La Versione di Banfi

Share this post

«Giù le mani dall'Africa!»

alessandrobanfi.substack.com

«Giù le mani dall'Africa!»

Papa Francesco a Kinshasa: "Non è una miniera da sfruttare". Usa, Polonia e GB non vogliono dare gli F-16 a Kiev. L'economia russa tiene. Caso Donzelli, Meloni media. Domani l'Autonomia

Alessandro Banfi
Feb 1
2
Share this post

«Giù le mani dall'Africa!»

alessandrobanfi.substack.com

Mentre il mondo guarda all’Ucraina, martoriata dalla guerra, papa Francesco è in Africa. In Paesi depredati e sfruttati dal colonialismo economico, in Paesi dove le guerre sono dimenticate e i popoli lasciati alla deriva. Ieri a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, Francesco ha denunciato lo sfruttamento e lanciato uno slogan perfetto: «Giù le mani dall’Africa! Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». Questo viaggio è un pellegrinaggio di pace, perché la pace non può essere ottenuta senza verità, giustizia e solidarietà. E sarà anche un pellegrinaggio ecumenico perché papa Francesco nella tappa in Sud Sudan sarà accompagnato dal primate anglicano, Justin Welby. L’immagine proposta da Francesco è quella del diamante, che ha fatto da filo conduttore al primo discorso di Francesco in terra africana: «La sua bellezza deriva anche dalla sua forma, da diverse facce armonicamente disposte». L’acuta bellezza della natura e l’armonia fra i popoli, una cosa rispecchia l’altra: è il mondo che papa Francesco sogna.  

Le notizie sulla guerra in Ucraina ci dicono delle richieste di Kiev per nuovi armamenti. Joe Biden sembra scettico sui caccia che Volodymyr Zelensky chiede ora, dopo aver ottenuto i carri armati. Dopo il no tedesco, anche Polonia e Gran Bretagna ribadiscono che non manderanno gli F-16. Intanto i dati sull’economia della Federazione russa smentiscono le previsioni di un collasso provocato dalle sanzioni. A Mosca sanno resistere senza prodotti occidentali, il Pil del Paese andrà meglio di quello tedesco. La CNN rilancia invece l’intervista con un ex consigliere del Cremlino, secondo il quale Putin potrebbe essere spodestato da un rovesciamento interno, un golpe.   

La politica italiana è presa ancora dal caso dell’anarchico Alfredo Cospito. Perché ieri un esponente di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, ha accusato, nel corso di un intervento alla Camera,  quattro deputati del Pd, che erano andati a trovare in carcere il detenuto in sciopero della fame, di «stare dalla parte dei terroristi e dei mafiosi». L’opposizione è insorta. Soprattutto perché Donzelli, vice presidente del Copasir, avrebbe usato informazioni riservate, che non sono a disposizione dei deputati. Giorgia Meloni ha dovuto mediare. Ma ora le questioni sono due: una istituzionale su Donzelli (Deve dimettersi dal Copasir? Deve chiedere scusa?). E una politico-investigativa, che riguarda il merito di quanto detto a Montecitorio: davvero Cosa Nostra vuole allearsi con gli anarchici contro il regime del 41 bis?

Domani al CdM approda la riforma Calderoli sulla “autonomia differenziata”. Nella vigilia ci sono già polemiche e ritocchi al testo dell’ultimo minuto. Vedremo quale sarà il punto di caduta definitivo. I dati sull’economia italiana sono migliori delle previsioni: + 3,9% di Pil, anche se l’ultimo trimestre ha chiuso con il segno meno.

Per le altre notizie dall’estero, va segnalata la lunga intervista a Rahul Gandhi di Aldo Cazzullo sul Corriere. Gandhi si sta proponendo come oppositore al premier Narendra Modi, con una marcia che ha attraversato l’India. Bel reportage di Francesca Mannocchi sulla Stampa dal Kenya, protagonisti i profughi. Gli inglesi, dicono due sondaggi, sono già pentiti della Brexit, a soli tre anni dall’uscita dall’Unione Europea.

Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:  

Avviso a tutti: la maggioranza di voi è alla vigilia del rinnovo del proprio abbonamento a questa newsletter, che scade per i più il 16 febbraio. Chi dunque non è interessato a questa Versione deve disinscriversi per tempo, prima del rinnovo (il link annulla iscrizione è a destra dell’intestazione di ogni newsletter). Per chi rinnova l’abbonamento c’è la promessa di un regalo, che sarà presto svelato. Avete due settimane per decidere.

LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae la papa mobile nelle strade di Kinshasa. Il viaggio di Francesco si concluderà domenica, dopo la seconda tappa in Sud Sudan.

 Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

È ancora la vicenda dell’anarchico detenuto ad Opera e in sciopero della fame da più di 100 giorni a catalizzare l’interesse dei quotidiani. Questa volta per un intervento di Giovanni Donzelli, FdI, a Montecitorio. Il Corriere della Sera titola: Caso Cospito, rissa alla Camera. La Repubblica attacca l’esecutivo: Cospito, tempesta nel governo. Per La Stampa è un errore: Cospito, l’autogol della destra. Il Messaggero dà per accertata l’ipotesi, avanzata dallo stesso Donzelli, di un asse fra anarchici e cosche: Cospito e i mafiosi: «Smontiamo il carcere duro». Lo fa anche Libero: Cospito il bombarolo usato dalla mafia. E La Verità va giù piatta: Pd in delegazione dal terrorista. Per il Quotidiano nazionale è una: Rissa politica su anarchici e 41-bis. Il Giornale, trattandosi di anarchia, va sugli esplosivi: Bomba Cospito in Parlamento. Il Domani denuncia: Il governo mischia Cospito e i mafiosi per difendere la linea dura sul 41bis. Della riforma Calderoli, che domani arriva in CdM si occupano Avvenire: Autonomia per aria. E il Manifesto: Buio a mezzogiorno. Il Sole 24 Ore dà il quadro degli ultimi dati sul Prodotto interno lordo: Banche, crediti deteriorati in aumento. Pil -0,1% ma la recessione è più lontana. Il Fatto ci paragona all’economia russa che tiene: Italia: stipendi a -7,6%. Russia: parte la ripresa.

IL PAPA: “GIÙ LE MANI DALL’AFRICA”

Il viaggio di papa Francesco in Africa. Arrivato a Kinshasa Bergoglio parla subito del “colonialismo economico” e dello “sfruttamento” che mette in ginocchio il continente. Domenico Agasso per La Stampa.

