la salvezza. La necessità trasforma questi obblighi in numeri e in parametri, che diventano simbolici, non hanno nemmeno bisogno di essere giustificati perché rappresentano la cifra della crisi, dunque sono sovraordinati alla politica, anzi finiscono per diventare essi stessi politica. Col risultato di una pubblica opinione condizionata dalla crisi di cui ha introiettato il codice, perché intimidita dalla necessità e dalla sua egemonia, che pervade il sistema: e lascia spazio non a obiezioni culturali, ma solo a ribellioni antisistema. Come se volesse passare dall'amministrazione della necessità alla politica in campo aperto, Draghi si inoltra in un terreno inesplorato, che va oltre l'esperienza della concertazione. Il quadro infatti è profondamente mutato dall'epoca di Ciampi. Oggi un'opinione pubblica diffidente chiede alla politica un continuo rendiconto come base morale di qualsiasi posizione di potere, nel sospetto che la democrazia da meccanismo di tutela dei deboli sia diventata il regime di garanzia dei forti. Un nuovo patto sociale dovrà sormontare questi pregiudizi nutriti per anni dall'antipolitica, ma dovrà anche tener conto che la crescita delle disuguaglianze ha prodotto esclusioni e naufragi: noi fingiamo che il garantito e lo scartato - soggetti titolari dei medesimi diritti democratici - siano ancora collegati dallo stesso vincolo sociale, mentre in realtà i destini si sono divaricati e la cultura del tempo dà al cittadino integrato l'autorizzazione a muoversi da solo e per sé soltanto, fuori da ogni responsabilità per l'escluso. Se non c'è legame sociale non può esserci condivisione, perché salta qualsiasi interdipendenza e viene meno il riconoscimento reciproco tra chi è in grado di auto-determinarsi e chi invece è determinato dall'esterno. Infragilita la coesione morale, scricchiola per conseguenza il welfare, la compassione si candida a surrogare la solidarietà, la carità prova invano a riempire gli spazi abbandonati dai diritti che arretrano. Si tocca con mano che la crisi non è neutrale, le garanzie sociali ne escono indebolite e con uno statuto definitivamente inferiore ai diritti politici, come una variabile dipendente dal mercato, negoziabili dunque comprimibili se il contesto economico lo consiglia. Si scopre che il lavoro, nella sua frantumazione, sembra per la prima volta nella sua storia incapace di creare diritti, reso sterile dalla crisi. Si prende atto che si sta rompendo l'alleanza storica in Europa tra il capitale, il lavoro, il welfare e il voto democratico, con la conseguenza che fuori da questo perimetro è difficile trovare una nuova legittimazione di sistema per tutti gli attori coinvolti, il capitalista, l'imprenditore, il lavoratore: ognuno pensi a se stesso. E a questo punto arriva il momento di porsi la domanda finale: ma la procedura democratica conserva questo suo carattere democratico anche nei casi in cui la negoziazione sociale è fortemente squilibrata da una profonda disuguaglianza tra le parti? Questi sono i temi che Draghi si troverà davanti se vuole sottoscrivere il "patto per la rinascita" dopo che la finanza globale ha cancellato il patto del Novecento tra i produttori e i proprietari del sistema di produzione, quando tutto era fisso, rigido e connesso, sotto lo stesso tetto della fabbrica. Oggi si può accettare la spontaneità della fase, lasciando che riordini darwinianamente ruoli e gerarchie nel lavoro senza un'idea di ricomposizione sociale. Oppure tocca alla democrazia farsi carico della responsabilità di cercare una nuova regola per il nuovo inizio, ben al di là del confronto tra il lavoro e l'impresa. Perché se davvero nulla sarà più come prima è arrivato il momento di riformulare la tavola dei diritti e dei doveri, delle protezioni, delle opportunità di crescita, delle nuove uguaglianze: e cioè di riscrivere il contratto sociale per il mondo che ricomincia».

CORSA AL QUIRINALE. GIORGETTI ESCE ALLO SCOPERTO

Mario Draghi al Quirinale e poi andiamo subito al voto, lui potrebbe essere il “nuovo De Gaulle”. Dice questo in sostanza Giancarlo Giorgetti, a Torino per sostenere il candidato sindaco Damilano, confessandosi con Andrea Malaguti per La Stampa.

«Nord. Bisognerebbe scriverlo maiuscolo. Perché l'impressione - o forse è uno scherzo del cervello - è che qualunque frase esca dalla bocca di Giancarlo Giorgetti finisca con uno stentoreo Nord. Detto in varesotto e in tonalità Bossi, il suo vero, riconosciuto, punto di riferimento. «Il 99% di quello che so l'ho imparato da lui e a dire il vero gli farei ancora gestire la partita del Quirinale». Produttività, lavoro e una sfumatura della fu Romaladrona. Che un tempo era anche la sinfonia preferita di Matteo Salvini e oggi invece è il terreno scivoloso che divide il ministro e il suo Capitano, sfiancato dalla Meloni e pervicacemente avvinghiato all'idea dal partito nazione. E poi c'è Draghi. Passione di Giorgetti, ossessione di Salvini, capace di suscitare una sottile e inedita diffidenza, un sentimento piccolo, come una capocchia di spillo, che per loro - e per i destini della Lega - ha però un peso specifico importante. Così, in un elegante albergo nel centro di Torino, Giancarlo Giorgetti, nel corso di un pranzo ritagliato tra un incontro e l'altro per la campagna elettorale di Paolo Damilano, decide di fare il punto con «La Stampa» sullo stato dei suoi rapporti col Capitano e con Draghi, sulla corsa al Colle e sulle aspettative per il voto di domenica. Ministro Giorgetti, ci sono due Leghe? «Una sola, fatevene una ragione». Per lo meno ci sono due linee. «Per niente. Al massimo sensibilità diverse. Amando le metafore calcistiche direi che in una squadra c'è chi è chiamato a fare gol e chi è chiamato a difendere. Io per esempio ho sempre amato Pirlo. Qualcuno deve segnare, qualcuno deve fare gli assist». Lei a Varese ha detto: ci rifacciamo alla Lega lombarda, che univa le comunità e faceva il bene della propria gente. «E' vero, qual è il problema?». Nessuno. Solo che mentre lei richiamava le radici del Nord a Tor Bella Monaca Salvini diceva: io mi sento romano d'adozione. «Bisogna vedere come la pensano i romani». Secondo lei? «Vedremo la prossima settimana. Ma è vero che la Capitale ci ospita, anche se io vivo nella campagna di Varese». Chi vince le amministrative a Roma? «Dipende da quanto Calenda riesce a intercettare il voto in uscita dalla destra. Nei quartieri del centro penso che sarà un flusso significativo. Ma non so come ragionino le periferie. Se Calenda va al ballottaggio con Gualtieri ha buone possibilità di vincere. E, al netto delle esuberanze, mi pare che abbia le caratteristiche giuste per amministrare una città complessa come Roma». E se al ballottaggio ci vanno Gualtieri e Michetti? «Vince Gualtieri». Michetti è un candidato sbagliato? «Non lo so. Ma so che il candidato giusto sarebbe stato Bertolaso». A Milano? «Sala può vincere al primo turno». Non le piace Bernardo? «Non è questo il punto. Per altro i candidati non li ho scelti io. Faccio il ministro e mi occupo d'altro. Come è giusto che sia». Però, qui a Torino, si sta occupando di Damilano. «Lo facevo già prima di entrare al ministero dello Sviluppo economico. Credo che possa vincere al secondo turno». Il centrodestra al secondo turno non vince mai. «Statisticamente è così. Ma qui il caso è diverso. Paolo è un candidato civico. Il voto politico si esprimerà al primo turno. Poi conterebbe la persona e la città potrebbe convergere su di lui». Ministro, quante possibilità ci sono che Berlusconi faccia il presidente della Repubblica? «Poche». Allora, perché Salvini rilancia la sua candidatura? «Per evitare di parlare di altre cose serie». Quali sono le altre cose serie? «Draghi. La vera discriminante politica per i prossimi sette anni è che cosa fa Draghi. Va al Quirinale? Va avanti col governo? E se va avanti con chi lo fa?». Lei che cosa vorrebbe? «Vorrei che rimanesse lì per tutta la vita. Il punto è che non può». Perché? «Perché appena arriveranno delle scelte politicamente sensibili la coalizione si spaccherà. A gennaio mancherà un anno alle elezioni e Draghi non può sopportare un anno di campagna elettorale permanente». Fino ad oggi non si è preoccupato dei partiti. «Da gennaio la musica sarà diversa. I partiti smetteranno di coprirlo e si concentreranno sugli elettori». Morale? «L'interesse del Paese è che Draghi vada subito al Quirinale, che si facciano subito le elezioni e che governi chi le vince». Dopodiché cambierebbe il ruolo del Quirinale «Draghi diventerebbe De Gaulle». Questo Parlamento è pronto a eleggere il nuovo De Gaulle? «Non lo so, ma questo è l'interesse del Paese». Perfetto, mandiamo Draghi al Colle. Poi che succederà con i soldi europei? «Che li butteranno via. Oppure non li sapranno spendere». Scenario B: Draghi resta al suo posto. Mattarella? «Mattarella resta solo se tutti i partiti lo votano. E la Meloni ha già detto che non lo voterà». Salvini lo voterebbe? «Penso di no». Escluso il bis, allora. «Complicato». C'è aria di Casini. «Ecco, non lo escluderei. Casini è amico di tutti, no?». Ministro, perché la Bestia Morisi ha mollato Salvini? «Boh, io non credo che dietro alla sua scelta ci siano motivazioni politiche». Quindi non l'ha affossato lei? «Ma figuriamoci, proprio no. Io lo rispetto tantissimo Morisi. È intelligentissimo. Fa un lavoro che io non capisco, perché sono a-social. Ma lui è super bravo». Le piace anche quando spara a zero sui migranti o su Saviano? «È da un po' che aveva smesso di farlo. Credo abbia fatto una scelta personale. Tutto qui». Alla tre giorni sindacale organizzata da Landini a Bologna il commissario europeo al lavoro, Schmit, ha rilanciato il salario minimo europeo. «Se non c'è la parità di acquisto nei Paesi europei è piuttosto difficile da realizzare. Poi col salario minimo togli legittimazione alla contrattazione, ammazzando il sindacato». I sindacati esistono anche in Germania. «Un altro mondo e un'altra cultura». Per cui niente salario minimo con buona pace di Conte e Letta? «Per cui il dibattito è aperto anche se va inserito in un discorso più ampio. E poi, a una settimana dal voto, questa discussione puzza di demagogia». Che rapporto ha col ministro Orlando? «Umanamente correttissimo. Certo che lui sconta un retroterra culturale particolare».

GUAI GIUDIZIARI PER MORISI, IL GURU DEI SOCIAL

Forse erano fuori luogo le analisi sulla strategia leghista della comunicazione social. Qualche ora dopo le sue dimissioni, si apprende che Luca Morisi, il guru social della Lega, è indagato. Erano forse queste le “questioni familiari”.  

«Questioni familiari». Con una formula sufficientemente vaga per includere tutto e niente, Luca Morisi, il guru della comunicazione di Matteo Salvini, il 23 settembre scorso ha motivato il suo repentino e inaspettato commiato dalla Bestia, il potente gruppo dei social media manager del leader della Lega. «Non c'è alcun problema politico, in questo periodo ho solo la necessità di staccare per questioni familiari», ha spiegato Morisi ai tantissimi sorpresi di questa scelta. Morisi non ha però raccontato tutto. Perché probabilmente la sua è stata una scelta unicamente familiare, ma di certo il suo è stato un agosto molto complicato: è stato protagonista, infatti, di una storia complessa e dai contorni ancora poco chiari. Ma che ha portato il suo nome nel registro degli indagati della procura di Verona per cessione e detenzione di stupefacenti. Perché i carabinieri, durante una perquisizione, hanno trovato droga a casa sua. Morisi, nato a Mantova, classe 1973, dal 2013 è il "social-megafono" (la definizione è sua) di Salvini. Fino al 2015 è stato docente a contratto dell'Università di Verona, presso la facoltà di Lettere e filosofia dove ha tenuto due corsi ("Siti web di filosofia" dal 2004 al 2008 e "Laboratorio di informatica filosofica" dal 2008 al 2015). Tra i vigneti e le strade sterrate della campagna di Belfiore, un Comune a mezz' ora di macchina dalla città di Romeo e Giulietta, c'è un cascinale restaurato: uno degli alloggi è occupato da Morisi. A quest' indirizzo corrisponde, per moltissimo tempo, la sede della sua partita Iva. Ed è qui che si svolge la storia che rischia di compromettere per sempre la sua attività al servizio della politica. Una storia non ancora risolta, da approfondire nei suoi dettagli, ma di cui Repubblica è in grado di fornire gli elementi essenziali. Intorno a Ferragosto i carabinieri del comando locale fermano un'automobile per un normale controllo. A bordo ci sono tre ragazzi. I militari si accorgono del loro nervosismo, li fanno scendere e trovano sulla macchina un flacone con del liquido dentro. Secondo i carabinieri, è sostanza stupefacente. Chiedono spiegazioni ai ragazzi e qualcuno se la canta, indicando la persona da cui l'avevano ricevuta e il luogo della cessione. «Ce l'ha data Luca Morisi, che abita a Belfiore». E' davvero andata così? A questo la Procura non è in grado ancora di dare una risposta. Certo è che i carabinieri a quel punto vanno a fare una perquisizione nell'alloggio dello spin doctor di Salvini e trovano un modesto quantitativo di droga. Un quantitativo compatibile con l'uso personale, la cui detenzione fa comunque incorrere nell'illecito amministrativo e nella sanzione. La procura di Verona, diretta dalla procuratrice Angela Barbaglio, apre un fascicolo con l'ipotesi di reato prevista dall'articolo 73 del Testo unico sugli stupefacenti ("Produzione, traffico, detenzione illecita di sostanze stupefacenti o psicotrope") e iscrive Morisi nel registro degli indagati. L'inchiesta è assegnata al pm Stefano Aresu. La natura della sostanza rinvenuta nell'auto dei tre ragazzi non è accertata: il liquido è stato mandato al laboratorio di analisi dell'Arma che serve tutto il Nordest dell'Italia e i risultati non sono ancora arrivati. Molte droghe hanno forma liquida, dal Ghb (l'ecstasy liquida) al Gbl, la cosiddetta "droga dello stupro", ma, come detto, solo l'esame chimico può dire se è stupefacente. Di certo, tutta la vicenda che, secondo persone vicine a Salvini, è il vero motivo dell'abbandono di Morisi, non si può ascrivere alle asserite «questioni familiari». «Sui problemi familiari ritengo corretto non entrare nel merito», ha detto Salvini quando si è diffusa la notizia che l'uomo chiave della sua comunicazione sovranista, si era dimesso. Repubblica ha chiesto un commento a Morisi senza ottenere risposta.».

GREEN PASS: QUARANTENA DA RIVEDERE?

Il green pass è un successo ma le regole della quarantena sono forse da rivedere, e non solo per la scuola. Lo sostiene Alessandro Sallusti su Libero.

«Le scuole hanno riaperto, la gente si sposta liberamente e affolla stadi e ristoranti ma le sale di rianimazione si stanno svuotando di pazienti Covid, ieri solo quattro ingressi con un saldo negativo di dieci letti in sole 48 ore. Segno che il binomio vaccini-Green pass sta dando i risultati sperati non solo per limitare i contagi ma soprattutto per abbatterne la gravità. Proprio perché la ricetta funziona ora bisogna trovare un nuovo e più avanzato equilibrio per gestire i casi dei contagi lievi e asintomatici che continueranno ad accadere a lungo anche tra il popolo dei vaccinati. In altre parole mi chiedo che senso abbia, alla luce dei nuovi dati, mantenere in vita protocolli pensati quando non c'erano né vaccini né Green pass, cioè alle quarantene, alla loro durata e agli obblighi per i datori di lavoro di rivoluzionare l'organizzazione di aziende e uffici nel caso di un solo dipendente contagiato e magari pure vaccinato. Che decine di persone vaccinate - faccio un esempio- possano passare per legge al lavoro da casa solo perché una di loro è stata infettata, che un bar rischi di dover chiudere perché un cameriere si è ammalto di Covid, che insomma i colleghi sani vaccinati di un contagiato debbano fare tamponi su tamponi per dimostrare ogni due giorni di essere ancora sani mi sembrano tutte regole superate e che contraddicono la filosofia che sta alla base della campagna di vaccinazione. Se è vero, come è vero, che si riparte con vaccini e Green pass ecco allora ripartiamo e togliamo precauzioni che in passato sono state una salvezza ma che oggi rappresentano un ostacolo. Chi ha ascoltato i consigli di governo e scienziati e ha fatto il suo dovere non dovrebbe avere più alcun tipo di restrizione alla sua vita privata e lavorativa. Non perché non possa in assoluto contagiarsi o contagiare ma perché in entrambi i casi - dice la scienza, confermata dai numeri che stavamo vedendo- la cosa non rappresenterebbe un problema importante né per sé né per gli altri. Mi vaccino, faccio il Green pass e lavoro. Tutto il resto è burocrazia».

A 18 giorni dall’introduzione dell’obbligo del certificato verde sui luoghi di lavoro, il Sole 24 Ore fa il punto. Che cosa ancora manca e che cosa devono fare datori di lavoro e lavoratori per prepararsi. Valentina Bruno.

«Da lasciapassare nato prima dell'estate per viaggi e spostamenti a strumento indispensabile per lavorare. È la parabola compiuta dal green pass anti Covid-19 negli ultimi cinque mesi: grazie a tre distinti decreti arrivati da fine luglio in poi, ben otto disposizioni sono andate ad aggiungersi alla norma base, l'articolo 9 del Dl 52/2021. Il punto di arrivo è che, dal 15 ottobre, quasi 23 milioni di lavoratori dovranno avere la certificazione verde - che attesta la vaccinazione, la guarigione dal Covid o un tampone negativo - per poter accedere ai luoghi dove lavorano. La platea si è ampliata progressivamente, includendo prima i medici e gli infermieri (dal 1° aprile), poi il personale di scuola e università (dal 1° settembre) e i lavoratori di mense e pulizie scolastiche (dall'11 settembre), infine gli addetti delle Rsa (dal 10 ottobre), per arrivare a coprire tutti i dipendenti pubblici e privati. Una tale stratificazione di norme, concentrata in un arco temporale così ristretto, ha reso il quadro degli obblighi e dei controlli tutt' altro che pacifico. I dubbi nella Pa Per un dubbio che sembra sciolto - e cioè che l'introduzione di un obbligo generalizzato per il pubblico impiego non cancelli le norme ad hoc introdotte in precedenza per sanità, scuola e università - ce ne sono altri ancora in piedi. A partire dalla disparità di trattamento che vede coinvolti (sulla carta) i prof e i collaboratori scolastici, da un lato, e il resto degli statali. Mentre per i primi, al quinto giorno anche non consecutivo di assenza, scatta la sospensione dal servizio e dallo stipendio, i secondi si vedranno interrompere solo la retribuzione. Inoltre, come rileva Sandro Mainardi, ordinario di Diritto del lavoro all'università di Bologna, «resta da capire, dato il flusso di informazioni verso gli uffici che dovranno registrare le "assenze ingiustificate" dei dipendenti, come le amministrazioni, soprattutto quelle minori, possano far fronte all'adempimento con le proprie risorse umane, finanziarie e strumentali, a invarianza di spesa». A rigore poi, poiché l'obbligo per il lavoratore è di avere il green pass oltre che di esibirlo, dovrebbe averlo anche chi è in smart working, soprattutto se entra in determinati giorni nel proprio luogo di lavoro. Pur essendo «pacifico - aggiunge Mainardi - che il mancato possesso del green pass non possa essere criterio di adibizione allo smart working». I nodi nel privato. Anche i datori di lavoro privati hanno due settimane per organizzarsi in vista dei controlli da fare, preferibilmente all'ingresso dei lavoratori, come richiede il Dl 127/2021. La verifica del green pass va fatta tutti i giorni: per tutelare la privacy, infatti, il datore non può tenere un registro nel quale sia indicato quanti dipendenti siano vaccinati e quale sia la scadenza del green pass per ciascuno. «La verifica potrebbe diventare onerosa nei luoghi di lavoro con tanti punti di accesso o con diverse filiali e con i lavoratori impiegati su più turni, come nella grande distribuzione», fa notare l'avvocata giuslavorista Valentina Pepe. I datori fino a 15 dipendenti, poi, potranno sospendere i lavoratori senza green pass dopo il quinto giorno di assenza (mentre la sospensione non è prevista negli altri casi del lavoro privato) se intendono sostituirli con un altro lavoratore, ma solo fino a un periodo massimo di 20 giorni. Una disposizione che necessita di qualche chiarimento, perchè sembra che la sospensione diventi legittima solo in caso di sostituzione. Per mancato controllo, i datori rischiano una sanzione da 400 a mille euro. Vale la pena, dunque, prepararsi a dimostrare di aver messo in campo l'organizzazione necessaria alle verifiche e di aver individuato formalmente i responsabili. Autonomi, rider e tassisti. Un'incognita riguarda gli autonomi: se accedono a una sede di lavoro, potranno essere controllati dai responsabili di quel luogo. Ma chi controllerà, ad esempio, rider e tassisti? A dissipare i dubbi serviranno probabilmente le linee guida per i controlli nella Pa, alle quali sta lavorando il ministro Renato Brunetta, e le ulteriori indicazioni che potrebbero arrivare dalla presidenza del Consiglio».

C’è il caso di una dipendente pubblica, dirigente di Polizia, che non si è limitata a criticare il Green pass, lo ha pubblicamente contestato in un comizio pubblico. È la vice questore Alessandra Schilirò. Rinaldo Frignani per il Corriere della Sera.

«In poche ore il suo profilo Facebook è inondato di messaggi. Molti di sostegno, qualcuno critico. Ben 1.500 comunque. In serata il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese taglia corto: «Riguardo alle gravissime dichiarazioni del vicequestore Schilirò, sto seguendo la vicenda personalmente con il capo della polizia Lamberto Giannini, affinché vengano accertate, con assoluta celerità, le responsabilità sotto ogni profilo giuridicamente rilevante in carico all'interessata». Sempre ai social Nunzia Alessandra Schilirò, affida la replica al Dipartimento di Ps che ha avviato nei suoi confronti un procedimento disciplinare per l'intervento sabato pomeriggio in piazza San Giovanni contro il green pass. «È bello apprendere dai giornali, anziché dalla propria amministrazione, di essere già sotto procedimento disciplinare. Sono molto serena - scrive l'ex capo della sezione anti violenze della Squadra mobile romana -. Mi è capitata l'occasione di esercitare i miei diritti previsti dalla Costituzione e l'ho fatto. Il mestiere che svolgo è pubblico. Sono stata in moltissime trasmissioni tv rappresentando l'amministrazione». Che, «se non gradisce la mia fedeltà alla Costituzione e al popolo italiano, mi dispiace, andrò avanti lo stesso. Ho scelto il mio mestiere perché credevo che non ci fosse niente di più nobile del garantire la sicurezza di ogni cittadino, in modo che chiunque fosse libero di esprimere il proprio vero sé. Se questo mi viene negato, il mio mestiere non ha più senso. Andrò avanti sempre, con o senza divisa, per amore del mio Paese», conclude la poliziotta. A sostegno interviene Matteo Salvini: «A me piacerebbe che il ministro dell'Interno fosse altrettanto solerte con gli sbarchi di migliaia di clandestini o che fosse stata altrettanto solerte a ferragosto quando c'è stato un rave party di sei giorni a base di droga, alcool, stupri. Troppo facile prendersela con una donna delle forze dell'ordine. Non era in divisa e ha espresso una sua posizione». Nei prossimi giorni verrà completata l'istruttoria da parte del Dipartimento, anche se Schilirò potrebbe non essere sospesa e potrà replicare alle contestazioni. Nel frattempo alcuni sindacati della polizia sono perplessi. «Per coerenza dovrebbe smettere di servire con l'uniforme di uno Stato nel quale sembra non credere», attacca il portavoce dell'Associazione nazionale funzionari di polizia Girolamo Lacquaniti, che sottolinea come abbia «arringato quella stessa folla da cui si è staccato un gruppo di facinorosi che ha usato le sue parole mentre attaccava poliziotti e carabinieri in servizio». Non tutte sulla stessa linea anche le reazioni politiche: la forzista Licia Ronzulli (FI) chiede «l'intervento del ministro Lamorgese per sospenderla dall'incarico che ricopre e che chiaramente non è in grado di onorare» ed Enrico Borghi, (Pd) considera il comportamento della poliziotta «uno schiaffo alle forze dell'ordine». Ma l'europarlamentare ex Lega, Francesca Donato, esprime «totale solidarietà a Schilirò. L'azione disciplinare conferma la fondatezza della sua denuncia». 

Un paio di giornali hanno scelto questa notizia come la più rilevante di oggi: 400 mila interventi sono saltati a causa della pandemia. Alessandro Malpelo per il Quotidiano Nazionale.

«C'è un disastro che la pandemia ha provocato, e che dovrebbe convincere tanti indecisi a vaccinarsi: gli ospedali al collasso. L'anno scorso, per dare la precedenza alla gestione dei Covid-19, sono stati rinviati 400 mila interventi cosiddetti di elezione, buona parte delle sale operatorie riconvertite per dare ossigeno a migliaia di ricoverati con la polmonite. Medici, anestesisti e infermieri sono stati precettati in blocco per incrementare le postazioni in terapia intensiva. Le liste di attesa per un'ernia o una cisti da rimuovere si sono allungate all'inverosimile, come certe code in mezzo al traffico. Ci vorranno mesi per recuperare. «Siamo ancora lontani dalla soluzione - ha dichiarato Francesco Basile, presidente della Società italiana di chirurgia, primario universitario nel Policlinico di Catania -, il ritorno alla normalità passa per forza di cose dalle vaccinazioni. Più persone saranno immunizzate, più si allontanerà il rischio di dover fare marcia indietro, in autunno, con chiusure e ridimensionamenti. Per recuperare bisogna nondimeno incrementare gli organici del personale sanitario, che oggi come oggi è insufficiente. Solo la patologia oncologica ha avuto meno rallentamenti, ma anche qui vediamo gli effetti della pandemia, arrivano alla nostra osservazione tumori allo stadio più avanzato, spesso inoperabili, perché è venuta meno la diagnosi precoce nel territorio, tanti di questi nostri pazienti disertavano i controlli, perché avevano paura di venire a contagiarsi in ospedale». Le cifre della débacle sono impressionanti: un milione e 300mila ricoveri in meno nell'arco di 12 mesi in Italia. Le degenze di chirurgia hanno registrato una contrazione vistosa, l'80% degli appuntamenti in calendario sono stati differiti e riprogrammati. I dati sciorinati nei bollettini dell'Istituto superiore di sanità hanno fatto perdere di vista il dramma di migliaia di persone rimaste indietro, e che dovevano ricorrere al bisturi per i motivi più disparati. Ernie inguinali e ombelicali, calcoli della colecisti, laparocele, diverticoli del sigma, reflusso gastroesofageo, cisti addominali sono solo alcuni dei tanti esempi di patologie rimandate alle calende greche. «Nel marzo scorso abbiamo sollevato il problema, e il sottosegretario Pierpaolo Sileri è stato di parola - ha dichiarato Micaela Piccoli, direttore della Scuola nazionale Acoi di chirurgia laparoscopica, e socio fondatore del gruppo Donne leader in sanità - ha istituito un tavolo permanente per la chirurgia al ministero. Lo smaltimento delle liste di attesa è il primo problema all'ordine del giorno, una sessione del congresso nazionale presieduto dal professor Basile affronta appunto le strategie per colmare il divario. Le liste d'attesa per la chirurgia generale devono essere affrontate senza incertezze, tutta la patologia benigna in questi mesi è stata abbandonata per fare fronte alle emergenze, ai Covid, ai tumori. Ne hanno sofferto tante patologie che maligne magari non sono, ma che meritano ugualmente la nostra attenzione. L'80 per cento della chirurgia benigna è stata di fatto disattesa». Le stesse difficoltà, aggiungiamo noi, le ritroviamo in ortopedia, in cardiologia, in ginecologia e in oftalmologia. In questi mesi le strutture della sanità privata e gli ospedali accreditati, anche quelli delle cooperative e delle compagnie assicurative, hanno contribuito a evitare il tracollo del sistema. «Nel pubblico ci sono spazi inutilizzati - conclude Piccoli -, bisogna investire sul personale, sul capitale umano, sulle tecnologie. Finora sono stati messi cerotti, concedendo pochi soldi. Ma qui bisogna fare delle revisioni strutturali: il problema delle liste d'attesa in sanità c'era anche prima del Covid, ma nessuno ne parlava».

OGGI IL CTS DISCUTE DI CINEMA E TEATRI

Per il Messaggero Francesco Malfetano interpella Fabio Ciciliano, esperto membro del CTS. La speranza è che la capienza di cinema e teatri aumenterà, anche grazie al Green pass. Per le discoteche bisognerà ancora aspettare.  

«Dottor Ciciliano, oggi il Comitato tecnico scientifico di cui è uno dei membri sarà chiamato a valutare la possibilità di ampliare le capienze di cinema e teatri. Si va verso il 75-80 per cento come richiesto dal ministero della Cultura? «Il numero esatto è oggetto di definizione ma sì, l'orientamento è un allargamento dei posti occupabili in sala. Parliamo di ambienti chiusi in cui però si sta seduti e con la mascherina, senza neppure parlare con altri spettatori. Sempre indossando la maschera e sfruttando il Green pass quindi, si può fare». Non si arriverà al riempimento totale però. «Non do cifre. Il punto però è che, oltre al fattore di rischio in un ambiente chiuso, c'è anche da evitare un effetto normalità. Cioè una situazione in cui, e faccio una provocazione, un teatro si trovi ad organizzare un concerto». Per gli stadi invece si chiede una riapertura al 100 per cento. Arriverà? «Il discorso lì è un po' diverso perché se è vero che gli eventi si tengono all'aperto lo è anche che coinvolgono migliaia di persone. E in tutta onestà, dato anche che alcune società hanno frainteso l'indicazione del riempimento al 50 per cento chiudendo una porzione dello stadio e concentrando i tifosi in curva piuttosto che spalmarli su tutti gli spalti, non penso si arrivi al 100 per cento». Il compromesso sarebbero i due terzi o i tre quarti della capacità di riempimento allora. «Con Green pass, mascherine e controlli adeguati potrebbe essere la chiave». Le discoteche invece? «Specie in inverno sono ambienti chiusi stipati di persone e con criticità dei sistemi di aerazione. Ambienti in cui è impensabile che si tenga la mascherina o che si mantenga il distanziamento. Parliamo di un'attività che è intrinsecamente connaturata da un maggiore rischio. Mi rendo conto che la situazione è difficile dopo un anno di chiusura, ma noi siamo tecnici lasciamo alla politica le decisioni legate a questo tipo di considerazioni». I concerti? Anche i cantanti chiedono di tornare al 100 per cento. «Le considerazioni da fare sono più o meno le stesse delle discoteche. Immaginiamo un concerto dei Maneskin con tutti gli spettatori seduti e composti, con tanto di mascherina? Bisogna fare i conti con la realtà: contesti diversi hanno rischi intrinseci diversi. Inutile imporre un distanziamento di 3 o 4 metri quando già sappiamo che sarà impossibile da far rispettare».

LA RAGAZZA DI KABUL ARRIVATA IN ITALIA

Lui è Mauro Berruto, ex Ct della nazionale di Volley italiana, lei una ragazza afghana di 20 anni che venerdì notte è riuscita ad arrivare nel nostro Paese. Alessandra Ziniti per Repubblica ci racconta la storia della pallavolista di Kabul salvata dall’Italia.

«A vent' anni da sola, nascosta per tre settimane come un topo in trappola in una Kabul tornata al Medioevo, le notti trascorse dietro la finestra a filmare nel buio i bagliori delle esplosioni e degli spari, il terrore di vedere sfondata la porta del suo rifugio e finire come la sua compagna di squadra, uccisa dai talebani, la foto del cadavere fatta girare per far capire la sorte riservata a ragazze come loro, colpevoli di aver giocato a pallavolo a capo scoperto. Il cellulare unico contatto con il mondo esterno, la disperazione che nutre la speranza e dà coraggio. E poi la fuga, ancora da sola, di notte, con un passeur che avrebbero potuto tradirla, fino al confine. Finalmente fuori dall'Afghanistan: altri giorni nascosta, altri passeur, la polizia che la blocca all'aeroporto con il biglietto in mano, fino all'ultimo miracolo annunciato con una foto in primo piano, occhi lucidi e mascherina, inviata all'uomo che, senza neanche conoscerla, è riuscito a farla arrivare in Italia. «Sono sull'aereo, sto nascendo una seconda volta». La partita più difficile della vita per Safiya, giovane pallavolista afghana, ma anche per Mauro Berruto, ex commissario tecnico della nazionale di volley, oggi responsabile sport del Pd, che ha collaborato all'espatrio di altri sportivi dall'Afghanistan. Berruto, Safiya dunque ce l'ha fatta? Come sta adesso? «È arrivata in Italia sabato mattina dopo un mese vissuto sull'ottovolante del terrore. Felice, emozionata, commossa, come me d'altra parte. Venerdì notte, quando mi ha mandato la foto dall'aereo con il timbro exit sul pass, la sigla del volo e poi ho visto la scritta departed sul sito dell'aeroporto da cui è partita mi sono venuti i lucciconi agli occhi». Come è riuscito a farla fuggire da Kabul visto che le evacuazioni ufficiali sono ormai concluse? «Non conoscevo neanche questa ragazza. Per un singolare meccanismo di triangolazione, che ha fatto sì che circolino i numeri di chi si sta dando da fare per aiutare chi è rimasto bloccato laggiù, mi è arrivato un suo messaggio via whatsapp. Era disperata. "Ti prego, aiutami, mi uccideranno come hanno fatto con la mia compagna di squadra. L'hanno massacrata come un animale. Io e le altre siamo tutte nascoste, ma ci troveranno e faremo la stessa fine. Sui social stanno facendo girare i video della nostra squadra". Ogni notte mi mandava video agghiaccianti: il buio di Kabul squarciato da esplosioni e colpi di arma da fuoco. In più lei non aveva neanche il passaporto dietro, insomma farla uscire da lì sembrava impossibile». E invece? «I nostri diplomatici hanno fatto un lavoro gigantesco preparando tutti i documenti che servivano e abbiamo fatto squadra, team building. Io facevo l'allenatore e la motivavo e lei ha tirato fuori un coraggio da leone. Il momento più drammatico è stato quando le ho detto: "È tutto pronto, adesso tocca a te. Te la senti di scappare da sola e provare a raggiungere il confine?". "Stanotte ci provo". La prima volta ha fallito, la seconda è andata. Venti ore di silenzio assoluto, poi un messaggio da un check-point: "Ho paura, che devo fare?". E poi finalmente quel: "Sono passata". Ma era solo l'inizio». Da dove è riuscita a passare? «Questo non posso dirlo. Ovviamente da un Paese confinante in cui ha viaggiato da sola, senza documenti, per altri 900 chilometri prima di raggiungere il nostro consolato dove l'aspettava un visto e un biglietto aereo. Quando sembrava tutto fatto l'ultima doccia fredda. La polizia l'ha fermata all'aeroporto perchè era entrata illegalmente in quel Paese. E ha perso l'aereo. "È tutto finito", mi ha scritto disperata. Ma ancora una volta i nostri diplomatici hanno fatto il miracolo e la sera dopo è riuscita a salire sull'aereo. Gli ultimi minuti sono stati i peggiori. Temeva che la facessero scendere». Una grande emozione per lei adesso vederla in Italia. «Sì, con la consapevolezza che stiamo vivendo una nuova Shoah con alcune categorie di persone, le donne su tutti, rastrellate porta a porta. Con la grande differenza che oggi, con gli strumenti tecnologici che abbiamo, siamo in grado di seguirla in tempo reale. Bisogna urgentemente trovare un metodo e aprire corridoi umanitari. Non possiamo davvero girarci dall'altra parte».

HAITIANI IN FUGA, ULTIMI TRA GLI ULTIMI

Ieri è stata la Giornata mondiale del migrante. Lo ha ricordato Papa Francesco nell’Angelus domenicale. Oggi Emiliano Guanella sulla Stampa racconta l’odissea degli haitiani in fuga, ultimi fra gli ultimi.  

«Un'odissea di 11.000 chilometri attraverso tredici frontiere dal Cile fino al Texas per essere rispediti, su un volo da deportati, nell'inferno di Haiti. È il destino di molti haitiani prelevati con la forza dalla "Border Patrol", la polizia di frontiera statunitense, al confine con il Messico e rispediti a casa, anche se da quella casa erano fuggiti con il loro carico di fame e miseria da anni. Per l'amministrazione Biden quella dei migranti haitiani è l'ennesima gatta da pelare nelle questioni migratorie, per il resto dell'America Latina è la nuova emergenza, che si aggiunge a quella della grande diaspora venezuelana, ma che assume contorni ancora più drammatici. La fuga dal Paese più devastato e povero delle Americhe è iniziato dopo il violento terremoto del 2010. Un flusso mai interrotto a causa della povertà estrema, la violenza dilagante e la profonda instabilità sull'isola. L'uccisione del presidente Jovenel Moïse a luglio e il terremoto di agosto sono solo le ultime tragedie abbattute su un Paese con il 40% di indigenti, un'economia basata su aiuti umanitari saccheggiati dai governanti corrotti e le rimesse degli emigrati. La comunità internazionale ha mandato i caschi blu, ma non ha potuto fare nulla contro l'onnipresenza delle gang armate e la corruzione dilagante. Haiti ha perso il 16% della sua popolazione, più di un milione di uomini, donne e bambini sono scappati senza guardarsi indietro. Metà di loro sono andati nella vicina Repubblica Domenicana, che da due mesi però ha chiuso le frontiere; gli altri sono finiti un po' ovunque nelle Americhe. Il Cile ne ha accolti più di 110.000, gli ha dato lo status di rifugiati politici ma questo non è bastato a farli integrare in una società molto chiusa, soprattutto con chi ha un colore di pelle diverso. La pandemia ha polverizzato i lavori informali, la nuova legge migratoria promulgata dal presidente conservatore Piñera è stato il colpo di grazia; molti sono diventati, tutto d'un tratto, irregolari. Non è andata meglio a chi è finito in Brasile, Perù o in Ecuador. Disoccupati, ghettizzati, alla fame; sono gli ultimi tra gli ultimi, bersaglio di razzismo e discriminazione. E così, dall'inizio dell'anno, è iniziata la grande migrazione verso Nord, destinazione Stati Uniti. L'illusione del sogno americano, comune a molti altri migranti latinoamericani, anche se per loro, neri e francofoni, tutto è più difficile. Il viaggio lungo la spina dorsale delle Cordigliera delle Ande ha portato migliaia di loro all'imbuto della frontiera tra Colombia e Panama, confine naturale tra Centro e Sudamerica. Fino a luglio riuscivano a passare per proseguire fino in Messico, dove gli viene riconosciuto uno status di "protezione temporale", quanto basta per arrivare al deserto del Rio Grande, ad un passo dalla meta. Le immagini dei poliziotti americani a cavallo che li prendono a frustrate sotto il Ponte a Del Rio ha scosso l'opinione pubblica americana. Per ripulire la zona Washington ha organizzato in una settimana una ventina di voli di rimpatrio, duemila disperati sono atterrati a mani vuote all'aeroporto di Port-Au-Prince. Di fronte a questa scena l'inviato speciale dell'amministrazione Biden sull'isola Daniel Foote ha dato le dimissioni. «Non posso accettare questa decisione disumana, questi rifugiati da anni avevano lasciato Haiti e adesso sono costretti a ripartire da zero». Anche il Messico non sa cosa fare; deve gestire gli haitiani bloccati alla frontiera con gli Stati Uniti ed evitare che altri arrivino in Chiapas, al confine con il Guatemala. Pure la Colombia soffre. Nel piccolo porto di Necoclì, avamposto prima del limite con Panama ci sono 20.000 haitiani accampati sulla spiaggia. Hanno due alternative per andare avanti: attraversare un tratto di mare dominato dai narcotrafficanti del Clan del Golfo o inoltrarsi per la fitta selva del Darién, dai sette a dieci giorni di cammino tra i sentieri altrettanti pericolosi. Per l'agenzia Onu per i rifugiati e Medici senza frontiere siamo di fronte ad un dramma umanitario destinato a esplodere nelle prossime settimane. Nessuno, ad iniziare dalla loro terra maledetta, sembra volere gli haitiani in fuga».

LE RADICI CRISTIANE DEL MAESTRO DELLA POP ART

Antonio Socci su Libero si occupa di Andy Warhol, il grande artista pop, dando notizia di un libro che si occupa della sua fede religiosa. Ecco un passaggio dell’articolo che trovate integrale nei pdf.

«I funerali si svolsero a Pittsburgh, dove era nato, e il 1° aprile fu celebrata per lui una messa funebre nella cattedrale cattolica di St. Patrick, a New York. Le duemila persone presenti, in rappresentanza delle sue molte frequentazioni, probabilmente erano poco abituate a oltrepassare la soglia di una chiesa cattolica. Ma quando muore un personaggio celebre non suscita particolare sorpresa una cerimonia religiosa, anche quando tale personaggio è ritenuto lontano dalla fede cattolica. Tuttavia la sorpresa, quel giorno, arrivò durante la celebrazione, quando prese la parola John Richardson, «celebre critico e storico dell'arte, amico e biografo di Picasso, che aveva frequentato Warhol al punto di conoscerlo molto bene». Egli disse: «Vorrei ricordare un aspetto del suo carattere che nascondeva a tutti tranne che ai suoi amici più stretti: l'aspetto spirituale. Quanti di voi lo hanno conosciuto in circostanze che erano agli antipodi della spiritualità potrebbero essere sorpresi dall'esistenza di questo aspetto, ma c'era, ed era fondamentale per la mente dell'artista». Aiuti a poveri e senzatetto. Infatti «Andy non ha mai perso l'abitudine di andare a messa... Come ricorderanno gli altri parrocchiani, passava dalla sua chiesa, St. Vincent Ferrer, diverse volte alla settimana fino a pochi giorni prima di morire... Provava un notevole orgoglio- aggiunse Richardson- nel finanziare la formazione di suo nipote al sacerdozio, e aiutava regolarmente in una mensa per i poveri e i senzatetto. Andy teneva ben nascoste queste attività». A quell'uditorio stupito Richardson spiegò: «Conoscere la sua segreta pietà cambia inevitabilmente la nostra percezione di un artista che ha ingannato il mondo intero lasciandogli credere che le sue uniche ossessioni fossero i soldi, la celebrità, il glamour, e che era così flemmatico da sembrare insensibile».

CHIESE CHIUSE, L’ULTIMO SAGGIO DI MONTANARI

Intellettuale battagliero e controverso, spesso al centro di roventi polemiche politiche, come l’ultima sulle Foibe, lo storico dell’arte Tomaso Montanari stupisce sempre. Non solo quando scrive di Bernini e il Barocco. Giorgio Montefoschi sul Corriere della sera parla della sua ultima fatica per Einaudi: Chiese chiuse.

«Chiese chiuse (Einaudi) è l'appassionato e insieme assai preciso pamphlet di Tomaso Montanari, storico dell'arte che, nella Premessa , tiene a definirsi «un cittadino della repubblica, ma anche un cristiano cattolico, credente e praticante». Il panorama che Montanari descrive delle chiese italiane, ma vale per tutte le chiese nel mondo occidentale, è sconfortante: per i cittadini laici che amano l'arte e considerano le basiliche, le cattedrali, le chiese storiche, le pievi sperdute nei monti un bene pubblico che va salvaguardato e messo a disposizione di chiunque (lo dice la Costituzione); per i cristiani cattolici, credenti e praticanti, che in quegli spazi sacri continuano a cercare sé stessi e il mistero. Bisogna leggerlo con attenzione questo libro implacabile e puntuto sul «sacco» delle chiese. C'è da rimanere sbalorditi. Chiese sbarrate perché abbandonate e cadenti, come la storica badia della Moscheta a due passi da Firenze. Chiese derubate delle loro opere d'arte più preziose. Chiese messe in vendita per essere trasformate in resort di lusso. Chiese sconsacrate, poi riconsacrate, quindi di nuovo sconsacrate che diventano luoghi di spettacolo, come la chiesa di Santo Stefano del Ponte, vicino a Ponte Vecchio, sempre a Firenze, scelta per la sfilata inaugurale di Pitti 2011. Chiese chiuse per un giorno per accogliere un pranzo della Morgan Stanley. Chiese che diventano musei - e non va bene neppure questo perché le chiese sono chiese e i musei sono musei (che secondo Montanari, ma qui dissentiamo, dovrebbero essere gratuiti e non produrre mostre pagate dagli sponsor). Insomma: un disastro. «Di chi è, allora, la colpa?», si domanda Montanari. È presto detto: «Colpa di un consumo culturale culturalmente insostenibile, tutto ingabbiato nell'industria delle mostre consacrate alla top ten degli artisti noti anche ai politici. Colpa di decine di governi che hanno tagliato sul patrimonio culturale e sulla sua manutenzione, condannando generazioni di storici dell'arte all'esilio o alla rassegnazione. Colpa delle riforme, che obbedendo all'odio per le soprintendenze hanno puntato tutto sulla valorizzazione selvaggia e fatto a pezzi quel che rimaneva della tutela. Colpa di un giornalismo servile e ignorante, sordo a ogni denuncia dal basso e capace solo di lodare il potente di turno per poi correre a stupirsi che l'Italia crolla: dai ponti alle chiese». La forza polemica di questo libro è bella. Così come sono davvero belle le pagine nelle quali Montanari descrive il suo amore per le chiese; l'emozione nel varcare la soglia delle immense basiliche ombrose; quella nel percorrere i pavimenti di marmo sotto i quali giace per sempre chi ci ha preceduto. Chiese sconsacrate e consacrazione del consumo, dunque. Si può essere più o meno d'accordo. Quello che però Montanari non dice è che nel mondo occidentale, oramai, Dio è quasi definitivamente assente. Fortunatamente ci sono gli atei che, non riconoscendolo, Dio lo nominano almeno. Per gli altri, quasi tutti, Dio è lontano da ogni riflessione sulla vita, da ogni progetto quotidiano, da ogni discorso. Dio è un fastidio. Ed è un fastidio il mistero. Persino nelle omelie, tranne poche eccezioni, i preti eludono il mistero, ci dicono che dobbiamo essere onesti e buoni. Ecco perché le cattedrali sono abbandonate: perché quel desiderio dell'Altrove, dello sconosciuto, e dell'eterno, che tanto ha contribuito a elevarle, da Chartres a Fossanova, è sparito, lasciando le aule vuote».

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