

Scopra di più da La Versione di Banfi
Giornalisti nel mirino
I Talebani arrestano e torturano reporter a Kabul. Gli estremisti No Vax preparavano attentati e violenze. Il Green pass approvato anche dalla Lega, esteso a scuola. La Croce in classe non discrimina
Il vittimismo non fa per noi ma quando l’aggressività e la violenza si rivolgono ai giornalisti c’è da preoccuparsi sul serio. Non per la categoria. Ma per tutti. Succede a Kabul dove due giornalisti hanno denunciato torture e percosse dei Talebani mostrando i loro corpi martoriati alle tv di tutto il mondo, perché avevano seguito e raccontato una manifestazione di protesta delle donne. In Italia un cronista è stato picchiato alla manifestazione contro il Green pass nelle scuole pochi giorni fa. Non si contano gli insulti e le minacce via internet: i giornalisti sono spesso “linciati” a parole su Green pass e vaccini, com’è accaduto alla collega Zita Dazzi di Repubblica. Era stata assediata con odio e furore la sede di Libero a Milano. Nell’indagine della Polizia che ha portato all’azione preventiva contro i “guerrieri” No Vax di ieri salta fuori che un obiettivo dei violenti erano “i camion delle tv”.
A proposito di Afghanistan, sono già cominciati ricordi e commemorazioni dell’11 settembre. Quest’anno fatalmente il ricordo del ventennale viene condizionato dal ritiro occidentale da Kabul. Come ha scritto Martino Diez, di Oasis sull’Osservatore Romano, riportato qui ieri: “Della guerra al terrorismo esce sconfitta la pretesa di esportare la democrazia con le armi e la presunzione di poter rigenerare interi Paesi attraverso opere di ingegneria sociale”. Molto amaro ma tutto da leggere l’articolo sul Foglio di Giuliano Ferrara, uno dei più convinti sostenitori della guerra americana al terrorismo. Interessante il pezzo di Alberto Negri del Manifesto su Usa e islamisti.
Delle nostre cronache va detto che alla fine il decreto sul Green pass è stato approvato anche dalla Lega, sebbene fossero molti gli assenti del Carroccio. Draghi prosegue nel suo intento di estendere il certificato verde, un passo alla volta, nonostante Salvini. Sulle sorti del Governo si intrecciano la campagna per le amministrative e i giochi in vista del rinnovo al Quirinale. Sarà un autunno comunque complicato. Importante sentenza della Cassazione sul Crocifisso in classe, non è discriminante secondo i giudici. Ma la sua presenza va condivisa da chi frequenta quello spazio.
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Vediamo i titoli di oggi.
LE PRIME PAGINE
La retata degli estremisti anti vaccino è in primo piano su Repubblica: No Vax, la rete violenta. Scelta condivisa da Libero: Criminali No Vax. Preparavano attentati con bombe e fucili. Sull’estensione scolastica del certificato verde va invece il Corriere della Sera: Scuola, genitori col Green pass. Per il Giornale, anche la Lega approva nel voto finale ed emergono: I paradossi del green pass. Quotidiano Nazionale si proietta sulla prossima tappa: Sì alla terza dose, parte la Lombardia. Il Mattino resta ancora sui lavoratori: Senza green pass niente stipendio. Il Messaggero pensa ai dipendenti pubblici: Green pass per scuola e Pa. La Stampa riposta le dichiarazioni del Ministro: Speranza: il Green pass sarà esteso. Salvini: Quota 100 anche nel 2022. La Verità insiste nel suo scetticismo: Giù la maschera, il vaccino non basta. Il Fatto ragiona sulle ricadute del tormento leghista: La Lega si spappola. Draghi: è un problema. Avvenire valorizza la sentenza della Cassazione sul crocifisso in classe: La Croce che unisce. Il Domani torna su Santa Maria Capua Vetere: Le indagini confermano la brutalità del pestaggio di stato in carcere. Il Manifesto polemizza sul decreto che chiude i conti Alitalia e che ha suscitato un appello degli ex dipendenti a Mattarella: Non è Ita. Il Sole 24 Ore spiega la nuova linea della Lagarde: Bce, tagliati gli acquisti anti Covid.
GENITORI COL GREEN PASS A SCUOLA, TERZA DOSE IN LOMBARDIA
Dunque alla fine la Lega ha approvato (con molte assenze in aula) il decreto sul Green pass. Anche ai genitori sarà richiesto il Green pass, quando vanno scuola. E si mette in cantiere la terza dose. Giambattista Anastasio per il Quotidiano Nazionale
«In Lombardia la somministrazione della terza dose del vaccino contro il Coronavirus inizierà «il 21 o il 22 settembre». Ad annunciarlo è stato Guido Bertolaso, consulente della Regione per la campagna vaccinale, nel tardo pomeriggio di ieri, nelle stesse ore in cui il Consiglio d'amministrazione dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) formalizzava il proprio via libera al terzo ciclo di immunizzazione. L'ulteriore dose sarà somministrata solo ai cittadini considerati fragili e fragilissimi, tutti gli altri sono esclusi in attesa delle valutazioni e del pronunciamento dell'Agenzia Europea del Farmaco (Ema). Negli ultimi giorni sia il governatore lombardo Attilio Fontana sia la sua vice con delega al Welfare, Letizia Moratti, hanno sottolineato a più riprese come la Lombardia fosse pronta ad avviare la macchina della terza dose e attendesse solo le indicazioni del ministero della Salute. Ieri ecco l'anticipazione di Bertolaso: «In Lombardia la terza dose potrà partire dal 21 o 22 di settembre. Condivideremo il calendario domani mattina (questa mattina per chi legge, ndr) con tutte le Aziende socio sanitarie territoriali e cominceremo a vaccinare per la terza volta tutte le categorie individuate dal ministero della Salute, quindi i fragili e fragilissimi, cioè: i malati oncologici, gli immunodepressi, gli affetti da malattie croniche. Si tratta di circa 1 milione di lombardi, quelli più a rischio di tutti che vanno subito rimessi sotto protezione con vaccino Pfizer o Moderna». «Dopodiché - aggiunge Bertolaso sempre dagli studi televisivi di Telelombardia - ci predisporremmo prima della fine dell'anno anche per gli anziani delle Residenze sanitarie assistenziale (Rsa), per gli over 80 e per i medici e gli infermieri particolarmente esposti a situazioni di rischio. Dall'inizio del 2022 inizieremo poi con tutte le altre persone che vorranno sottoporsi alla terza dose di vaccino». Quasi in contemporanea, come detto, la nota dell'Aifa: «Il consiglio di amministrazione dell'Agenzia italiana del farmaco, convocato in via d'urgenza, ha approvato all'unanimità l'utilizzo di una dose aggiuntiva di vaccino ad mRNA (terza dose). Il provvedimento - si precisa - riguarda soggetti con immunosoppressione grave, in accordo alla valutazione del medico curante, quali ad esempio trapiantati, oncologici, dializzati oltre che gli anziani di età uguale o superiore agli 80 anni e i ricoverati nelle Rsa». «Partiremo dai più fragili, quelli che dopo due dosi non hanno una risposta sufficiente» conferma a sua volta il ministro Roberto Speranza, che poi annuncia: «Nelle prossime ore ci sarà una circolare del capo Dipartimento della prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, che indicherà le categorie interessate». Quanto agli operatori sanitari, nella nota dell'Aifa si spiega che il richiamo «è previsto in condizioni di particolare esposizione al rischio». E si precisa, infine, che nel provvedimento «non viene inclusa la popolazione generale in attesa che EMA valuti i dati forniti dalle aziende produttrici dei suddetti vaccini. Indicazioni anche sulla tempistica della terza dose: dopo «almeno 28 giorni» dalla seconda dose per quanto riguarda i soggetti fragili e dopo «almeno 6 mesi» per le altre categorie. ».
La Stampa intervista il ministro della Salute Roberto Speranza, a Torino per il Festival Salute e fa il punto su tutto.
«Nessuna frenata sul Green Pass. Roberto Speranza ci tiene a precisarlo, dopo il rinvio dell'estensione dell'obbligo del certificato Covid per i lavoratori pubblici e privati. «La linea del governo è chiara e si andrà in quella direzione», assicura il ministro della Salute, intervistato dal direttore de La Stampa, Massimo Giannini, nell'ambito del Festival di "Salute". «Le scelte vengono fatte sul piano sanitario e nell'interesse del Paese - spiega - non seguendo le polemiche politiche». Quindi il decreto approvato ieri dal Consiglio dei ministri non è stato ridimensionato per via delle pressioni della Lega. «No, le dinamiche politiche non incidono nelle decisioni del governo, sono troppo piccole rispetto alla posta in gioco. Si lavora seguendo una linea netta, che parte dall'idea che il vaccino è un'arma fondamentale: puntiamo a rendere sicuri i luoghi di lavoro e a incentivare le vaccinazioni». Dunque arriverà un altro decreto la prossima settimana? «Sui tempi non so dirle, faremo una valutazione, anche perché bisognerà scrivere bene le norme e ci sono vari ministeri coinvolti, a partire dalla Pubblica amministrazione. Ma posso confermare che ci sarà un'ulteriore estensione dell'obbligo di Green Pass in vari settori. A cominciare da quelli in cui il certificato viene chiesto ai clienti ma non ai lavoratori, come i ristoranti e i bar: un'anomalia che sarà sanata nel più breve tempo possibile». Per l'allargamento alle aziende serve l'accordo con le parti sociali: non trova che i sindacati, in particolare, stiano facendo resistenza? «No, io ho parlato con i principali leader sindacali e ho trovato un atteggiamento costruttivo e responsabile. Sono sicuro che continuerà l'interlocuzione anche con le imprese e che ci siano le condizioni per seguire il percorso tracciato». Avanti con l'estensione del Green Pass fino ad arrivare all'obbligo di vaccinazione, se necessario? «Noi non abbiamo escluso l'obbligo, è una facoltà che la nostra Costituzione ci offre. È già previsto per tutti gli operatori sanitari e, con l'ultimo decreto, anche per i lavoratori non sanitari delle Rsa, dagli amministrativi agli addetti alle pulizie. L'ipotesi dell'obbligo è concreta e resta in campo, valuteremo in base all'andamento della campagna vaccinale e al futuro quadro epidemiologico». La campagna vaccinale è in linea con le attese? L'obiettivo dell'80% di copertura della popolazione resta valido? «La campagna sta andando secondo i piani. L'obiettivo dell'80% della popolazione vaccinabile è alla portata per fine mese. La risposta degli italiani è positiva, credo che andremo su percentuali molto robuste, del resto anche l'80% sembrava ambizioso e invece ci siamo. Abbiamo superato gli 80 milioni di dosi somministrate, un risultato incredibile. Ma dobbiamo insistere, perché ogni persona vaccinata in più è uno scudo aggiuntivo per tutti, rispetto alla stagione che ci aspetta, a partire dalla ripresa della scuola». C'è, però, una quota ostinata di resistenti, compresi illustri professori schierati contro il Green Pass. Che cosa ne pensa? «Noi abbiamo bisogno di dare un messaggio basato sull'evidenza scientifica. La verità da dire è che l'alternativa ai vaccini sono le chiusure: la coperta è stretta, o la tiriamo dalla parte dei vaccini oppure rischiamo di ritornare a misure che sono da scongiurare. Chi ha dubbi sinceri sulla vaccinazione non va insultato o trattato come un Flinstone ignorante, va ascoltato e messo di fronte ai dati univoci sulla sicurezza e l'efficacia vaccini, che arrivano da tutto il mondo». (…) Qualcuno, anche importanti scienziati, arriva a minacciare i no vax dicendo: se non ti vaccini e ti ammali, poi ti paghi le cure di tasca tua. Lei che dice? «Non sono d'accordo, penso che la cosa più bella del nostro servizio sanitario nazionale sia l'impianto universalista, cuore del lascito dei padri costituenti. Se una persona sta male, non conta quanti soldi ha, di che colore è la sua pelle, dov' è nata o se ha fatto il vaccino anti Covid: per me deve essere curato. È chiaro che chi non si vaccina fa un danno prima di tutto a se stesso e poi produce un costo per la nostra sanità, ma il principio della cura per me non può essere messo in discussione». Intanto, dall'Aifa è arrivato il via libera alla terza dose di vaccino per i soggetti più fragili e gli anziani: qual è il piano? «Avviamo un percorso per alcune categorie con particolare deficit immunitario, arriverà una specifica circolare del direttore della Prevenzione Rezza per indicare a chi sarà somministrata in via prioritaria. Per i soggetti fragili è più corretto parlare di completamento del ciclo vaccinale, piuttosto che di terza dose, visto che può anche essere ravvicinata rispetto alla seconda iniezione, mentre in generale devono essere passati almeno 6 mesi. In una seconda fase daremo priorità agli anziani nelle Rsa e agli ultraottantenni, poi il personale sanitario». Dovremo abituarci a fare tutti un vaccino anti Covid ogni anno, visto che è ormai accertato un calo delle difese immunitarie dopo alcuni mesi? «È probabile che, per un po' di tempo, siano necessari richiami periodici. È una questione da approfondire, ma non si può escludere. Del resto, il vaccino sarà sicuramente migliorato e adattato alle varianti: gli scienziati sono a lavoro, come le agenzie e le aziende farmaceutiche, per trovare contromisure ancora più efficaci contro il virus».
DRAGHI: IL SUPER GREEN PASS SI FARÀ
Avanti, un passo alla volta. La strategia di Draghi sull’estensione del Green pass non è abbandonata, nonostante la guerriglia parlamentare della Lega. Ciriaco e Lauria su Repubblica.
«In Consiglio dei Ministri non c'è traccia della guerra leghista al passaporto vaccinale. Tacciono i ministri del Carroccio, mentre i vertici dell'esecutivo spiegano che il super Green Pass si farà, e pure presto. Parla Roberto Speranza. Sottolinea l'importanza delle misure. Alza la mano Renato Brunetta: «Presidente Draghi, è fondamentale intervenire sui dipendenti pubblici. Non possiamo perdere un minuto, dobbiamo affrontare con forza questo nodo». Ha già in tasca il decreto che prevede la fine dello smart working e la carta verde per tutti gli statali. Il premier fa sì con la testa, chiude la partita: «Sì, quello di oggi è soltanto un altro passo - sottolinea di fronte alla squadra di governo - Dobbiamo scrivere bene la norma, che è delicata. Ma la direzione è chiara, segnata. E si va avanti». Gli altri passi arriveranno presto. Piccoli, come quelli di ieri. A ben guardare neanche troppo cauti. Prevedere la vaccinazione obbligatoria per tutti i lavoratori che a qualsiasi titolo mettono piede in una Rsa abbatte infatti un altro tabù: per la prima volta si estende l'obbligo al personale non sanitario. Un precedente per il futuro, un'altra scelta politica del premier. Tutto all'insegna di un metodo, che Draghi ribadisce: «Useremo gradualità - dice, secondo quanto riferiscono alcuni ministri - Procediamo un passo alla volta, per scrivere bene le regole ed evitare problemi successivi». Gli uffici di Palazzo Chigi ci lavorano da una settimana almeno, nonostante il bombardamento di Salvini. Il sottosegretario Roberto Garofoli ha la regia delle operazioni. I ministri interessati cercano sponde tra sindacati e imprese. Bisogna far digerire le nuove svolte, evitare malumori della Cgil, garantire la sicurezza dei lavoratori, assicurare diritti senza esporsi a contenziosi. Alla fine, comunque, il super Green Pass arriverà. Forse già giovedì prossimo si riunirà la cabina di regia. Tre i capitoli sui quali intervenire: il certificato vaccinale per i lavoratori dei settori (come la ristorazione) in cui la carta verde vale già per gli avventori, l'estensione per la pubblica amministrazione e quella per il settore privato. Piccoli (e grandi) passi, per Draghi, significa però anche dare tempo a Salvini per assorbire le novità, senza provocare strappi parlamentari. E senza infierire troppo a ridosso delle amministrative. Una strategia che è praticabile, almeno per il momento, grazie ai numeri dell'epidemia che non sono da emergenza. Salvini, d'altra parte, fa resistenza ma nei passaggi decisivi non affonda il colpo: alla fine, la sua pattuglia di parlamentari si è espressa in modo favorevole alla Camera sul voto finale alla conversione in legge del primo provvedimento sul Green Pass, malgrado il precedente tentativo di picconarlo assieme a Fdi. Scarse, però, le presenze: due deputati della Lega su tre non erano in aula. Fonti del Carroccio parlano di assenze fisiologiche, di parlamentari in fuga verso il week-end. Il sospetto di una diserzione mirata rimane. È certa invece la narrazione salviniana, quella di un successo complessivo da ricercare negli impegni strappati a Draghi con il sì del governo a sei ordini del giorno leghisti: ci sono i tamponi a prezzo calmierato, la possibilità di avere il Green pass solo con i test salivari, l'estensione a 12 mesi del certificato per i guariti dal Covid, il principio del riconoscimento di un indennizzo per chi ha subito danni irreparabili dal vaccino. Impegni, in realtà, che dovranno tradursi in atti concreti: per l'ultima misura, ad esempio, non c'è al momento una previsione finanziaria. Ma il leader della Lega esulta e va avanti, continuando ad alternare messaggi ostili ad atti concreti più morbidi. Alla Camera, ad esempio, il Carroccio è ora pronto a mettersi nuovamente di traverso su un altro dl, all'esame della commissione Sanità: quello che prevede restrizioni per i viaggi a lunga percorrenza e per la scuola. «Faremo battaglia sulla norma che esenta dall'obbligo di mascherina solo gli studenti vaccinati. Così si ghettizzano gli altri», dice il deputato leghista Claudio Borghi. Ma cosa accadrà quando a Palazzo Chigi si discuterà dell'estensione del Green Pass ai dipendenti della pubblica amministrazione? «Nessun pregiudizio: dipende dalla proposta e siamo in attesa di capirne i dettagli», fa sapere Salvini. Chissà se cambierà qualcosa nelle prossime settimane, quando il governo - con l'aperture delle scuole - si attende una nuova impennata dei contagi. A quel punto Palazzo Chigi dovrebbe muoversi con maggiore rapidità. E si troverebbe di nuovo fare i conti con l'alleato più bizzoso».
Per il Fatto il voto finale della Camera per il Green pass, col sì ufficiale di Salvini ma senza i voti di molti leghisti, è un campanello d’allarme per lo stesso Draghi. Wanda Marra.
«Le difficoltà sono varie e molteplici, ma la prima è politica: la Lega è in una situazione di crisi evidente anche vista da Palazzo Chigi, che rende ogni accordo fragile. Draghi c'è già passato nella trattativa sulla giustizia con i Cinque Stelle. Governare con un sistema di partiti progressivamente sempre più debole inserisce un numero di variabili impazzite difficile da gestire. E se quello sull'estensione del Green Pass è il primo problema reputato davvero tale dal premier con il Carroccio, andando avanti le cose potrebbero anche peggiorare. Se Salvini perde le Amministrative, le mosse nel centrodestra potrebbero diventare scomposte: dal tentativo di eleggere un presidente della Repubblica solo con i loro voti al quarto scrutinio, a quello di mandare Draghi al Colle per ottenere le elezioni. Il voto finale ieri del decreto sul Green pass alla Camera, d'altra parte, la dice lunga: a essere assenti erano 87 deputati del Carroccio. Il tasso di dissidenza in rende quel partito instabile. E di conseguenza è più instabile il governo. Tornando all'oggi, nel decreto approvato ieri dal Cdm, l'obbligo di esibire il pass vale per chiunque entri in una scuola, ma non riguarda gli studenti e chi è esentato dal vaccino, mentre vale per chiunque accede alle strutture appartenenti alle istituzioni universitarie e dell 'alta formazione artistica musicale e coreutica, nonché alle altre istituzioni di alta formazione collegate alle università. I controlli spettano ai dirigenti scolastici e nel caso di personale esterno alle scuole, anche ai rispettivi datori di lavoro. E poi c'è l'obbligo di vaccino per tutti i lavoratori delle Rsa: una scelta che alcuni nel governo vedono come un precedente, ma che a Palazzo Chigi considerano un percorso obbligato, mentre l'estensione tout court è considerata impossibile. Poi è saltata la norma per cui a controllare l'inosservanza dell'obbligo vaccinale da parte di medici, infermieri e altri professionisti sanitari dovevano essere i dirigenti delle Asl. Un'aporia che indebolisce la scelta».
I PIANI DEI GUERRIERI NO VAX
Retata della Polizia nel mondo dell’estremismo No Vax. Luca de Vito scrive la cronaca di Repubblica.
«In cima alla lista ci sono i giornalisti: «Saranno i primi ad andarsene». Poi i politici: da Mario Draghi a Roberto Speranza, fino a Matteo Renzi. Erano questi gli obiettivi che un gruppo di No Vax si dichiarava pronto a colpire, organizzando azioni violente «per farli fuori». Otto persone tra i 33 e i 53 anni, di cui cinque uomini e tre donne, sono state indagate dalla procura di Milano: sulla chat Telegram "i Guerrieri" (di cui facevano parte circa 200 utenti, a invito) incitavano ad azioni violente in vista delle manifestazioni No Green Pass a Roma di domani e domenica. Ieri gli agenti della Digos e della Postale - coordinati dal capo del pool Antiterrorismo milanese Alberto Nobili e dal pm Piero Basilone - sono entrati nelle loro case con un decreto di perquisizione: nell'abitazione di uno di loro, in provincia di Bergamo, sono stati trovati e sequestrati due fucili e una pistola (regolarmente detenuti con un porto d'armi), a Reggio Emilia invece hanno trovato una spada katana, spray al peperoncino, manganelli telescopici. In una casa nel Milanese due tirapugni. Sono stati poi sequestrati pc, tablet, cellulari e account social. A poco è servito il goffo tentativo di cancellare gli elementi di prova, poco prima delle perquisizioni infatti uno degli amministratori ha chiuso il gruppo: quando gli agenti hanno bussato alle porte, avevano già analizzato e archiviato tutto il materiale. Imbevuti di livore, ideologia No Vax e teorie cospirazioniste, nella chat si lasciavano andare, incitando a produrre ordigni artigianali con l'intento di colpire la categoria accusata di veicolare «una realtà inesistente come la pandemia»: «Se in lontananza, nascosti, vedete i furgoni delle tv private o pubbliche, dategli fuoco.... una molotov... dategli fuoco. Ok ragazzi non voglio vedere giornalisti.... - avete capito anche il perché non li voglio vedere? Eh?... Perché... quanta gente hanno fatto fuori... quanta gente ragazzi. Quanti dei nostri vecchi hanno fatto fuori». E poi ancora, contro i politici: «Radere al suolo il Parlamento con tutti loro dentro basta un piccolo drone... pilotato a distanza da uno dei tetti di Roma... un 500 grammi di tritolo e lo lasci cadere durante la seduta... non resterà nessuna prova e farà il suo effetto». Un particolare inquietante, che ha spinto gli investigatori ad agire, è stato il fatto che alcuni stessero per organizzare una riunione preparatoria in vista delle manifestazioni del weekend a Roma, con il chiaro intento di procurarsi armi bianche da utilizzare. Una di loro invece aveva incitato a lanciare uova, verdura marcia e letame contro il ministro della Salute Roberto Speranza, atteso il 2 settembre a Padova per la festa di Articolo 1 "Pane e Rose". Visita che è poi stata annullata, ufficialmente, per altri impegni istituzionali. E ieri il ministro, al festival di "Salute", ha detto: «Chi ha dubbi va ascoltato, ma chi manifesta con comportamenti violenti è da condannare e lì c'è bisogno del pugno duro». L'operazione di ieri è partita dal monitoraggio della Postale della galassia negazionista e No Vax sui social network. Agli investigatori è saltato all'occhio come questo gruppo volesse fare un salto in avanti, alzare il tiro: «Non dobbiamo solo scrivere, dobbiamo fare», «ci dobbiamo contare e andare su Roma». Pronti ad azioni violente «per cambiare - ritengono i magistrati - la politica del governo in tema di campagna vaccinale ». Ma sono stati fermati prima. Nelle chat venivano pubblicizzate tesi negazioniste, si annunciava la «creazione di campi di concentramento dove finiranno tutti i non vaccinati» e si dava per scontato che ai politici e ai vip venisse «inoculata soluzione fisiologica al posto del vaccino» mentre «il popolo bue si fa mettere veleno ». Nella chat dei "Guerrieri" avevano anche fatto girare un indirizzo di casa del presidente del Consiglio, Mario Draghi (peraltro già uscito in alcune manifestazioni di protesta) con l'obbiettivo di farlo verificare dai No Vax romani. Nessuno degli otto indagati ha precedenti, mai nemmeno un'identificazione in un corteo No Vax. Non son stati individuati collegamenti diretti con partiti o movimenti politici, tranne nel caso di una No Vax veneziana, già ritenuta vicina al movimento dei Serenissimi, gruppo indipendentista veneto. Cittadini comuni, con lavori comuni, che con «ferocia verbale» si stavano organizzando per «colpire con azioni violente».
Alessandro Sallusti su Libero non lascia cadere l’occasione di tornare su una polemica durissima, in cui è finito in prima linea.
«Qualcuno ha sostenuto che non era il caso di preoccuparsi per "quattro gatti" no vax che vanno in giro a picchiare giornalisti, a minacciare di morte virologi e politici e ad assediare le redazioni di giornali tipo il nostro. Bene, oggi si scopre che questi criminali non erano solo quattro e neppure gatti bensì iene che si stavano preparando a un salto di qualità, attentati veri e propri con bombe e armi. Nonostante ciò continuano a non farci paura, nel senso che restiamo convinti della necessità di vaccinarsi: chi per libera scelta non lo fa deve assumersi l'onere di vedere limitati alcuni diritti non per punizioni ma per il bene economico e la sicurezza sanitaria del Paese. E allora si torna al punto più delicato di questa brutta faccenda. Se illustri filosofi, famosi giornalisti e parlamentari sia pure di quarta fila sostengono quotidianamente che il governo sta abolendo la libertà e portando il Paese verso una dittatura; se si dà credito, mettendole sullo stesso piano della scienza ufficiale, alle teorie complottistiche in base alle quali il virus prima e il vaccino poi sarebbero più o meno frutto della mente diabolica e avida delle multinazionali del farmaco ecco che allora si giustifica il fatto che qualcuno pensi di passare alle armi per difendere la democrazia in pericolo. Anche io farei resistenza se solo una di queste tesi avesse un minimo di fondamento. In realtà in pericolo c'è soltanto la vita dei non vaccinati - solo ieri ne sono morti altri cinquanta- che non essendo pochi a loro volta mettono in pericolo il percorso virtuoso che ha portato alla riapertura delle attività commerciali e produttive. Solo pochi giorni fa abbiamo parlato dei "cattivi maestri" che, la storia insegna, spesso sono l'innesco autorevole di qualsiasi pulsione estremistica, addirittura terroristica. E oggi lo sono più che mai data la velocità e la molteplicità di canali di informazione di fatto fuori controllo. Brava la polizia a sventare in tempo un pericolo grave e reale. Ma non lasciamola sola in questo lavoro di contrasto. È tempo che ognuno faccia la sua parte».
Massimo Gramellini dedica il suo Caffè sulla prima pagina del Corriere della Sera a Francesca Donato, già paladina anti euro e oggi ospite fissa nei talk show come No Vax.
«Anche se in tv nessuno ha il coraggio di spiegarlo a Cacciari, il vaccino non impedisce di morire, ma riduce di molto le probabilità che ciò accada. Un giubbotto antiproiettile non ti protegge da una mitragliata in fronte, ma chi lo indossa nelle zone di guerra ha più chance di portare a casa la pelle rispetto a uno che va in giro in canottiera. Non sembrerebbe difficile da capire. Ma dopo che la tele-bana leghista Francesca Donato, contesa dai talk per il ruolo di antagonista cattiva, ha definito «una barzelletta» le affermazioni pro-vax della figlia di un medico morto di Covid nonostante il vaccino, può essere utile tenere il punto, prendendo a prestito la sua stessa tecnica di comunicazione ossessiva. Il vaccino non elimina i rischi ma li riduce. Il vaccino non elimina i rischi ma li riduce. Il vaccino riduce i rischi ma non li elimina, e non elimina neppure la necessità di indossare la mascherina per non contagiare gli altri (questa era per Salvini). Il vaccino non elimina i rischi ma li riduce. Di molto. Ed è capzioso sventolare uno dei rari casi in cui non li ha eliminati per concludere che non serve a niente. Francesca Donato se ne sarà fatta una ragione? Nel dubbio, abbondiamo: il vaccino non elimina i rischi (soprattutto per chi già soffre di altre patologie) ma li riduce. E al momento non presenta seri effetti collaterali, se si eccettua l'indurirsi del cuore di chi, per amor di polemica, non si vergogna di irridere una figlia che ha appena visto suo padre morire».
AFGHANISTAN, CACCIA AI GIORNALISTI
Lorenzo Cremonesi per il Corriere racconta di avere incontrato i giornalisti afghani, arrestati e torturati a Kabul, per aver seguito una manifestazione di protesta.
«I loro corpi parlano da soli delle violenze subite. Spalle, schiena, braccia, glutei, fianchi, retro delle cosce, polpacci sono coperti di ecchimosi ed ematomi. Hanno i volti gonfi. Taki Daryabi, che ha 22 anni, mostra anche larghe lacerazioni sotto il mento. È stato colpito agli zigomi, pochi millimetri dagli occhi. Il suo collega Nematullah Naqdi, 28 anni, ha un'ampia garza incerottata sulla guancia destra. Picchiati a sangue, frustati, colpiti con i fucili, presi a calci per una decina di minuti da una quindicina di talebani infuriati. Non per la strada, ma nel chiuso di una stazione di polizia, dove poi sono rimasti prigionieri per quattro ore, prima di poter tornare al loro giornale e da lì medicati quindi in ospedale. Li incontriamo negli uffici di Etilaat Roz (Informazioni Quotidiane), il giornale per cui lavorano: Taki come fotografo, Nematullah da reporter. Ancora si muovono a fatica, per fare le scale devono essere aiutati. «Se non fosse per gli antidolorifici dovremmo rimanere stesi a letto», ammettono. Sono anche frastornati dall'improvvisa pubblicità. Noi giornalisti stranieri siamo venuti numerosi per intervistarli. E loro si tolgono i vestiti quasi in automatico per mostrare i segni delle botte. Incarnano con le loro ferite la smentita più clamorosa delle promesse talebane sulla «futura libertà di stampa» nell'Emirato dei mullah. «È avvenuto ieri mattina (due giorni fa per chi legge ndr), dai social avevamo saputo che ci sarebbe stata una nuova manifestazione di donne nel Distretto numero tre della capitale. Siamo arrivati presto, abbiamo incontrato una trentina di loro che stavano preparando cartelli e volantini. Quando hanno iniziato a sfilare sono arrivati i talebani armati. Mi hanno catturato una prima volta. Sono riuscito a divincolarmi. Le donne si sono messe attorno per proteggermi. E questo perché i talebani picchiano e persino minacciano di uccidere gli uomini che li contestano. Con le donne sono relativamente più leggeri. Poi però mi hanno preso una seconda volta e non c'è stato scampo», spiega Taki. Lo trascinano nella vicina stazione di polizia. S' illude che si limiteranno a registrare le sue credenziali. Ma subito lo chiudono in una piccola stanza per imbottirlo di botte. «Sono svenuto una prima volta. Mi hanno buttato in faccia un secchio d'acqua e hanno ripreso. Ho perso di nuovo i sensi. Uno di loro mi aveva legato mani e piedi, premeva la suola di una scarpa sul collo mentre gli altri bastonavano. Poi ho visto che picchiavano anche Nematullah», continua. Il direttore del giornale, Zaki Daryabi, 33 anni, sottolinea che almeno 5 dei suoi 45 giornalisti sono stati arrestati negli ultimi giorni. «Per noi è l'eclissi dell'era della libertà di stampa in cui siamo cresciuti negli ultimi vent' anni. Siamo tutti minacciati, non ci resta che denunciare pubblicamente gli abusi nella speranza che la comunità internazionale possa aiutarci», spiega. Ma è ben consapevole del fatto che le pressioni delle democrazie possono ben poco contro la brutalità dei nuovi padroni dell'Afghanistan. «Temo che dei nostri e vostri appelli a loro importi molto poco. Sono un regime allo stesso tempo teologico e politico. I loro poliziotti e militari si presentano come custodi della vera fede. Criticarli è come criticare Allah», dice sconsolato. Nei locali di Tolo Tv, la più importante televisione nazionale nota per i reportage graffianti e il coraggio nel denunciare scandali e corruzione, impera già un nuovo clima di remissiva sottomissione. Una volta le porte erano aperte ad ogni ora del giorno. Ieri abbiamo dovuto attendere a lungo davanti al cancello, quindi siamo arrivati alla redazione grazie a vecchie conoscenze. Tutte le sedi regionali sono chiuse. Almeno una decina dei reporter più coraggiosi sono scappati all'estero. Tanti altri non vengono a lavorare. «Abbiamo dovuto assumere una decina di giornalisti, ma sono tutti giovani senza esperienza. Inevitabilmente i programmi ne soffrono», ammette Ismatullah Niazi, uno dei nuovi dirigenti che non nasconde l'imbarazzo. Le reporter donne sono quasi sparite. I notiziari spesso si limitano a leggere i comunicati dei capi talebani. «Mandiamo meno troupe a lavorare sul campo. La pubblicità è caduta ai minimi storici, mancano i fondi per viaggiare. Non è neppure chiaro che regole sulla stampa imporranno i talebani. Non ci resta che sperare e attendere», ci dice ancora. Un loro fotografo, Wahid Ahmadi, non si tira indietro però nel condannare i talebani. «Tre giorni fa mi hanno arrestato per sei ore. Un talebano mi ha detto: "Noi abbiamo sofferto vent' anni per combattere la jihad. Ora tocca a voi soffrire e se fosse necessario saremmo anche pronti a uccidere tutti i giornalisti". Con me era stato arrestato anche un giornalista norvegese. Ho sentito due talebani dire che volevano ucciderlo perché infedele».
Un rastrellamento casa per casa. Quando i riflettori dell’informazione si spengeranno su Kabul, i Talebani avranno infatti mano libera. Mattia Sorbi per Repubblica.
«La situazione dell'informazione in Afghanistan è drammatica. I talebani stanno rastrellando i giornalisti locali casa per casa. Alcuni sono stati picchiati. Solo nelle ultime tre settimane, sono stati chiusi oltre cento canali radio televisivi. Secondo il rapporto dell'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo (Easo), i servizi segreti dispongono di una lista nera su cui sono segnate tutte le persone sospettate di aver collaborato con l'amministrazione precedente. Conterrebbe un numero molto elevato di individui presi di mira dalla polizia politica: per intercettarle, i talebani contatterebbero le moschee e la polizia locale per ottenere informazioni. I pochi media rimasti attivi non hanno alcuna libertà. Il rapporto spiega poi come «nel luglio 2021 i talebani avrebbero rassicurato Pechino sul fatto che avrebbero ignorato la soppressione degli Uiguri in cambio del riconoscimento cinese della loro autorità». Prosegue anche la cancellazione dei diritti delle donne, tanto che proprio nella giornata di ieri i talebani hanno fatto incursione in alcune scuole elementari della capitale per terrorizzare le bambine che non indossavano il burqa. Siamo al punto che Anthony Lloyd del Times di Londra ha scoperto una famiglia che per sopravvivere alla crisi economica innescata dalla presa del potere da parte degli studenti coranici ha venduto la figlia in un mercato di Kabul. Per non far circolare le notizie, ieri, per buona parte della giornata è stata interrotta la comunicazione internet. Oscurata così anche la manifestazione di dissenso, davanti all'ambasciata pakistana, subito dispersa a colpi di kalashnikov in aria. Lo stesso ad Herat. Amnesty International ha lanciato un appello alle Nazioni Unite perché istituiscano un'inchiesta per fare luce sulla violazione dei diritti umani, auspicando che la questione diventi prioritaria alla prossima sessione del Consiglio dei diritti umani Onu. Intanto in vista dell'11 settembre il portavoce dei talebani, Zabihullah Muiahid, ha negato la partecipazione di Bin Laden all'attacco alle Torri: «Affermare il contrario è stata solo una scusa per invadere l'Afghanistan».
L’11 SETTEMBRE, 20 ANNI DOPO
Valanga di articoli e speciali sull’11 settembre. Domani sono 20 anni esatti dall’attacco a New York e il ritiro da Kabul ha riaperto molte ferite. L’amaro commento di Giuliano Ferrara oggi sul Foglio
«Questi vent' anni dall'11 settembre sono tra i peggiori vissuti dall'occidente, un viatico disperante al XXI secolo. Il Novecento fu tremendo, ma procedette infine e si concluse con la liberazione dai totalitarismi tutti in una gigantesca ondata di speranza. Ora il panorama è livido. Le bande jihadiste passano da Guantánamo al governo di Kabul dopo un'epopea vittoriosa, nel disdoro senza onore dei vinti. Le donne sono escluse dallo sport e segregate nell'istruzione, sepolte nella sharia. Se manifestano, sono frustate da teologi barbuti. I giornalisti d'opposizione battuti e torturati. Centoventimila persone in fretta e furia sono state sottratte alla vendetta dei virtuisti coranici, ma ce ne sono molte di più destinate a subirla. La ripresa del terrorismo internazionale è nell'incubatrice, dopo lo spettacolo di apertura all'aeroporto della capitale afghana. Negoziare con la barbarie è la nuova necessità per chi le ha aperto le porte abbandonando il campo e una generazione di amici. La Cina in questi vent' anni ha fatto passi da gigante sulla strada del comunismo capitalista autoritario ed espansionista. A Hong Kong vanno in pezzi anche le reliquie di una lunga storia di democrazia postcoloniale, un paese due sistemi. Taiwan, e sono quasi cento milioni di abitanti, è sotto pressante minaccia. L'afri - ca è largamente penetrata e irretita in un circuito cinese. L'intero arco del Medio oriente allargato è in sfacelo, restano in piedi Israele e i suoi nemici giurati nucleari, oltre che le rovine della Siria, del Libano dei curdi mollati dopo la effimera campagna contro lo Stato islamico. Nel Mediterraneo fu breve e stolta guerra, quella sì, niente illusione di nation building, ora la Libia è mezza occupata da turchi e russi che si dividono le alleanze tribali del dopo Gheddafi. L'Iran prenucleare alimenta le divisioni dell'occidente e intimidisce con il suo modello di Repubblica islamica matrice di terrore. Sauditi ed Emirati sono quello che sono sempre stati, alleati opportunisti di necessità e d'affari che covano in seno la serpe wahabita. La Nato è diventata un'organizzazione buona per il coordinamento umanitario della fuga, e la Francia dichiara l'encefalogramma piatto di un pilastro dell'occidente alla mercé delle ambizioni di Erdogan e delle manipolazioni russe, tra veleni e ideologie neoautoritarie. La Crimea è di Putin. L'Ucraina geme divisa e contesa, sbeffeggiata dal capo dei nuovi oligarchi e virtualmente abbandonata a sé stessa. Un pezzo d'Europa è nelle mani di ideologie e pratiche dette democrature o democrazie illiberali. L'ubriacatura populista e il suo miglior amico, il mondo politicamente corretto, hanno fatto dell'America una esausta vittima illustre, passata da un demente golpista a un bravo tipo che si specializza nella rinuncia e nel piede di casa, con una torsione di sistema che ha annullato le grandi tradizioni dei repubblicani alla Reagan e dei democratici alla Truman, pezzi di una storia mai così lontana, dileguatasi negli ultimi due decenni. Dopo il più grande attentato della storia dell'umanità, dopo la sfida orante e crudele contro il cuore dell'occidente e del suo modo di vita, al posto della rabbia e dell'orgoglio, al posto della costruzione di un nuovo ordine imperiale e di un primato democratico fondato su tecnologia, armi e denaro, abbiamo scelto di avvilupparci in cumuli di retorica imbelle sui diritti umani, litigando su qualche decina di migliaia di straccioni in viaggio verso il miraggio e facendo funerali ideali ai morti in mare. Pare che la democrazia non si possa esportare, ma tutto il resto è aperto all'importazione. Intanto smantelliamo le statue di Colombo e facciamo editing grottesco alla cultura di secoli, in nome del senso di colpa dell'occidente, e celebriamo, è la parola giusta, il processo agli assassini di Parigi e del Bataclan, aspettando il momento in cui avremo vergogna anche dello stato di diritto, eredità della filosofia bianca dei Lumi. Questo è lo stato delle cose nel mondo libero prosciugato dalla sua abbondanza. Chi vede altro, lo mostri».
Alberto Negri sul Manifesto si occupa dell’11 settembre prima dell’11 settembre. Cioè delle frequentazioni pericolose degli Stati Uniti con gli islamisti.
«In un articolo apparso su Limes nel marzo 1994 scrivevo di Osama Bin Laden, del ruolo della Cia e dei collegamenti con i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Bosnia. E del primo attentato alle Torri Gemelle del '93: era l'11 settembre prima dell'11 settembre. Oggi si cercano di vendere come novità cose di 30 anni fa. Ecco perché, vent' anni dopo l'11 settembre 2001, gli americani hanno riconsegnato l'Afghanistan ai talebani: era un copione in parte già scritto perché sono decenni che gli americani, con alterne fortune, «giocano» con integralisti e terroristi. Agli inizi del '94 non era passato molto tempo da quando democratici e repubblicani erano uniti al Congresso in un coro appassionato per appoggiare la «giusta guerra» dei mujaheddin afghani contro il regime di Najibullah e i suoi alleati sovietici. Soltanto due anni, poi, erano trascorsi dalla caduta di Kabul, nell'aprile '92, e dalla vittoria contro i comunisti. Un'altra guerra in quel momento insanguinava l'Afghanistan: il primo ministro fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar, in alleanza con un ex comunista, il generale uzbeko Dostum, stava mettendo alle corde il presidente Rabbani mentre le ambasciate a Kabul erano state chiuse, le organizzazioni umanitarie avevano sbarrato le loro sedi una nuova ondata di profughi si rovesciava in Pakistan. Quel 1994 afghano somigliava un pò al 2021. L'Afghanistan era dilaniato da feroci divisioni etniche e settarie ma a Washington l'«operazione Kabul» contro l'Urss veniva comunque classificata come uno dei più clamorosi successi degli Usa. In stretta partnership con il Pakistan e gli arabi del Golfo, l'America aveva riversato la maggior parte dei suoi aiuti all'integralista Hekmatyar, alleato dei leader musulmani più radicali, che aiutavano il terrorismo islamico in Asia e in Medio Oriente. I più estremisti continuavano a ricevere sostanziosi aiuti dall'Arabia Saudita che, in feroce concorrenza con l'Iran degli ayatollah, tentava di mettere il proprio «sigillo» finanziario e ideologico sui movimenti integralisti. Con risultati discutibili, considerando che la «pista afghana» era tra le matrici del terrorismo e della guerriglia islamica dall'Alto Nilo fino alle montagne dell'Atlante. Nel '93 la Cia fu costretta a stanziare 65 milioni di dollari per riacquistare sul mercato nero centinaia di missili Stinger americani non utilizzati dai mujaheddin durante la guerra contro il regime di Kabul. «Gli americani - mi disse allora lo storico Olivier Roy, consigliere di Parigi ai tempi del conflitto afghano - stanno girando il mondo con valigie gonfie di dollari per comprare il silenzio dei loro ex alleati: perché gli Stati Uniti hanno molte cose da nascondere e gli islamici hanno dei dossier su di loro». Agli inizi degli anni Ottanta combattevano in Afghanistan tra i 3 mila e i 3.500 arabi: alla fine del decennio soltanto tra i battaglioni di Hekmatyar ne erano stati arruolati 16 mila. Gli Stati Uniti credevano allora di manipolare gli islamici per mettere alle corde Mosca. Gli Usa inoltre aveva delineato un altro obiettivo. Washington infatti si proponeva di incoraggiare un fondamentalismo sunnita di stampo conservatore, alleato dell'Occidente, da opporre all'integralismo sciita degli ayatollah iraniani. Questa visione «strategica» era condivisa dai sauditi che per anni avevano foraggiato tutti i movimenti integralisti. Gli americani durante gli anni Ottanta si servirono di una serie di «stelle» della galassia integralista, tra questi lo sceicco egiziano Omar Abdul Rahman. I rapporti tra gli Usa e lo sceicco presentavano molti lati oscuri. Il 26 febbraio 1993 un furgone-bomba esplose nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center a Manhattan con l'intenzione di causare una strage con l'implosione delle Torri Gemelle. Le strutture portanti del grattacielo tennero e non crollò, ma rimasero uccise 6 persone e ci furono mille feriti. Secondo una versione della storia, Rahman - arrestato come ispiratore dell'attentato alle torri del World Trade Center - sarebbe stato presentato alla Cia da Hekmatyar in Pakistan, nell'88. Questo dava credito alla tesi secondo cui era stato un agente dell'ambasciata Usa di Khartoum a rilasciargli il visto per gli Usa. L'attentato alle Torri Gemelle di New York del '93 dimostrava già allora quanto fosse pesante l'eredità della strategia americana in Afghanistan. Gran parte dei protagonisti dell'«affaire» erano infatti ex combattenti della guerra santa contro Mosca. Tariq el-Hassan, un sudanese arrestato nel 93 che progettava di far saltare il tunnel dell'Onu e la sede dell'Fbi, per diversi anni aveva gestito in Usa un centro di transito dei volontari per l'Afghanistan. Tutto con il consenso della Cia. Dalle file dei combattenti dello sceicco Omar Abdul Rahman, accompagnato dal suo luogotenente palestinese Abdullah Azam, mentore di Osama bin Laden, uscivano i guerriglieri che si infiltrarono poi a migliaia in Algeria, nella valle dell'Alto Nilo, in Egitto, Yemen, Sudan, e i nuclei dei terroristi islamici. «Quando sarà riscritta la storia della resistenza afghana - affermava sull'Independent del 6 dicembre '93 Robert Fisk introducendo un'intervista a Bin Laden, fondatore di Al Qaeda - bisognerà assegnare un ruolo di primo piano a questo uomo d'affari, sia per il suo contributo alla guerriglia che per la parte avuta nelle recenti vicende del fondamentalismo islamico». Robert, come spesso accadeva, ci aveva visto lungo.».
ROMANZO QUIRINALE
Comincia a diventare un capitolo fisso dei giornali quello sull’elezione del Capo dello Stato. Due fatti nell’articolo odierno di Maria Teresa Meli per il Corriere: Mattarella ha programmato una visita di congedo a Papa Francesco per la fine del suo settennato. Il guru del pd Bettini, che alla festa del Fatto aveva proposto di eleggere Draghi al Colle, corregge il tiro e si allinea con il segretario Letta.
«Mentre viene resa pubblica la visita «di congedo» di Sergio Mattarella a Papa Francesco, il leader del Pd Enrico Letta lancia una «moratoria sul Quirinale». Il segretario del Partito democratico chiede a «tutti i leader politici» di parlare dell'elezione del presidente della Repubblica «l'anno prossimo, da gennaio, perché se iniziamo a fare giochi politici ora per quattro mesi». È un appello a tutte le forze politiche, ma in realtà Letta si rivolge soprattutto ai suoi. Un po' come dire «Non aprite quella porta», dato che la partita del Quirinale per il Pd può trasformarsi in un film dell'orrore. Già perché il Partito democratico ha, almeno per ora, un'unica opzione: la rielezione di Sergio Mattarella. Lo ha quasi confessato il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, quando candidamente qualche giorno fa ha ammesso: «Ci vorrebbe un bis di Mattarella». Al Nazareno al momento non c'è un piano B, perché qualsiasi alternativa, come confida un dirigente di primo piano del Pd, «passa per un accordo con la Lega di Salvini, Matteo Renzi e Forza Italia, visto che non si può giocare di sponda con i 5 Stelle, che non appaiono del tutto affidabili». Ed è proprio quello che Letta non vuole assolutamente: dover siglare un patto sul Quirinale con quel Salvini con cui litiga quasi ogni giorno. Ma Mattarella finora ha escluso un suo bis. E ieri la notizia che il capo dello Stato il 16 dicembre vedrà Papa Francesco per una visita di congedo sembra un'ulteriore conferma dell'indisponibilità dell'inquilino del Colle alla rielezione. Tanto che, nella stessa chiave, si possono leggere le future visite di Mattarella in Spagna e Germania. I giochi quindi si fanno complessi per il Pd, che non ha un suo candidato al Quirinale. O, meglio, che ne ha troppi, ma nessuno che sia sceso in campo ufficialmente. Tanto per fare due nomi: il commissario Ue Paolo Gentiloni e il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Letta, che ha deciso di candidarsi in Parlamento, anche per seguire da vicino la «pratica Quirinale», ha invitato i suoi a mettere la sordina al dibattito. E che siano i dem i destinatari del suo appello sembra averlo capito anche Salvini, che ieri ha replicato così al segretario del Pd: «È lui che continua a parlarne, fa tutto lui, probabilmente è la cannabis». Comunque l'appello di Letta è stato colto da Goffredo Bettini, che giorni fa aveva suscitato un vespaio dentro il partito dichiarandosi favorevole all'ipotesi Draghi presidente della Repubblica. L'esponente dem, infatti, ritiene che questa sia una possibilità più che concreta e che il Pd non dovrebbe accodarsi a Salvini, «bensì anticiparlo sostenendo Draghi prima del leader della Lega». Ma capendo le preoccupazioni del segretario, Bettini ieri si è riallineato: «L'appello di Letta è di grande saggezza. Mi atterrò alle sue indicazioni. Il tema da me sollevato nei giorni passati non rappresentava nelle mie intenzioni un'intromissione circa i possibili nomi per il Quirinale che dipendono innanzitutto dalla volontà dell'attuale presidente Mattarella». Un'affermazione quest'ultima da cui traspare la speranza dem di una rielezione di Mattarella. Ma se il capo dello Stato non concederà il bis il Pd sarà costretto a un accordo con la Lega, perché i dirigenti dem non possono permettersi di ripetere l'errore di Pier Luigi Bersani con i 101, rifiutando un patto con tutte le forze della maggioranza».
Retroscena interessante anche quello della coppia Iasevoli e Picariello per Avvenire.
«Il selfie di Cernobbio - Matteo Salvini e Giorgia Meloni ritratti insieme entusiasti e sorridenti con lo sfondo del lago - rimescola le carte di uno dei semestri più ingarbugliati della storia repubblicana. Ma il Vietnam scatenato dalla Lega sul Green pass, più che un segnale a Mario Draghi - che ottiene alla fine l'ennesima tregua dal leader della Lega sembra diretto agli alleati-avversari Pd e M5s. Un avvertimento a non pensare, con la 'scusa' del Covid, di 'ingessare' l'attuale binomio al vertice delle massime istituzioni, inseguendo la prospettiva di un bis di Sergio Mattarella al Colle. Uno scenario prospettato da più parti, anche se ad escluderlo in tutti i modi e con tutti gli argomenti è stato più volte l'attuale inquilino del Quirinale. E come non leggere in questo modo anche la notizia, circolata con largo anticipo, dell'«udienza di congedo» in programma il 16 dicembre con papa Francesco «in vista della conclusione del suo settennato al Quirinale»? Ma i segnali di indisponibilità di Mattarella al bis, evidentemente, non hanno tranquillizzato il capo della Lega. Che per scongiurare completamente l'ipotesi ha scelto la via più drastica: vivere i prossimi mesi a braccetto con Meloni. Di modo da creare uno scenario che lo stesso capo dello Stato fermerebbe sul nascere, anzi non farebbe nemmeno nascere: ovvero quello in cui a spingere per un suo 'bis' sarebbe un pezzo dell'attuale maggioranza (Pd-5s) contro un altro pezzo (Lega) e contro l'attuale opposizione (Fdi). Una forzatura cui Mattarella non potrebbe mai prestarsi. In un Parlamento che già vive con la spada di Damocle della riduzione di deputati e senatori - votata dagli elettori quasi 'sfiduciando' l'attuale classe politica - e su cui grava l'accusa-sospetto di voler 'campicchiare' sino allo scatto della pensione dopo 4 anni, 6 mesi e 1 giorno, il Mattarella-bis 'di parte' potrebbe diventare oggetto di una campagna durissima delle destre del Paese ed essere un tema preponderante della lunga e sfibrante campagna elettorale verso il voto del 2023. Sono scenari estremamente divisivi che negli ultimi giorni devono essersi appalesati con una certa chiarezza anche a Enrico Letta e Giuseppe Conte, che non fanno più riferimenti al 'bis' di Mattarella, sono meno drastici nel dire che Draghi deve per forza restare a Palazzo Chigi e in sostanza - parole del segretario dem - chiedono una «moratoria» sul tema del Colle sino a metà gennaio 2022, quando i grandi elettori si raduneranno. D'altra parte, solo se riuscirà a calare un rispettoso silenzio intorno agli ultimi mesi del settennato di Mattarella si riuscirà a tenere aperta una porticina d'emergenza in caso d'impasse politico e istituzionale in Parlamento. Il 'bis', infatti, lungi dal poter essere un punto di partenza della partita per il Colle, può restare come mossa della disperazione chiesta da tutti i partiti, o almeno dalla stessa maggioranza che ora sostiene Draghi. Certamente non potrebbe restare fuori la Lega, il partito più votato nell'area locomotiva dell'Italia, e che fra l'altro guida ora la presidenza delle Regioni, le quali saranno parte integrante, con circa 60 rappresentanti, del plenum che si radunerà a Roma per eleggere il nuovo capo dello Stato. E in una situazione di estrema emergenza istituzionale, l'ala della Lega che fa riferimento a Giorgetti e ai governatori non farebbero fatica a esercitare una moral suasion su Salvini in nome della stabilità che il Paese richiede. Paradossalmente dalle schermaglie parlamentari di questa settimana il rapporto fra la Lega e Draghi non esce indebolito. Il premier è «quasi indispensabile», secondo la definizione usata a Rimini da Giancarlo Giorgetti. A cosa? Lo ha spiegato Paolo Gentiloni, sempre al Meeting: i miliardi in arrivo da Bruxelles si giustificheranno da ora in poi con le riforma fatte, non più solo annunciate. Pd-5s stavano costruendo uno schema per cui la necessaria continuità di Draghi a Palazzo Chigi passa per la riconferma di Mattarella. Salvini vuole spezzare questa 'corrente di pensiero' e la «moratoria» di Letta in qualche modo è una risposta al capo leghista: l'obiettivo di un ritrovato 'silenzio' potrebbe essere proprio quello di sgombrare il campo dall'idea che sostenere Draghi avrebbe come corollario altrettanto «indispensabile» la riconferma di Mattarella. In tutto questo nulla si sa, e nulla resta annotato sui taccuini (nemmeno il movimento di un sopracciglio) sull'idea che Mario Draghi coltiva sul suo futuro. Si può solo registrare un ruolo particolarmente attivo che ha sviluppato sullo scenario internazionale - ora in preparazione del G20, ma soprattutto assumendo un ruolo guida nelle riunioni del Consiglio Europeo cui ha partecipato - e chi lo vede, piuttosto, proiettato su una prospettiva di vertice in Europa (la Commissione Europea, sia detto per la cronaca, scade nel 2024) ha le sue buone ragioni per sostenerlo. In questo scenario, sulla tenuta della legislatura pesa moltissimo anche l'incognita del partito di maggioranza relativa, il M5s, diviso fra chi, come il leader Giuseppe Conte, potrebbe essere tentato dalla voglia di ricercare presto una legittimazione elettorale, e i singoli parlamentari che fretta di votare ne mostrano poca. Di certo un trasloco al Colle dell'attuale premier incontrerebbe un poderoso ostacolo proprio nell'accostamento che viene sempre fatto, per quest' ipotesi, all'idea del voto anticipato. E di sicuro, nel segreto dell'urna, l'idea di accelerare, votando Draghi, la fine della legislatura potrebbe essere un potente freno ad assecondare questa prospettiva».
IL CROCIFISSO NELLE SCUOLE NON DISCRIMINA
Piace in gran parte ad Avvenire la sentenza della Cassazione: il crocifisso, hanno detto in sostanza i giudici, non discrimina ma dev’essere un simbolo condiviso da tutti. Meriti e criticità della decisione nel commento nell’editoriale di Giuseppe Anzani.
«L'orizzonte si apre a temi più grandi, irrompono parole come libertà religiosa, laicità dello Stato, cultura e tradizione e comune sentire e individuale dissentire; e infine sullo sfondo, volere o no, resta quel mistero immenso che due millenni fa ha spaccato in due la storia del mondo. E dire che l'origine del caso è un episodio in apparenza banale: l'assemblea di classe degli studenti delibera l'esposizione del crocifisso nell'aula, un docente non lo vuole e lo stacca fisicamente durante le sue ore di lezione; riceve una sanzione disciplinare, la impugna. La causa percorre tutti i gradi e approda alle Sezioni unite, che decidono sostanzialmente così: l'aula può accogliere il crocifisso, quando la comunità scolastica decide in autonomia di esporlo; ciò non comporta discriminazione; il docente dissenziente non ha nessun potere di veto; deve tuttavia cercarsi una soluzione che rispetti la sua «libertà negativa di religione». Come a dire, in sottinteso, da ultimo: usate il buon senso. L'avversione al crocifisso scoppia episodicamente per iniziativa solitaria di individui dei quali è difficile capire se soffrano di allergia al senso religioso altrui o perseguano un disegno demolitore. Sono casi rari, ma eclatanti. Quello dello scrutatore elettorale, quello del giudice che rifiutava di tenere udienza, quello della donna atea che per far togliere il crocifisso dalla scuola portò il caso fino alla Corte europea dei Diritti umani (2011); e ne ebbe sentenza che l'esposizione del crocifisso «non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e a ostacolare l'esercizio della funzione docente». Bisognerà dunque riflettere sulla autenticità di simili dichiarate 'allergie'; la legge fondamentale sulla scuola (decreto legislativo n. 297/1994) garantisce ai docenti «autonomia didattica e libera espressione culturale», ma nel «rispetto della coscienza civile e morale degli alunni». Sono gli alunni, infatti, il corpo vivo della comunità scolastica; è in funzione di loro che si fanno cattedre, e non viceversa. Il gesto di togliere a forza, da sé, il crocifisso voluto dagli alunni non pare esattamente un atto educativo. Libertà? Colpisce la frase «libertà negativa» usata dalla Corte. Se ne intuisce l'intento protettivo, ma il rispetto del 'negativo' può imporre di azzerare ogni positivo? La libertà del no può annientare la libertà altrui del sì? Libertà è essenzialmente una dimensione positiva della persona umana, è un « agere licere». La libertà è espressione, non compressione. Se ha un limite, esso è dato dalle contigue libertà, e il suo traguardo è l'armonia. Così la libertà religiosa trova presidio in un concetto di laicità che è tutto il contrario di una asfaltatura dei simboli religiosi per non turbare gli irreligiosi. Chi non s' intona al canto è libero di non cantare, ma non può pretendere di zittire il coro. Una laicità castrante non è nella nostra civiltà, non è nella nostra legge, non è nella nostra libertà. Ma infine, per chi ha fede, il nocciolo non è neppure il crocifisso-arredo. È il Crocifisso, il Vivente, e nessuno può toglierlo dal mondo, e nessuno ce lo stacca dal cuore».
Molto positivo il commento di Elena Loewenthal per La Stampa, che vede nella ricerca del “compromesso” l’aspetto migliore della sentenza della Cassazione.
«È molto vero, "non costituisce un atto di discriminazione": simbolo di un dolore indicibile, racconto di un cammino unico al mondo, il crocifisso di per sé non è né una provocazione né un simbolo di belligeranza teologica. Così si sono espresse le sezione unite della Corte di Cassazione in una sentenza depositata ieri, a suo modo rivoluzionaria. Perché se non discrimina né esclude, "questo segno primario della fede cristiana esprime di per sé e l'esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo": definisce cioè un'identità ben precisa. Per questo, prosegue la sentenza, l'esposizione di questo simbolo nelle aule scolastiche, così come di qualunque altro simbolo religioso, è soggetto a una decisione "in autonomia", sempre cercando un "ragionevole accomodamento". Il che potrebbe sembrare un'indicazione "farisaica", giusto per restare nel contesto delle metafore teologiche, e invece rappresenta, nel suo contesto, una svolta importante. Il riconoscimento di quel pluralismo etnico, religioso, storico, che è davvero e ovunque la cifra di questa contemporaneità. Anche a casa nostra, così come a casa di chiunque altro. Perché è vero che il dialogo fra le religioni può arrivare sino a un certo punto, perché quando si tratta di confrontare diverse verità - e la fede non può che essere l'identificazione in una verità piuttosto che in un'altra - il terreno è tanto impervio quanto scivoloso, e l'unico equilibrio che si può raggiungere è fatto di cautela e rispetto. Ma quando si tratta, come si tratta oggi nel nostro mondo, di una convivenza quotidiana - e storica - fra fedi e appartenenze diverse, allora l'"accomodamento" diventa una soluzione coraggiosa, oltre che l'unica. Un accomodamento che abbia per presupposto la rinuncia a qualsivoglia forma di proselitismo, di esclusione. Il crocifisso è un simbolo di dolore, racconta una storia fondativa della nostra comune storia. Però appartiene a una fede ben precisa, racconta quella storia e non altre. Non offende chi non si riconosce in quella storia, in quella fede, ma certamente non significa la stessa cosa, e dunque perde la sua ragion d'essere in quel luogo in quel momento, se non è condiviso. Si svuota del suo significato, come succederebbe a qualunque altro simbolo religioso. Per questo un "compromesso" che stia nel valutare caso per caso l'opportunità di esporlo o meno in una classe non è né mai sarà un gesto di debolezza, di rinuncia, ma la risposta a quel senso primario del compromesso che, come diceva il compianto Amos Oz, è sinonimo non di cedimento ma di vita. Insieme, nel reciproco rispetto, con responsabilità e gentilezza. In questo senso, la sentenza della Corte di Cassazione costituisce un passo importante, a suo modo rivoluzionario, e spazza via tante polemiche inutili, acide e tenaci, intorno al crocifisso nelle scuole e alla coscienza identitaria. Che più è consapevole, più diventa tollerante non in un'accezione generica di questa parola, ma nel suo significato più profondo, di quel bene che sta nel saper riconoscere l'altro da sé e sentire, sapere, che senza l'altro da sé non siamo capaci di riconoscere neanche noi stessi».
SALVINI IN VATICANO
Matteo Salvini sarà oggi ufficialmente ricevuto in Vaticano. Lo ha fatto sapere la Lega, mentre per la Curia è una “prassi” incontrare un parlamentare che ne faccia richiesta. Per Piero Senaldi su Libero è la conseguenza della partecipazione dei leghisti al governo Draghi.
«Più che il rosario, ha potuto il banchiere, più del fragore delle piazze, si è fatto sentire il brusio dei Palazzi. Tre anni e mezzo fa, Matteo Salvini concluse la campagna elettorale per le Politiche brandendo, e baciando, il crocifisso nel comizio finale in Piazza Duomo. È stato accertato che la mossa ha cambiato la storia, consentendo alla Lega di superare Forza Italia e volare verso il governo. Con quel gesto, l'erede di Bossi rassicurò l'elettorato moderato del centrodestra e lo portò verso di sé, ma si candidò anche a rappresentare i cattolici più tradizionalisti, che in buona parte lo ripagarono nelle urne. Le gerarchie ecclesiastiche però non gradirono. Il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, accusò il futuro ministro dell'Interno di usare i simboli della fede per farsi pubblicità, una sorta di marketing elettorale. La critica, durissima, andò avanti anni, finché Salvini ripose l'oggetto di culto in tasca, o lo lasciò direttamente nel comodino, ma questo non placò l'ira della Chiesa, tant'è che il Vaticano ha sempre schivato, quando non respinto seccamente, le richieste del leader della Lega di avere udienza Oltretevere. Qualcosa però oggi è cambiato, tanto che il Capitano ieri ha potuto annunciare il suo incontro odierno con il ministro degli Esteri della Santa Sede, l'arcivescovo inglese Paul Richard Gallagher. Certo, in Vaticano si sono affrettati a far trapelare che è prassi per loro incontrare per uno scambio di vedute i parlamentari che lo richiedono. Tuttavia è altrettanto vero che fino a ieri era prassi della casa chiudere la porta a Salvini e che l'argomento del confronto, la sorte dell'Afghanistan dopo l'abbandono dell'esercito americano, è di primaria importanza ma del tutto svincolata da quello che può pensare, dire o fare il capo della Lega in proposito. E allora viene naturale dedurre che il sostegno a Draghi sia il passaporto diplomatico che ha reso possibile l'incontro di oggi, il primo vero successo politico concreto di Matteo da mesi a questa parte. L'operazione di entrare a far parte della maggioranza, anche a costo di pagare un prezzo in termini di voti a danni di Fratelli d'Italia è, come Libero ha specificato fin dal primo momento, una scommessa di lungo periodo della Lega. È una scelta che si è rivelata propedeutica alla federazione con Forza Italia, che Berlusconi non avrebbe mai proposto a un Salvini all'opposizione, e alla rottura del muro di diffidenza che la sinistra alimentava presso l'opinione pubblica nei confronti del Carroccio e del suo leader, a prescindere dall'alta qualità della classe dirigente del partito. Ora questa mossa inizia a dare i suoi (sacri)frutti e l'incontro di oggi può essere un viatico».
MIGRANTI NELLA MANICA: LA FRANCIA INFURIATA
L’Inghilterra della Brexit diventa spietata contro i migranti che cercano di attraversare la Manica. Alessandra Rizzo per La Stampa.
«La Gran Bretagna minaccia di rimandare indietro i migranti che attraversano il canale della Manica, respingendo le imbarcazioni degli scafisti verso la costa francese. A Parigi, il governo reagisce duramente, accusa Londra di violazione del diritto del mare e di mancato rispetto degli impegni presi. Mentre salgono le tensioni tra i due Paesi, le organizzazioni umanitarie accusano il governo britannico di mettere a repentaglio vite umane in uno dei tratti di mare più trafficati e pericolosi al mondo. La ministra dell'Interno Priti Patel, falco del Partito Conservatore che tiene una linea durissima sull'immigrazione benché sia lei stessa figlia di immigrati, è sotto pressione a fronte di un marcato aumento del numero di imbarcazioni arrivate a Dover. Quest' anno finora circa 14 mila persone hanno attraversato la Manica, secondo una stima dei media inglesi, rispetto alle 8.500 dello scorso anno. Sono numeri non altissimi se paragonati ai flussi migratori di altri Paesi, ma la lotta all'immigrazione è uno dei cavalli di battaglia dei Tory, tanto più dopo la Brexit. E cosí Patel ha lasciato filtrare alla stampa inglese l'intenzione di respingere alcune delle imbarcazioni di migranti: una politica selettiva, da applicare solo in determinate circostanze e solo con l'autorizzazione di Patel in persona. La polizia di frontiera sta completando l'addestramento, che va avanti da alcuni mesi, su nuove tecniche per effettuare l'operazione. Londra minaccia inoltre di revocare il contributo britannico di 54 milioni di sterline (circa 60 milioni di euro) destinato a finanziare i controlli francesi alla partenza, parte di un accordo bilaterale siglato a luglio. La replica di Parigi non si è fatta attendere. «La Francia non accetterà nessuna pratica contraria al diritto del mare, né alcun ricatto finanziario», ha detto il ministro dell'Interno francese, Gérald Darmanin, all'indomani di un faccia a faccia con Patel a Londra durante la riunione dei ministri degli Interni del G7. Ha invitato la sua omologa a mantenere gli impegni presi, pena il rischio di compromettere «la cooperazione tra i nostri ministeri». Il deputato francese eletto a Calais, Pierre-Henri Dumont, ha definito il piano «indegno» e ha aggiunto: «Brexit significa lasciare l'Unione Europea, non lasciare la comunità internazionale». Le associazioni umanitarie si sono unite al coro di critiche. Steve Valdez-Symonds, direttore di Amnesty International UK per i diritti dei migranti e dei rifugiati, ha dichiarato: «Il piano di respingimento del governo è insensato, pericoloso e quasi certamente illegale». Ma per il governo, il piano rispetta il diritto internazionale e il respingimento verrà applicato solo in circostanze specifiche (specifiche, ma non specificate, almeno per ora). Un portavoce di Downing Street ha assicurato che qualunque misura sarà «rispettosa del diritto internazionale e della nostra normativa interna».
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