«Giù le mani dall'Africa!». Il Papa arriva a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, «paese ampiamente depredato», e lancia un duro monito contro «il colonialismo economico» praticato dagli Stati più ricchi del pianeta, uno «sfruttamento» che ha messo in ginocchio il continente. Francesco nel Palais de la Nation denuncia senza mezzi termini «il veleno dell'avidità» che «ha reso insanguinati i diamanti, la luminosa bellezza di questa terra». In un caldo afoso, 31 gradi all'ombra, il Pontefice viene accolto da un tappeto umano: lungo Boulevard Lumumba, l'arteria che collega l'aeroporto al centro della megalopoli, ci sono decine di migliaia di persone festanti, di ogni età. Tutti pieni i lati della strada e i cavalcavia. C'è chi si è arrampicato sui tetti delle botteghe e delle case, comprese quelle diroccate. A centinaia indossano gli abiti tradizionali e sventolano bandiere. Il Vescovo di Roma si dice «felice di essere in questa terra così bella, vasta e rigogliosa, che abbraccia a nord la foresta equatoriale, al centro e verso sud altipiani e savane alberate, a est colline, montagne, vulcani e laghi, a ovest altre grandi acque, con il fiume Congo che incontra l'oceano». È una regione in cui «la storia non è stata generosa: tormentata dalla guerra, continua a patire entro i suoi confini conflitti e migrazioni forzate. Questo diaframma d'Africa, colpito dalla violenza come da un pugno nello stomaco, sembra da tempo senza respiro». Bergoglio parla di «genocidio dimenticato», sostenendo che «non possiamo abituarci al sangue che scorre da decenni, mietendo milioni di morti». E poi per il Papa è «tragico che questi luoghi soffrano ancora forme di sfruttamento. Dopo quello politico, si è scatenato un "colonialismo economico", altrettanto schiavizzante». Così il Paese «non riesce a beneficiare delle sue immense risorse». Si tratta di un «dramma davanti al quale il mondo più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca». Perciò il Papa esclama «giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo!»; e grida «basta soffocare l'Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». Allo stesso tempo il Pontefice invita le autorità locali a mettersi al servizio della gente, evitando «corruzione e ingiustizia». Perché molti dei soprusi sono legati alla gestione delle risorse naturali, in particolare diamanti e coltan per i telefonini. Dunque il Papa esorta a non lasciarsi «manipolare né comprare da chi vuole mantenere il Paese nella violenza, per sfruttarlo e fare affari vergognosi: ciò porta solo morte e miseria». Francesco chiede inoltre di «favorire elezioni libere, trasparenti e credibili; estendere la partecipazione ai processi di pace alle donne, ai giovani e ai gruppi marginalizzati; prendersi cura delle tante persone sfollate e rifugiate». Mette in guardia anche dal «tribalismo. Parteggiare ostinatamente per la propria etnia o per interessi particolari, alimentando spirali di odio e di violenza, torna a svantaggio di tutti». Qualche ora prima, sorvolando il deserto del Sahara, il Papa sull'aereo (un Airbus A350 di Ita Airways) ha chiesto di pregare per «tutte le persone che, cercando un po' di benessere e di libertà, non ce l'hanno fatta», e anche per tutti quelli che, tentando di raggiungere il Mediterraneo, sono invece finiti nei «lager. E soffrono lì». Bergoglio resterà in Congo fino a venerdì, per poi volare in Sud Sudan».

UN VIAGGIO DI PACE

Nell’editoriale di Avvenire Mimmo Muolo disegna il significato di questo viaggio di papa Francesco: una visita nelle terre del pianeta più depredate e dimenticate. All’insegna della pace.

«C’è nei viaggi apostolici di Francesco una peculiarità che orienta lo sguardo già prima degli elementi che ne andranno a configurare l’itinerario. Ogni viaggio un messaggio, si potrebbe dire. E quello iniziato ieri a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, cui seguirà la tappa in Sud Sudan, non fa certo eccezione. Viaggio nelle guerre e nelle terre depredate e dimenticate dagli uomini (ma non da Dio), lo si può definire. E perciò viaggio di pace nel senso più ampio ed evangelico del termine. Il richiamo alle guerre dimenticate (lo sono senz’altro quella assai sanguinosa in corso nel Paese equatoriale e l’altra che non cessa, nonostante le promesse di pace fatte davanti allo stesso Pontefice, nella parte meridionale delle terre del Nilo) è risuonato spesso sulle labbra del Pontefice, anche prima che scoppiasse il conflitto in Ucraina. E se Eritrea, Yemen, Mali, Somalia e altri martoriati Paesi non sono più solo semplici nomi su un atlante, ma vengono mostrati nella loro drammatica realtà di luoghi di sofferenza e di morte, lo si deve soprattutto a papa Bergoglio, alle sue coraggiose denunce delle logiche belliche, del traffico di armi che le alimenta, delle trame di sfruttamento di popoli e risorse naturali che vi stanno dietro e degli «affari vergognosi» che ne costituiscono l’insanguinato frutto. Lo ha detto anche ieri, il Pontefice, appena giunto nella capitale congolese, in un discorso che è una sorta di manifesto programmatico di ciò che dobbiamo aspettarci da qui alla fine del viaggio. Guerre dimenticate. E terre altrettanto, mentre vengono saccheggiate. L’Africa soprattutto, non solo preda del sottosviluppo e piena di futuro eppure scomparsa quasi del tutto dai radar mediatici, considerata dalle multinazionali solo quando si tratta di spartirsi le sue grandi risorse (il «colonialismo economico», cui ha accennato ieri Francesco), svenduta alle mire espansionistiche delle grandi potenze (la Cina, innanzitutto, ma non solo). Anche in questo caso, negli ultimi 40-50 anni chi non ha mai smesso di accendere i riflettori sul continente “nero” (crogiuolo delle problematiche del pianeta che però, paradossalmente, è anche il più ricco di giovani, e quindi di vita) sono stati i Papi. Ricordiamo Paolo VI con la Populorum progressio e Giovanni Paolo II, con i suoi tanti viaggi e due Sinodi, come pure Benedetto XVI e lo stesso papa Francesco. Il quale anche ieri ha intimato: «Giù le mani dall’Africa. Basta soffocarla, non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». Ecco perché questo è anche e soprattutto un viaggio di pace. Quella pace che secondo una bella definizione di don Tonino Bello non è solo un vocabolo, ma un vocabolario. E a pensarci bene, specie dopo aver letto il primo discorso del Pontefice, quel vocabolario cui faceva riferimento il vescovo pugliese, c’è tutto nelle diverse tappe di questa visita. Pace come cammino, innanzitutto, perché essa è una conquista, una costruzione, un pellegrinaggio. E il Pontefice pellegrino, nonostante gli acciacchi, è la migliore dimostrazione di questo assunto. Pace come quel disarmo unilaterale che si chiama perdono: «Il problema non è la natura degli uomini o dei gruppi etnici e sociali – ha detto ieri Francesco – ma il modo in cui si decide di stare insieme, la volontà o meno di venirsi incontro, di riconciliarsi e di ricominciare». Pace come giustizia, il che significa limpidezza cristallina nell’amministrazione politica, bando agli autoritarismi e alla corruzione, istruzione per i giovani e le ragazze (così che non diventino schiavi nelle miniere e prostitute nelle strade), equa distribuzione delle risorse, protezione dell’ambiente naturale e dell’ecologia umana. In sostanza, pace come lotta a diseguaglianze e squilibri che possono diventare – e sovente lo diventano – cause di conflitto. Pace come ecumenismo, soprattutto nella tappa in Sud Sudan, dove il Pontefice sarà accompagnato anche dal primate anglicano, Justin Welby. Pace, infine, come ricerca del volto del fratello, contro la serialità massificatrice del nostro tempo. Torna in mente l’immagine del diamante che ha fatto da filo conduttore al primo discorso di Francesco in terra africana: «La sua bellezza deriva anche dalla sua forma, da diverse facce armonicamente disposte». In fondo si potrebbe dire lo stesso per la famiglia umana. Quando non dimentica che dietro le guerre (specie quelle di cui nessuno parla), le ingiustizie, le terre abbandonate e le disuguaglianze tra ricchi e poveri c’è sempre il volto di chi soffre ed è immagine del volto di Dio».

MOSCA SPERA NELLA VISITA DI XI

Veniamo alle notizie sulla guerra in Ucraina. Il punto è di Giampiero Gramaglia per Il Fatto.

«Leopard e Abrams non sono ancora arrivati in Ucraina ed è già partito il tiramolla delle diplomazie sui caccia che Kiev chiede. Il presidente Usa Joe Biden dice “no” all’invio degli F-16, poi fa sapere che discuterà con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky la fornitura “di nuove armi”. Emmanuel Macron non esclude gli F-16, Olaf Scholz boccia l’idea e pure il premier inglese Rishi Sunak è contrario. Russia e Cina mantengono stretti contatti in questa fase, anche se Pechino non conferma l’annuncio di Mosca d’una visita del presidente cinese Xi Jinping al presidente russo Vladimir Putin. L’invito risale a un colloquio virtuale fra i due il 30 dicembre: l’incontro, ipotizzato in primavera, è ritenuto dai russi “un evento centrale” nelle relazioni fra i due Paesi. Pechino, che critica l’Occidente per le armi all’Ucraina – “Washington pensi ai negoziati, non alle armi” –, enfatizza la promozione ”della cooperazione bilaterale tra i due Paesi, che aiuta lo sviluppo globale pacifico”, ma non va oltre. Sul terreno, la linea del fronte resta ferma a Bakhmut, mentre l’allarme aereo torna a suonare in tutta l’Ucraina. Fonti militari non confermate danno per imminente una nuova controffensiva russa – ci sarebbero 362 mila militari russi in territorio ucraino – e parlano di 200 mila soldati uccisi o feriti dall’inizio dell’invasione. Le fonti di Kiev battono sul tasto delle armi: l’Ucraina ha bisogno di almeno 200 caccia occidentali, in sostituzione dei velivoli sovietici di vario tipo ormai obsoleti, e buona parte dei quali sono stati messi fuori combattimento: “Al momento, l’F-16 è il candidato più probabile” per ammodernare l’arsenale ucraino, dice Yuriy Ignat, portavoce dell’Aeronautica militare. Da Varsavia, il viceministro della Difesa polacco, Wojciech Skurkiewicz, nega che vi siano colloqui per l’invio di F-16 all’Ucraina. Lunedì, Kiev aveva sostenuto di avere ricevuto “segnali positivi” dalla Polonia, che aveva molto spinto per dare a Kiev i carri armati. Biden sarà presto in Polonia, forse in coincidenza con l’anniversario dell’invasione, il 24 febbraio. L’escalation nel trasferimento di armi a Kiev crea dissensi nell’Ue e nella Nato. Il presidente croato Zoran Milanovic si attira gli strali ucraini criticando l’invio dei tank, che “prolunga la guerra”, e giudica “folle” l’idea che la Russia possa essere sconfitta in una guerra convenzionale. Milanovic, in aperto contrasto con il premier Andrej Plenkovic, esclude il ritorno della Crimea all’Ucraina. A Tokyo, il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, mette in guardia il premier giapponese Fumio Kishida sui rischi di conflitto in Asia: “Pechino osserva con attenzione quanto sta accadendo in Ucraina”, che potrebbe “accadere domani in Asia”. Se l’Occidente – è la tesi degli Usa – sarà accomodante sull’invasione dell’Ucraina, Pechino potrebbe essere incoraggiata a invadere Taiwan. Giappone e Nato concordano che le sicurezze, transatlantica e dell’indopacifico, sono interconnesse e che la guerra in Ucraina non è una sfida “solo europea”. “La Cina non è un nostro avversario, ma bullizza i suoi vicini e minaccia Taiwan: è una sfida da capire e gestire”, dice Stoltenberg che, lunedì, a Seul, aveva chiesto alla Corea del Sud di modificare la legge che le impedisce di esportare armi a Paesi in guerra, così da potere rifornire l’Ucraina».

LA FORTEZZA RUSSIA RESISTE

Le sanzioni ancora non mordono l’economia della Federazione russa: nel 2023 il Pil crescerà dello 0,3 per cento, più della Germania. Con l'invasione dell'Ucraina Mosca ha attirato su di sé sanzioni senza precedenti, ma per ora anche i livelli di inflazione rimangono sotto controllo. Oleg Smirnov per La Stampa.

«La "Fortezza Russia" resiste. Le sanzioni, la risposta dell'Occidente all'aggressione russa dell'Ucraina, non hanno sortito l'effetto che molti prevedevano. Secondo nuovi dati del Fondo Monetario Internazionale, l'economia russa crescerà dello 0,3% nel 2023. Si tratta di una rivalutazione importante rispetto al pronostico fatto da Fmi lo scorso ottobre, che prevedeva una contrazione del Pil russo del 2,3%. Il declino dell'economia russa nel corso del 2022 ammonta invece al 2,2%, dato molto migliore del 3,4% previsto precedentemente, per non parlare dei numerosi esperti di economia sia russi che occidentali che parlavano di una contrazione a doppia cifra. «I Paesi nemici non hanno il coraggio di ammettere che le loro sanzioni "infernali" sono fallite miseramente. Non funzionano», ha gongolato l'ex-primo ministro russo Dmitry Medvedev, commentando i dati del Fmi sul suo canale Telegram.
Con la decisione di invadere il Paese vicino lo scorso febbraio, la Russia ha attirato su di sé sanzioni senza precedenti da parte dell'Occidente: 300 miliardi di dollari delle sue riserve estere sono state congelate, le esportazioni di materie prime ed energia sono state colpite duramente; poi ci sono le sanzioni sulle importazioni di tecnologie occidentali e quelle sul sistema finanziario, che hanno escluso gran parte delle banche russe dal sistema Swift. Tutto questo non è bastato a mettere in ginocchio l'economia della Russia. «Ai tempi dell'Unione Sovietica non avevamo prodotti occidentali, quindi siamo abituati», mi spiega Evgeny, 55 anni, medico di San Pietroburgo. Tipico rappresentante del ceto medio cittadino, Evgeny vive con la moglie, la figlia piccola e i due suoceri in un bilocale nel centro della città. Come dice Evgeny, la guerra non ha influenzato particolarmente le finanze familiari. I livelli di inflazione in Russia, per quanto in crescita, sono infatti rimasti sotto controllo. «I prezzi di alcuni prodotti di prima necessità sono aumentati un po', ma niente di insostenibile», aggiunge la moglie Elvira, 33, casalinga. Tra i fattori principali a sostenere l'economia russa nel 2022 sono stati indubbiamente i prezzi elevati dell'energia, che hanno compensato il crollo dei proventi delle esportazioni verso i Paesi occidentali.
A fare più male nel breve periodo sono state probabilmente le sanzioni sulle importazioni, che hanno colpito duramente il settore automobilistico: le vendite di automobili in Russia nel 2022 sono crollate di circa il 58% secondo l'Association of European Businesses. Ma anche in campo tecnologico, la Russia sembra aver trovato canali per sostituire buona parte dei prodotti occidentali con equivalenti da Paesi asiatici o tramite le cosiddette importazioni parallele : queste permettono l'importazione di prodotti occidentali da Paesi terzi, come la Turchia e il Kazakhstan, senza l'autorizzazione del detentore del copyright. Secondo alcune stime, il livello importazioni sarebbe già tornato ai livelli precedenti al febbraio scorso. Inoltre, Mosca ha rafforzato i suoi legami commerciali con la Cina per aggirare le sanzioni. «La Russia è riuscita a resistere a pressioni senza precedenti sul suo sistema economico e finanziario e ha risposto aumentando significativamente la sua sovranità economica», ha sintetizzato il politologo Dmitry Trenin in un'intervista a La Stampa. Secondo il resoconto del Fmi, neanche il price cap di 60 dollari al barile sulle esportazioni per via marittima del petrolio, stabilito dai Paesi del G7 lo scorso dicembre, avrà «un impatto significativo» sulle finanze della Russia che «continua a riorientarsi dai Paesi ostili a quelli amichevoli». Nel caso le previsioni del Fmi si rivelassero azzeccate, la crescita economica della Russia nel corso del 2023 supererà quella della Germania (+0,1%) e del Regno Unito (-0,6%). La Banca centrale russa resta però cauta e mette in guardia sui possibili rischi: «Carenza di personale qualificato, limitazioni in campo tecnologico e debole domanda esterna potrebbero rallentare la transizione dell'economia verso una crescita sostenibile nella seconda metà del 2023», ha dichiarato ieri l'ente statale».

“PUTIN RISCHIA IL GOLPE”

La CNN rilancia le previsioni di Abbas Galljamov, ex speechwriter del Cremlino, che sostiene: “Putin rischia un golpe”. Riccardo Ricci per Repubblica.

«Tra un anno, quando il protrarsi dell’operazione militare speciale in Ucraina avrà portato a un numero ancora maggiore di morti e - questa la convinzione dominante, benché i dati attualmente disponibili dicano altro - l’economia della Russia sarà al tracollo, il presidente Vladimir Putin potrebbe vedersi costretto a sospendere le presidenziali previste nel 2024, innescando un colpo di Stato. È il parere espresso alla Cnn dall’ex speechwriter del presidente, Abbas Galljamov. Sullo sfondo delle crescenti perdite delle truppe russe impegnate in Ucraina e della difficoltà causate dalle sanzioni occidentali, secondo Galljamov, i russi cercheranno qualcuno da incolpare. «L’economia russa - dice infatti - si sta deteriorando. L’offensiva è persa. Ci sono sempre più cadaveri che tornano in Russia e i cittadini russi incontreranno crescenti difficoltà, dunque cercheranno di trovare una spiegazione del motivo per cui ciò sta accadendo, guardando ai processi politici si risponderanno da soli: “Beh, è perché il nostro Paese è governato da un vecchio tiranno, un vecchio dittatore”», sostiene Galljamov: «A quel punto, penso che sarà verosimile un colpo di stato militare». Il momento potrebbe arrivare nei prossimi dodici mesi, in vista delle prossime presidenziali, specifica Galljamov. «Dunque, nell’arco di un anno, quando la situazione politica sarà cambiata e a capo del Paese ci sarà un presidente impopolare e davvero sgradito e la guerra sarà davvero impopolare, e per questo c’è bisogno che si sparga sangue, a quel punto, un colpo di stato diventa una possibilità reale». Putin si troverà ad affrontare una crisi di fiducia della popolazione russa che potrebbe non più riconoscere in lui un leader forte. «Senza vittoria sull’Ucraina, dovrà affrontare i russi in difficoltà», ipotizza Galljamov, concludendo: «Potrebbe davvero dichiarare la legge marziale e annullare le elezioni». A dispetto di quello che sostiene il politologo, che vive da tempo in esilio in Israele, stando ai sondaggi governativi e indipendenti, il consenso di Putin resta stabile. Non ha subito scossoni neppure dopo la proclamazione della mobilitazione parziale. E nonostante le sanzioni l’economia russa sembra reggere ancora. Proprio ieri il Fondo monetario internazionale ha corretto le stime sull’economia russa: nel 2022 il Pil è sceso del 2,2% contro la previsione iniziale di un crollo del 3,4%, mentre nell’anno in corso l’economia dovrebbe crescere dello 0,3% e nel 2024 del 2,1%. Previsioni migliori rispetto alle proiezioni dello scorso ottobre».

CASO COSPITO. SCONTRO SU DONZELLI

Retroscena di Francesco Verderami sul Corriere della Sera. L’imbarazzo di palazzo Chigi tra il nervosismo di Nordio e l’autogol sulla «sobrietà». Gli atti citati a Montecitorio da Giovanni Donzelli, numero 2 del Copasir, non sono disponibili per i parlamentari.

«L’imbarazzo di Palazzo Chigi si è presto tramutato in preoccupazione, perché le parole pronunciate alla Camera da Donzelli hanno scatenato un putiferio non solo nei rapporti con l’opposizione ma anche nella maggioranza e soprattutto dentro il governo. E rischiano di produrre gravi conseguenze, non solo politiche. L’intervento in Aula del responsabile organizzativo di FdI doveva servire ieri a sottolineare che il trasferimento dell’anarchico Cospito dal carcere di massima sicurezza in Sardegna nulla c’entrava con la linea intransigente del suo partito e dell’esecutivo sul 41 bis, riaffermata la sera prima in Consiglio dei ministri. Ma Donzelli si è spinto troppo oltre. E per attaccare la sinistra è arrivato a riferire dei rapporti tra le sbarre di Cospito con i boss della mafia per far cadere la norma sul carcere duro. Una ricostruzione dei colloqui talmente circostanziata non poteva che esser frutto di documenti riservati: quelli in possesso di una struttura sensibile del ministero della Giustizia come il Dap. E sul Dap ha la delega un altro esponente di FdI, il sottosegretario Delmastro, che divide casa a Roma proprio con Donzelli e che candidamente ha ammesso di aver «parlato» dell’argomento con il collega. L’incredibile autogol ha lasciato basito un magistrato dai trascorsi ineccepibili come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Mantovano, ha provocato l’ira del Guardasigilli per la fuga di notizie dal suo dicastero e ha costretto Meloni a intervenire presso gli alleati per cercare di limitare i danni. Solo Salvini si è esposto per solidarizzare con Donzelli. Il resto del centrodestra è rimasto a debita distanza, in silenzio, mentre Nordio esternava tutto il suo disappunto e chiedeva al gabinetto della Giustizia di verificare quanto accaduto. Anche perché per ottenere accesso agli atti citati da Donzelli servono precise richieste: non sono nelle disponibilità dei parlamentari, come ha tentato di difendersi il deputato. Si vedrà se il responsabile organizzativo di FdI resterà al Copasir o si dimetterà dal ruolo di vice presidente del Comitato sui Servizi, come chiedono le opposizioni. Si vedrà se la presenza di Delmastro al ministero sarà compatibile ancora con quella di Nordio. E si vedrà anche se — a causa di quel discorso in Aula — sono state violate notizie di un possibile fascicolo d’inchiesta. Ma il punto è politico. E il danno ricade su Meloni, che cercherà di far abbassare la tensione e preservare per quanto possibile i dirigenti del suo partito, consapevole che le opposizioni cavalcheranno la questione. Appare scontato che la polemica sia destinata a montare. A parte le ammissioni di Delmastro e dello stesso Donzelli, che fuori dall’Aula ha infarcito di ulteriori particolari il suo discorso, lo scontro si protrarrà anche nel giurì d’onore, che il Pd — sentitosi offeso dalle affermazioni del deputato di FdI — ha chiesto ed ottenuto dal presidente della Camera Fontana. «Hanno tentato di accostarci ai mafiosi», denuncia la capogruppo dem Serracchiani, che insieme ad altri compagni di partito era andata in carcere per verificare le condizioni di salute di Cospito: «Ma noi siamo convinti sostenitori del 41 bis». Se l’intento della destra era denunciare le contiguità di una «certa sinistra» con i gruppi anarchici, il colpo è finito fuori target. Così la ricaduta su Palazzo Chigi è duplice. Intanto l’obiettivo degli avversari è mettere in difficoltà la premier sul delicato tema della giustizia, evidenziando la contraddizione in cui è stata cacciata: «Se è vero che mira a debellare l’uso mediatico delle intercettazioni — dice Costa del Terzo polo — non può far passare che un suo esponente riveli notizie riservate addirittura in un dibattito parlamentare». Di qui il nervosismo di Nordio: per quanto le forze di opposizione gli abbiano fatto sapere che non è lui nel mirino, il timore del Guardasigilli è che questo passo falso possa intralciare la sua azione legislativa. Ma soprattutto è Meloni che vede di fatto sconfessata quella linea della sobrietà alla quale ancora l’altro ieri si era richiamata, esortando a evitare polemiche nell’interesse nazionale. Attenta com’è nella gestione dei dettagli e dei rapporti, capace di strappare giudizi positivi da Bruxelles per l’atteggiamento in Europa e di ricevere consensi dai partner internazionali per la postura sul conflitto in Ucraina, la premier viene in questo caso risospinta indietro per responsabilità della sua stessa classe dirigente, che stenta a interpretare il nuovo ruolo. E come Penelope deve tessere la tela che altri in questi primi cento giorni le hanno a volte disfatto».

Alessandro Sallusti su Libero difende Giovanni Donzelli e sostiene: parliamo di quello che ha detto. Esiste un patto fra anarchici e mafiosi?

«Quando non si vuole vedere luna si guarda il dito, in questo caso quello di Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia e vice presidente del Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza che opera in stretto contatto con i nostri servizi segreti. Già, perché ieri mattina alla Camera il dito di Donzelli si è alzato per chiedere la parola: scusate colleghi – riassumo – dovete sapere che l’anarchico Alfredo Cospito, quello che sta facendo lo sciopero della fame per uscire dal regime del 41 bis, in cella ha avuto contatti con detenuti mafiosi per organizzare al meglio questo tentativo di spallata alle leggi dello Stato. E ancora: siccome quattro autorevoli parlamentari del Pd sono andati a trovare Cospito in carcere c’è da chiedersi se il Pd in questa vicenda sta con la mafia o con lo Stato. Apriti cielo: bagarre in Aula, lavori interrotti, interpellanze e pure una minaccia di denuncia penale. D’accordo, la forma non è delle più gentili, ma vogliamo parlare della sostanza, cioè della luna invece che del dito di Donzelli. Perché su quella luna si comincia a intravedere la saldatura di intenti tra la mafia e il movimento anarchico capitanato da Cospito, cosa che dovrebbe fare sobbalzare sullo scranno i parlamentari del Pd molto più delle parole di Donzelli. Invece no, per la sinistra quel sospetto supportato da indizi doveva rimanere segreto, come segrete avrebbero dovuto rimanere le visite di cortesia dei suoi parlamentari a un terrorista carcerato. Dico questo perché non vorrei neppure io, alla pari di Donzelli, che l’azione politica del Pd sulla gestione del caso Cospito agevolasse in qualche modo, sia pure indirettamente e concedo pure inconsciamente, anche solo un’ombra di copertura a quel patto scellerato tra anarchici e mafiosi di cui sopra. Lo dico perché non sarebbe la prima volta che la sinistra italiana si presenta incerta e timida quando si tratta di scegliere tra Stato e lotta rivoluzionaria. Vediamo cioè di non rieditare il ritornello dei “compagni che sbagliano” che fu colonna sonora del Pci all’insorgere del terrorismo brigatista degli anni Settanta. Chiedere al Pd di dire chiaramente da che parte sta tra i bombaroli e lo Stato non è una provocazione e neppure una bestemmia. È una domanda legittima, e alla luce della reazione vista ieri pure fondata».

L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA DOMANI IN CDM

Esulta la Lega ma FdI e FI hanno preteso correzioni per rafforzare le Camere. C’è un patto di maggioranza affinché il provvedimento vada di pari passo col presidenzialismo. Opposizioni e sindaci del Sud si schierano contro. Matteo Pucciarelli per Repubblica.

«In casa Lega hanno la data segnata col cerchio rosso. Domani l’autonomia differenziata va in Consiglio dei ministri, ieri c’è stato un pre-Consiglio che ha dato il via libera con qualche piccola modifica al ddl. «Sarà una giornata storica », si felicita il presidente del Veneto Luca Zaia. E va bene che poi lo strumento andrà calibrato regione per regione con un meccanismo non ancora completamente chiaro, ma è quanto basta per soddisfare soprattutto il Carroccio. Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno preteso dei ritocchi, in primis il rafforzamento del ruolo del Parlamento. Subito dopo l’intesa preliminare fra Stato e singola regione, infatti, viene inserito un atto di indirizzo da parte delle Camere, il quale a proprio volta sarà quindi votato nelle due Aule. Non limitandosi quindi «all’esame da parte dei competenti organi parlamentari», ossia le commissioni. C’è poi in ballo l’aumento da sei mesi a un anno del periodo prima della scadenza del preavviso per manifestare la volontà, sia eventualmente da parte dello Stato sia dalla Regione, di non proseguire con l’intesa. Dal provvedimento sono poi stati cancellati i riferimenti al criterio della spesa storica, su forte pressing anche dei presidenti di Regione del centrodestra al sud. Ma la sostanza del provvedimento non sembra cambiare, fanno trapelare dagli uffici del ministro agli Affari regionali, Roberto Calderoli. Anche se comunque resta da chiarire il nodo della definizione e del finanziamento dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale: con la legge di Bilancio il governo si è preso un anno di tempo per definire quali siano le materie Lep e quali siano i livelli delle prestazioni da assicurare. Insomma, il nuovo assetto non sarà un passaggio automatico. Ad esempio il presidente calabrese Mario Occhiuto (Forza Italia) avverte la necessità che prima «si garantiscano gli obblighi che la nostra Carta fondamentale pone in capo allo Stato in ordine alla definizione dei fabbisogni standard, ai diritti sociali e civili garantiti con uniformità su tutto il territorio nazionale e alla perequazione». Dopodiché l’accordo nel centrodestra è che la riforma vada di pari passo con il presidenzialismo, per arrivare a fine legislatura a un’Italia «federale e presidenziale», per dirla con le parole del vicepremier e leader leghista Matteo Salvini. Se il Carroccio è pronto a giocarsi la bandierina in campagna elettorale soprattutto in Lombardia, già si preannunciano proteste e tentativi di opposizione. «Questa riforma è una presa in giro — spiega il segretario generale della Cgil Maurizio Landini — siamo già un Paese che è diviso, non c’è la stessa condizione della sanità in tutto il Paese, dipende dalla regione in cui sei nato e in cui vivi. Non c’è lo stesso sistema scolastico, i diritti alla salute e all’istruzione, ad esempio, non sono due diritti che sono garantiti a tutti i cittadini come dice la nostra Costituzione». Gli oltre duecento sindaci del Sud che a inizio anno avevano intasato la casella di posta del Quirinale chiedendo a Sergio Mattarella di tutelare l’unità nazionale contro il disegno autonomistico adesso masticano amaro. «Siamo pronti ad azioni eclatanti», promettono, senza anticipare nulla. Intanto adesso chiedono di essere ricevuti dal capo dello Stato, ritenuto l’unico possibile garante dell’unità nazionale. Sono primi cittadini anche di medie città come Catanzaro, Matera, Agrigento, sindaci di sinistra, destra, del M5S e di liste civiche. Un fronte trasversale, con anche alcune adesioni al nord di piccoli comuni. Poi c’è il “Tavolo no autonomia differenziata” composto da quei gruppi, comitati, associazioni e partiti che non vogliono vedere andare in porto la nuova stagione di “devolution” e stanno cercando di organizzare una manifestazione a Roma. Pd, 5 Stelle, Alleanza verdi sinistra, ma anche Azione e Italia viva, sono pronti a offrire una copertura parlamentare. Un disegno che per la prima volta sembra essere in grado di riunire le opposizioni».

IL PIL ITALIANO VA OLTRE LE STIME, QUARTO TRIMESTRE COL SEGNO MENO

Il Pil 2022 del nostro Paese va oltre le stime (+3,9%) ma il quarto trimestre ha il segno meno. Dopo sette trimestri positivi l’Istat rileva un -0,1% su quello precedente. La crescita è dell’1,7% in termini tendenziali. Carlo Marroni per Il Sole 24 Ore.

«L’anno 2022 per la crescita dell’economia italiana chiude meglio del previsto. Di poco, certo, ma in questa fase ogni segnale è buono. Anche se il quarto trimestre dell’anno è in negativo, di poco, ma non accadeva da quasi due anni, esattamente da sette trimestri consecutivi, che erano stati in positivo. L’Istat certifica: nel 2022 il Pil corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato è aumentato del 3,9% rispetto al 2021 (nel 2022 vi sono state tre giornate lavorative in meno del 2021). Meglio di quanto stimato dalla Nadef del governo, che aveva fissato la crescita al 3,7% (pure in miglioramento dal 3,3% del Def). Il 3,9% diffuso ieri dall’Istituto nazionale di Statistica è in linea con la Banca d’Italia, che nel Bollettino Economico di dieci giorni fa aveva detto che eravamo arrivati «quasi al 4%». Certo non è il 6,7% del 2021 – la crescita sarebbe arrivata agevolmente al 7% se l’ultimo trimestre non avesse frenato un po’ per la ripresa del Covid – ma il dato è solido. Il quarto trimestre quindi è con segno meno: - 0,1% rispetto al trimestre precedente e in crescita dell’1,7% in termini tendenziali. Il quarto trimestre del 2022 ha avuto tre giornate lavorative in meno rispetto al trimestre precedente e due giornate lavorative in meno rispetto al quarto trimestre del 2021. La variazione congiunturale è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto sia nel comparto dell’agricoltura, silvicoltura e pesca, sia in quello dell’industria, mentre i servizi registrano una crescita. Dal lato della domanda, vi è un contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte) e uno positivo della componente estera netta. L’altro dato importante della giornata è la variazione acquisita per il 2023, che è pari a +0,4% (è la crescita che si registrerebbe a fine 2023 se l’andamento per tutti i mesi fosse piatto). La previsione del governo per l’anno iniziato, sempre via Nadef, è ridotta dallo 0,6 per cento allo 0,3 per cento, mentre per Bankitalia (che ha diffuso la stima molto più di recente rispetto all’esecutivo) è del +0,6%. Con una prospettiva migliore per i due anni successivi grazie all’accelerazione sia delle esportazioni sia della domanda interna. Intanto arriva anche la previsione del Fondo Monetario Internazionale, che rivede al rialzo le stime 2023 per l’Italia. Dopo il +3,9% del 2022, il Pil è atteso crescere quest’anno dello 0,6%, ovvero 0,8 punti percentuali in più rispetto alle previsioni di ottobre e più della Germania (+0,1% pil). Per il 2024 la crescita italiana è stimata al +0,9%, 0,4 punti percentuali in meno rispetto a ottobre. Soddisfazione in Via Venti Settembre per le stime di Washington: «Il Mef prende atto che le stime, più volte contestate, sono state confermate oggi dai dati ufficiali del Fmi. È un buon auspicio anche per il futuro» afferma il ministero dell’Economia, in una nota, commentando i dati del Pil 2023 e del 2022, diffusi dal Fondo monetario internazionale e che «corrispondono a quelli già previsti in occasione della Nadef e della legge di bilancio 2023 predisposta dal ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti». In questo quadro va ricordato quanto detto dalla Banca d’Italia nel bollettino del 20 gennaio. In sostanza Via Nazionale ha indicato che l’Italia non finirà in recessione quest’anno. Ma c’è un avvertimento: le cifre che emergono oggi come previsione sono davvero indicative, data «un’incertezza eccezionalmente elevata, associata all’andamento dei prezzi e della disponibilità di materie prime e alle ripercussioni della fase di restrizione monetaria a livello globale». I rischi per lo scenario dell’economia italiana sono quindi al ribasso. La recessione colpirebbe invece il Paese nello scenario avverso: quello con uno stop totale delle forniture energetiche della Russia all’Europa».

“LA SOLUZIONE SONO ANCORA I DUE STATI”

La visita del segretario di stato americano Tony Blinken fa tappa a Ramallah, per un incontro con il presidente palestinese Abu Mazen. La cronaca della Stampa.  

«Gli Usa si oppongono ad ogni «azione unilaterale» delle due parti che rappresenti un ostacolo alla soluzione dei due Stati e questo «include l'estensione degli insediamenti, la demolizione delle case e la violazione dello status quo nei luoghi santi». Lo ha detto il segretario di Stato Usa Antony Blinken nell'incontro con il presidente Abu Mazen a Ramallah. Blinken ha detto che i palestinesi fronteggiano «un orizzonte di speranza» che si sta restringendo. Il presidente Abu Mazen ha sottolineato che «la completa fine delle azioni unilaterali israeliane, in violazione degli accordi firmati e del diritto internazionale, è il principale punto per restituire un orizzonte politico». Lo ha detto il presidente Abu Mazen nell'incontro con il segretario di Stato Usa Antony Blinken. Il presidente palestinese - dopo aver riaffermato la «responsabilità di Israele per quanto sta accadendo oggi» - ha sottolineato che «il popolo palestinese non accetterà la continuazione dell'occupazione per sempre. La sicurezza regionale non sarà rafforzata dissacrando le santità, calpestandone dignità e ignorando legittimi diritti a libertà e indipendenza». Abu Mazen ha poi aggiunto: «Siamo pronti a lavorare con l'amministrazione americana e la comunità internazionale per ripristinare il dialogo politico per porre fine all'occupazione israeliana» per uno Stato nei confini del 1967 e Gerusalemme Est come capitale».

INGLESI PENTITI DELLA BREXIT

La Gran Bretagna, tre anni dopo l’uscita dall’Unione europea, si è pentita. Nel Paese ora prevale il cosiddetto «bregret», con l’incubo di una pesante recessione economica. Leonardo Clausi per il Manifesto.

«Lo dicono i sondaggi: solo un cittadino britannico su cinque pensa che fuori dall’Ue sia andata/stia andando bene. Stanotte scoccava l’anno terzo dell’inizio formale dell’era Brexit, ma a fanfare mute. E più che un anniversario (sarebbero seguiti altri 11 mesi nel blocco per gestire la transizione) è parso un suffragio, offuscato com’era dalle doglianze diffuse sullo stato dell’economia. Messo prepotentemente in secondo piano dall’intreccio di pandemia, guerra, crisi ambientale/energetica, l’entusiasmo iniziale di tre anni fa - peraltro limitato a quel 52% di secessionisti vincitori del referendum del 2016 e poi delle elezioni del 2019 in sella al focoso Boris Johnson - è andato erodendo l’importanza di quel distacco identitario. E la recessione ha fatto il resto. Gli economisti avvertono che dovrebbe colpire il Regno Unito due volte più duramente di quanto non si pensasse in precedenza. In un’epoca di alti tassi di interesse, l’economia britannica sta facendo peggio di tutte le economie del G7: di quella tedesca, ma anche di quella russa. Il Fondo monetario internazionale (Fmi) prevede una contrazione dello 0,6% contro una crescita dello 0,3% prevista lo scorso ottobre: il Regno Unito sarà l’unico paese ad avere un calo di Pil. Questo al netto di un’inflazione ancora inchiodata al 10%, l’onda lunghissima e perdurante di scioperi, oltre che di un’impennata siderale del costo della vita patita da milioni di famiglie. Crollo della manifattura, industria automobilistica anemica, sistema sanitario nazionale genuflesso, non erano esattamente quanto promesso dai brexittieri. Attese disattese, insomma, mentre oggi scioperano ferrovie e autobus, maestri scolastici, funzionari pubblici. Dopo una sequela di debacle e tre leader in pochi mesi, nel banchiere miliardario Rishi Sunak il partito conservatore - al timone del paese da dodici anni e nel bel mezzo di una congiuntura economica ritenuta la peggiore nella memoria recente bisbiglia di aver trovato uno capace di guidarli, se non allo sbaraglio, almeno verso una dignitosa sconfitta. Risultato? Una buona parte del paese versa nel cosiddetto bregret (Brexit + regret, rimpianto) ennesima grigia crasi a punteggiare il dibattito su questo divorzio all’europea. Secondo Ipsos Mori, a livello nazionale, il 45% degli intervistati pensa che Brexit stia andando peggio del previsto, in aumento rispetto al 28% del giugno 2021. E se il 66% degli elettori del Remain lo ritiene prevedibilmente un fiasco, lo stesso vale anche per il 26% degli elettori del Leave, dato quest’ultimo abbastanza eloquente: l’accordo economico con l’Ue «pronto per il forno» - come lo definiva Johnson mentre guidava trattori in campagna elettorale - si sta rivelando immangiabile. Tuttavia, va ricordato quanto il voto Leave sia stato assai più emotivo - e quindi ideologico che dettato dalla razionalità economica. Per questo, il paese fa amare spallucce. «Get on with it!», Indietro non si torna. E chi vorrebbe, considerando il trauma appena trascorso. I giornali neoliberisti filoeuropei “di sinistra” sono naturalmente irti di liste di inadempienze/ritardi rispetto alla concorrenza che risospingono il paese verso l’odiatissima condizione di «sick man of Europe», quando, cinquant’anni prima, bussava alle porte di Bruxelles implorando asilo economico. Dopo aver sfinito gli interlocutori nell’esercizio del «ve l’avevamo detto...» adesso invitano al realismo, all’elaborazione del lutto: vogliono - come dice il leader laburista Keir Starmer - «far funzionare Brexit» riavvicinandosi all’Ue per quanto possibile. Quelli neoliberisti euroscettici di destra fanno il possibile per addossare quasi del tutto la colpa della miseranda performance economica alle succitate pandemia e guerra, dando doveroso spazio agli ortodossi della Brexit, convinti come sono, non del tutto a torto, che l’«establishment» britannico - soprattutto i funzionari civili e il senato - siano il nemico e invitando gli scontenti a temprarsi nell’attesa dei miracoli venturi».

INDIA, RAHUL GANDHI GUIDA LA MARCIA DELL’OPPOSIZIONE

Doppia paginata del Corriere della Sera dedicata a Rahul Gandhi, intervistato da Aldo Cazzullo, durante la lunga marcia della pace in India che lo ha consacrato capo dell’opposizione al governo di Narendra Modi.

«Suo bisnonno fondò l’India moderna. Sua nonna era la leggendaria Indira Gandhi, assassinata dalle guardie del corpo sikh. Suo padre era il primo ministro Rajiv Gandhi, ucciso dalle Tigri Tamil. Sua madre è Sonia, nata a Orbassano, diventata leader del Partito del Congresso, che dopo aver governato per mezzo secolo ha ceduto il passo, anche sotto il peso degli scandali, ai nazionalisti hindu di Narendra Modi. Ora, con questa lunga marcia, Rahul Gandhi si riprende il ruolo naturale di capo dell’opposizione, a un anno dal voto. Le sue interviste ai giornali stranieri sono rarissime, a maggior ragione se italiani. L’unico modo è reggerne il passo da podista, per ascoltare una storia straordinaria, mai raccontata nei dettagli.

Mister Gandhi, perché la marcia?
«Per ascoltare e capire i miei compatrioti, e per ascoltare e capire me stesso. Nel profondo.
Tutti dicono che siamo un Paese pieno di odio: una persona contro l’altra, una religione contro l’altra, una provincia contro l’altra. Volevo scoprire se è vero».

È vero?
«No. Tantissima gente non odia nessuno, anzi si vuole bene, si aiuta, si prende cura degli altri».

E la polarizzazione tra hindu e musulmani, che spesso degenera in scontri?
«La polarizzazione esiste. Anche l’odio. Ma non come li raccontano i media e il governo che controlla i media, per distrarci dalle vere questioni: la povertà, l’analfabetismo, l’inflazione, la crisi post-covid dei piccoli imprenditori indebitati e dei contadini senza terra».

E cos’ha capito degli indiani e di se stesso, alla fine della marcia?
«Che i limiti di ognuno, me compreso, sono molto oltre quel che pensiamo. In sanscrito, la lingua più antica al mondo, esiste una parola, Tapasya , difficile da comprendere per una mente occidentale. Qualcuno la traduce con «sacrificio», «pazienza», ma il significato è un altro: generare calore. La marcia è un’azione che genera calore, ti fa guardare dentro te stesso, ti fa capire la straordinaria resilienza degli indiani. Un popolo fantastico, incredibile, capace tanto di sopportare quanto di amare».

Quale incontro l’ha colpita di più?
«Molti. Alcuni divertenti, altri scioccanti. Nel Madhya Pradesh ho incontrato cinque bambini, il più grande aveva 12 anni, talmente conquistati dallo yatra che sono scappati di casa per unirsi a noi: me li sono ritrovati davanti in Punjab, abbiamo dovuto chiamare i genitori affinché se li riprendessero. Adesso sono di nuovo qui in Kashmir».

E l’incontro più scioccante?
«Verso l’inizio, in Kerala. Temevo di non farcela perché mi era tornato il dolore al ginocchio destro, operato anni fa dopo che mi ero lacerato il menisco giocando a pallone. Una bambina si avvicinò e mi porse una lettera, dicendo: leggila dopo. C’era scritto: “So che soffri per migliaia di persone come me. Ce la farai. Non posso marciare con te, ma mi sentirai al tuo fianco. Sarò la tua ispirazione” (Rahul si commuove). Il dolore mi è passato. Lo yatra , la marcia, ha questo di speciale: non è solo una somma di persone. È viva. Ti parla».

Che cosa intende?
«Le racconto un’altra storia. C’è un ragazzo che vuole rompere il cordone della polizia. La polizia lo ferma. Lui riappare dall’altra parte. Chiedo di lasciarlo passare. Mi si avvicina, mi punta il dito, e dice: “So cosa sei venuto a fare qui. Altri hanno aperto un supermercato dell’odio. E tu vuoi aprire un negozio d’amore».

La democrazia indiana è in pericolo?
«La democrazia indiana non esiste più. Ma ora comincia il contrattacco».

Con la marcia?
«No. La marcia non è che l’espressione di un fenomeno molto più vasto, cui sono affidate le nostre ultime speranze. Vede, la democrazia indiana è molto diversa da quella occidentale. È giovane, ma viene da un’idea antichissima, che si è manifestata da ultimo nel Mahatma Gandhi: l’ Ahimsa , la non violenza. La democrazia è umiltà. È riconoscere l’altro. Io non ti sottraggo spazio; lo creo, facendo un passo indietro. La democrazia è credere nella natura umana. Quando il potere diventa violento e superbo, allora si arriva al fascismo».

Sta dicendo che l’India rischia il fascismo?
«Il fascismo c’è già. Le strutture democratiche collassano. Il Parlamento non lavora più: da due anni non riesco a parlare, appena prendo la parola mi staccano il microfono. L’equilibrio tra i poteri è saltato. La giustizia non è indipendente. Il centralismo è assoluto. La stampa non è più libera. La manifestazione del pensiero è proibita. La concentrazione della ricchezza è scandalosa. Gli estremisti hindu della setta Rss si sono infiltrati in ogni istituzione e la condizionano. La gente non vede futuro, perché è spaventata. Il regime usa la paura, perché sa che la paura è l’emozione più forte, da cui discendono tutte le altre».

Cosa pensa del premier Modi?
«Come ogni leader, è l’espressione di un’idea, di una parte del popolo. Mussolini è stato un’espressione degli italiani. Anche tra gli indiani, soprattutto nell’élite, ci sono molti che ritengono giusto il regime di Modi».

Crede che possa essere battuto alle elezioni del prossimo anno?
«Se l’opposizione si unisce, al cento per cento».
Guardi che nei sondaggi Modi è ancora molto forte.
«Non ho detto che perderà di sicuro; ho detto che di sicuro è possibile batterlo. A patto di opporgli una visione: non legata alla destra o alla sinistra, ma alla pace e all’unione. Il fascismo si sconfigge offrendo un’alternativa. Se al voto si confronteranno due visioni dell’India, potremo prevalere».

Modi non ha condannato l’aggressione della Russia all’Ucraina. Dovrebbe farlo?
«È una questione di politica estera, in cui non voglio entrare».

È una questione globale. Non teme una guerra atomica?
«Le cose possono finire male. Il collasso dei sistemi politici, e l’escalation della tecnologia, rischiano di far degenerare la situazione. Per questo auspico una soluzione pacifica, il prima possibile».

L’India può fare di più contro il riscaldamento del pianeta?
«Dobbiamo fare di più, pensando la difesa dell’ambiente e lo sviluppo non come antitesi, ma come sinergia. Nessuno può tirarsi indietro: gli Stati Uniti, l’Europa, la Cina. E certo neppure l’India. Senza dimenticare che siamo una nazione povera».

Ma siete quasi un miliardo e mezzo. Quest’anno supererete la Cina e diventerete la nazione più numerosa della terra.
«È una grande responsabilità. Ed è anche un avviso al mondo: perdere la democrazia indiana sarebbe un disastro per tutti».

Come dovrebbe essere la relazione tra l’India e la Cina?
«Di pacifica competizione. Non credo che l’Occidente possa essere competitivo con la Cina a livello industriale, soprattutto nelle produzioni a basso valore aggiunto. L’India può e deve esserlo. Per la resilienza del suo popolo».

BENEDETTO XVI, UN PAPA QUASI ILLUMINISTA

Ad un mese dalla morte di Joseph Ratzinger, Lucia Capuzzi intervista il filosofo Massimo Borghesi per Avvenire.

«Un « Papa moderno» dal pensiero quasi «illuminista ». È un ritratto in controtendenza con certa narrativa dominante quello che il filosofo Massimo Borghesi traccia di Benedetto XVI, a un mese esatto dalla sua scomparsa. Grande esperto di etica e religione e profondo conoscitore dei riferimenti filosofici degli ultimi Pontefici, il docente dell’Università di Perugia ha dedicato al magistero politico di papa Ratzinger “Senza legami. Fede e politica nel mondo liquido”, pubblicato da Studium. « È stato il primo Pontefice a rivalutare l’illuminismo e il suo concetto moderno di libertà».

In che senso Benedetto XVI è un Papa moderno?
Il suo orizzonte è patristico. I Padri della Chiesa, a partire da Agostino che costituisce il suo principale riferimento, sono strenui difensori della libertà di coscienza. È il cristianesimo a introdurre questo principio inedito nel mondo antico. Da tale nucleo, l’illuminismo svilupperà i concetti di libertà e universalità dei diritti umani su cui si fonda la cultura moderna. Tuttavia, dagli anni Sessanta del Novecento, la modernità viene sottoposta a una critica feroce che finisce per minare il principio dell’esistenza di prerogative universali dell’essere umano. Queste ultime si fondano su una comune idea di uomo che il nichilismo vuole decostruire. Il risultato non è un politeismo di valori bensì di “nature umane”.

È questo il relativismo di cui parla Benedetto XVI?

Esatto e per papa Ratzinger rappresenta un rischio per la democrazia. Se non c’è più una comune radice, chi ha più potere ha modo di imporre la propria idea di quanto è umano e quanto non lo è. Il relativismo, dunque, è il preludio di nuovi totalitarismi. Nella difesa di Benedetto XVI dell’universalità dei diritti c’è un’implicita rivalutazione della modernità dagli assalti del nichilismo.

Come ci si può opporre a quest’ultimo?
In un interessante dialogo con Jurgen Habermas, Joseph Ratzinger sviluppa l’idea della fede come orizzonte di senso nel vuoto dilagante. Non, però, nella forma di un ritorno al sacro o di nostalgia della cristianità. La rinascita della fede, secondo la sua visione, non avviene in modo trionfalistico bensì attraverso piccole comunità che crescono per attrazione.

Quali sono i suoi riferimenti dal punto di vista della filosofia politica?
L’agostinismo liberale mediato da Erik Peterson e dalla sua critica a Carl Schmidt. Tra Eusebio di Cesarea, che vede una identità tra la Roma imperiale e il cristianesimo, e Origene che, al contrario, professa l’assoluta separazione, il teologo Joseph Ratzinger sceglie Agostino e la sua teologia della storia dalla quale emerge una posizione legale e rivoluzionaria. La “città di Dio” convive con la “città degli uomini”, trascendendola, però, sempre. Ogni teologia politica, dunque, diviene una falsificazione della fede, una sua manipolazione per il potere.

Eppure i neocon hanno cercato di utilizzare il pensiero di Benedetto XVI per giustificare la “sacralizzazione” del capitalismo e del modello Usa…

Avevano già cercato di impadronirsi del pontificato di Giovanni Paolo II e poi ci hanno riprovato con Benedetto XVI sulla base di alcuni valori comuni come l’opposizione all’aborto e all’eutanasia. Questo non ha impedito che illustri esponenti neocon quali Micheal Novak e George Weigel scrivessero articoli infuocati contro “Caritas in veritate” e la sua critica all’assolutizzazione del mercato. Il loro intento di strumentalizzazione, dunque, alla fine è riuscito solo in parte.

Qual è secondo lei la più grande intuizione del pensiero di Benedetto XVI?

La sua capacità di far dialogare in modo critico cristianesimo e liberalismo moderno. In questo, è riuscito ad esprimere con originalità l’idea del Concilio che il cristianesimo non può fare a meno della libertà».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi  mercoledì 1 febbraio:

Articoli di mercoledì 1 febbraio

Share this post

«Giù le mani dall'Africa!»

alessandrobanfi.substack.com
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing