La Versione di Banfi

Share this post

Giallo Natale

alessandrobanfi.substack.com

Giallo Natale

Natale in giallo per un italiano su cinque. A Bruxelles condivisa la linea dell'Italia sul Green pass, andrà rivisto. L'Economist incorona Draghi, ma lo vuole al governo. Congedo di Mattarella

Alessandro Banfi
Dec 17, 2021
Share this post

Giallo Natale

alessandrobanfi.substack.com

Il Consiglio europeo, che si conclude oggi, ne ha discusso a fondo. Come combattere il dilagare della pandemia, con l’incubo Omicron che pesa su tutti i Paesi? La posizione dell’Italia, alla fine, è stata condivisa perché la nuova variante ha messo in crisi il sistema del Green pass. In questo senso: va distinto chi ha avuto le prime due dosi e chi invece anche il terzo richiamo. Perché sono questi ultimi a essere protetti dall’ultima variante, che invece al 70 per cento colpisce chi ha fatto solo le prime due dosi (per fortuna non per quanto riguarda la gravità della malattia). Si è deciso di stabilire rapidamente nuove regole per il Certificato verde europeo e la sua validità temporale. Vedremo.

Intanto nel nostro Paese un italiano su cinque passerà il Natale in giallo, oggi la decisione finale nella cabina di regia ma ci si avvia ad una decisione di questo tipo. Senza contare che su tutte le Regioni incombe l'incognita della variante Omicron, variante che per fortuna da noi circola ancora poco ma che quando arriverà farà alzare tutti i numeri del contagio.

A proposito di numeri, c’è una polemica sulle cifre dell’adesione allo sciopero generale di 8 ore, organizzato ieri da Cgil e Uil. Secondo i sindacati hanno aderito l’80 per cento dei lavoratori, secondo la Confindustria solo il 5%. Nella sostanza, anche per le limitazioni sui pubblici servizi imposte dal Garante, l’impressione è di un’iniziativa di minoranza. La sorte ha poi voluto coincidesse con un articolo dell’Economist che ha incoronato l’Italia “Paese dell’anno”, proprio grazie alla guida del governo di Mario Draghi. Credere a Landini o a Draghi e alla sua larga maggioranza, che comprende anche i partiti di sinistra?

Per quanto riguarda la corsa al Quirinale, il settimanale inglese sostiene che Draghi debba restare a Palazzo Chigi. Il Foglio, in prima linea per Supermario al Colle, risponde con un vecchio slogan dei gelati, lanciando “la mozione Maxibon: sette anni is megl che uan”. Intanto Mattarella si è congedato dal Papa, con una visita calorosa e familiare.

Buone notizie dalla BCE. Christine Lagarde ha confermato che non toccherà i tassi per tutto il 2022. L’Europa divorzia così, nella politica monetaria, dalla Banca d’Inghilterra e dalla Federal reserve americana. È un passaggio molto importante, che avrà conseguenze anche sulla politica economica della Ue su investimenti e debito. La preoccupazione di Lagarde è di non frenare la ripresa europea, visto l’incubo della variante Omicron. Per i mercati, è il momento di scommettere su chi ha preso la decisione migliore.

Ancora dall’estero: Quirico sulla Stampa dipinge da par suo il ritiro francese dal Mali. Altro fallimento occidentale, dopo il ritiro da Kabul. A proposito, Repubblica racconta una bella storia di due afghani approdati a Roma dopo un’odissea.

Non perdetevi il decimo e ultimo episodio del mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Disponibile da ieri. È intitolato: IL RITORNO DALL'INFERNO. Protagonista è Chiara Amirante, fondatrice della comunità Nuovi Orizzonti. Il racconto della sua vita comincia in quell’inferno particolare che erano una volta i sotterranei della stazione Termini a Roma. Luoghi dove allora nessuno, né ferrovieri, né volontari della Caritas, né poliziotti, osava mettere piede. Un porto franco ma anche un rifugio per gli invisibili, gli ultimi, spesso i moribondi. Una terra di nessuno lasciata al dolore e alla disperazione. Quella discesa, 30 anni fa, cambiò la vita di Chiara Amirante. Da allora aiuta i giovani e i poveri di strada ad uscire dalle dipendenze e dal degrado. Oggi ha 56 anni ed è una personalità conosciuta in tutto il mondo. Nel 1993 ha fondato la comunità Nuovi Orizzonti, impegnata nel recupero degli emarginati, dei giovani con problemi di tossicodipendenza, alcolismo oppure costretti alla prostituzione, attiva nelle carceri e con i bambini di strada. La sua è una storia di ascolto e di Vangelo, perfetta per introdursi al Natale. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate l’ultimo episodio disponibile e potrete anche ritrovare tutti gli altri:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-chiara-amirante

Trovate questa VERSIONE domani, sabato, nella vostra casella di posta entro le 10. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Ancora la pandemia, con la variante Omicron, vero incubo per tutta l’Europa. L’Avvenire è didascalico: Virus, mosse Ue. Il Messaggero annuncia: Covid, la stretta convince la Ue. La Repubblica conferma: Ue, passa la linea Draghi. La Stampa va nel dettaglio: La Ue: sì al Green pass all’italiana. Ma che cosa succederà in pratica, da noi? Il Corriere della Sera preannuncia un Natale frenato dal cambio di colore delle regioni: Virus, si allarga l’Italia in giallo. Per Il Giornale è: La guerra dei tamponi. Il Mattino indica i possibili serbatoi di focolai: Covid, tra bambini e no vax 12 milioni “alleati” del virus. Critici, come sempre, La Verità: Vaccini ai bambini senza remore con i migranti si fanno scrupoli. E Il Fatto: I ritardi sulla terza dose azzerano il Green pass. Domani è concentrato sul Colle: O Mattarella o Draghi. Lo stallo dei partiti sul Quirinale genera caos. Il Quotidiano Nazionale sceglie l’Economist come apertura: L’Italia di Draghi è il Paese dell’anno. Sullo sciopero generale di 8 ore il Manifesto celebra un’adesione: Le piazze del popolo. Che però è giudicata scarsa da molti organi di informazione, come Libero: L’Italia licenzia Landini. Il Sole 24 Ore sottolinea la linea della BCE spiegata ieri dalla Lagarde: Fine dei fondi anti Covid a marzo, inflazione 2022 al 3,2% ma tassi fermi.

LA UE DÀ RAGIONE ALL’ITALIA SUL GREEN PASS

Lunga discussione al Consiglio europeo per armonizzare le misure di emergenza decise da ogni Paese per frenare Omicron. Presto ci saranno regole comuni sulla validità del Green pass. La cronaca di Francesca Basso sul Corriere da Bruxelles.

«Se non si fa differenza tra persone vaccinate e non vaccinate perché hanno bisogno di un test Pcr, penso che sia un'idea sbagliata». Il premier del Lussemburgo, Xavier Bettel, parla al suo arrivo al Consiglio europeo a Bruxelles. E aggiunge: «Se abbiamo nuove normative nazionali individuali, come possiamo convincere le persone a vaccinarsi?». Ma una volta dentro, riferiscono più fonti, nessuno dei leader Ue ha puntato il dito contro l'Italia che ha introdotto nuove misure restrittive anche ai vaccinati per l'ingresso nel Paese. La discussione tra i capi di Stato e di governo, che si è prolungata nella notte, aveva in cima a un ordine del giorno molto denso - prezzi dell'energia, Bielorussia, crisi ucraina e relazioni con la Russia, migrazione - come affrontare in modo coordinato la diffusione della nuova variante Omicron, che sta preoccupando i governi. Del resto l'Italia non è la sola ad avere introdotto regole più restrittive, lo hanno fatto Irlanda e Portogallo (prima di noi), Francia e Grecia, tutti con soluzioni e tempistiche diverse. Nelle conclusioni i leader Ue sottolineano che servono «sforzi coordinati» e chiedono che le misure restrittive nazionali siano «basate su criteri oggettivi» e che «non danneggino il mercato interno o ostacolino in modo sproporzionato la libertà di circolazione dei cittadini tra gli Stati membri o i viaggi nell'Ue». Inoltre il Consiglio europeo «sottolinea l'importanza di un approccio coordinato sulla validità del certificato digitale Covid Ue» (questa parte non era prevista nelle bozze dei giorni scorsi) e «prende nota del fatto che la Commissione adotterà un atto delegato su questa materia». Di fatto i leader Ue hanno dato mandato alla Commissione di presentare nei prossimi giorni un atto delegato che definisca una data di scadenza del green pass valida per tutti. La durata dovrebbe essere di 9 mesi: 6 dalla seconda dose più 3 per il booster. I leader hanno insistito sul ruolo «chiave» dei vaccini, inclusa la terza dose, per contrastare la pandemia. Il primo punto, quindi, è combattere la disinformazione per aumentare la popolazione vaccinata. I numeri li ha ricordati la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, mostrando un grafico riportato anche in un tweet: «Finora è vaccinato il 67% della popolazione dell'Ue. Ma 9 Stati membri hanno un tasso di vaccinazione inferiore al 60%». La presidente ha spiegato che «è probabile che la variante Omicron diventi la variante dominante già nel gennaio 2022». E questo preoccupa i governi. Portogallo e Irlanda chiedono il tampone. Parigi ha chiuso agli ingressi dalla Gran Bretagna: da domani potranno entrare solo «residenti in Francia e loro familiari». Per gli altri sono possibili eccezioni per motivi urgenti, ma non per turismo e lavoro. Tutti i viaggiatori, vaccinati o no, dovranno presentare, alla partenza, il risultato negativo di un test. La Svizzera, che non è nell'Ue ma fa parte dello spazio Schengen, già chiede un tampone dal 4 dicembre. E la Grecia da domenica esige da chi proviene da Regno Unito e Danimarca un tampone molecolare negativo insieme al certificato di vaccinazione. Nella lunga discussione sulla corsa dei prezzi dell'energia non c'è stato accordo tra i leader Ue che non hanno adottato conclusioni. Quanto a Mosca, i leader Ue sottolineano «l'urgente necessità per la Russia di allentare le tensioni» lungo il confine con l'Ucraina e avvertono che «qualsiasi ulteriore aggressione militare contro l'Ucraina avrà enormi conseguenze e gravi costi in risposta, comprese misure restrittive coordinate con i partner».

A livello europeo le decisioni devono essere guidate dal principio di massima cautela, la posizione di Mario Draghi di fronte all’irritazione dei partner europei nel retroscena da Bruxelles di Tommaso Ciriaco per Repubblica:

«Il gigantesco albero rosso della Grand Place è l'unica concessione al Natale. Il resto è angoscia e Omicron. A Bruxelles per il Consiglio europeo, Mario Draghi tocca con mano la paura della quarta ondata. Sa che il suo futuro sarà deciso dai prossimi quindici giorni di pandemia. Potrebbe essere il suo ultimo summit da premier, se venisse eletto al Quirinale. Ma sa anche che se il contagio dovesse peggiorare, allora il Colle (uno scenario che era e resta gradito al premier) sembrerebbe una scalata troppo ripida da realizzare. Le variabili restano molte, imprevedibili, a partire dai dati aggiornati del nuovo ceppo su ricoveri e ospedalizzazioni, da cui dipende la tenuta dei sistemi sanitari europei. I numeri arriveranno entro una settimana, dall'Inghilterra. Così si è deciso ieri durante un drammatico G7 dei ministri della Salute. I titolari della Sanità si incontrano nelle stesse ore del Consiglio europeo, in videoconferenza. Ascoltano il responsabile inglese parlare di un quadro «terribile». Ottantottomila casi in un giorno, destinati a crescere «di molto e molto ancora». Se davvero la variante raddoppia il contagio ogni tre giorni, il rischio è il tilt degli ospedali. Il quadro che indicano sembra quasi la premessa di un possibile lockdown inglese sotto le feste. «E i ricoveri?», domandano tutti. Non si conosce ancora l'impatto - è la replica - è troppo presto, ma i dati saranno condivisi con i Paesi alleati entro sette giorni al massimo. L'allarme rimbalza a Bruxelles. Un Capodanno di restrizioni e blocco delle attività terrorizza i leader. I danesi che siedono in Consiglio sono sotto choc, soffrono un numero di positivi che, in proporzione, equivale a 119 mila malati in un giorno in Italia. Draghi ha chiarissimo i rischi del momento. Quando ricorda ai colleghi europei i 135 mila morti in Italia e un collasso del Pil 2020 del 9%, lo fa per zittire le residue critiche alle misure italiane alle frontiere. Ma il premier guarda già oltre. Alle misure drastiche che potrebbero essere assunte nelle prossime settimane, a causa della Omicron. Allo scenario di obbligo vaccinale, che prenderà forma durante il mese di gennaio. E soprattutto al passaggio più delicato per il Paese: lo snodo stretto dell'elezione del nuovo Capo dello Stato. È sempre lui al centro della partita. I leader di maggioranza - tutti, nessuno escluso - gli hanno chiesto in un modo o nell'altro di restare. Ieri, poi, l'Economist si è aggiunto alla lista, incoronando l'Italia di Draghi il Paese dell'anno. La verità è che il presidente del Consiglio vorrebbe comunque tentare il salto. Ma la realtà, ora dopo ora, rischia di decidere per tutti. Il conto del contagio segnava ieri 26 mila positivi. Il picco dell'epidemia è atteso tra le feste di Natale e il nuovo anno, quando si entrerà nel vivo della battaglia per il Colle. L'Omicron, l'incertezza che genera fa il resto. Non è solo l'emergenza sanitaria. Se ne discute a Bruxelles, se ne parla a Roma ossessivamente. C'è il pericolo che la quarta ondata congeli trasporti e consumi. Per l'Italia, esiste lo spettro di un pesante danno al turismo, che significherebbe un colpo al Pil. Le stime 2021 si attestano per ora al 6,3%, ma si teme che possano essere riviste al ribasso proprio a causa delle cancellazione dei viaggi durante le festività. E poi c'è il timore, concreto, di un pantano politico. Chi terrebbe assieme la maggioranza di unità nazionale? Passare da un nuovo governo - o addirittura da elezioni anticipate - avrebbe l'effetto deflagrante di mettere a repentaglio anche i fondi del Pnrr. Tutte riflessioni che complicano la strada del premier. Il quale, ovviamente, deciderà del suo destino a tempo debito e pesando tutte le variabili. Di certo, però, evitando al Paese salti nel buio. I leader di partito, nel frattempo, insistono. «FT e Economist - dice Carlo Calenda - sono stati chiari. Il 70-80% degli italiani vuole che Draghi rimanga presidente del Consiglio ». E i parlamentari - cioè le truppe chiamate poi a votare nel segreto dell'urna per il Quirinale continuano a preferire l'ex banchiere al governo come garanzia di stabilità. «Draghi va protetto dai giochi politici», ha ricordato ieri al Corriere.it Luigi Di Maio, per poi aggiungere: «Il partito dei franchi tiratori aumenta». Si moltiplicano inoltre le voci a favore del "congelamento" del quadro istituzionale, che prevederebbe la contestuale rielezione di Mattarella. «Sono preoccupato da una possibile sostituzione del premier a Palazzo Chigi, ammette il dem Andrea Marcucci, sono per un governo Draghi anche oltre il 2023».

GIALLO NATALE PER UN ITALIANO SU CINQUE

Il punto della pandemia nel nostro Paese: il Natale sarà in giallo per un italiano su 5. Record di contagi da marzo, 123 le vittime ieri. Michele Bocci per Repubblica.

«Da lunedì prossimo 12 milioni di italiani saranno in zona gialla. E prima della fine dell'anno il numero potrebbe crescere fino a 27 milioni, ossia quasi la metà dei cittadini. Ieri i nuovi dati sull'occupazione dei posti letto da parte dei malati Covid hanno portato sopra le soglie di sicurezza (il 10% per la terapia intensiva e il 15% per i reparti ordinari) la Liguria, il Veneto, le Marche e la Provincia di Trento. Oggi arriverà l'ufficializzazione della Cabina di regia dell'Istituto superiore di sanità e del ministero e quelle quattro realtà, salvo sorprese, raggiungeranno così il Friuli Venezia Giulia, la Calabria e Bolzano in giallo, dove sono sempre obbligatorie le mascherine all'aperto. Poi ci sono alcune Regioni in bilico, come l'Emilia-Romagna, che supera il livello di guardia per le terapie intensive, e la Lombardia, al 14% nei reparti ordinari e al 9,5% nelle rianimazioni. Quella di ieri è stata un'altra giornata di crescita per i casi, saliti a 26.109, un numero che non si raggiungeva dal 12 marzo scorso. I decessi sono stati 123, e le intensive sono passate da 870 a 917 ricoveri. Ad avere l'incidenza settimanale per 100mila abitanti più alta è la Provincia di Bolzano, con 566 casi. Seguono il Veneto (506), il Friuli (376), la Valle d'Aosta (330) e la Liguria (313). In generale l'incidenza in Italia nelle ultime tre settimane è salita da 155 a 176 e poi, tra venerdì scorso e ieri, a 242. Ovunque i dati sono molto superiori a 50, la soglia oltre la quale non si riesce più a fare il tracciamento dei casi, e cioè a intercettare i contatti dei positivi. Dieci realtà hanno numeri che sarebbero da zona rossa, se l'occupazione dei posti letto fosse molto superiore. Proprio riguardo ai ricoveri, l'altro ieri la Lombardia ha fatto un'operazione per ridurre la percentuale di occupazione. Cioè ha aumentato il numero di letti ordinari a disposizione. È così passata da un'occupazione del 15%, che aveva già in base ai dati di mercoledì, al 14% di ieri. In totale adesso ha 8.485 posti, dei quali 1.189 sono occupati. Mercoledì ne venivano indicati circa 540 in meno. L'altro indicatore, quello delle terapie intensive, è comunque sotto la soglia di sicurezza, visto che è al 9,5%. Sono 145 su 1.530 i posti occupati dai malati più gravi nella Regione guidata da Attilio Fontana. La Lombardia, tra l'altro, è tra le poche realtà che hanno attivato tutte le rianimazioni a disposizione, proprio per tenere bassa la percentuale. La Lombardia potrebbe finire in giallo il 27, se i dati della settimana prossima continueranno a peggiorare. Rischia anche l'Emilia-Romagna. Insieme hanno circa 15 milioni di abitanti. Non sono belli neanche i numeri del Lazio, che però sta vedendo un miglioramento. Su tutte le Regioni incombe l'incognita della variante Omicron, che in Italia circola ancora poco ma che quando arriverà farà alzare tutti i numeri».

Avvenire presenta un inedito scenario anti Covid: pillole antivirali e un nuovo vaccino ecco le nuove armi. Vito Salinaro per Avvenire.

«Si rafforza, e da subito, l'arsenale contro il Covid 19. Fatto di monoclonali, antinfiammatori, antivirali e vaccini innovativi. Ieri è stata una giornata campale in tal senso. Vediamo perché, iniziando dai nuovi farmaci antivirali, che si assumono oralmente e che non necessitano di particolari accorgimenti nella conservazione. Il Paxlovid della Pfizer, infatti, può essere utilizzato contro il Covid nei Paesi che lo ritengono opportuno. È questo il parere dell'Ema, «emesso - si legge in una nota dell'ente regolatorio europeo - per supportare le autorità nazionali che potrebbero decidere su un possibile uso precoce del medicinale», prima ancora dell'autorizzazione Ue all'immissione in commercio. Il trattamento con il Paxlovid è riservato ad adulti con Covid-19 che non richiedono ossigeno supplementare, e che sono a maggior rischio di progressione verso una malattia grave. Il farmaco (due principi attivi disponibili in compresse separate) va assunto il prima possibile dopo la diagnosi, e comunque entro 5 giorni dall'inizio dei sintomi. A proposito di antivirali. La Danimarca è il primo Paese Ue ad autorizzare l'altro medicinale disponibile, la pillola prodotta da Merck per pazienti a rischio con sintomi. Il prodotto, commercializzato con il nome di Lagevrio, ha ricevuto il via libera per uso d'emergenza da parte dell'Ema a metà novembre, permettendo ai singoli Paesi membri di decidere se utilizzarla prima dell'autorizzazione ufficiale. L'Ema ha anche autorizzato, ieri, altri due trattamenti anti-Covid: un anticorpo monoclonale, il sotrovimab, e l'antinfiammatorio anakinra, un immunosoppressivo già usato nell'Ue per varie condizioni infiammatorie. Il primo, prodotto dalla britannica Glaxo-SmithKline assieme all'americana Vir Biotechnology, è indicato, con somministrazione endovena, negli adulti e negli adolescenti, dai 12 anni di età e con un peso di almeno 40 chili, che non richiedono ossigeno supplementare e che sono a maggior rischio che la malattia diventi grave. Da studi di laboratorio si prevede che il medicinale sia attivo anche contro la variante Omicron. L'indicazione dell'iniezione sottocutenea di anakinra, un immunomodulante commercializzato dalla svedese Sobi, è stato invece esteso per l'utilizzo in pazienti adulti con polmonite che richiedono ossigeno supplementare, a rischio di sviluppare grave insufficienza respiratoria. Entrambi i farmaci hanno mostrato di «ridurre significativamente ricoveri e decessi in pazienti a rischio di malattia grave». Anche sul fronte vaccini si sta per aprire una pagina nuova. Lunedì prossimo è convocato, in seduta straordinaria, il comitato Ema per i medicinali ad uso umano: all'ordine del giorno c'è l'approvazione del vaccino di seconda generazione a proteina ricombinante dell'americana Novavax. Il nome tecnico è 'Nvx-CoV2373' e contiene 5 microgrammi della proteina Spike del virus. Oltre alla Spike, in ogni dose ci sono 50 microgrammi di un adiuvante (Matrix-M) che potenzia l'attività del principio attivo ed è costituito da un estratto della corteccia della pianta Quillaja saponaria (la saponina), colesterolo e fosfolipidi, tutte sostanze biologiche naturali. Nessun tipo di cellule umane (né fetali né di adulto) è coinvolto. La fase 3 della sperimentazione clinica ha coinvolto 30mila volontari in 119 centri di Usa e Messico. L'efficacia nel modello sperimentale è del «100% nel prevenire le forme più gravi e del 90,4% per tutte le manifestazioni dell'infezione». Lo studio conclusivo, condotto in Gran Bretagna e pubblicato sul New England Journal of Medicine, ha confermato un'efficacia totale del 96,4% contro il ceppo originario del virus».

Michele Serra, nella sua rubrica su Repubblica, si cimenta con il tema del partito No vax, che potrebbe presentarsi alle prossime elezioni.

«Le voci di un eventuale partito No Vax vanno accolte con un certo favore. I sondaggisti lo danno intorno al 5 per cento, e sarebbero tutti voti sottratti a Meloni (soprattutto) e a Salvini, più qualche coccio raccolto dal collasso dei cinquestelle e qualche particola dell'ultrasinistra, alla perenne ricerca della propria miniaturizzazione. Dunque se incontrate per strada il professor Mattei, che assicura di non riuscire più a fare la spesa a Porta Palazzo perché tutti lo fermano per invocare la mobilitazione generale contro il Sistema, mi raccomando, unitevi al capannello, e incitatelo anche voi a perseverare. "Guardi professore, lo sa di che cosa si sente disperatamente il bisogno, per salvare l'Italia? Di un partito No Vax, specie se sarà lei a guidarlo. Non ci deluda, scenda in campo". Certo, nel caso che il nuovo partito superasse i vari quorum e soglie di sbarramento, i commessi di Camera e Senato avrebbero a che fare con un drappello di difficile contenimento, vedi l'energumena romena in grado di sequestrare, da sola, una intera troupe televisiva. Ma il colpo alla destra "anti-sistema" sarebbe notevole, anche perché, per quanto bizzarra sia la composizione ideologica del sovranismo (da Radio Maria ai nibelunghi al Papeete c'è dentro veramente qualunque cosa), un apparentamento politico con i No Vax, malgrado il compatto sostegno di Porta Palazzo, richiederebbe la perizia psichiatrica. Va seguito dunque con simpatia l'impegno politico del professor Mattei. Potrebbe portare alla nascita di un partito sanguisuga, che a differenza del partito civetta non ha alcun secondo fine. Si limiterebbe a dissanguare la destra lasciando indenne la sinistra, che come è noto, essendo conformista, è serenamente vaccinata».

GUERRA DEI NUMERI SULLO SCIOPERO

Cgil e Uil vanno in piazza contro il governo, ma è guerra di cifre sul successo della protesta. Per i sindacati punte dell'85%. Per la Confindustria meno del 5% di adesioni. La cronaca di Enrico Marro per il Corriere.

«Cgil e Uil hanno riempito ieri senza difficoltà piazza del Popolo nel giorno dello sciopero generale contro la manovra del governo Draghi. Partecipate anche le manifestazioni di Milano, Bari, Palermo e Cagliari, collegate in diretta con la piazza romana per i comizi dei segretari generali Maurizio Landini (Cgil) e Pierpaolo Bombardieri (Uil). Difficile valutare invece il successo dello sciopero nei luoghi di lavoro, a causa della solita guerra di cifre. I sindacati parlano di adesioni altissime, con punte «dell'85% in molte realtà e settori». Bene in particolare, per Cgil e Uil, metalmeccanici (80%) trasporti (60%), commercio e servizi (60-80%). Sul territorio, massime adesioni in Emilia Romagna col 70% in Emilia Romagna. Per la Confindustria, invece, ha partecipato meno del 5% dei lavoratori delle aziende associate. La Cisl, che non ha aderito allo sciopero generale («serve il dialogo non il conflitto improduttivo», ribadisce il leader Luigi Sbarra) fa sapere, sia pure non ufficialmente, che lo sciopero non sarebbe andato bene, con adesioni sotto il 10% in Stellantis, Fincantieri e Leonardo, di appena l'1,5% all'ex Ilva di Taranto e nelle Poste e del 7% nelle Ferrovie. Alcune aziende hanno comunicato i dati. All'Atac, l'azienda municipale dei trasporti pubblici di Roma, ha scioperato il 30,2% del personale. A Napoli, ieri mattina, l'adesione è stata del 19% per il personale della linea 1 della metropolitana e del 72% per quello delle Funicolari. A Milano l'Atm ha diffuso una nota per dire che il servizio è stato regolare su tutta la rete. Guerra di cifre a parte, Cgil e Uil hanno ottenuto il risultato di riprendersi la scena nel dibattito politico. Landini e Bombardieri hanno spiegato di voler dare voce al disagio sociale, cioè a quella parte del Paese che soffre perché, colpita dalle conseguenze economiche della pandemia, è rimasta ai margini degli interventi di sostegno messi in campo dal governo, e hanno annunciato che continueranno la battaglia su tutti i fronti aperti: fisco, precarietà del lavoro, politiche industriali, riforma delle pensioni. Dal palco di una piazza del Popolo divisa cromaticamente a metà tra i cgielllini con le loro bandiere rosse e i militanti Uil con quelle azzurre, Landini e Bombardieri hanno attaccato Confindustria e governo. Al presidente degli industriali, Carlo Bonomi, che si era detto «triste» per lo sciopero, il leader della Cgil ha replicato: «Non possiamo essere felici perché c'è gente che viene licenziata con le delocalizzazioni,mentre Confindustria dovrebbe dire alle sue associate di non farlo». E Bombardieri: «Bonomi è triste? Qui ci sono lavoratori tristi perché hanno perso il posto!». Sul fisco i due segretari hanno accusato il governo di aver diffuso le sue stime sul taglio delle tasse a favore dei lavoratori dipendenti «per oscurare lo sciopero generale». Stime contestate da Cgil e Uil. Per un lavoratore con 15 mila euro di reddito, ha detto Landini, il guadagno sarebbe di appena «6-7 euro lordi al mese mentre per chi guadagna 5-6 volte di più il vantaggio è di 7-800 euro l'anno». Sul fronte politico, Giuseppe Conte (M5S) invita a «non sottovalutare il malessere diffuso». Duro, invece, Matteo Salvini (Lega): «Siamo davanti a uno sciopero-farsa contro l'Italia e i lavoratori».».

Mattia Feltri dedica la sua rubrica in prima pagina sulla Stampa al racconto della giornata di ieri.

«Sono a Torino, in albergo. Mi alzo e scendo a fare colazione, una ragazza mi serve il croissant e un'altra il caffè. Alla reception mi chiamano il taxi e il taxi mi porta in stazione. Prendo un Italo. Scendo a Milano, prendo la metro verde, scendo a Cadorna, prendo la metro rossa, scendo a Pagano. Raggiungo un amico in ufficio per questioni di pubblicità. Dal bar di sotto ci portano panini e bottigliette d'acqua. Ne portano anche ai collaboratori del mio amico. Finito, riprendo la metro rossa, poi la verde, torno in stazione, prendo un Frecciarossa e appena mi siedo mi chiama una gentile signora di Sky (devo regolare alcuni pagamenti rimasti in sospeso per il cambio di carta di credito). Arrivo a Roma Termini. Prendo la metro B, scendo a Garbatella, raggiungo la redazione a largo Fochetti. In redazione il lavoro è nel pieno. Mi è arrivato un pacco Amazon, contiene un regalo di Natale comprato a mio figlio. Scrivo l'articolo che state leggendo. Ho un paio di brevi incontri con l'amministrazione. Esco, prendo un taxi, torno a casa. Trovo un pacco con dei libri della Marsilio arrivati in mattinata. Mia figlia mi dà la ricevuta dell'idraulico: è andato via da poco e dovrò fargli un bonifico (giuro, ho un idraulico che accetta bonifici). Apro il computer, aggiorno l'articolo che state leggendo. Mia figlia chiede se possiamo ordinare la cena e dico subito di sì: vado pazzo per il messicano. E ora sono qui, il telefonino dice che le mie enchiladas suoneranno al campanello fra cinque minuti. Nell'attesa ho acceso il tg. C'è Maurizio Landini. Dice che lo sciopero generale è stato un trionfo: Italia paralizzata».

L’ECONOMIST: ITALIA “PAESE DELL’ANNO”

«Draghi ha cambiato il Paese», il settimanale inglese Economist incorona l'Italia. Non per i Maneskin o per i meriti sportivi degli azzurri di calcio. Federico Fubini sul Corriere.

«Non è mai stato particolarmente benevolo con l'Italia l'Economist , non solo quando in una delle sue copertine degli anni 90 descrisse Silvio Berlusconi «unfit» - inadatto, incapace - di guidare il governo del Paese. Poco prima della crisi dell'euro del 2011, un rapporto speciale del settimanale britannico descrisse alla perfezione sia i molti problemi reali e sia i pregiudizi diffusi all'estero che avrebbero alimentato un vero e proprio terremoto sul nostro debito pubblico e una drammatica stagione di impoverimento di milioni di persone. Anche con Matteo Renzi, che da premier si ispirava al modello della Downing Street di Tony Blair, l'Economist fu caustico: lo ritrasse nel 2014 a bordo di una barchetta di carta europea intento a mangiare un gelato mentre affonda, l'emblema di un ragazzino inconsapevole (Renzi rispose facendosi fotografare con un carretto da gelataio nel cortile di Palazzo Chigi). Se questo è lo sguardo tutt' altro che indulgente che l'Economist ha sempre gettato sull'Italia, colpisce ancora di più che nel numero oggi in edicola nomini il nostro «il Paese dell'anno». Non è il confronto con una Gran Bretagna ammaccata da una Brexit confusa, da una gestione a momenti dilettantesca e irresponsabile della pandemia o dall'aver trovato in Boris Johnson un premier con qualche tratto clownesco, ad aver indotto il settimanale londinese a rivalutare l'Italia. È in primo luogo la natura del premio che, scrive, «non va al più grande, al più ricco o al più felice» dei Paesi, «ma a quello che è migliorato di più nel 2021». In passato avevano vinto la Tunisia per essersi data un governo democratico dopo le rivoluzioni arabe o l'Uzbekistan per aver abolito la schiavitù. Quest' anno per l'Economist vince l'Italia (su Samoa, Moldova, Zambia e Lituania) «non per la bravura dei suoi calciatori» che hanno vinto gli Europei sull'Inghilterra ma perché quest' anno l'Italia è cambiata facendo i conti con un suo difetto tradizionale: la «weak governance», il sistema di governo debole «che ha fatto sì che l'Italia fosse nel 2019 più povera che nel Duemila». Nel 2021 la differenza l'ha fatta Mario Draghi, scrive il settimanale. In lui l'Italia «ha acquisito un primo ministro competente e rispettato internazionalmente». Inoltre «un'ampia maggioranza dei politici italiani ha seppellito le proprie differenze per sostenere un programma di riforme complessive che dovrebbero permettere all'Italia di ottenere i fondi ai quali ha diritto in base ai piano di Recovery europeo». Fra i risultati concreti del governo di unità nazionale, il settimanale londinese indica un tasso di vaccinazione superiore alla media europea e una ripresa più rapida (benché dopo una caduta più brusca nel 2020) di quelle di Francia e Germania. Ma qui viene il messaggio politico dell'Economist, diretto a Draghi. «C'è il rischio che questo inusuale sussulto di governo razionale subisca un arretramento», si legge, perché «il signor Draghi vuole diventare presidente, un incarico più cerimoniale, e il suo successore come primo ministro potrebbe essere meno competente». Il sostanza il settimanale di Londra sta esprimendo la sua preferenza perché Draghi resti fuori dalla partita per il Quirinale. Quanto essa rifletta le vedute di ambienti più ampi, come accadeva quando da Londra criticava l'Italia di Berlusconi o quella di Renzi, lo si capirà forse nel giro di qualche settimana.».

Il Foglio in un commento “spiega” il Quirinale all'Economist. Per il giornale fondato da Ferrara con Supermario al Colle l'Italia potrebbe diventare “il Paese dell'anno per i prossimi 7 anni”.

«L'Economist, il settimanale inglese che a ottobre 2020 definiva l'italia "un Paese in declino, che vale nulla sulla scena mondiale, con un'economia che non cresce, una classe dirigente che spreca idee e risorse", oggi ha ribaltato il giudizio. Siamo "il Paese dell'anno 2021", annuncia il settimanale della élite politico- economica. "L'onore va all'Italia e non per i suoi calciatori che hanno vinto il trofeo più importante d'europa, non per le sue pop star che hanno vinto la gara canora Eurovision, ma per la sua politica". L'economist non ha mai largheggiato sull'italia, anzi, a partire dalla famosa copertina del 2001 "Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy" (con successive cause legali e ripensamenti dell'ex direttore Bill Emmott). Certo, il 2021 è stato l'anno di Mario Draghi: "L'Italia si è dotata di un presidente del Consiglio competente e rispettato a livello internazionale. Per una volta la maggioranza dei politici ha messo da parte le differenze per sostenere un profondo programma di riforme, vanta un tasso di vaccinazione tra i più alti d'europa e la sua economia corre più di Francia e Germania". Merito di Draghi, ma secondo l'Economist anche di partiti che lo hanno votato e assecondato, "mettendo da parte le differenze". E se Draghi venisse eletto al Quirinale, magari da quella stessa maggioranza che lo ha chiamato a Palazzo Chigi? "Draghi vorrebbe fare il Presidente e potrebbe venire rimpiazzato da un primo ministro meno competente. Ma è impossibile negare che oggi l'Italia sia in un posto migliore rispetto a dicembre del 2020 e per questo è il nostro paese dell'anno. Auguroni!". Insomma, se Big Mario salisse al Quirinale sarebbe intanto per sua volontà. E potrebbe venir rimpiazzato da un primo ministro meno competente, ma alla guida di un Paese migliore, anzi del paese dell'anno. L'Economist non si straccerebbe le vesti né invita a lasciar Draghi dov' è. E del resto lui fu imposto dal Quirinale, da Sergio Mattarella, quando non eravamo proprio da Oscar. Il Capo dello Stato ha poteri enormi e se Draghi è la garanzia della stabilità dell'Italia non si può non sposare la mozione Maxibon: sette anni is megl che uan».

Stefano Feltri, direttore del Domani e giornalista economico, vede molto provincialismo nella stampa italiana:

«Quando provincialismo della stampa italiana si combina con la sua naturale tendenza alla piaggeria verso il potere, il risultato è l'eccitazione per i giudizi positivi che arrivano dall'estero. Gli applausi di testate che si suppongono più libere e indipendenti di quelle italiane generano sollievo in tante redazioni che così possono considerare, almeno per un giorno, gli omaggi al governo come giudizi equilibrati. Questa volta a generare il solito circuito di autocelebrazione è l'Economist, che in un editoriale sceglie l'Italia come «il Paese che è migliorato di più». Gli altri candidati, citati nell'articolo, erano Samoa, per aver superato una crisi istituzionale e sostituito un presidente che si considerava scelto da Dio con un riformista; la Moldova, il paese più povero in Europa che sta migliorando; la Lituania, che ha sfidato la Cina con l'apertura di un'ambasciata di Taiwan a Vilnius. In mezzo a tanti nani, l'Italia di Mario Draghi giganteggia. Il giudizio dell'Economist dovrebbe lusingare, una volta superato quel minimo fastidio che la superficialità dell'analisi genera (ma davvero si può definite il lavoro di presidente della Repubblica soltanto come "più cerimoniale" di quello del primo ministro?). Il settimanale britannico riconosce il successo della campagna vaccinale e la rapidità della ripresa, però nel breve editoriale non spende una parola per indicare cambiamenti strutturali del Paese. Draghi, aiutato da successi simbolici come la vittoria agli Europei di calcio, le medaglie olimpiche e il premio Nobel per la Fisica a Giorgio Parisi, è diventato un volto nuovo dell'Italia, ma non il volto di una nuova Italia. La politica di bilancio del governo, imputabile almeno in egual misura al premier e ai partiti che lo sostengono, per esempio non è cambiata: 79 miliardi di euro di nuovo debito pubblico nei prossimi tre anni giustificati come sempre con la promessa di austerità rinviata a un futuro così remoto da sembrare innocua, investimenti pubblici faraonici che nessuno sa come realizzare e spesa sanitaria che, nonostante la pandemia, viene stimata nel 2024 ancora più bassa che nel 2019 in proporzione al Pil, 6,3 invece che 6,4 per cento. La solita Italietta cicala che sperpera nei momenti buoni per poi lamentarsi di non aver saputo prevedere quelli di magra. Come Paese, insomma, ci conoscono da sempre e quasi tutti i pregiudizi che riguardano l'Italia, gli italiani e la nostra incapacità di fare le cose giuste al momento giusto sono fondati (per fortuna c'è poi sempre una larga minoranza di funzionari pubblici, imprenditori, creativi e gente normale che compensa gli errori strutturali e ripetuti). In alcune circostanze storiche, però, la faccia che rappresenta un paese refrattario a ogni cambiamento può far sembrare i difetti profondi una condanna al disastro o problemi in via di soluzione. Nel 2011 i fondamentali dell'Italia non si erano deteriorati all'improvviso, ma la sola presenza di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi rendeva ogni impegno di bilancio o ogni promessa di riforma una barzelletta triste come quella che l'ex Cavaliere raccontava sul "bunga bunga". Oggi la situazione si è ribaltata, ma la sostanza meno: l'Italia non sta cambiando, le riforme strutturali non ci sono, i problemi precedenti sempre lì stanno. Però con Mario Draghi a palazzo Chigi sembrano più sopportabili. Potremo esultare davvero soltanto quando l'Economist e tutti gli altri giornali che riflettono l'immagine trasmessa dai nostri media italici celebreranno un Paese solido e credibile a prescindere da chi lo governa in quell'anno».

Anche nel direttore di Libero Alessandro Sallusti prevale lo scetticismo. Contrappone il commento del giornale inglese a quello del segretario della Cgil. Chi ha ragione? Si chiede e risponde: nessuno dei due.

«Per la comunità internazionale siamo il "Paese dell'anno", così almeno ha decretato The Economist, certificato di recente come la più autorevole fonte di informazione di economia politica. Per Maurizio Landini invece, Mario Draghi ci ha portato sull'orlo di un baratro, anche se va detto che lo sciopero generale da lui indetto, ieri è stato un grande fiasco. A chi dei due credere? Personalmente a nessuno dei due, quantomeno non alla lettera, anche se ovviamente il giudizio dell'Economist mi inorgoglisce mentre l'allarme di Landini mi fa cadere le braccia. Cosa intendo dire? Noi che il Paese lo viviamo sul campo ben sappiamo che Draghi è molto bravo e ha fatto tanto ma non è Babbo Natale e che la sua Italia non è il Bengodi. La grande finanza internazionale, attraverso i suoi mezzi di informazione, ha ovviamente i suoi interessi a sostenere ed esaltare uno come Draghi che parla la sua lingua, e non mi riferisco a quella inglese. E più che un elogio, l'inaspettato premio ricevuto forse non a caso ieri, conoscendo un po' i meccanismi della comunicazione, proprio per contrappore sulle prime pagine e nei tg la faccia rassicurante di Draghi al faccione minaccioso di Landini, appare come una forte pressioni affinché Draghi non molli la sedia dove è seduto, in altre parole che stia a Palazzo Chigi e non vada al Quirinale a tagliare nastri e girare i pollici. Perché altrimenti si corre il rischio che, a prescindere di chi prenderà il suo posto, l'Italia venga rapidamente risucchiata nel grigio mondo di Landini e della Cgil, cioè in balia di quel vetero sindacalismo assistenzialista e auto referenziale che ieri abbiamo visto all'opera nelle piazze italiane sia pur in misura molto ma molto minore di quanto fosse stato annunciato e sperato dai promotori. Quello che The Economist non sa o non dice è che la variabile Draghi, certamente benedetta, è comunque a tempo - al massimo un anno ancora, per di più un anno di campagna elettorale - almeno che lui non decida di mettersi a capo di un partito o di uno schieramento e affrontare il giudizio delle urne. Mentre Landini, o chi per lui, ahimè ce lo dobbiamo tenere a vita. E più le cose andranno bene più lui aizzerà le piazze per non perdere identità e potere. A noi, che non andiamo in piazza e non leggiamo The Economist in fondo cambia poco e come al solito non ci resta che incrociare le dita».

MATTARELLA SI CONGEDA DA PAPA FRANCESCO

Affettuoso incontro di saluto del Presidente uscente Sergio Mattarella con papa Francesco. Si è parlato anche di pandemia, migranti e clima. La cronaca di Angelo Picariello per Avvenire.

«Grazie per la testimonianza, il meglio della testimonianza ». Papa Francesco saluta Sergio Mattarella, e dopo 45 minuti di colloquio nella biblioteca privata del Palazzo apostolico, le mani del Pontefice e quelle del capo dello Stato restano strette a lungo. Una visita di congedo «coinvolgente al massimo» la descriverà, Mattarella, conversando al Quirinale col nunzio apostolico Emil Paul Tscherrig, decano del Corpo diplomatico, al termine della consueta cerimonia di auguri. Definita anch' essa, come «occasione di commiato», a togliere ogni residuo dubbio sulle sue intenzioni future. Un incontro a suggellare, a fine settennato, un rapporto di grande sintonia umana e istituzionale. La prima udienza tra il Mattarella e papa Bergoglio si tenne il 18 aprile 2015, in Vaticano. Il 10 giugno 2017, il Santo Padre aveva ricambiato la visita e l'ingresso nel cortile d'onore del Quirinale di una Ford Focus blu lasciò il segno, trovando nella sobrietà un altro punto di incontro. Una sintonia profonda che emerge da una delle espressioni più spesso ripetute da Mattarella, quel «senso della comunità» che rimanda ai concetti di bene comune, attenzione ai più deboli, cittadini italiani o migranti, sottolineando il valore delle testimonianze, dei gesti concreti, molto più dei proclami, e mettendo in luce gli eroi del quotidiano, i portatori extra-istituzionali di valori costituzionali, umani e cristiani insieme. Una sintonia che ha particolarmente caratterizzato questi quasi due anni di pandemia, quando gli italiani chiusi in casa hanno visto nel Papa celebrante solitario in piazza San Pietro un poderoso fattore di unità e speranza, cui più volte si è appellato anche Mattarella. Numerosi, per lui, i doni del Papa: una pittura su ceramica raffigurante la Basilica di San Pietro vista dai Giardini Vaticani; i volumi dei documenti papali; il Messaggio per la Pace per il 2022, ancora inedito; il Documento sulla Fratellanza Umana; il libro sulla Statio Orbis del 27 marzo 2020, a cura della Libreria editrice vaticana. Mattarella ha invece offerto al Pontefice una stampa con veduta di Roma dal Quirinale e un volume sulla Madonna del cucito, l'affresco di Guido Reni nella cappella dell'Annunciata al Quirinale. Mattarella era accompagnato dalla figlia Laura e dai sei nipoti: Manfredi, Costanza e Maria Chiara, figli della stessa Laura; Sergio e Piergiorgio, figli del primogenito, Bernardo Giorgio; e Lauro, figlio di Francesco, il più piccolo, al quale il Papa ha chiesto «come va a scuola?». A tutti il Papa si è rivolto per un saluto, finito l'incontro: «Ricordatevi di pregare per me. E se qualcuno non prega, magari non se la sente, inviatemi buone ondate. Non pregate contro di me», ha scherzato. Al termine della visita Mattarella ha incontrato il cardinale Pietro Parolin. «La sua è una visione piena di speranza», ha poi commentato il segretario di Stato vaticano. Nell'incontro pomeridiano con il corpo diplomatico sono stati ripresi molti dei temi che erano stati toccati già nell'incontro in Vaticano della mattinata».

Negli ultimi mesi Mattarella si è sottoposto ad un tour de force di appuntamenti per chiudere il suo mandato. Ugo Magri sulla Stampa.

«La parola «commiato» non è comparsa nel comunicato diffuso dopo la visita mattutina di Sergio Mattarella da Papa Francesco; e subito sono fiorite le interpretazioni sul perché e il per come la sala stampa vaticana ne avesse fatto a meno, nonostante la formula di rito fosse presente nel programma ufficiale del Quirinale. Vuoi vedere che il Santo Padre l’ha fatta espungere in quanto, sotto sotto, pure lui tifa per il «bis»? Ma a spegnere fantasie del genere, dissipando sul nascere ogni possibile equivoco sulle proprie intenzioni, ha provveduto lo stesso presidente della Repubblica davanti a una platea di ambasciatori stranieri ricevui nel tardo pomeriggio per il tradizionale scambio di auguri. «Oggi per me è anche l’occasione di un commiato», ha voluto rimarcare con un sorriso. Dunque nessun dubbio, zero tentennamenti: Mattarella è davvero ai saluti. Con una differenza, rispetto ai suoi predecessori. Stavolta il congedo coincide con un inedito tour de force. Già, perché l’agenda presidenziale non è mai stata così traboccante di impegni. A quelli canonici che ricorrono a fine anno (incontro con il corpo diplomatico accreditato, con le alte cariche dello Stato lunedì prossimo, messaggio a reti televisive unificate la sera di San Silvestro) si sono sommati stavolta una quantità di altri appuntamenti grandi e piccoli che erano stati rimandati per causa di forza maggiore (leggi Covid). Da quando le vaccinazioni hanno messo alle spalle i giorni bui del lockdown, Mattarella ha fatto di tutto per recuperare il tempo perduto. E adesso che manca un mese e mezzo alla scadenza del 2 febbraio, giorno ultimo del mandato, il ritmo delle visite, degli incontri, dei colloqui presidenziali si è fatto più intenso, quasi tambureggiante. Anche qui c’è chi ha voluto equivocare, scambiando questo attivismo per qualcosa di totalmente diverso, quasi sottintendesse un desiderio non confessato di riconferma sull’onda della standing ovation ricevuta alla “prima“ della Scala; in realtà, spiega chi conosce Mattarella, la moltiplicazione degli sforzi in vista del traguardo segnala esattamente l’opposto, cioè il desiderio di concludere nel migliore dei modi, l’intenzione molto rispettabile di andarsene avendo completato il lavoro. Aveva fatto promesse che, sia pure in extremis, si è intestardito a voler mantenere. Per esempio ai rettori di molte università: dopo l’estate ha inaugurato l’anno accademico di sei atenei (Pavia, Milano Bicocca, Foggia, Siena, Roma La Sapienza, da ultimo Enna), quando in passato di regola una cerimonia bastava per tutte. Per non deludere nessuno ha ricevuto una folla mai vista di delegazioni: enti pubblici e privati, rappresentanti delle autonomie, associazioni, centri studi, organismi sportivi, personalità le più varie (compreso il nuovo sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e separatamente la ex prima cittadina Virginia Raggi). Al Quirinale è stato un susseguirsi di saluti senza rimpianti. Brindisi con gli altri presidenti non elettivi europei, due mesi fa nel salone delle Feste; con i Grandi del pianeta convenuti a Roma per il G20; con il presidente francese Emmanuel Macron. E poi di corsa a Madrid, in Algeria, a Berlino per salutare degnamente la Cancelliera Angela Merkel. Nell’ultimo mese Mattarella ha dispensato premi al merito, firmato sette provvedimenti di grazia (con Matteo Salvini che, insaziabile, gliene sollecita un ottavo); inviato 21 messaggi per altrettanti eventi; pronunciato ben 12 discorsi per ribadire a uno a uno tutti i concetti cardine del settennato. Ieri, con i rappresentanti diplomatici ha insistito sul multilateralismo, sui doveri di solidarietà verso gli immigrati, sul ruolo dell’Europa in un mondo sempre più globalizzato. Ha voluto denunciare le «drammatiche differenze nella distribuzione dei vaccini» che tagliano fuori l’Africa. Ha rivendicato «politiche ambientali eque e sostenibili» per fronteggiare i cambiamenti climatici. Ha lanciato un allarme contro «gli algoritmi che decidono le nostre vite». Dai primi di gennaio niente più uscite pubbliche, per non interferire con la scelta del successore. Calerà il silenzio. Mattarella e i collaboratori si prepareranno al trasloco».

QUIRINALE 1. MR. B VUOLE I VOTI DI RENZI

A proposito di corsa al Quirinale, sul Fatto Wanda Marra e Giacomo Salvini ricostruiscono le mosse di Silvio Berlusconi e di Matteo Renzi.

«Il problema di Silvio Berlusconi ora è il tempo. Non tanto in vista del fischio d'inizio del primo scrutinio per eleggere il prossimo presidente della Repubblica (data da cerchiare, il 24 gennaio). No, Berlusconi teme l'arrivo del Capodanno. Perché sarà entro allora che Matteo Salvini e Giorgia Meloni, in un vertice ristretto del centrodestra, gli chiederanno di tirare fuori i numeri. Un ultimatum: "O tiri fuori i voti o cambiamo strategia" sarà il senso del monito dei leader di Lega e Fratelli d'Italia. E allora Berlusconi, per mantenere il sostegno dei due alleati, ha bisogno di trovare più voti possibili subito. Quelli del Misto ed ex M5S non bastano più. Quindi è per questo che nelle ultime ore ha dato ordine alla sua eminenza grigia, Gianni Letta, di organizzare un incontro il prima possibile con Matteo Renzi. Come ai tempi del patto del Nazareno, poi rotto proprio sull'elezione di Sergio Mattarella al Colle nel 2015. Berlusconi adesso vuole capire che intenzioni ha il leader di Italia Viva e fare un tentativo per convincerlo a sostenerlo. Impresa difficile ma da provare, sostiene il capo di Forza Italia, perché Renzi tra Camera e Senato può contare su un pacchetto di 43 voti. Anche se ne arrivassero la metà, sarebbe un bel passo avanti per l'elezione di Berlusconi al Colle a cui, a oggi, ne mancano una cinquantina sulla carta. Così Letta si è già attivato e ha sentito Renzi al telefono. Cosa si siano detti non è chiaro, ma da Arcore non si esclude che nei prossimi giorni, quando Berlusconi arriverà a Roma, potrebbe accogliere il senatore di Scandicci a villa Grande per un faccia a faccia. Nel frattempo, Renzi si muove a tutto campo. Oggi ci sarà un'assemblea di Italia Viva, nella quale si parlerà del progetto del gruppo centrista con Coraggio Italia. Poi domani o massimo domenica incontrerà Giovanni Toti, per dare il via all'operazione. A quel punto i voti a disposizione diventerebbero una settantina. Anche se tra i parlamentari di Iv non tutti sono d'accordo con il progetto di federazione, a partire da Gennaro Migliore e Teresa Bellanova. L'ex premier è però ben determinato a far pesare il più possibile il suo ruolo nell'elezione del presidente della Repubblica. I veri margini di manovra, però, esistono solo se la candidatura di Mario Draghi non dovesse andare in porto. A quel punto, Renzi potrebbe aspirare a fare da king maker di un presidente uscito da un piano B. Difficile sia davvero Berlusconi, nonostante le pressioni di Silvio. Più facile Pier Ferdinando Casini o Marcello Pera. O qualche nome dell'ultima ora. Allo stato però - nonostante i malumori dei leader di partito che si sentono espropriati della loro funzione - resta fortissima l'opzione Draghi. Alla quale Renzi sa di non potersi opporre. Non a caso mercoledì, durante il suo intervento al Senato, ha scandito: "Noi i patrioti non li evochiamo, li votiamo: patriota è stato Carlo Azeglio Ciampi, patriota è stato Giorgio Napolitano e patriota è stato Sergio Mattarella". Il modello Ciampi è quello più mostrato ad esempio per l'eventuale elezione di Draghi. Mentre Napolitano fu incoronato da un Parlamento del tutto incapace di scegliere dopo che i 101 avevano bruciato Romano Prodi. Segnali. Ai quali se n'è aggiunto un altro. "Mi auguro che il governo e il Parlamento nel 2022 lottino per un Segretario generale della Nato italiano", ha detto lo stesso Renzi sempre a Palazzo Madama. È un'aspirazione che il leader di Iv non ha mai abbandonato. Anche se è piuttosto difficile - per non dire impossibile - che venga accontentato. Ma esibirla in maniera così esplicita è un modo per alzare il proprio prezzo, spiegano i fedelissimi. Quello di cui Renzi ha bisogno è un ruolo che lo tenga al riparo dalle inchieste. O almeno un seggio in Parlamento: obiettivo per ora non proprio alla sua portata. La soglia di sbarramento del Rosatellum nella quota proporzionale è al 3%. Mercoledì sera, Draghi, nella replica al Senato, lo ha citato più volte. Anche questo un modo, comunque, per legittimarlo».

QUIRINALE 2. PARLA DI MAIO

Paginata di intervista del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio con Venanzio Postiglione per il Corriere della Sera. Interessanti le sue frasi sul Colle e sul semi presidenzialismo.

«Come si sceglie il presidente della Repubblica? «Con l'obiettivo di eleggere chi tuteli l'interesse nazionale e garantisca l'unità del Paese. Dialogo ampio tra tutte le forze politiche». Cosa vuol dire metodo condiviso? Qual è la via? «La proposta del tavolo è valida, spero non diventi solo una iniziativa mediatica. Lo dico da rappresentante dei 5 Stelle, la prima forza nel Parlamento. Bisogna parlare con tutti, con i nostri alleati ma anche con il centrodestra: senza però farci dettare l'agenda. Dialogo alla pari, obiettivo comune». Silvio Berlusconi è un nome possibile? «Salvini e Meloni si affrettano sia a candidarlo sia a dire che i voti non ci sono. Il punto è che potrebbe essere affossato dallo stesso centrodestra». Lei vedrebbe Mario Draghi al Quirinale? «Non ci possiamo permettere di mischiare ai giochi politici e al toto-nomi il presidente Draghi. Che va protetto e non va tirato per la giacca. Legge di bilancio, terze dosi del vaccino, nuove misure: il periodo è molto delicato, non servono i rumors sul Quirinale». Si è parlato di un asse Letta-Conte per il Colle. Cosa ne pensa? «Iniziativa giusta, visto che sono forze alleate. Ma direi: facciamolo, facciamolo velocemente, partiamo già da una maggiore sintonia. Costruiamo un metodo prima dei nomi. E ripeto: i partiti non si possono permettere di giocare con il nome del premier». E il Parlamento? «Ascoltiamolo. Il partito dei franchi tiratori non solo esiste ma può crescere. Il gruppo misto è il più grande della storia. Per i 5 Stelle i capigruppo Mariolina Castellone e Davide Crippa sono punti di riferimento importanti». Quando si deve votare per le elezioni politiche? «Le dico quando "non" si deve votare: mentre acceleriamo sulle terze dosi e avviamo il Piano di ripresa e resilienza. Non possiamo, adesso, perdere tra i 4 e i 5 mesi. Andate a vedere i Paesi dove ci sono state campagne elettorali o crisi di governo: curve dei contagi in salita, esecutivi bloccati nelle scelte. La data prevista è il 2023: mettiamo in sicurezza l'Italia e poi andiamo alle urne». (…) Giorgia Meloni, sul Corriere , ha rilanciato il presidenzialismo. «Non è la priorità, ora siamo in piena pandemia. Ma dopo sarà giusto aprire una riflessione. Mi guardo attorno in Europa. Chi ha avuto più stabilità è la Francia con un sistema semipresidenziale. È un fatto».

LA BCE DECIDE DI NON TOCCARE I TASSI

Christine Lagarde ha confermato ieri che la Banca centrale europea non seguirà la linea sul costo del denaro decisa dalla Federal Reserve americana e dalla Bank of England. Tonia Mastrobuoni per Repubblica.

«La svolta verso tassi di interesse più alti e politiche monetarie meno generose sarà più lenta in Europa che altrove. Ieri la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha chiarito che è «molto improbabile» che la Bce decida un aumento dei tassi nel 2022, persino a fronte di una stima sull'inflazione che è raddoppiata al 3,2% rispetto alle previsioni di tre mesi fa. Nel giro di pochissime ore, la Bce ha sancito così il suo divorzio dall'americana Federal Reserve e dalla Banca d'Inghilterra, che hanno decisamente accelerato sulla fine delle misure emergenziali indotte anzitutto dalla lunga crisi finanziaria del 2008 e poi dalla pandemia. La Fed ha annunciato mercoledì sera tre rialzi dei tassi nel corso dei prossimi dodici mesi, mentre la Banca d'Inghilterra ha già aumentato ieri - sorprendendo gli analisti - il costo del denaro allo 0,25% dallo 0,1%. Londra prevede un ritmo dei prezzi al 6% per aprile, e ieri ha fatto sapere che «una politica monetaria lievemente più restritiva è necessaria per raggiungere l'obiettivo del 2%». La Banca d'Inghilterra è la prima tra i Paesi del G7 ad aumentare il costo del denaro dopo oltre un decennio di tassi al lumicino. È un cambiamento epocale che tutte stanno intraprendendo in modo più o meno deciso per paura dell'inflazione al galoppo. Ma la Bce, insieme alla Banca centrale giapponese, resta tra le più caute in questa fase di uscita da una lunga emergenza. Lagarde scommette su un picco dei prezzi temporaneo e non vuole compromettere la ripresa. Un funambolismo delicatissimo, in una fase che per stessa ammissione dei guardiani dell'euro è carica di incertezze. L'orizzonte a cui guardare resta il medio termine e la Bce insiste che i prezzi resteranno sotto al 2%. Nelle nuove stime, raggiungeranno l'1,8% sia nel 2023 sia nel 2024. Annunciando una svolta «non dolorosa » sui bond, Lagarde ha anche puntualizzato che è stato approvato, «ad amplissima maggioranza» dal Consiglio, soltanto con una o due defezioni. E tra i contrari sembra ci siano stati due tradizionali "falchi" come il governatore dell'Austria, Robert Holzmann e il dimissionario presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Ma quando le hanno chiesto del divario con le altre due importanti banche centrali, Fed e Banca d'Inghilterra, Lagarde si è limitata a dire che «siamo in universi diversi». La Bce continua ad essere preoccupata che la ripresa possa essere compromessa dal diffondersi della variante omicron e vuole mantenere guardia alta e politiche monetarie accomodanti. Contro un'inflazione che è «salita molto, ma che resterà alta a breve termine » perché spinta «in modo predominante dai prezzi energetici», Lagarde ha annunciato che il programma di acquisti straordinario Pepp da 1.850 miliardi finirà a scadenza naturale (marzo 2021). Ma il ritmo degli acquisti sarà più lento anche nei prossimi tre mesi. Allo stesso tempo la Bce rivitalizzerà il vecchio programma di acquisti da 20 miliardi al mese denominato App: dopo la fine del Pepp sarà raddoppiato a 40 miliardi per tre mesi, poi calerà a 30 e da ottobre 2022 tornerà al l'attuale ritmo di 20 miliardi «finché non sarà raggiunto l'obiettivo di medio termine del 2% di inflazione». Soprattutto, «la flessibilità degli acquisti è stata importante» e la Bce si riserva la possibilità, nel caso in cui si registrino sconquassi sui mercati o turbolenze economiche, di aumentare di nuovo il ritmo degli acquisti di bond: «Potranno essere aggiustati in qualsiasi momento». Dopo le decisioni delle due banche centrali europee, sia la sterlina sia l'euro si sono rafforzate contro il dollaro e i rendimenti sui bond italiani sono lievemente saliti. Ma come ha calcolato Frederik Ducrozet, analista di Pictet Wealth Management, la Bce continuerà a comprare 480 miliardi di bond, pari all'80% delle emissioni totali, anche l'anno prossimo. Ancora un'enormità».

IL DESTINO DEI MIGRANTI SE SOPRAVVIVONO ALLA MANICA

Notizie choc dalla Gran Bretagna: donne violentate dai trafficanti mai curate, altre messe in alloggi misti. Per i migranti che scampano alla Manica c’è una “Guantanamo inglese”. La cronaca di Sabrina Provenzani per Il Fatto.

«Detenuti vulnerabili restano in condizioni di detenzione per ore, anche dopo che la vulnerabilità è stata identificata. Non abbiamo trovato prove che in questi casi ricevano immediato supporto specializzato. Una donna è stata trattenuta per quasi una giornata intera dopo aver rivelato di essere stata stuprata da un trafficante cinque giorni prima di lasciare la Francia. Viene descritta come 'inconsolabile e con tendenze suicide'". Il linguaggio dell'ultimo rapporto dell'Ispettorato di Polizia di Sua Maestà, con l'Independent Monitoring Board, sulle condizioni di tre centri di prima accoglienza in Kent è asettico. Il contenuto straziante. "Dopo essere stata rilasciata è stata sistemata in una residenza mista, con uomini e donne. E non è stata segnalata come vittima di traffico di esseri umani, né risulta che la segnalazione sia mai stata nemmeno discussa". Il Kent è la quarta regione più ricca dell'intero Regno Unito. Ma sulle sue coste sbarcano, quando non vengono intercettati e respinti dalle corvette della Marina francese o britannica, i disperati del mondo. Se sopravvivono alla traversata dalla Francia finiscono in quelli che in Italia chiamiamo centri di prima accoglienza e in questa Gran Bretagna apertamente ostile all'immigrazione povera si chiamano invece detention facilities, luoghi di detenzione. Come Tug Haven, la Kent Intake Unit e Frontier House. L'ispettorato di polizia e l'IMB li hanno visitati fra ottobre e novembre. Ne è emerso un rapporto dettagliato di 40 pagine. "Un'altra detenuta ha raccontato di essere stata violentata due volte durante il viaggio verso il Regno Unito. Gli appunti dicono: 'Alla domanda se volesse denunciare ha risposto di no'. La conclusione è stata che non volesse denunciare e non c'è stata nessuna segnalazione ufficiale". Ma il documento spiega anche come si svolgono queste ammissioni: spesso sono colloqui rapidi di 15 minuti, con persone appena arrivate, traumatizzate dal viaggio e dall'arresto, che non hanno avuto il tempo di riposare, scaldarsi, rifocillarsi. A Tug Haven, descritto in documenti ufficiali dell'Home Office come "una tenda in un parcheggio", sono costretti a dormire su materassini da yoga, senza riscaldamento anche con temperature sotto zero, donne e bambini insieme a uomini, senza garanzie di protezione e monitoraggio, ma con le luci sempre accese. Qui è arrivata una ragazza di 16 anni che durante la traversata era stata ustionata dalla benzina del motore del gommone su cui ha attraversato la Manica. È rimasta con i vestiti bagnati addosso per due giorni, senza cure finché "la cucitura dei jeans è diventata tutt' uno con le ustioni". A Kent Intake Unit e Frontier House, negli ultimi tre mesi, fino a 700 minori non accompagnati sono stati trattenuti per oltre 24 ore, in un caso per 90 ore prima di essere trasferiti altrove. Il personale è stato sorpreso a urlare addosso ai rifugiati perché chiedevano di andare in bagno. Già nel settembre 2020 l'Ispettorato di Polizia aveva chiesto al governo di migliorare le pessime condizioni dei centri. Il capo degli Ispettori, Charlie Taylor, lo ha chiarito: l'Home Office non ha fatto quello che aveva promesso. "Non è chiaro il perché dei ritardi, dopo le rassicurazioni seguite all'ultima ispezione. Ci hanno spiegato di aver avuto difficoltà a coordinare i diversi settori che devono collaborare, ma non è una spiegazione sufficiente". Per Bridget Chapman, del Kent Refugee Action Network, charity che supporta i rifugiati, "l'apatia del governo verso le condizioni in cui versano i richiedenti asilo comincia a somigliare a 'crudeltà deliberata". Sembra confermarlo il clima di crescente ostilità politica. Il governo britannico intende procedere con la riforma in senso restrittivo dello Human Rights Act. La bozza di riforma della legge allarma le associazioni per la difesa dei diritti umani. Secondo l'avvocato Adam Wagner, "questo governo potrebbe essere il primo nella storia delle democrazie liberali a promulgare una legge che ha l'effetto di ridurre invece che di ampliare le salvaguardie legali". E martedì l'Independent Monitoring Authority, che protegge i diritti dei cittadini europei nel Regno Unito, ha annunciato di aver fatto causa all'Home Office. In base agli accordi fra Londra e Bruxelles post Brexit, i cittadini europei in grado di dimostrare di aver risieduto legalmente in territorio britannico per 5 anni hanno ottenuto un certificato di residenza permanente (settled status); chi è arrivato da meno tempo è rimasto grazie al pre-settled status. Ma una nuova disposizione del ministro degli Interni, Priti Patel, stabilisce che chi ha ottenuto il pre-settled status, 2,3 milioni persone, dovrà rifare la domanda per la residenza permanente, pena la deportazione».

PROFUGHI AFGHANI APPRODANO A ROMA

Da Kabul a Roma l'odissea con lieto fine di due afghani in fuga. Benafsha e Shoaib Farzad, lei incinta, avevano chiesto aiuto a Repubblica. Floriana Bulfon.

«Una coppia che ha attraversato l'Oriente, affrontando ogni tipo di minaccia con lei incinta all'ottavo mese. E che adesso, a pochi giorni dal Natale, trova una casa al sicuro in Italia. La loro è un'odissea cominciata alla caduta di Kabul, che Repubblica ha seguito e raccontato in tutte le sue tappe, mantenendo però segreti i nomi: Benafsha e Shoaib Farzad. Sono partiti a fine agosto, infilando la vita dentro a un trolley: il filmino del matrimonio, la foto del nonno che non c'è più, i vestitini per il nascituro che si chiamerà Akbar. «Abbiamo visto l'Italia dall'alto, è più bella di quanto immaginassimo. Certo le piante e gli alberi in questa stagione stanno morendo, ma per noi è un nuovo inizio». A Kabul lavoravano per la scuola di Farza: lei come insegnante, lui nell'amministrazione. I talebani l'avevano rasa al suolo ed era stata riaperta grazie a Wave of Hope for the Future onlus, un'associazione italiana creata e gestita dai rifugiati per aiutare i rifugiati. Così 650 studenti, in gran parte ragazze, avevano avuto la possibilità di studiare, ma la vittoria dei fondamentalisti ha distrutto ogni sogno e trasformato la coppia in bersaglio della vendetta. Benafsha e Shoaib sono tra i tanti che hanno chiesto aiuto a sosafghanistan@repubblica.it, l'iniziativa di Repubblica per non dimenticare i nostri collaboratori bloccati in Afghanistan. E grazie ai corridoi umanitari della Farnesina sono arrivati nel nostro Paese. «Quando il governo si è dissolto, abbiamo organizzato manifestazioni per difendere i diritti civili, in particolare per le donne, e i talebani sono venuti a cercarci a casa. Mi hanno arrestato: sono stato rilasciato solo perché avevo del denaro e ho pagato. A quel punto per salvarci dovevamo scappare», spiega Shoaib. Insieme ad altri otto colleghi ad agosto entrano nella lista per essere evacuati, ma non riescono a varcare i cancelli dell'aeroporto. «Quando abbiamo visto l'ultimo aereo occidentale decollare da Kabul abbiamo capito che era stato tutto inutile», dice Benafsha stringendo il mazzo di rose che le hanno appena regalato all'atterraggio a Fiumicino. E così si mettono in viaggio per il Pakistan, attraversando i posti di blocco dei fondamentalisti per arrivare al valico di Spin Boldak. «Quindici ore di bus portandoci addosso il terrore di essere arrestati. Il confine poi era un inferno, una calca di disperati che come noi volevano fuggire», ricordano. Sono entrati illegalmente e credevano di non farcela: «Abbiamo sofferto molto. Siamo stati nascosti in casa di amici a Quetta. Lì respiravamo, ma non vivevamo. Non uscivamo perché la polizia ci poteva riportare in Afghanistan». Il pensiero va ai colleghi che sono ancora lì e al loro nipotino: «Vogliamo averli con noi il prima possibile. Speriamo che l'Italia riesca ad aiutarli». «Insieme al governo e alla Comunità di Sant' Egidio stiamo facendo di tutto per portarli al sicuro. È una catena di solidarietà per non dimenticare le persone che hanno lavorato con noi», spiega Costantino Tenuta, presidente di Wave of Hope for the Future Onlus. L'associazione ha preso in affitto un appartamento dove Benafsha e Shoaib resteranno in quarantena e ha lanciato un crowdfunding per i costi di vitto e alloggio. «Ci avete aiutato, ora vogliamo dare noi un contributo al vostro Paese», ripetono Benafsha e Shoaib. L'inizio di una nuova vita. La loro e quella del piccolo Akbar: «Che non vedrà l'Afghanistan finché non ci sarà la pace, ma crescerà imparando a diffondere umanità».

I FRANCESI SI RITIRANO DAL MALI

Dopo 8 anni i francesi hanno lasciato la base di Timbuctù, nel Mali. La guerra ai terroristi condotta dalla Francia e dai suoi alleati africani è fallita. Domenico Quirico sulla Stampa.

«Quando i francesi riconquistarono Timbuctù togliendola al Califfato del deserto, il 28 gennaio del 2013, per arrivare in città bisognava attraversare il Niger con una piroga. I jihadisti avevano distrutto il traghetto prima di ritirarsi da questo fiume bizzarro, frontiera interna dalle onde veloci e distratte. Un ragazzo affondava lunghe bracciate con l'unico remo, a strappi, come una gondola. La appassita meraviglia delle sabbie, la città santa polverizzata dai secoli era buia senza luce. Ovunque rovine, e un popolo affamato e dolente, che poteva raccontare le infinite ferite di antichissime miserie, corruzioni e furfanterie. Sulle pareti di un distributore una scritta lasciata dai fuggiaschi: «La jihad è la strada di dio...» ma le parole erano zeppe di errori. Una immensa bomba francese aveva polverizzato il palazzo di Gheddafi dove risiedevano i capi di Aqmi. Il saccheggio del poco che si era salvato impediva di leggerne il fasto. Il piccone dei fanatici invece aveva raso al suolo il mausoleo di Sidi Mahmoud, uno dei trecento santi della città dove da secoli, ogni venerdì, si portavano doni per guarire dal malocchio. I soldati francesi avanzavano cauti in quel disastro agghindato di sole, in un silenzio minerale, trascinandosi dietro anche le loro tarlate memorie imperiali. Vicino al cimitero dove le dune si gonfiavano e si urtavano si scoprirono i corpi appena coperti dalla sabbia delle vittime delle vendette, la minutaglia delle catastrofi. Gli assassini qui non hanno pudore si sentono invulnerabili, non fanno la fatica di nascondere. Strana guerra fu quella della operazione «Serval», dove i protagonisti si chiamavano il Guercio, il Macellaio, il Contrabbandiere. Con i jihadisti c'era anche Abu Jial, il Francese. Un vecchio cooperante passato alla guerra santa che a Timbuctù, dove viveva con la moglie marocchina incinta, faceva funzionare la centrale elettrica. La città che attendeva i liberatori dell'Armée era svuotata. I tuareg erano fuggiti nel deserto temendo le vendette feroci dell'esercito maliano formato da neri del Sud che arrancava al seguito delle truppe di Hollande. Fu il grande unico fragile successo del Timidone, presidente tentenna di un Empire abbarbicato al suo passato come edera alla muraglia. Dopo otto anni i soldati francesi se ne sono andati: un malinconico ammaina bandiera, le chiavi del forte consegnate ai maliani e a un pugno di soldati della sgangherata missione Onu. Kidal e Tessalit sono state abbandonate già da alcuni mesi. Ci si arrocca per ora a Gao in attesa che «la trasformazione profonda» dell'impegno militare annunciata da Macron si delinei. Trucci linguistici dei massaggiatori di cervelli: il punto pericoloso in cui la bugia diventa verità, e gli artefici di quella strategia ne sono intrappolati. Questa, per dirla chiara, è un'altra sconfitta, una Kabul nel Sahel: perché la guerra ai gruppi jihadisti condotta dalla Francia e dai suoi lacchè africani è fallita e l'eterno sistema coloniale francese vacilla. I taleban del deserto esultano. Da mesi si moltiplicano dalla società civile dei Paesi dell'area, dai partiti politici, le richieste di abbandonare la inutile e sanguinosa strategia militare contro il terrorismo, indigesta ormai anche ai più rozzi palati, e avviare una trattativa, esplicita, ufficiale, con i movimenti jihadisti per un accordo che dia respiro alle popolazioni prese nelle grinfie della miseria e della violenza. Genti che hanno vissuto sulla propria carne le severe lezioni della Storia. È il modello afgano che si è allargato fino alla sua prima scansione: il ritiro della presenza militare straniera sentita come coloniale e inutile. A seguire verranno la accettazione del ruolo dei gruppi radicali islamici nella società. Si accetta la realtà: la vittoria contro i jihadisti è impossibile anche per eserciti armati in modo sofisticato e con il controllo assoluto dell'aria. Ma a sostituire la Francia si affacciano nuovi soggetti: il governo del Mali uscito da uno degli innumerevoli golpe sta trattando con i mercenari russi della Wagner, braccio armato di Putin che fa contratti ovunque in Africa, per «assicurare la sicurezza». Gli Stati Uniti sono già in allarme. Riprende nel Sahelistan l'antico grande gioco. Quale le cause della sconfitta? La France afrique come l'Afghanistan americano è un desolante panorama di giunte golpiste, presidenti le cui elezioni sono contestate come frutto di brogli mostruosi, dove la elementare alternanza democratica si è trasformata in autoritarismi corrotti. Gli eserciti alleati come quello maliano sono una feccia vandalica responsabile di massacri tra le popolazioni che dovrebbero difendere. I gruppi di autodifesa a base tribale, sorti per disperazione, saldano i conti non con gli jihadisti, troppo pericolosi da ammansire, ma con le altre etnie per secolari odi tribali o religiosi. Questi son luoghi dove la violenza non prevede purtroppo tempi morti da un decennio, e implica la propria escalation. Il bilancio di dieci anni di guerra francese al terrorismo come quello americano è disastroso. Da un lato la mobilitazione massiccia di forze militari, con costi enormi: due miliardi di euro per un anno di guerra, che ha fruttato il controllo di poco più delle capitali. Dall'altro duemila cinquecento morti in Mali Burkina Faso e Niger nel solo 2020, due milioni di profughi, i gruppi jihadisti che controllano vaste aree, moltiplicano con accorta strategia le lotte tra le comunità, avanzano in direzione del golfo di Guinea, massacri che si moltiplicano e restano impuniti, in cui i civili sono uccisi più dai militari che dai jihadisti; e tragici effetti collaterali come la morte di 19 civili innocenti a Bounti in Mali per un errore dell'aviazione francese, che aumentano rabbia e umori anti occidentali. Anche questa è una tragica replica dell'Afghanistan americano».

Leggi qui tutti gli articoli di venerdì 17 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/f6pl4q92i71p09k/Articoli%20la%20Versione%20del%2017%20dicembre.pdf?dl=0

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Non perdete La Versione del Venerdì.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Share this post

Giallo Natale

alessandrobanfi.substack.com
Comments
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing