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Gorbaciov, il sogno della pace
È morto ieri Mikhail Gorbaciov, segretario del Pcus dal 1985 al 1991. Ma la Russia ha preso la strada della guerra "barbara e ripugnante", come dice il Papa. I tecnici Onu oggi a Zaporizhzhia
Mikhail Gorbaciov è stato un grande leader e un uomo di pace. È morto ieri, dopo una lunga malattia, a 91 anni in un ospedale di Mosca. Mai come in questo periodo la sua perestrojka, proprio nel momento in cui la storia sembra andare da un’altra parte, ha acquistato agli occhi del mondo un grande valore. Perché Gorbaciov, segretario generale del Pcus dalla primavera del 1985 al 1991, lascia questo mondo, proprio nel momento in cui la Russia sta distruggendo e rinnegando quello che lui aveva ottenuto e costruito. Come ha scritto stamattina Anna Zafesova “è morto nel momento in cui la storia russa ha compiuto una giravolta a 180 gradi”. Tutti però sanno, a cominciare dagli stessi russi, che il suo sforzo di conciliazione e di pace, la sua visione di una Russia in dialogo con l’Occidente erano la strada giusta. Ed è come se la follia della guerra (“barbara e ripugnante”, come ha ricordato ieri di nuovo papa Francesco) lo sottolineasse per contrasto. Pochi mesi fa è stato pubblicato l’intenso carteggio fra Giulio Andreotti e Mikhail Gorbaciov avvenuto negli anni dal 1985 al 1991: in quegli scritti che hanno viaggiato fra Roma e Mosca c’è una visione, in gran parte allora condivisa da Giovanni Paolo II, che purtroppo non ha prevalso nella storia. I potenti dell’Est e dell’Ovest hanno indirizzato altrove il corso degli eventi. Ma se è vero che il male spesso vince, colpisce come negli articoli di oggi ci sia una palpabile nostalgia di quel sogno di bene e di pace che Mikahil Gorbaciov ha rappresentato.
A proposito di invasione russa, oggi dovrebbe essere finalmente il giorno della visita dei tecnici dell’Aiea, l’agenzia atomica dell’Onu, alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. È un fatto importante, non solo per la sicurezza dell’Europa, ma perché rappresenta il secondo momento in cui si è raggiunto un accordo, dopo quello sul grano, fra le parti in guerra. Accordo dove Turchia e Onu hanno svolto un fondamentale ruolo di mediazione. Probabilmente una possibile tregua può arrivare dallo stesso tipo di trattativa. Intanto a Bruxelles si comincia finalmente a prendere sul serio la crisi provocata dal prezzo del gas. Il 9 settembre ci sarà una riunione dei Ministri dell’energia, von der Leyen ieri è tornata a promettere un intervento sul tetto del prezzo, la cui quotazione infatti non è salita.
In Italia la situazione è drammatica. Più la crisi del gas, intrecciata con l’inflazione, travolge tutto e più diventa evidente che trovarsi in campagna elettorale in questa congiuntura ci costerà aziende e posti di lavoro. Sono già scattati i primi “fermi produttivi” come li chiama oggi Il Sole 24 Ore. In più c’è il pasticcio sui cosiddetti Extra-profitti delle aziende energetiche. Oggi è l’ultimo giorno per la messa in regola, da domani scattano le sanzioni al 60 %. Ma gli espeti sono pessimisti: molte aziende preferiranno non pagare. Il Tar infatti si deve esprimere sulla natura della norma e lo farà solo l'8 novembre. Per evitare questo però il governo avrebbe potuto agire in modo più pragmatico. Ieri La Stampa e oggi Il Sole scrivono che il governo forse correggerà questo norma. Il Fatto accusa: le leggi dei Migliori sono state scritte con i piedi.
Al di là delle polemiche dei nostalgici di Conte, e che ancora pensano al Conticidio, la domanda a tutta la classe politica italiana è questa: ma se voi siete stati così irresponsabili da far cadere il governo Draghi in questa situazione, come potete chiedere alle aziende energetiche di essere invece responsabili e pagare una tassa sull’Extra profitto che forse il Tar cancellerà? Tanto più che l’ultima volta, in un caso simile, la Corte costituzionale non ha restituito i soldi alle aziende, dopo che un giudizio di merito aveva dato torto allo Stato…
Gli ultimi sondaggi vedono polarizzare il consenso: crescono Meloni e Conte, ma anche il Terzo Polo di Calenda e Renzi è accreditato al 7,5 per cento. Mentre quindici giorni fa era quotato al 2 (ma forse era propaganda). Il fatto è che nel caso della corsa al centro, uno dei pochissimi argomenti rimasti a Forza Italia è proprio quello dei numeri di Azione/IV: è sempre così nella logica del “voto utile”. Dunque anche i sondaggi sono condizionati e condizionanti, comunque la si pensi.
Le altre notizie dall’estero ci raccontano di un Medio Oriente in grande fermento: dalla Libia (bello l’articolo di Alberto Negri sul Manifesto) all’Irak, dove i disordini hanno avuto una tregua. E del continuo confronto fra Cina e Usa nello scacchiere del Pacifico.
La Versione si chiude con un interessante articolo di Lucio Brunelli su due religiosi scomparsi e di cui non si hanno più notizie: padre Paolo Dall’Oglio e il vescovo siro-ortodosso di Aleppo Mar Gregorios Yohanna Ibrahim. Amavano Dio e la Siria, anche se la pensavano in maniera opposta.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae Mikhail Sergheevic Gorbaciov, morto a 91 anni un ospedale di Mosca, dopo una lunga malattia. È stato segretario generale del Pcus dalla primavera del 1985 fino al 1991. Anche grazie alle sue riforme è caduto il socialismo reale e il Muro di Berlino.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera dà spazio alle richieste dei leader: Gas, pressing dei partiti. Il Giornale lancia un allarme: Il gas soffoca il Nord. Il Quotidiano Nazionale nota amaramente: Caro-gas, 50 miliardi non sono bastati. Il Fatto attacca Draghi: Bocciati i Migliori, leggi scritte coi piedi. Il Sole 24 Ore ricorda a tutti la crisi dell’industria: Scattano i primi fermi produttivi. Bonomi: «Imprese in difficoltà gravi». Il Mattino anticipa: Razionamenti, c’è il piano. Il Messaggero guarda a Bruxelles: Spinta Ue per il tetto sul gas, ma le città saranno più buie. Avvenire sottolinea il nuovo intrevento del Papa contro la guerra: A difesa della vita. Il Domani rivela un sostegno a Fratelli d’Italia: Dell’Utri junior finanzia Meloni. L’azienda gira 10 mila euro a FdI. Il Manifesto critica Meloni: Il buio oltre la fiamma. La Repubblica accusa: Destra, divisi su tutto. La Stampa propone un sondaggio: Vola FdI, Conte aggancia Salvini. La Verità denuncia: Morandi, il pedaggio di Autostrade 600.000 € per uscire dal processo. Libero sostiene che non ci sono norme sui contagiati e le urne del 25 settembre: Covid, 660 mila italiani esclusi dal voto.
GORBACIOV, UN GRANDE DELLA STORIA
È morto ieri a Mosca, a 91 anni, dopo una lunga malattia, Mikhail Gorbaciov. Sarà sepolto accanto alla moglie Raissa nel cimitero di Novo Devichye. Il primo commento selezionato oggi dalla Versione è di Paolo Valentino per il Corriere della Sera. Gorbaciov demolì il Muro e passa alla storia come un gigante senza pace.
«Un eroe tragico, un gigante senza pace, il comunista che cercando di salvarlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni preparò la fossa al primo Stato socialista della Storia. Tutto questo e altro ancora è stato Mikhail Sergeyevich Gorbaciov, l'uomo che, come Icaro, pensò di poter volare vicino al sole ma finì per distruggere sé stesso e l'opera che voleva preservare. Se potessimo arbitrariamente ridurre a una sola persona, a una sola biografia il Novecento e quelle che Paul Klee chiamava le sue Harte Wendungen, le sue svolte brusche, molto probabilmente questa sarebbe Gorbaciov, ultimo leader dell'Unione Sovietica, vero demolitore del Muro di Berlino e architetto di quella perestrojka che si rivelò il canto del cigno della Superpotenza comunista. «Non si poteva andare avanti allo stesso modo», disse in una delle ultime interviste ricordando il suo disperato tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, travolto dalla bancarotta ideologica, politica ed economica. Un passo obbligato, nella sua visione, ma un passo avventato. Che in fondo lo denudò come cattivo marxista: al contrario dei compagni cinesi, che avrebbero aperto a un capitalismo selvaggio stringendo le viti della democrazia e difendendo brutalmente il ruolo di guida del partito, Gorbaciov iniziò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, la fine della censura, il diritto a manifestare) mentre si mosse poco e confusamente nella struttura economica, mezze riforme e timide aperture al mercato. E intanto, costretto dal riarmo dell'America di Reagan e sperando negli aiuti dell'Occidente, col quale si era vantato di avergli tolto il nemico, cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica: gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali, il patto di Varsavia, le aree di influenza. Quando nel 1989, il generale Sergeij Akromeev incontrò per la prima volta il nuovo capo della delegazione americana ai negoziati Start, Richard Burt, gli disse senza perifrasi che Gorbaciov aveva tradito il comunismo, ma che lui, che aveva combattuto nell'assedio di Leningrado, non avrebbe mai permesso che l'Unione Sovietica venisse umiliata in quella trattativa. Andò diversamente. Ma l'aneddoto conferma che quella di Gorbaciov era la ricetta perfetta per essere odiato in patria: i russi stavano peggio, vedevano la loro superpotenza denigrata e per la prima volta in quattro secoli potevano anche protestare a voce alta. L'Occidente e il mondo devono però molto a Michail Sergeyevich, che non si è mai pentito delle sue scelte, convinto che non si potessero negare le aspirazioni alla libertà e alla democrazia di polacchi e cechi, ungheresi e tedeschi dell'Est. Rimane scolpita nel marmo la frase con cui ammonì Erich Honecker, eterno leader della Ddr, innescandone la fine: «La vita punisce chi arriva in ritardo». Il paradosso fu che la profezia sarebbe valsa anche per lui. Si è sempre lamentato Gorbaciov, che dopo la fine della Guerra fredda i leader occidentali non seppero costruire una nuova architettura della sicurezza in Europa. E che nell'umiliazione inflitta alla Russia negli anni Novanta affondino le radici del revanscismo neo-imperiale di Vladimir Putin. Verità elementare. Ma la sua ferma convinzione che ogni nazione dovesse decidere da sé il proprio destino, riassunta da un suo collaboratore nella cosiddetta «dottrina Sinatra» citando la celebre My Way, è l'esatto opposto della pretesa dell'attuale leader del Cremlino di poter imporre lui, a suon di cannonate, cosa debbano essere un Paese e un popolo. Requiem per un grande della Storia».
QUEL SOGNO DI PACE TRADITO DA PUTIN
L'analisi di Anna Zafesova per La Stampa. Il sogno di pace di Gorbaciov è stato tradito dalla Russia di Putin: “La sua fine coincide col momento in cui la storia russa ha compiuto una giravolta a 180 gradi e tutto (o quasi) quello che aveva conquistato o costruito è stato distrutto e rinnegato”.
«C'è qualcosa di simbolico nel fatto che Mikhail Gorbaciov sia morto proprio mentre la Russia emersa da quell'impero sovietico che lui aveva cercato di salvare pacificamente stia naufragando nel sangue e nella vergogna. Chi lo ha frequentato negli ultimi mesi diceva che a 91 anni restava lucido e sapeva della guerra. Era quello l'incubo al quale aveva sacrificato la sua carriera, accettando a soli 60 anni di diventare un pensionato, dopo essere stato uno degli uomini più potenti e popolari al mondo. Per lui, come per Vladimir Putin, la fine dell'Unione Sovietica era la tragedia più grande del '900, ma a differenza dell'attuale leader russo il primo e ultimo presidente sovietico aveva scelto la pace come priorità della sua missione politica e umana, e probabilmente non ci poteva essere per lui una punizione peggiore che morire sapendo che il suo Paese stava bombardando l'Ucraina, il Paese dal quale veniva sua madre e del quale cantava con una bella voce intonata le canzoni popolari quando era di buon umore. Mikhail Sergeevich Gorbaciov - figlio di contadini arrestati da Stalin, studente moscovita idealista nel disgelo di Krusciov, funzionario del comunismo brezhneviano, il demolitore del Muro di Berlino, il Nobel per la pace premiato per il disarmo nucleare - è morto nel momento in cui la storia russa ha compiuto una giravolta a 180 gradi, e tutto (o quasi) quello che lui aveva conquistato o costruito è stato distrutto e rinnegato. Era entrato nella Storia già trent' anni prima di morire, eppure è morto sconfitto. Se la Russia di Putin è arrivata a pensare che la perestroika gorbacioviana fosse stata un tragico errore, e si è posta come obiettivo quello di tentare di riportare l'orologio della storia al 1984, è colpa probabilmente anche dell'idealismo di Mikhail Sergeevich. Politico di magistrale bravura nella retorica e nell'intrigo, era però anche uomo di compromessi e mezze misure, che aveva sottovalutato il pericolo dei conservatori comunisti che cercava di tenere a bada mentre aveva sopravvalutato la lealtà dei suoi alleati riformisti. Aveva cambiato il mondo alla cieca, quasi d'istinto, mosso spesso più da un senso morale che da una consapevolezza chiara: era un uomo sovietico, che era arrivato a tastoni alla necessità di distruggere il sistema in cui era nato, ma senza riuscire ad accettarlo. Non l'avrebbe mai ammesso, ma era un rivoluzionario: nel modo in cui sceglieva la libertà, nel modo in cui aborriva la violenza anche quando vi rimaneva immischiato, ma anche nel modo in cui aveva portato nel mondo anaffettivo del Cremlino l'amore dichiarato per la sua Raissa. Aveva liberato dal Gulag i dissidenti. Aveva dato la libertà di parlare e creare agli intellettuali. Aveva fatto finire la guerra fredda, firmando con un presidente americano anticomunista come Ronald Reagan accordi sul disarmo nucleare che oggi sembrano appartenere a un mondo che abbiamo soltanto sognato. Aveva lasciato andare i Paesi dell'Europa dell'Est, accettando che gli ex satelliti sovietici tornassero in Europa, un "crimine" che gli ispiratori del putinismo ancora non riescono a perdonargli. Aveva portato a Mosca quello che nessuno aveva mai visto: un politico che sorrideva, discuteva, che andava tra la gente e parlava a braccio. Un politico che sbagliava e ammetteva i suoi errori. Un leader che sapeva chiedere scusa e chinare il capo. Un potente che aveva invocato la fine di un mondo governato dalla forza. Uno statista che si era inserito da pari in un mondo di grandi leader occidentali, e che è stato amato all'estero proprio per la qualità che più è stata odiata in patria: il rifiuto della violenza, la visione che il potere politico si conquista e si negozia e non si impone».
CON LUI IL MONDO È CAMBIATO PER SEMPRE
Ezio Mauro, per anni corrispondente da Mosca, ricostruisce la vicenda umana e politica di uno dei personaggi chiave del Novecento.
«"Slava Bogu", gloria a Dio, disse a sorpresa Mikhail Sergheevic Gorbaciov in quel cortile dell'asilo dov'erano schierati i bambini per salutarlo nella visita di Stato in Finlandia. I due corrispondenti che lo avevano seguito fino a quell'inutile coda del cerimoniale di giornata cercarono di raggiungerlo per chiedergli conto di quelle due parole clamorosamente estranee al vocabolario ufficiale sovietico, ma furono bloccati dagli uomini del Kgb mentre Raissa Maksimovna, la moglie del leader russo, lo portava via di fretta, avvertito il pericolo. La banda militare sulla piazza incominciò a suonare e la musica sovrastò il dubbio dell'eresia comunista finale, sospeso nell'aria: il Segretario Generale del Pcus credeva forse in Dio, nel segreto della sua coscienza comunista? Quattro anni dopo, ormai deposto dal potere, Gorbaciov potè finalmente rispondere privatamente a quella domanda: era stato battezzato nel villaggio di Stavropol per volontà della vecchia nonna, ma tutto si era fermato a quel giorno, non era religioso anche se riconosceva che senza quel Papa slavo, con cui era scattato qualcosa di "magico" fin dal primo incontro in Vaticano, nulla di quel che era cambiato nell'Est europeo sarebbe potuto accadere. In realtà non credeva più da tempo in nessun Dio, il Presidente dell'Unione Sovietica, nemmeno nell'idolo comunista mummificato per sempre sulla Piazza Rossa. "Lo conosco bene, garantisco io per lui - disse Andrei Gromiko al Plenum del Comitato Centrale del Pcus che doveva eleggerlo, nella primavera del 1985. -. E' giovane ma ha i denti d'acciaio". Il partito era stremato e febbricitante, come se avesse fisicamente vissuto sul suo corpo gigantesco l'eterna agonia di Kostantin Cernenko, il Segretario Generale morto a 74 anni dopo dodici mesi in cui non si mostrava in pubblico, per un male che il pudore liturgico del Pcus non riusciva nemmeno a pronunciare in pubblico. Dopo la lunga stagnazione brezneviana, il Pcus aveva tentato una modernizzazione ideologicamente controllata, affidandosi alla specializzazone del capo del Kgb, Jurij Andropov. Il suo regno fu però brevissimo, spezzato da una malattia, e il vecchio apparato comunista preferì non correre avventure affidandosi con Cernenko al campione della vecchia guardia. Ma nei mesi dell'immobilismo, senza una leadership visibile, la superpotenza appassiva, sempre più rinchiusa su se stessa e il sistema sentiva dissolversi autorità ed energia in una sorta di autofagia della nomenklatura che occupava il potere più che esercitarlo, consumandosi. In quei pochi anni, nella clinica dov'era ricoverato lontano dai rigidi protocolli leninisti del Cremlino, Andropov (che aveva in mano i dossier di tutto il partito) si era intanto creato un network informale di giovani comunisti, li interrogava, li consultava, li metteva in contatto tra di loro, li studiava da vicino. Era la nuova leva, pronta il giorno in cui la crisi del sistema avesse consigliato all'istinto di sopravvivenza del vecchio Pcus di saltare una generazione, tentando il rinnovamento. L'11 marzo del 1985 con l'avallo di Gromiko quel momento arrivò, e Gorbaciov entrò a 54 anni al Cremlino come Segretario Generale, capo del partito e del Paese di cui quel partito era l'unico padrone. Con vent'anni in meno del suo predecessore, Gorbaciov rappresentò subito per tutto il mondo una rottura iconografica, spezzando per sempre l'immagine compatta e immobile dei capi del Politbjuro schierati come un unico blocco di potere inscalfibile sul granito del mausoleo di Lenin ad ogni Ottobre, con le stesse sciarpe grigie, i gesti identici, i medesimi cappelli sovietici. Non era soltanto l'anagrafe, che nel Paese della paralisi gerontocratica già da sola rimetteva in movimento una storia bloccata: al nuovo Segretario Generale il partito affidava il compito di un cambiamento troppo a lungo rinviato, naturalmente nel registro rigoroso dell'ortodossia comunista, perché la superpotenza padrona di metà del mondo aveva improvvisamente scoperto sul bordo estremo della Guerra Fredda di avere i piedi d'argilla. L'uomo che entrò quel giorno dalla Torre Spasskaja per assumere su di sé il comando e il mistero del Cremlino non aveva una teoria del cambiamento e nemmeno una teoria politica. Veniva dal villaggio di Privolnoe nella regione di Stavropol, qui aveva dato il primo bacio a una ragazza che recitava con lui nel teatro del Paese, aveva studiato economia agraria poi era diventato capo del partito locale a 39 anni, a 47 era entrato nel Comitato Centrale, dopo che a Mosca si era innamorato di una studentessa di un anno più giovane che aveva sposato quasi subito, Raissa Titarenko. Il profilo di un bolscevico di provincia con un'unica finestra sul mondo, inconsueta, quando dopo una visita ufficiale di partito a Parigi i giovani e sconosciuti Mikhail Sergheevic e Raissa Maksimovna affittano una Renault e viaggiano da soli per quindici giorni attraverso la Francia, quasi una fuga con gli occhi sovietici per la prima volta spalancati sull'Europa e sull'Occidente. L'orizzonte dentro il quale Gorbaciov si muove è tutto all'interno del comunismo fatto Stato, una corazza che va rinnovata per poter essere conservata, quasi una straordinaria manutenzione. Non c'è un progetto culturale o un ceto sociale di riferimento. C'è il cambiamento come necessità che diventa rapidamente una scelta, quindi una politica, con il suo programma riassunto in due parole - perestrojka e glasnost - che fissano l'obbligo ma anche il limite della nuova avventura. Il sistema va ristrutturato, resettato, perché non funziona. Ma il sistema non è in discussione. Il Segretario mette in movimento un meccanismo di riforma che non sa dove porterà. Ma che intanto, poco per volta, scardina vecchi equilibri, attira l'attenzione del mondo, brucia la sponda da cui è partito. L'altra sponda, quella della democrazia, non si avvicinerà mai nei sei anni del cambiamento. Il gorbaciovismo non concepisce una fuoruscita dal sistema, il leader è leale con il partito che lo ha scelto e che via via lo contrasta perché ha terrore delle riforme, e il comunismo sovietico ferma il suo nuovo alfabeto su due concetti intermedi a sovranità limitata (ristrutturazione, trasparenza), senza mai giungere all'approdo definitivo della democrazia, della verità. Ma in un Paese irrigidito dall'ideologia e prima dal terrore, per settant'anni, il movimento scomposto e disordinato, e tuttavia liberatorio della perestrojka ha agito come un terremoto improvviso che cambiava le regole interne al Paese, modificava il costume, investiva la politica estera fino a far sembrare possibile l'impossibile, superando la soglia russa dell'incredibile. I russi, piegati dalla sovietizzazione, non volevano più credere, trasformati da sudditi in bolscevichi senza mai essere diventati cittadini a pieno diritto. Ma ecco che la glasnost libera a sorpresa "Pentimento", il film di Abuladze sullo stalinismo, e tutti corrono a riempire le sale per vederlo. Ecco che il regista Ljubimov torna dall'esilio e per lui si aprono le porte proibite del teatro Taganka, e può far volare Margherita su quel palco fino alle braccia del Maestro. E poi il telegiornale "Vremja" che alle 9 di sera mostra il ritiro dell'Armata Rossa dall'Afghanistan, inquadrando il generale Gromov che attraversa per ultimo il ponte sull'Amu-darja. Ecco la trattativa sugli euromissili che comincia davvero, e decolla. E quel treno che arriva da Gorkij alle sette meno un quarto di una mattina di dicembre per sbarcare alla Jarovslaskij Vaksal Andrei Sacharov ed Elena Bonner, i dissidenti liberati per sempre dalla maledizione comunista del confino. Cominciano a credere che sia possibile tornare a sperare persino i "shestidisiatniki", gli uomini che erano giovani durante gli Anni Sessanta e che si erano esposti a sostegno del disgelo kruscioviano, subito abiurato e rinnegato dal ritorno d'ordine brezneviano, con la sua repressione e il grande freddo sulle illusioni. Nel mondo per prima rompe l'isolamento Margaret Thatcher, leader d'acciaio dell'Inghilterra e dei conservatori, spiegando che "con quest'uomo si può fare business", l'Occidente si può fidare. Poi sbarca addirittura a Mosca l'uomo che aveva battezzato l'Urss come "l'impero del male" e le televisioni occidentali inquadreranno Ronald Reagan mentre fa uno strappo al protocollo e d'accordo col Cremlino passeggia sull'Arbat, stringendo la mano ai passanti stupefatti come i cameramen della Cnn che stanno trasmettendo l'inimmaginabile. Quindi la visita del Segretario Generale in Vaticano, quel lungo colloquio con Karol Wojtyla, le fotografie e il giorno dopo la benedizione del Papa polacco che ricambia il favore: "Anche senza di lui, senza questo leader russo, niente di quel che è successo all'Est sarebbe stato possibile". Ma la storia che Gorbaciov aveva liberato dalla fissità ideologica, comincia a ribellarsi a lui, pretendendo di fare il suo corso fino in fondo. Il partito è l'unica leva del cambiamento, in un Paese che non ha una classe dirigente di ricambio, ma il partito diventa la forza di resistenza. Gorbaciov tenta di spostare l'asse del potere verso lo Stato, diventando Presidente, ma l'operazione rimane a metà e il Paese diventa un mostro a due teste. Soprattutto l'economia s'inceppa, l'iniziativa privata non parte perché manca quella propensione culturale, genetica che ci sarà in Cina, mentre la macchina degli approvvigionamenti statali viene messa in crisi con la carne razionata in 26 regioni della Federazione russa nel 1989, anno quarto dell'era gorbacioviana, il burro in 32, lo zucchero in 53. Quando i minatori della "Fossa del Porco", la vecchia "Miniera Stalin" del Kuzbass nella Siberia occidentale si fermano perché manca non solo il cibo, ma i vestiti di lana e addirittura il sapone, va in scena il primo clamoroso sciopero nel paradiso dei lavoratori, spia di un mondo che si sta rovesciando su se stesso. Sollecitata da troppe parti, senza una strategia, la corazza eterna del sovietismo si spezza. Un milione di persone sbucano in piazza a Vilnius dietro una croce per reclamare l'indipendenza, nella televisione di Stato una sera del '90 a Tallin riemerge all'improvviso e in diretta la lingua estone al posto di quella russa, qualcuno in Ukraina copre con la vecchia bandiera nazionale la statua di Lenin perché non veda e non senta i consiglieri regionali che inaugurano la seduta del 19 aprile 1990 con la preghiera del "Padre nostro", mentre nelle repubbliche caucasiche si alzano urla di ribellione contro il Cremlino, insieme con invocazioni ad Allah, santo anche nelle vendette. Tutti i vecchi dei sembrano darsi convegno nel cielo in burrasca sopra il Cremlino. Ma sotto, la terra russa ribolle. Bisognava forse cogliere il presagio infausto della fuga nucleare a Chernobyl. Tutto il resto segue. Nei Paesi Baltici l'impasse gorbacioviano è un'occasione storica perché quei popoli riprendano in mano il loro destino, tentino di forzare la sovrastruttura sovietica ed escano dalla prigione dell'Unione. Nei Paesi satelliti si coglie il cambio d'epoca che porterà alla caduta del Muro. Ma è nella capitale che avviene l'irreparabile. Cacciato dal partito, Boris Eltsin per la prima volta si ribella, si candida contro il Pcus e dunque contro Gorbaciov e diventa presidente della Russia. Dal blocco della costruzione stalinana del sovietismo si stacca e riemerge la Russia eterna, e si presenta sulla piazza Rossa come soggetto politico autonomo, anzi antagonista. Da quel momento, chiuso nel suo ufficio al Cremlino Gorbaciov diventerà Mikhail Senzaterra. Comincia l'assalto al Segretario senza un partito fedele, a capo di un Bjuro senza autorità, issato su un sacrario senza più fede. I conservatori di Ligaciov lo accusano di aver svenduto l'ortodossia, quasi un tradimento ideologico. I radicali lo condannano per aver risvegliato le speranze sepolte nel Paese per poi deluderle, più di un tradimento morale. Il popolo gli imputa gli scaffali vuoti, una riforma che inceppa il vecchio e non realizza il nuovo. In realtà due Gorbaciov camminano ormai per le strade del 1991: fuori dalla Russia Mikhail Sergheevic è il primo riformatore di un sistema costruito col ferro e col fuoco per durare per sempre. In patria è l'ultimo Segretario Generale, capo di una nomenklatura odiata e subita alla quale si brinda in silenzio nelle case a Capodanno, augurandosene la morte. Ma le due immagini si sovrappongono nell'uomo che deve essere il guardiano del sistema e l'autore delle riforme che possono scardinarlo. E fino all'ultimo Gorbaciov sarà dominato da questo doppio demone che si può riassumere in una formula sempre più disperata, che ripeterà a Cuba, sbeffeggiato da Castro e a Berlino Est, respinto da Honecker: bisogna riformare il comunismo per consentirgli di sopravvivere, perché il cambiamento è l'unico orizzonte possibile per il comunismo di fine secolo. Oltre questa frontiera dell'impossibile, l'uomo della perestrojka non riesce a spingersi nemmeno nell'immaginazione, perché questa è la curva estrema della sua formazione e anche della deformazione possibile del sistema. Ogni piccola apertura diventa infatti incontrollabile nel Paese del totalitarismo. Quando a Mosca un embrione di pluralismo consente ai primi candidati liberi di presentarsi nelle assemblee elettorali, il dibattito diventa subito un processo agli uomini del partito: "Di quanti metri quadrati è il tuo appartamento"? "Dov'eri ai tempi di Breznev"? "Dove compri le tue medicine"? Finché nell'agosto del '91 scatta il golpe comunista classico, con Gorbaciov agli arresti nella sua dacia di vacanza e il quadrilatero di ferro che prende il potere, con Janaev capo dell'apparato di partito, Krjuchkov capo del Kgb, Yazov capo dell'Armata Rossa, Pugo capo delle truppe dell'Interno nella giunta d'emergenza. Durerà poco per la ribellione di Eltsin in strada sul carrarmato. Poi lo scioglimento del pcus imposto in diretta televisiva a Gorbaciov con il dito puntato in un'accusa storica, accumulata in silenzio per settant'anni. Quel simulacro di golpe dimostra la verità del vecchio detto russo secondo cui "lo zar può essere soltanto sanguinario, o insanguinato", così come la vicenda gorbacioviana testimonia al mondo che il comunismo fatto Stato può essere spezzato ma non riformato. Quando scende la bandiera con la falce e il martello dalle torri sulla Piazza Rossa Gorbaciov è già nella solitudine dell'ultimo comunista sovietico, uno zar deposto. Gli è concesso di sopravvivere, chiuso in quella sua Fondazione sul Leningradskij Prospekt che via via ad ogni cambio d'era al Cremlino si vede requisire prima tre stanze, poi un piano, poi due, fino a rimpicciolirsi nel ricordo di una grandeur perduta, e riconosciuta soltanto fuori dalla Russia. Lì dentro, col fedelissimo Cernaiev, Gorbaciov ha contato per anni i seguaci che se ne sono andati ad uno ad uno, mentre la "vertushka", il telefono che collega la nomenklatura sovietica col centralino del potere, non squillava ormai più. L'ultima volta che l'ho visto, Mikhail Sergheevic sedeva alla scrivania in maglione, senza bandiere a fianco. Alla fine mi ha portato nella stanza dei trofei, dove sui muri c'è una lunghissima teoria di fotografie che lo ritraggono con i grandi del mondo, Reagan, Arafat, Giovanni Paolo II, Jaruzelsky. Si fermava davanti alle immagini che erano tappe di un'altra vita, raccontava qualche segreto di quegli uomini potenti, il retroscena di un incontro. E il visitatore invece nelle foto guardava la sua immagine giovanile, quell'energia sovietica che spuntava dagli abiti di regime sempre uguali a se stessi, e faceva sperare in una rivoluzione democratica che non avvenne, e tuttavia nella sua forma incompiuta e confusa rimise in movimento la storia e la geografia di un continente intero, imprigionate per decenni. Spente per sempre le luci delle telecamere straniere, che nella morte oggi si sono riaccese per l'ultima volta raccontando al mondo chi è stato Gorbaciov, chissà se i russi nei prossimi giorni porteranno un fiore sulla sua tomba senza onori di Stato, restituendogli quello "slava bogu" che gli scappò quel pomeriggio dell'altro secolo in Finlandia: in un paradossale "gloria a Dio" per l'ultimo Segretario Generale che morendo oggi prende su di sé tutte le colpe, l'eredità e i segni ancora visibili di un'epoca grandiosa e terribile. Se ne va proprio mentre la Russia invadendo l'Ucraina rinnega la sua visione di una coesistenza possibile tra i due imperi, garanzia di pace. Capo dell'onnipotenza comunista, Gorbaciov aveva provato a privilegiare il diritto sulla forza. Ma la tentazione democratica era una colpa insopportabile nella Russia di allora, oggi è addirittura un peccato mortale. Mikhail Sergheevic era sopravvissuto alla "grande epoca" e al suo stesso tentativo di correggerla: oggi, ignorato dal potere e dai cittadini, era ormai un eretico silenzioso famoso in tutto il mondo, dimenticato nel suo Paese».
OGGI GLI ISPETTORI A ZAPORIZHZHIA
Le notizie dalla guerra. Oggi è previsto l'arrivo degli ispettori Aiea alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Nel Sud del Paese le forze di Kiev continuano a riconquistare terreno: "Ci riprenderemo Kherson". Francesco Semprini per La Stampa.
«La strada verso Nikopol è inghiottita dalla distesa di girasoli imbruniti che precede la sponda ovest del fiume Dnipro: è la natura qui a disegnare la linea del fuoco tra Kiev e Mosca. Dall'altra parte il corso d'acqua è lambito da paesaggi ben più eretici rispetto alla narrativa bucolica. Sei reattori svettano maestosi dominando l'orizzonte, accanto le meno imponenti torri di raffreddamento dell'acqua. È lo skyline della centrale nucleare di Enerhodar, il punto zero dove oggi sono attesi gli ispettori delle Nazioni Unite, in un clima tutt' altro che lieve. Lo racconta il boato che si fa largo nel cielo opacizzato dall'insistente foschia che pesa a corpo morto sulle città gemelle, i due volti di Zaporizhzhia, quello ucraino e quello russo. Un bracciante motorizzato volge lo sguardo verso l'orizzonte, la nuvola nera si dissolve con lentezza, sembra piombata, lui invece non appare affatto sorpreso, non tradisce timore. Si chiama Igor: «É la quinta da stamattina», dice mentre è intento a raccogliere i girasoli con l'aiuto della macchina agricola pilotata dal collega. «Da settimane sono sempre più frequenti queste esplosioni, si stanno avvicinando sempre di più alla centrale - prosegue -, prima o poi faranno il danno, quello vero». Ma chi sono? «Sono loro, ma loro dicono che siamo noi, alla fine però è la gente a rimetterci». Il timore tra la popolazione di Zaporizhzhia cresce giorno dopo giorno, tanto da dividersi tra chi ritiene che la missione Aiea possa portare un po' di sollievo, e chi invece teme che sia usata come leva per alzare il tiro, magari ad altezza uomo. Timori che vengono ventilati anche dalle autorità ucraine. «La Federazione Russa sta deliberatamente bombardando i corridoi usati dalla missione dell'Aiea per raggiungere la centrale nucleare di Zaporizhzhia con l'obiettivo di deviarla verso il territorio temporaneamente occupato della Crimea e le regioni di Donetsk e Lugansk», denuncia Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente Volodymir Zelensky. Il quale tiene a precisare che la posizione dell'Ucraina non è cambiata e che la missione Aiea dovrà avere accesso «solo attraverso il territorio controllato dell'Ucraina».
Questa al momento l'unica certezza assieme al fatto che l'ispezione durerà da mercoledì a sabato. La precisazione del direttore Rafael Grossi definisce un periodo di permanenza più lungo rispetto alle precedenti 48 ore previste e potrebbe far pensare come gli esperti abbiano già in mano elementi per ritenere necessario un intervento d'urgenza. Il colpo di artiglieria che ieri l'altro ha colpito il tetto della palazzina uno dell'impianto causando un buco di evidenti dimensioni, impone di non escludere che danni siano stati già arrecati alla struttura, sebbene al momento il livello di radiazioni appare nella norma. E sulle responsabilità degli attacchi imperversa lo scambio di accuse. Altre due esplosioni sono state registrate ieri vicino all'impianto di stoccaggio del combustibile esaurito della centrale di Zaporizhzhia, hanno reso noto oggi funzionari delle amministrazioni insediate dagli occupanti a Enerhodar, secondo i quali si tratta di un attacco dell'esercito ucraino volto a minare il quadro generale di sicurezza. Sulla missione, intanto, è stato imposto il massimo riserbo da Kiev per evitare rischi e insidie. L'operazione Aiea, considerata il secondo importante successo diplomatico-negoziale in oltre sei mesi di guerra dopo la ripresa dell'export di grano ucraino, ha imposto la completa militarizzazione di tutta l'area. Le forze armate di Kiev hanno isolato di fatto la città di Nikopol, con posti di blocco e controlli invasivi. «Mi hanno controllato le borse, ero andata a fare un po' di spesa come ogni giorno», dice Anita, anziana signora con un fazzoletto liso color crema stretto sul volto che le incornicia lo straordinario viso rugoso e due occhi azzurri stretti come fessure. «Vivere qui è complicato ormai», prosegue. Per le bombe? «No perché con tutta questa attenzione non si può fare più nulla in pace, nemmeno andare a fare la spesa». E la guerra? «Non è la prima che vedo». Questa guerra, intanto, sembra aver ripreso spinta dopo il rallentamento dovuto al clima torrido dell'estate, a partire dal Sud, dove è iniziata da 48 ore la controffensiva delle truppe di Kiev. Intensi combattimenti sono in corso in quasi tutto il territorio di Kherson dove, secondo Oleksiy Arestovych, consigliere di Zelensky, le truppe ucraine hanno sfondato le difese russe in diverse aree del fronte, colpendo anche i depositi di munizioni russi in alcune aree. E l'esercito bombarda i traghetti nella regione di Kherson che Mosca utilizza per rifornire il territorio occupato sulla sponda occidentale del fiume Dnieper. Arestovych tuttavia mette in guardia da facili entusiasmi, una vittoria sul fronte meridionale non è cosa rapida. Di tenore diverso invece le parole del capo dell'amministrazione militare regionale di Mykolayiv, Vitaliy Kim secondo cui la «liberazione di Kherson non è lontana». Se il linguaggio è talvolta dissonante anche dalla stessa parte della linea del fronte, dall'altra le realtà sono agli antipodi. Per Mosca, l'esercito ucraino ha perso più di 1.200 uomini nelle ultime 24 ore nel tentativo di lanciare l'offensiva nella zona di Mikolayev-Krivoi Rog, a poche decine di chilometri a Nord di Kherson, e in altre aree. A questo si aggiunge la distruzione di 48 carri armati, 46 veicoli da combattimento di fanteria, 37 altri blindati, e otto pick-up con mitragliatrici di grosso calibro. Una riedizione di Caporetto, insomma, che conferma come la guerra dell'informazione, o propaganda, sia la nuova imprescindibile dimensione bellica di questo conflitto».
I RUSSI COLPISCONO FINTI BERSAGLI
Emergono i trucchi di Kiev per ingannare i nemici: finti bersagli allestiti per i raid dei russi. L'Ue punta a un addestramento integrato. Per il Corriere gli esperti di cose militari Guido Olimpio e Andrea Marinelli.
«Gli occidentali vogliono aiutare militarmente l'Ucraina nel lungo termine. E, come ha sottolineato il responsabile della diplomazia europea Josep Borrell, il risultato può essere conseguito attraverso un piano di addestramento integrato, tema discusso nella riunione di Praga dai ministri della Difesa comunitari, che dovranno comunque trovare un accordo per vararlo. Il diplomatico ha specificato i punti sui quali lavoreranno i Paesi dell'Unione europea. Primo. Definizione di parametri e necessità di Kiev. Secondo. Coordinamento e linee standard. Non è semplice perché i fornitori di sistemi sono quanto mai diversi: blindati, cannoni, anti-tank, anti-aerei non sono omogenei. Terzo. Il programma di training. Da capire se proseguirà in modo autonomo rispetto a quello già avviato dalla Gran Bretagna e al quale hanno aderito numerosi Stati (Canada, Svezia, Olanda, Nuova Zelanda, solo per citarne alcuni). In parallelo è in corso quello del Pentagono. Quarto. Il senso è che nessuno si fa illusioni e ci si prepara ad attività che non finiranno presto. Da qui arriva anche la necessità di avere mezzi sufficienti, con i governi che mettono le mani avanti su cosa poter dare. La visione sul futuro si mescola alle novità quotidiane, con la battaglia nella regione di Kherson e le mosse dei contendenti. L'inganno Gli ucraini usano finti bersagli per trarre in inganno i russi. In particolare hanno dispiegato dei modelli in legno che riproducono i lanciarazzi Himars, esche disseminate in zone d'operazione per costringerli a «sprecare» ordigni su falsi obiettivi. Secondo fonti citate dal Washington Post , gli invasori avrebbero sparato almeno 10 cruise Kalibr su alcuni di questi target. Più volte Mosca ha rivendicato infatti la distruzione di un alto numero di Himars e cannoni M777, ma in realtà avrebbe spazzato via delle «copie» e ha condotto gli strike usando armi la cui disponibilità non è infinita. Kiev si è preoccupata fin dai primi giorni di conflitto del mascheramento. Gruppi formati da donne hanno realizzato coperture mimetiche usando ciò che avevano a disposizione: teloni pitturati o cuciti insieme, oppure reti sulle quali hanno fissato centinaia di striscioline colore verde/marrone. I primi erano una soluzione rapida, però non ideale perché con la pioggia diventano pesanti e scomodi. Altri interventi sono stati riservati a blindati e fuoristrada spediti dagli Stati Uniti, veicoli tirati fuori dai depositi e con la «livrea» color sabbia in quanto reduci dai teatri mediorientali. Ci si chiede perché gli ucraini abbiano voluto rivelare la riuscita del diversivo con i falsi Himars. Risposte sparse degli osservatori: 1) Operazione «pubblicitaria». 2) Spingere i russi a interrogarsi ancora di più sull'esattezza dei bersagli. 3) Propaganda (anche per celare perdite). Droni iraniani I media americani tornano sulla collaborazione Iran-Russia e confermano un'indiscrezione della quale abbiamo già scritto: Teheran ha fornito centinaia di droni d'attacco, velivoli Mohajer 6 e Shahed trasferiti con un ponte aereo iniziato il 19 agosto. Per gli osservatori serviranno a coprire un settore in cui Mosca lamenta un deficit e, al tempo stesso, ne ha bisogno per colpire in profondità le linee ucraine. Secondo il Washington Post , però, alcuni dei droni avrebbero evidenziato problemi o guasti inattesi. Il Cremlino ha reagito sostenendo che si tratta di informazioni inventate».
IL PAPA: LA GUERRA È BARBARA E RIPUGNANTE
Papa Francesco torna a parlare in molto molto chiaro dell’invasione russa dell’Ucraina. La guerra è «barbara e ripugnante» ed è stata avviata da Mosca. Mimmo Muolo per Avvenire.
«Da che parte sta il Papa in relazione alla guerra ucraina? La domanda più volte posta su giornali e reti social in questi ultimi mesi ha ora una risposta ufficiale da parte della Santa Sede. Risposta che del resto era evidente anche solo considerando con attenzione i quasi quotidiani interventi del Pontefice sulla tragedia in atto, visto che in più di un'occasione aveva parlato di aggressione ingiustificata. Il Papa sta dalla parte della «difesa della vita umana e dei valori connessi ad essa». E le sue parole, dunque, non vanno considerate come «prese di posizione politica». Anche perché non si possono avanzare dubbi sulla sua inequivocabile condanna della «guerra di ampie dimensioni in Ucraina iniziata dalla Federazione Russa». Guerra definita in una nota diffusa ieri con terribili aggettivi: «Moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega». Il comunicato, diffuso a mezzogiorno tramite il bollettino della Sala Stampa vaticana, giunge a distanza di una settimana dalle dichiarazioni di Francesco nell'udienza generale di mercoledì scorso, che avevano suscitato una forte reazione da parte di Kiev, culminata nella convocazione del nunzio apostolico nella capitale ucraina, l'arcivescovo Visvaldas Kulbokas, da parte del ministero degli Esteri, Dmytro Kuleba. Aveva parlato, il Papa, dei «tanti bambini ucraini e russi che sono diventati orfani» e aveva avuto anche un'espressione di umana pietà per Darya Dugina, figlia dell'ideologo di Putin, Alexandr Dugin, morta in un attentato. Ma le autorità ucraine avevano interpretato questa parte dell'intervento, volto come sempre a chiedere la pace, come un voler porre sullo stesso piano ucraini e russi. Prima dell'intervento di ieri, a dire la verità, già il direttore editoriale dei Media Vaticani, Andrea Tornielli aveva parlato di un Papa «non equidistante, ma equivicino a chi soffre». E nel frattempo è arrivato anche l'annuncio che il patriarca russo ortodosso Kirill, non si recherà all'incontro interreligioso in programma in Kazakhistan dove invece sarà presente il Papa. Mentre resta sempre sullo sfondo un possibile viaggio di Francesco a Kiev, che la già ricordata irritazione ucraina sembrava aver allontanato. Per cui la nota di ieri va inquadrata anche alla luce di questa successione di eventi. «Nel contesto della guerra in Ucraina - si legge nel testo - sono numerosi gli interventi del Santo Padre Francesco e dei suoi collaboratori al riguardo. Essi hanno come finalità per lo più quella di invitare i Pastori ed i fedeli alla preghiera, e tutte le persone di buona volontà alla solidarietà e agli sforzi per ricostruire la pace». «In più di un'occasione, come anche nei giorni recenti, sono sorte discussioni pubbliche sul significato politico da attribuire a tali interventi. A tale riguardo, si ribadisce che le parole del Santo Padre su questa drammatica questione vanno lette come una voce alzata in difesa della vita umana e dei valori connessi ad essa, e non come prese di posizione politica». Infine la parte forse più significativa: «Quanto alla guerra di ampie dimensioni in Ucraina, iniziata dalla Federazione Russa, gli interventi del Santo Padre Francesco sono chiari e univoci nel condannarla come moralmente ingiusta, inaccettabile, barbara, insensata, ripugnante e sacrilega». La risposta di Kiev è giunta tramite l'ambasciatore presso la Santa Sede, Andrii Yurash, che ha scritto su Twitter: «La reazione attiva dell'Ucraina ha incontrato la comprensione del Vaticano. Nessun dubbio su chi sia l'aggressore e nessuna possibilità di fare due parti uguali». Ma non c'erano dubbi neanche prima».
GAS, PREZZO IN CALO PER LE PROMESSE UE
È una crisi economica senza precedenti quella creata dal conflitto: il taglio del gas russo e il conseguente impazzimento dei prezzi energetici sta mettendo in ginocchio l’Europa. Il solo annuncio di misure che saranno prese nell’arco dei prossimi dieci giorni ha fatto scendere il prezzo. Il punto della situazione è di Francesca Basso per il Corriere.
«La proposta di un tetto al prezzo del gas sarà presentata dalla Commissione Ue nelle prossime settimane, probabilmente dopo il consiglio Energia straordinario del 9 settembre, convocato per dare una risposta all'emergenza scatenata dall'impennata dei prezzi dell'elettricità. La proposta, invece, di riforma del mercato elettrico arriverà all'inizio del prossimo anno. Ma è bastato l'annuncio lunedì da parte della presidente Ursula von der Leyen a raffreddare ieri i mercati: il prezzo del gas ha chiuso in calo del 6,8% a 254 euro al megawattora (il contratto TTf, riferimento per il gas europeo trattato ad Amsterdam). Il fatto che Gazprom interromperà la fornitura del gasdotto Nord Stream I da oggi fino al 3 settembre per riparazioni dell'unica unità di pompaggio rimasta in servizio - è la spiegazione della compagnia russa - questa volta non ha condizionato il prezzo, né la comunicazione di un blocco delle forniture alla società francese Engie, per un disaccordo su «alcuni contratti». Del resto i Paesi Ue sono a buon punto con le riserve. «Abbiamo raggiunto ora una media nell'Ue di riempimento dello stoccaggio dell'80%. Quindi sostanzialmente siamo già arrivati alla cifra che abbiamo concordato per quest' anno», ha ricordato ieri la presidente von der Leyen, intervenendo al Baltic sea energy security summit a Copenaghen, durante il quale Finlandia, Svezia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Danimarca hanno annunciato un aumento di sette volte della produzione di energia eolica entro il 2030 nell'Europa del Nord, per liberarsi dalla dipendenza dal gas russo. Ma «i prezzi record» insostenibili per famiglie e aziende richiedono un intervento d'urgenza: «Stiamo lavorando per adottare uno strumento di emergenza e per una riforma strutturale del mercato dell'elettricità - ha ribadito von der Leyen -. Il mercato dell'elettricità non funziona più perché c'è un attore, Putin, che sta cercando sistematicamente di distruggerlo e manipolarlo». La Commissione, spiegano fonti Ue, sta aspettando di capire l'orientamento degli Stati membri sui diversi modelli di gas price cap, che saranno presentati in un seminario dedicato alle capitali il 7 settembre prossimo. L'aspettativa è che un'indicazione emerga dal consiglio Energia straordinario che si terrà due giorni dopo. Ieri la Polonia è tornata a contestare il sistema per lo scambio delle quote di emissioni di CO2 (Ets). Il premier Morawiecki, in conferenza stampa a Copenaghen, ha proposto di sospendere per un paio d'anni il sistema Ets, finché non tornerà la pace in Ucraina. Ma von der Leyen ha spiegato che serve per ridurre le emissioni e pesa solo per il 6% sul prezzo dell'elettricità. Intanto in Italia la leader di FdI Meloni chiede di andare «in Parlamento lunedì», riaprendolo, per votare nuove misure ma non nuovo debito. Il leader della Lega Salvini invoca «un decreto di guerra» da 30 miliardi con uno scostamento di bilancio e chiede di «ripensare» le sanzioni. Il Pd rinnova al premier Draghi il sostegno al piano contro il caro bollette e aspetta una sua mossa per l'intervento, che il leader Letta auspica «rapidissimo». Palazzo Chigi resta contrario a un aumento del deficit».
IL GOVERNO CORREGGE LE REGOLE SUGLI EXTRA PROFITTI
Extraprofitti, il governo pronto a correggere le regole per determinare il prelievo. Nessuna penalizzazione per chi versa con le regole in corso di revisione. Oggi l’ultimo giorno per le imprese che vorranno pagare. Laura Serafini per il Sole 24 Ore.
«Il governo sarebbe pronto a riscrivere la norma sugli extraprofitti per le imprese che operano nel settore dell'energia. Qualche conferma trapela sulla prospettiva che il nuovo intervento del governo per rafforzare le misure contro il caro energia, che potrebbe prendere anche la forma di un emendamento al decreto Aiuti bis in sede di conversione, partirà proprio dalla revisione della norma che è stata oggetto di numerosi ricorsi. L'ipotesi alla quale si starebbe lavorando passa da un approccio precedente che tassava profitti derivanti da operazioni più diverse, anche le plusvalenze da cessioni di asset, a una tassa applicata in percentuale sul valore della produzione. Tanto che alcuni l'hanno definita una sorta di mini Irap, importando il nome di un'imposta del quale - ironia della sorte - in realtà molti chiedono la progressiva abolizione. L'impostazione allo studio prevederebbe che coloro i quali hanno provveduto a pagare l'imposta precedente entro fine giugno (o entro la seconda scadenza fissata per oggi a sanzioni ridotte - si veda anche l'articolo a pagina 23) vedrebbero salvaguardare il versamento che sarebbe conteggiato come pagamento eseguito ai sensi della nuova imposta. La revisione della tassa sugli extra profitti sarebbe la premessa per costruire basi più certe a una delle fonti di finanziamento delle nuove misure a supporto di imprese e famiglie contro il caro energia. Tra queste dovrebbero rientrare il rafforzamento del credito di imposta fino a una percentuale del 25% o il prolungamento della Cig gratuita. In ogni caso il provvedimento non sarà immediato, anche solo per il fatto che il conteggio del gettito degli extraprofitti in base alla norma attualmente vigente richiede almeno fra i 5 e gli 8 giorni lavorativi. La definizione puntuale di quel gettito sarà rilevante anche per varare i decreti del ministero per la Transizione ecologica che consentirebbero di vendere l'energia rinnovabile ritirata dal Gse dai piccoli produttori a un prezzo amministrato ad alcune categorie di imprese, come le energivore. Una misura del genere ridurrebbe i vantaggi per i consumatori legato all'effetto della quota delle rinnovabili nella definizione del prezzo medio dell'energia elettrica, svantaggio che verrebbe compensato con l'utilizzo degli extraprofittti per abbattere gli oneri nelle bollette elettriche. Frattanto sarebbe alla firma il decreto interministeriale tra Mef e Mite che consentirebbe un'ulteriore proroga del taglio delle accise sui carburanti, che altrimenti scadrebbe il prossimo 20 settembre. Secondo le agenzie di stampa la proroga al vaglio sarebbe di 15 giorni, dunque fino al 5 ottobre. Ma in realtà l'ambito temporale potrebbe essere anche più lungo, anche se non superiore al mese. L'intenzione di allungare gli sconti era stata preannunciata già a inizio agosto con il varo del decreto Aiuti bis, ma per poter dare attuazione al provvedimento bisognava attendere i dati sull'extragettito Iva di luglio con cui la misura continua, in sostanza, ad autofinanziarsi. Ieri, intanto, palazzo Chigi ha messo in evidenza, nel rilanciare uno studio del think tank brussellese Bruegel, che «i vari interventi del governo sono stati effettuati a saldi invariati, quindi senza ricorrere a nessuno scostamento di bilancio» scenario «reso possibile dal fatto che l'andamento dell'economia è di gran lunga migliore del previsto» come ha ricordato il premier Mario Draghi in conferenza stampa a inizio agosto. Dallo studio emerge che l'Italia è il secondo paese Ue per stanziamenti a favore di famiglie e imprese (49,5 miliardi, il 2,8% del Pil)».
“LA LEGGE È STATA SCRITTA MALE”
Ma perché correggere la norma sugli extra profitti? Il Foglio e Il Fatto per una volta sono d’accordo: la legge è stata scritta male. L’articolo del Foglio è di Alberto Chiumento.
«Il termine per pagare l'acconto del 40 per cento dell'imposta straordinaria sugli extraprofitti per le società energetiche era il 30 giugno. Ma dei 4,2 miliardi di euro che il governo prevedeva di ottenere, ne ha incassati appena 1,2. Oggi scade il secondo termine: chi non ha ancora versato può dare il dovuto pagando una sanzione del 15 per cento, che da domani salirà direttamente al 60 per cento, come stabilito dal governo per spingere le imprese a pagare. E' però probabile che molte società non paghino nemmeno entro questa scadenza. "Sarebbe la naturale conseguenza del comportamento che molte società energetiche hanno scelto di adottare finora", dice al Foglio Dario Stevanato, avvocato e professore ordinario di Diritto tributario all'Università di Trieste. Ma perché le aziende non pagano? "Ci sono vari motivi che spiegano il loro rifiuto, pur ricordando che alcune hanno scelto di corrispondere l'acconto. La tassa è stata scritta male, in modo impreciso. Invece di individuare come base imponibile gli utili o un indice di redditività - i modi migliori per cercare di isolare gli extraprofitti - è stato preso in considerazione 'l'incremento del saldo tra le operazioni attive e quelle passive', che però non serve a intercettare gli extraprofitti, dato che è un dato influenzato da moltissime variabili. Anche l'intervallo di tempo su cui fare i calcoli è discutibile perché include un periodo, l'autunno del 2020, in cui i prezzi erano influenzati dallo stop pandemico. Credo poi che il governo abbia sbagliato a non ascoltare le imprese quando hanno indicato che la legge era poco chiara. Il loro obiettivo non era aggirare la norma, ma migliorarla". C'è poi un secondo motivo, ben più solido, che sollevano le società. "Molte ritengono che la tassa sia incostituzionale per come scritta e per questo hanno fatto già ricorso al Tar del Lazio". Ma allora perché non pagare nei tempi stabiliti, evitando le sanzioni, e fare ricorso successivamente, come avviene di solito? In una conferenza stampa recente, Mario Draghi ha anche espresso in modo netto la sua irritazione per questo rifiuto in un momento di grossa difficoltà economica per molte famiglie e imprese. Il gettito di questa imposta era stato stanziato per intervenire sul caro bollette. "Perché le società stanno seguendo una strategia prudenziale, memori di quanto successo nel 2015". In quella circostanza, la Corte costituzionale stabilì l'incostituzionalità di un'imposta sugli extraprofitti, chiamata Robin Hood Tax, simile a quella attuale. Tuttavia, la Corte non dispose la restituzione del denaro versato dalle società fino a quel momento (7 anni in totale) perché ciò avrebbe gravato troppo sui conti pubblici nazionali, particolarmente precari in quel momento. Secondo Stevanato, quindi, la possibilità di ottenere in tribunale la ragione, ma non il rimborso, ha spinto molte imprese a non pagare. "E' più conveniente pagare un'imposta e la sanzione qualora l'imposta venga giudicata buona, piuttosto che non ricevere il denaro indietro pur sapendo di aver ragione. E' un comportamento del tutto razionale visto il precedente e il testo della norma." Anche il modo in cui il governo vuole far rispettare gli obblighi non è perfetto. "Superato un certo periodo di ritardo", spiega Stevanato, "la sanzione è solitamente pari al 30 per cento, ma con il decreto "Aiuti bis" il governo ha aumentato l'aliquota al 60 per cento. Agire in modo retroattivo, cioè a violazione già avvenuta, però non va bene". Il Tar si esprimerà sulla natura della norma l'8 novembre. Per evitare questo però il governo avrebbe potuto agire in modo più pragmatico, come fatto da quello britannico. Dopo una prolungata opposizione interna, a fine maggio il governo di Boris Johnson ha introdotto un'imposta nella forma di un'addizionale del 25 per cento, in aggiunta alla presente aliquota del 40 per cento, sui profitti realizzati dalle società che commerciano petrolio e gas sul territorio britannico. Sempre a proposito di Ires, ovvero l'imposta (del 24 per cento) che le società pagano sugli utili che producono, per Stevanato dimostra che il governo potrebbe anche aver sbagliato i conti. “Sarei molto sorpreso se fosse così, però i numeri sono molti grandi: dall'imposta sugli extraprofitti lo stato ha calcolato di raccogliere 10,5 miliardi in totale, equivalenti a un terzo del gettito che viene ottenuto annualmente con l'Ires: siamo certi che una manciata di imprese, circa 11 mila secondo il ministero dell'Economia, creino un gettito così elevato?”».
L’articolo del Fatto è di Salvatore Cannavò.
«La giornata, per i "Migliori", era cominciata male anche sulla norma relativa alla tassazione degli extra-profitti. Secondo il quotidiano La Stampa, che non è stato smentito, sarebbe pronta per essere riscritta. Su un totale di extra-profitti stimati in 40 miliardi di euro il governo aveva fissato una tassazione del 25% prevedendo un anticipo del 40% entro il 30 giugno e il saldo al 30 novembre. Sui 4 miliardi previsti a giugno, però, ne è stato versato solo uno. Ora si attende il saldo di stasera, 31 agosto, data entro la quale è previsto un ravvedimento operoso e oltre la quale, invece, la sanzione è del 60%. Ma nessuno crede che si possano raggiungere i 4 miliardi. E l'ipotesi di una riscrittura, per quanto improbabile, non è scartata ed è studiata dai tecnici. Ieri non è sfuggito il fuoco di fila del Pd che ha chiesto al governo - con le capogruppo di Camera e Senato, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, ma anche con il responsabile economico Antonio Misiani - che la tassa venga onorata dalle aziende.
Ma da Palazzo Chigi, oltre alla precisazione che il governo Draghi ha stanziato come aiuti a famiglie e imprese, "49,5 miliardi di euro, una cifra seconda soltanto a quella investita dalla Germania" arriva solo l'indiscrezione della proroga degli incentivi per il costo dei carburanti dal 20 settembre al 5 ottobre e l'ipotesi che si lavorerà soprattutto all'extragettito fiscale di luglio e agosto. Le richieste che salgono dal mondo dell'industria sono però molto più pressanti. I presidenti di Confindustria Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto sostengono che gli extra-costi per l'impennata del prezzo dell'energia ammontano a 36-41 miliardi di euro contro i 4,5 miliardi spesi nel 2019. Giorgia Meloni ha voluto evidenziare la disponibilità ad approvare già da lunedì in Parlamento "delle norme che consentano ai cittadini di avere una situazione sostenibile". Ma senza ricorso a nuovo debito. Semmai si può ricorrere al Pnrr: "Quei soldi, che già sono debito, li potremmo usare", spiega la presidente di Fratelli d'Italia. E la ruota riparte».
MA LO SCOSTAMENTO DI BILANCIO È UN PROBLEMA
Sia il Pd che Fratelli d’Italia (e Mario Draghi è d’accordo) sono contrari allo scostamento di bilancio per far fronte alla crisi del gas. Che sta rapidamente diventando crisi industriale. Daniele Manca sul Corriere della Sera dà loro ragione.
«La strada sembra semplice: andare rapidamente a uno scostamento di bilancio. Chi più chi meno, è la risposta che quasi tutti i partiti hanno in mente di dare alle sofferenze prodotte dal rincorrersi dei prezzi dell'energia che stanno incidendo profondamente sulla vita degli italiani. Il governo resiste allo scostamento. L'Europa ripete, ancora ieri con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, che le regole del mercato elettrico non funzionano. Peccato che adesso si tratti di agire non più di analizzare. Visto che, peraltro, l'Italia quelle cose le diceva ai partner dell'Unione sin dal novembre dell'anno scorso. Lo scostamento permetterebbe di intervenire subito, nel breve periodo. Ma non sarebbe privo di conseguenze. Modificare le regole del mercato elettrico, e farlo in fretta viste le anomalie che hanno contribuito a determinare la rincorsa dei prezzi, avrebbe effetti strutturali ma non immediati. Sebbene il solo fatto di dirlo sembrerebbe già raffreddare in minima parte i costi.
Ma perché il governo è così restio a procedere a uno scostamento di bilancio? Si stanzia qualche decina di miliardi nei conti pubblici e si interviene. Semplice a dirsi meno a farsi. Questa volta ci scuseranno economisti, esperti e professori se, a rischio di banalizzare, inizieremo col chiederci di che cosa si sta parlando. E cioè cos' è lo scostamento di bilancio? Come ogni famiglia o impresa, anche lo Stato deve fare i conti con le sue entrate e le sue uscite. Poniamo che avesse annunciato di spendere 100 nel 2022, a fronte di costi che aumentano dell'energia si troverà a spendere 130. Dove può prendere quel 30 in più di spesa? Un cittadino o un'azienda si rivolgerebbe alla propria banca chiedendo un prestito.
Lo Stato fa lo stesso, chiede soldi in prestito ma usando un meccanismo più complicato. Emette titoli di Stato che vende sul mercato. A investitori ai quali dice: pensavo di spendere di meno, mi troverò a spendere di più, devo fare, appunto, uno scostamento di bilancio e ho bisogno che tu mi presti più soldi; compra i miei titoli di Stato e io mi impegno a pagarti gli interessi e a restituirti il denaro entro un certo numero di anni. Il mercato, gli investitori, sanno che il motivo sono i prezzi dell'energia. Ma non gli importa molto. Saranno disposti a prestarci più denaro purché siano pagati loro degli interessi e restituito il capitale prestato. Se non fosse che l'Italia di debiti ne ha già tanti. Oltre 2.700 miliardi. E di scostamenti negli ultimi anni a causa della pandemia ne abbiamo fatti per 180 miliardi, come documentato da Enrico Marro ieri sul Corriere della Sera. Ma proprio per questo potremmo continuare a farne. Chi ce lo impedisce? In realtà, chi gestisce il debito pubblico sa che se si continuano a chiedere sempre più soldi in prestito, gli investitori a loro volta chiederanno interessi più alti. Ci sono Stati che possono permettersi di sollecitare meno il mercato. Rispetto a loro noi avremo un costo del denaro più alto, dovremo cioè pagare più interessi per ottenere i nostri prestiti. La differenza tra i due livelli è lo spread. Che potrebbe allargarsi se gli investitori intuiscono che quella è la direzione. Al di là dei costi sul bilancio pubblico, tutto questo significa anche mettere il proprio futuro in mani che con l'Italia hanno poco a che fare. In aree dove la speculazione, come abbiamo visto in altri periodi, non si fa problemi ad andare contro un Paese purché riesca a guadagnarci. Lo spread si allargherebbe e il costo del nostro già alto debito aumenterebbe. Non è un caso che il più tiepido sulla eventuale manovra sia anche il più sovranista dei partiti, Fratelli d'Italia. Un Paese fortemente indebitato è un Paese che ha molto meno possibilità di agire secondo i propri obiettivi. Che ha meno sovranità. L'altro partito meno propenso è quel Pd che esprime il commissario europeo Paolo Gentiloni che sa benissimo che l'Italia nei prossimi mesi dovrà partecipare al dibattito sulla riforma del Patto di stabilità. Patto che prevede rigidi confini per quanto riguarda il debito e il deficit dei Paesi. Rendere il Patto più flessibile è stato uno degli obiettivi di tutte le forze politiche e del governo Draghi. Ma andare a una discussione con un'Italia sempre pronta a mettere sotto tensione le regole significherebbe arrivarci in condizioni di minor forza (tecnicamente uno scostamento di bilancio significa alzare il deficit previsto e va richiesto all'Europa).
Siamo condannati a non fare mai più scostamenti di bilancio? A essere perennemente frenati dal debito elevato? No, tutt' altro. È un errore considerare il nostro debito come il principale problema. Come si è visto in questi anni, possiamo gestire l'alto indebitamento purché il nostro Paese continui a crescere. La vera domanda a cui si deve rispondere è perché si crea debito. Alleviare le sofferenze dovute agli alti costi di energia è sicuramente un motivo più che sufficiente. Ma come si intende farlo?
Con altri contributi a pioggia? Aiutando alla stessa maniera ogni cittadino e ogni impresa, sia chi soffre tanto sia chi può sopportare un periodo, si spera breve, di pressione? Ancora una politica dei bonus, che, come si è visto in questi ultimi anni, non sono nemmeno assorbiti tutti da chi si pensava potesse esserne beneficiario? Ogni scostamento di bilancio andrebbe inserito in un quadro di finanza pubblica definita. Che significa anche indicarne le coperture. E visto che si parla di energia, anche un riequilibrio e risparmio sui consumi. Sarebbe utile, come chiedemmo già nelle scorse settimane, che le forze politiche indicassero il tipo di Legge di Bilancio per il 2023 che intendono scrivere se dovessero andare al governo piuttosto che indicare singoli provvedimenti. Chiedere all'attuale esecutivo, come a qualsiasi altro dovesse essere in carica dopo il 25 settembre, questa o quella misura senza preoccuparsi degli altri elementi che compongono la manovra economica, non è indice di buon governo. La corsa dei prezzi dell'energia ci dice in maniera dolorosa quanto è evidente che non esistono scorciatoie per fronteggiarla. Servono misure di breve periodo tendenti a dare sollievo a cittadini e imprese e di lungo periodo come quelle strutturali da prendere in Italia e in Europa. Lungimiranza e politiche economiche adatte. Forse la merce più rara durante una campagna elettorale».
CAMPAGNA ELETTORALE, LA CORSA È AL CENTRO
A proposito di campagna elettorale, come sta andando? Angelo Picariello per Avvenire ci aggiorna sulla competizione al centro. A Roma il presidente del Ppe Weber ha visto i moderati del centrodestra. Il sondaggista Piepoli spiega: la lista Calenda cresce ma non si avvicina ancora al 10%.
«Botta e risposta tra Renzi e Di Maio In una campagna sempre più polarizzata e caratterizzata dallo scontro fra i due partiti che si contendono la leadership nei sondaggi - Fratelli d'Italia e Pd - prende corpo al centro la corsa ai moderati, agli indecisi, potenzialmente decisiva per i futuri assetti del Parlamento. Arriva a Roma il presidente del Ppe Manfred Weber, che si spende per supportare la campagna dell'ala moderata del centrodestra, che fa parte dei popolari europei. Ieri alla sede della stampa estera ha tenuto una conferenza stampa con Antonio Tajani, vice Presidente del Ppe e coordinatore di Forza Italia. Oggi, dopo aver visto Silvio Berlusconi (in nome di un «sodalizio antico», sottolinea Tajani) incontrerà il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa, il presidente Antonio De Poli e il leader di Noi con l'Italia Maurizio Lupi, che - con l'Udc, Toti e Brugnaro - partecipa alla lista Noi Moderati. «Siamo noi il centro moderato del Paese. Europeisti, atlantisti, cristiani e liberali, rappresentiamo la forza garante di stabilità sul piano internazionale», rivendica Tajani con Weber a fianco. Giorgia Meloni resta sullo sfondo, alleata ma distante. Conferma, Tajani, «la regola che ci siamo dati che chi prenderà più voti avrà onere e onore di indicare, insieme a tutto il centrodestra, al capo dello Stato il nome dell'uomo o della donna che suggeriamo possa diventare il prossimo Presidente di Consiglio. L'ultima parola spetta al Presidente della Repubblica, ma noi non abbiamo pregiudizi nei confronti di chicchessia: ci sono tante persone anche in Forza Italia che possono fare il primo ministro», tiene aperta la questione. E a marcare il territorio torna a definire l'idea del blocco navale, portata avanti dalla presidente di Fdi, «difficilmente realizzabile» (in un giorno in cui, tra l'altro, anche un candidato Fdi di peso, Carlo Nordio, mostra perplessità sulla misura). Il tema dei rapporti di forze nel centro destra vede alleati, sia pur in concorrenza fra loro, la componente di Forza Italia e quella di Noi moderati, quarta gamba del centrodestra, mentre Tajani esclude che possano riaprirsi rapporti col Terzo polo. «Non esiste alcuna possibilità che Forza Italia cambi alleanza. Anche perché il Terzo polo non esiste, è il quarto».
Ma il timore c'è e lo evocano tutti. Il timore che il Terzo polo, con una sua affermazione, possa riaprire la partita, verosimilmente per tornare alle larghe intese. Per il sondaggista Nicola Piepoli «continua a crescere, anche se meno dei primi giorni e il dato sembra stabilizzarsi sotto la soglia psicologica del 10. Nonostante la forza attrattiva dei due leader». Ma non esclude, Piepoli, che mettendo in campo alcuni nomi di forte impatto il Terzo polo possa portare a casa un certo numero di seggi anche nei collegi uninominali. «Siamo partiti come Terzo polo ma non vogliamo arrivare come Terzo polo, noi vogliamo cambiare la politica italiana», dice Ettore Rosato, presidente di Italia Viva. «Oggi è il momento di una politica che sappia parlare alla testa e non alla pancia degli italiani, di una politica della moderazione e del pragmatismo sulle scelte». E non è un mistero che l'obiettivo (non si sa quanto praticabile) per Renzi e Calenda, sarebbe il richiamo in servizio di Mario Draghi. E la contesa sul voto moderato entra anche nel dibattito della coalizione di centrosinistra. Luigi Di Maio invita a diffidare dei mancati alleati che alla fine hanno scelto di mettersi in proprio: «A me non meraviglierebbe in un futuro non tanto remoto di vedere in Parlamento nella stessa maggioranza Calenda e Renzi con il centrodestra. La scelta di Calenda di andare da solo nei fatti aiuta Meloni e Salvini», accusa. «Noi siamo i moderati della coalizione progressista», rivendica il ministro degli Esteri. Non si fa attendere la replica al vetriolo di Matteo Renzi: «Di Maio mi attacca per dimostrare che politicamente esiste ancora. No, non esiste più. Si occupi di politica estera, se ne è capace. Pensi a Kiev, Taiwan, Tripoli. Poi tra un mese lascerà finalmente la Farnesina tornando ad attività per le quali è più portato».
LETTA E CONTE SI SFIDANO NEL VENETO LEGHISTA
I due leader ex alleati si contendono il voto nella regione di Luca Zaia. Gianni Favero per il Corriere.
«Due leader che scelgono lo stesso campo di battaglia nel medesimo giorno, e che si marcano a vista tentando di strappare voti nel Veneto roccaforte leghista, dove la parte più moderata ha «patito» la sfiducia a Draghi. Da una parte il segretario del Pd, Enrico Letta, che batte a tappeto quella provincia di Vicenza dove ha scelto di candidarsi. Dall'altra Giuseppe Conte, guida del Movimento 5 Stelle, che fa tappa a Rovigo e nel Trevigiano, in alcuni luoghi simbolo per le politiche energetiche pentastellate. «Sono qui - ha dichiarato Letta a Valdagno, cuore del distretto tessile ed ex baluardo democristiano - a incontrare chi è deluso da Lega e Forza Italia, che hanno preferito far cadere Draghi per tornare a votare. Il Veneto è interessante perché il dopo Zaia è già cominciato e noi vogliamo partecipare». La giornata del segretario pd è cominciata alle 9 ad Arzignano per discutere di Pnrr e transizione verde della produzione della pelle. Quindi, in un frenetico crescendo di incontri, è proseguita all'istituto di assistenza Villa Serena e all'Its Fashion sustainability manager. Fra confronti, selfie ai gazebo e strette di mano con i passanti, Letta ha duramente attaccato il centrodestra («Con Berlusconi, Tremonti e la Meloni al governo il nostro Paese era entrato in bancarotta») e assicurato la bontà del suo programma: «La nostra agenda sociale si concentra sulla riduzione delle tasse sul lavoro». Il leader dem ha quindi definito «improcrastinabile un intervento sia italiano sia europeo per bloccare le bollette e fermare la speculazione in corso sull'energia prodotta da rinnovabili», proponendo di «raddoppiare il credito di imposta per le imprese». A qualche decina di chilometri di distanza, Giuseppe Conte ha avviato la sua tappa veneta nel Rodigino dove, a mezzogiorno, ha varcato l'ingresso della Mater biotech di Bottrighe, azienda che ha puntato sulle fonti rinnovabili «con una riduzione delle emissioni di Co2 di quasi il 60%». Dopodiché, alle 15, si è recato a Ponzano Veneto per inaugurare il nuovo residence Cicogna, una comunità energetica in grado di autosostenersi grazie al fotovoltaico. In questo contesto ha definito le comunità energetiche «un esempio concreto», rivendicando «le agevolazioni da noi volute: queste sono le ricette utili al Paese». Lo stesso leader pentastellato, d'altro canto, aveva già evocato a sé il merito di aver lanciato il Superbonus. «Ho deciso di partire da qui perché ci sono grandi esempi di transizione ecologica, occupazione e crescita, a partire dal Superbonus 110%, che il governo sta bloccando». E il reddito di cittadinanza, tema non proprio popolare a Nordest? «Eliminarlo significherebbe scatenare un conflitto sociale dalle proporzioni inaudite» e ha concluso chiudendo le porte a ogni intesa con il Pd. «Fino a quando i vertici saranno concentrati su un'agenda Draghi di cui non conosciamo i contenuti, scritta da chi non si confrontava con i problemi del Paese, non saranno possibili alleanze». Vicini, ma ancora lontanissimi».
MELONI LEADER DEL POPULISMO
Conchita Sannino per Repubblica ha seguito un comizio a Cosenza di Giorgia Meloni, premier in pectore e super favorita nei sondaggi per andare a Palazzo Chigi. La leader di FdI punta al voto di protesta. Attacca il reddito di cittadinanza invoca investimenti al Sud e si prende la piazza: "Sono piccola, ho bisogno delle vostre spalle".
«Il pezzo forte è quando apre teatralmente le braccia, alza il volume e snocciola quei nomi uno dietro l'altro, con tempi - accuratamente - comici. «Dicono che noi non abbiamo classe dirigente. Noi di Fratelli d'Italia, capitooo?». Lei urla, gli occhi al cielo. Loro inneggiano. Una pièce collaudata di città in città. «Abbiamo avuto un ponte crollato e avevamo Toninelli alle Infrastrutture», scandisce Giorgia Meloni. Buu. «Una pandemia e ci siamo ritrovati Speranza alla Salute». Buu. «Una guerra, e Di Maio agli Esteri». Boato e risate. Per sentire Giorgia Meloni, nella sua risalita da Sud come aspirante premier, ci sono almeno quattromila persone a Cosenza, c'è chi ha fatto cento chilometri dalla costa di Diamante o chi ha dovuto accogliere 30 persone su un balcone. E ci sono ventenni e trentenni, anche. Molti figli o nipoti di ex dirigenti almirantiani o finiani, certo. Ma anche ex appassionati di Grillo e di Renzi. Un pubblico ideale, l'Italia dei dimenticati e dei populismi. «Per me lei è una forza. Ha carisma, è coerente», ti spiega Alessandra Calabrò, 31 anni, laurea in Giurisprudenza, un lavoro ai Monopoli di Stato. Bionda, slanciata, ma nulla a che vedere col profilo disinvolto delle ex Berlusconi-girls che resistevano, fino a pochi anni fa. «Non nascondo che mi ero avvicinata al M5S, ma poi si sono rivelati una frana - confida Alessandra - Quindi sono tornata a quell'area di destra da cui mi ero allontanata un po'. Lei ha il coraggio di idee impopolari, anche di sottrarsi al conformismo». Eppure, una giovane donna non teme il restringimento di spazi di libertà, il rischio di un assalto ai diritti civili? «Penso che qui siamo in una società che predica libertà ma regala solo disordine, anarchia e nessuna certezza. Mi hanno insegnato, sui testi di Diritto, che senza norme una comunità non resiste». È gremita piazza Kennedy, nella città governata dal centrosinistra, sindaco Franz Caruso, dentro la regione a guida centrodestra (anche come dinastia familiare) di Roberto Occhiuto, Calabria della Sanità collassata e dei giovani che emigrano, terra di speranze frustrate e massoni che si riciclano. Tanti delusi del centrodestra perduto, di «Fini, che ci fece quel bel servizio», di «Berlusconi che ormai dice sempre le stesse cose». E perfino ex elettori di Renzi e dei 5S, «che ancora non ho capito come ha fatto a cappottarsi».
Anche Rodolfo, 25 anni, sguardo diretto dietro gli occhiali da nerd, laureato in Informatica, voterà per Giorgia. «E lo sa perché ? Perché credo nella Flat tax. Premetto che non mi piace questa polarizzazone della politica, ma l'imprenditoria non può reggere così. Senza imprenditori in grado di respirare e lavorare bene , il Paese muore. Il Sud? Non parliamo del Sud. Nell'ospedale di Cosenza se vai per ingessarti un braccio, finisce che te lo amputano». Il Sud, grida ancora la presidente Meloni dal palco, «non è vero che pesa sul Nord. Anzi, dobbiamo chiarire delle cose: siete voi che con l'emigrazione per interventi e terapie pagate la Sanità del Nord». Applausi. «E non è possibile che si danno più soldi per le Infrastrutture a chi ha più infrastrutture. Bisogna invertire la rotta: guardare ai territori dove le cose mancano». Cori di approvazione. E lieve scetticismo di Pietro, ex operaio, 69 anni, che osserva: «Dillo pure quando vai nella piazza del Nord, Giorgia». Gianni e Pina Luzi, 52 e 49 anni, lui autista, lei parrucchiera, stanno in ascolto più che fare i fan. «In passato? Abbiamo votato un po' per tutti. Però lei è una pratica, che dice le cose che gli altri non dicono. Per esempio: il reddito di cittadinanza, che senso c'ha, per i giovani che devono uscire di casa e imparare un mestiere?». Lui: «Ma lo sa che nella mia azienda non si trovano né autisti né operai? Tutti il reddito vogliono, e lavorare in nero». Su questi temi sventola la bandiera anche Concettina De Stefano, 57 anni. «Meloni ha il coraggio di dire che non si può aprire in eterno le porte ai migranti. Questa non è integrazione. Bisogna aiutare quelli che pagano le tasse, prima. Mio figlio se n'è dovuto andare in America, è laureato in Ingegneria, la fatica l'ha fatta, ma i primi cinque anni ha lavorato in call center. Ecco perché mo' pure mio marito e mia figlia votano per Meloni». Adesso, e prima? «Per Renzi. Ma lei, Ludovica, non ce la fa più, dice: questa qui mi dà fiducia». Meloni si chiama gli applausi. «Perché hanno paura di noi? Io sono piccola, sono nana, non ho poteri forti. Ho bisogno delle vostre spalle ». Però che grinta, si danno di gomito due distinte signore. «Ma lo sa che la ospitammo a casa mia? Lei era proprio una ragazza, mio marito era segretario del circolo di An. Voleva emergere, studiava, si vedeva», dice Rossella Micciullo. Vittorio, sulla sessantina, osserva da lontano. Sta sulla soglia di un negozio che sa di antico, eau di toilette e colonie inglesi, «questa è una profumeria storica: resiste da tre generazioni e neanche io so come facciamo e per quanto». Vince Meloni, lei che sa annusare? «Profumo di vittoria, sì. E glielo dico: sono della destra sociale ». Quindi andrà di corsa a mettere la croce su Fdi? «No, veramente sono molto deluso. Penso che non andrò a votare».
SCONTRO USA-CINA PER LE ARMI A TAIPEI
Le altre notizie dalll’estero. Gli Usa concedono un miliardo in armamenti a Taipei, così Biden provoca l'ira della Cina. Giampiero Gramaglia per il Fatto.
«Che non fosse una provocazione isolata, un'iniziativa personale, lo si era già capito dagli sviluppi della visita a Taiwan della speaker della Camera Usa, Nancy Pelosi. E la decisione del presidente Joe Biden di chiedere al Congresso di approvare una vendita di armi per 1,1 miliardi di dollari indica che Washington vuole tenere alta la tensione con Pechino sull'isola-Stato, dopo avere deciso di confrontare a muso duro la Russia sull'Ucraina. Secondo Politico che ne dà notizia, l'arsenale Usa in arrivo a Taiwan comprende 60 missili antinave Agm-84L Harpoon Block II - 355 milioni - e 100 missili aria-aria Aim-9X Block II Sidewinder - 85 milioni -, oltre a 655,4 milioni per l'estensione di un contratto per la sorveglianza radar. Forse galvanizzate dall'appoggio di Washington, le forze armate di Taipei hanno ieri sparato colpi di avvertimento contro "droni civili cinesi nell'area di Kinmen", gruppo di isole annesse a Taiwan distanti pochi chilometri dalla costa continentale del Fujian. Non era mai accaduto finora. La decisione di Biden acuisce una tensione già altissima. Dopo la visita di Pelosi e di altri emissari del Congresso Usa, considerate delle provocazioni, la Cina invia ogni giorno navi e portaerei nello Stretto di Taiwan, dopo avere condotto manovre militari senza precedenti per ampiezza e intensità tutt' intorno all'isola; e, pochi giorni or sono, due navi da guerra Usa hanno attraversato lo Stretto. Il passaggio delle due unità era, per la marina Usa, la dimostrazione "del- l'impegno degli Stati Uniti per una regione indo-pacifica libera e aperta". La Cina aveva posto "le truppe della zona orientale nello stato di massima allerta, pronte in ogni momento a sventare qualsiasi provocazione": "Abbiamo messo sull'avviso le navi Usa durante il transito e ne abbiamo seguito tutti i movimenti". Appresa la decisione di Biden, il portavoce della ambasciata di Pechino a Washington, Liu Pengyu, ha detto che gli Usa devono smetterla "di vendere armi a Taiwan e interrompere i contatti militari con l'isola-stato poiché essi di per sé violano il principio di 'una sola Cina' ", cui Washington dice d'attenersi ancora. Liu chiede che gli Usa "smettano di creare fattori che possono portare a tensioni nello Stretto di Taiwan" e siano consequenziali con le dichiarazioni dell'Amministrazione, che nega "di sostenere l'indipendenza di Taiwan". Dal canto suo, la presidente di Taiwan Tsai Ing-wen assicura che continuerà a mantenere "moderazione e calma" di fronte alle provocazioni cinesi, pur adottando relative "contro-misure". La presidente, in visita a una base dell'aeronautica alle isole Penghu, nello Stretto di Taiwan, spiega che "più il nemico ci provoca più dobbiamo essere calmi, senza fornire pretesti per conflitti". Sui tiri contro i droni civili cinesi, il ministero della Difesa di Taipei riferisce di avere rilevato nel pomeriggio ripetute incursioni nelle aree di Dadan, Erdan e Shiyu. Alle 17.59 locali (le 11.59 italiane), un'ennesima incursione ha indotto a sparare colpi veri. I cinesi mantengono una massiccia presenza militare intorno a Taiwan: ieri sono stati rilevati intorno all'isola otto navi e 37 caccia militari cinesi, con l'attività dell'aeronautica in aumento. Il ministero della Difesa di Taipei "monitora la situazione" e risponde "facendo decollare i suoi jet, muovendo le sue navi e attivando i sistemi missilistici di terra"».
IRAK, TREGUA DI AL-SADR
Trenta morti dopo, Al-Sadr ferma gli scontri tra milizie sciite a Baghdad e nel sud del Paese. Il religioso manda un messaggio e blocca i disordini. Dimostrando di poter creare le crisi e risolverle. Chiara Cruciati per il Manifesto.
«Hanno caricato materassi e tende sui tuk tuk, lasciato alla spicciolata il parlamento e gli uffici governativi, portato via i veicoli blindati e i lanciarazzi dalla Zona Verde: con il ritiro dei sostenitori e dei miliziani di Moqtada al-Sadr, nel primo pomeriggio di ieri su Baghdad è scesa una calma surreale, insieme a gruppi di netturbini a ripulire i segni di una battaglia che ha rischiato di tramutarsi in guerra civile. Dopo una notte di guerriglia, sul terreno sono rimasti in 30, uccisi nel fuoco incrociato dell'esercito, delle milizie sadriste, le Saraya Salam, e quelle delle coalizione filo-iraniana Coordination Framework. Il rimbombo cupo di lanciarazzi, granate e kalashnikov ha lasciato sveglia l'intera città. Poi, ieri mattina, da Najaf ha parlato al-Sadr, il leader religioso sciita il cui annuncio di ritiro dalla vita politica aveva provocato appena 24 ore prima l'assalto alla Zona Verde da parte di migliaia di suoi sostenitori.
«Non è una rivoluzione perché ha perso il suo carattere pacifico. Versare sangue iracheno è proibito - ha detto in diretta tv, i capelli imbiancati dal tempo, la voce ferma - Entro 60 minuti se il movimento sadrista non si ritirerà, incluso il presidio al parlamento, allora lo lascerò». Il ritiro è stato immediato, a Baghdad, Bassora, Dhi Qar. Poco dopo l'esercito ha annunciato la sospensione del coprifuoco e il premier ad interim Mustafa al-Kadhimi ha lodato il religioso (suo alleato, i riferimenti politici esterni sono molto simili: Turchia, Golfo, Usa, solo un pizzico di Iran perché farci i conti è inevitabile): «L'appello di sua Eminenza rappresenta il più alto livello di patriottismo e desiderio di preservare il sangue iracheno».
In contemporanea l'Iran riapriva le frontiera e i gruppi armati sciiti filo-Teheran si allontanavano dal centro delle città, dove fino a poche ore prima i sadristi avevano preso di mira le loro sedi a colpi di Rpg. Nela notte molte milizie filo-iraniane si erano unite all'esercito a difesa della Zona Verde. Molte ma non tutte: secondo fonti interne raccolte da Middle East Eye, le potentissime Badr Organization e Kataib Hezbollah si sono defilate. Forse sintomo dell'intenzione di evitare una guerra civile. Supposizioni minori rispetto a quelle che occupano gli analisti: al-Sadr ha vinto o ha perso? Il leader religioso ha dimostrato ai rivali politici il massimo livello possibile di controllo della propria base, la capacità di mobilitarla e di frenarla in una manciata di ore e di porre fine a una crisi esplosiva che il governo non sarebbe stato in grado di soffocare. Una base composita, che definire anti-iraniana è un errore politico: al-Sadr attinge la propria forza dalle masse più povere e marginalizzate, milioni di persone che gli riconoscono consenso sulla base di rivendicazioni spesso sociali ed economiche. Dall'altra parte, la mossa di al-Sadr ha anche dimostrato l'incapacità di uscire dall'attuale stallo politico se non a fronte di soluzioni negoziate. La calma è tornata a Baghdad, ma potrebbe non durare: ponti tra le fazioni sciite non sono stati gettati, sebbene l'idea di elezioni anticipate non appaia più così stravagante nemmeno ai filo-iraniani. Né al presidente iracheno Saleh che ieri ha sostenuto il ritorno alle urne».
CAOS IN LIBIA, IL GAS PERSO DALL’ITALIA
Caos in Libia, ecco cosa sono e quanto ci costano i «valori atlantici»: abbiamo perso una grande fonte di energia per politiche occidentali che ci hanno penalizzato. Alberto Negri per il Manifesto.
«L'Italia, la Nato e gli Usa da anni sono in fuga da Tripoli e dalle loro responsabilità. La Libia attuale è il frutto avvelenato del cosiddetto «atlantismo». L'intervento del 2011 contro Gheddafi portò alla fine brutale del dittatore ma lasciò il Paese nel caos, così come quello americano in Iraq nel 2003 e prima ancora in Afghanistan nel 2001. Le cronache di questi giorni da Tripoli, Baghdad e Kabul (a un anno dal disastroso ritiro occidentale) sono esplicite: dozzine di morti e un'instabilità cronica. Negli ultimi scontri nella capitale libica tra i sostenitori del governo di Tripoli del premier Abddulhamid Dabaibah e quelli di Fathi Bashaga, l'altro premier concorrente eletto dal parlamento di Tobruk, gli occidentali non sono stati neppure citati. Sono stati però menzionati dalle cronache i droni turchi che avrebbero colpito le milizie di Misurata. Per altro furono i turchi nell'inverno del 2019 a fermare l'avanzata sulla capitale libica del generale Khalifa Haftar: allora il governo Sarraj - riconosciuto dall'Onu - chiese aiuto attraverso il vice-premier Meitig sia all'Italia che agli Usa e alla Gran Bretagna. Ricevuto un netto rifiuto, Sarraj si rivolse allora a Erdogan, autocrate atlantista al quale lasciamo interpretare e gestire sul campo i cosiddetti valori dell'Alleanza atlantica strombazzati in modo bipartisan dai nostri partiti e dal «nostro» giornalismo mainstream in un campagna elettorale che sui temi della politica estera si svolge a occhi bendati e con forti dosi di ipocrisia: basta vedere cosa accade nei Territori occupati palestinesi, nel Kurdistan turco e siriano, con la resistenza kurda tradita sull'altare della stabilità atlantista grazie all'adesione alla Nato di Svezia e Finlandia in funzione anti-russa per la guerra in Ucraina, e quanto avviene nei lager libici dove vengono concentrati, torturati, malmenati e vilipesi i migranti africani. Ma questi sarebbero ancora gli unici accordi che «funzionano» con la Libia dove abbiamo appaltato la vita di migliaia di persone a milizie e trafficanti, collusi e complici con una guardia costiera finanziata dall'Italia a proposito di valori atlantisti. Vale forse la pena ricordare ai nostri distratti politici che nel 2011 in Libia l'Italia subì per mano di Francia, Gran Bretagna e Usa la sua più grave sconfitta dalla seconda guerra mondiale. Soltanto sei mesi prima, a fine agosto 2010 Gheddafi veniva ricevuto in pompa magna a Roma, incensato e blandito per via di accordi economici da 55 miliardi di euro che i partiti avevano approvato a stragrande maggioranza. Un mese dopo i raid contro Gheddafi subentrò la Nato a fare da ombrello ai bombardamenti e l'Italia decise di partecipare mentre forse sarebbe stato meglio dichiarare allora la neutralità come fece la Germania. La decisione, con un governo Berlusconi pericolante e balbettante, fu presa dal presidente Napolitano. In poche parole l'atlantismo «all'italiana» non si cura troppo degli interessi del Paese ma preferisce travestire la sua mancanza di responsabilità con il mantello della Nato: allora si disse che bombardavamo Gheddafi per difendere i nostri interessi energetici, dai pozzi di petrolio al gasdotto con la Libia inaugurato nel 2004. Ed ecco dove siamo finiti. Nel ridicolo e senza l'apporto energetico sperato. I nostri premier per un decennio sono andati in pellegrinaggio a Washington - che ci fossero al potere i democratici o i repubblicani - tornando con la vaga promessa, da vendere alla pubblica opinione, che gli Usa ci avrebbero dato in Libia la «cabina di regia». Ci ha provato anche Draghi quando è andato da Biden nel maggio scorso mentre era già cominciata la crisi del gas con Mosca. «La Libia può essere un enorme fornitore di gas e petrolio, non solo per l'Italia ma per tutta Europa» ha detto Draghi nel suo colloquio alla Casa Bianca. «Tu cosa faresti?», gli ha chiesto il presidente americano. «Dobbiamo lavorare insieme per stabilizzare il Paese» è stata la risposta del premier italiano. Come no. L'evento non si è puntualmente verificato: insomma l'ennesima presa in giro della cabina di regia. Per altro all'Italia non è andata meglio con l'Unione europea sulla questione dei migranti, dove a Bruxelles hanno puntualmente voltato la testa dall'altra parte sui migranti morti nel Mediterraneo. Insomma i cosiddetti valori «atlantici» per noi si sono tradotti in una perdita secca che in questo momento di tempesta energetica e geopolitica sono ancora più evidenti. Basta scorrere i dati appena resi noti dall'Eni sul gas e il petrolio libico. Mentre i flussi di gas dalla Russia verso l'Italia sono diminuiti del 45% rispetto allo stesso periodo dell'anno prima nello stesso periodo la Libia ha registrato un -26%. In termini assoluti non si tratta di valori molto alti perché il gasdotto libico Greenstream da tempo subisce i contraccolpi dell'instabilità libica e delle lotte tra le fazioni per la spartizione del territorio e delle risorse energetiche. In realtà questo gasdotto, lungo 520 chilometri e che approda a Gela, avrebbe a pieno regime un portata di 30 miliardi di metri cubi, quasi la metà dei nostri consumi annuali. Ecco quanto ci è costato e ci costa l'atlantismo. Poi naturalmente non possiamo ignorare che in Tripolitania oggi conduce le danze Erdogan e Haftar in Cirenaica è sostenuto da Mosca e dai mercenari della Wagner, oltre che dagli Emirati e dall' alleato egiziano il dittatore Al-Sisi - un altro bell'interlocutore dell'atlantismo - , oltre che da una Francia che fa finta di non volersi sporcare le mani. Ma nella sostanza, dal 2011, sulla sponda Sud abbiamo accettato l'agenda degli altri che ha ridotto lo spazio della nostra politica estera al minimo. A un filo di gas».
IN EGITTO ASSASSINATI DUE CRISTIANI
Orrore in Egitto. Raid in Sinai del Daesh: assassinati due cristiani. La cronaca di Avvenire.
«Si chiamavano Salama Wahib e Hani, padre e figlio. Un commando del Daesh li ha uccisi con un raffica di proiettili alle prime luci del mattino, ieri, nel villaggio di Jalbana, a est del Canale di Suez. I due, entrambi commercianti del Sinai, risiedevano nella parte ovest di Qantara e si trovavano nel villaggio per affari. A dare la notizia sono state fonti della sicurezza e tribali le quali hanno segnalato un aumento della violenza già negli scorsi giorni. Nel giro di poco più di 72 ore, «due componenti dell'Unione delle tribù del Sinai» sono rimasti uccisi e altri 4 feriti dopo «l'esplosione di un ordigno» nella zona di Maghara, nel Sinai centrale. Un'altra bomba ha assassinato due miliziani tribali a Rafah, al confine con la Striscia di Gaza, mentre sei jihadisti sono stati «eliminati» in attacchi delle forze di sicurezza. Fra loro anche un un capo definito «di rilievo», Jamil Abu Zrèi e «uno dei suoi familiari». «Un bambino», inoltre, è rimasto ucciso e un altro ferito nell'esplosione di un ordigno a Sheikh Zuweid, sempre nel Sinai nord-orientale. I copti - la più numerosa comunità cristiana in Medio Oriente - rappresentano circa il dieci per cento della popolazione egiziana. E la loro presenza nel Paese è antichissima: si fa risalire alla predicazione di San Marco, particolarmente venerato in questa terra. Del resto, copto vuol dire "egiziano", segno del radicamento nel tessuto nazionale. La minoranza è spesso bersaglio degli attacchi jihadisti. L'area del Sinai è particolarmente violenta a causa della presenza della Wilayat Sinai, la provincia locale del Daesh, fondata nel 2014 e rimasta attiva nonostante la crisi della formazione- madre. A questo si somma l'esistenza nel territorio di cellule di Al-Qaeda, nemiche del Califfato. L'anno più tragico nella storia recente dei cristiani è stato però il 2017. L'Egitto è stato segnato dalle stragi di fedeli cristiani del 9 aprile, a Tanta e ad Alessandria (44 morti), e, a fine maggio, del governatorato di Minia (29 morti). A fine ottobre, poi, sempre a Minia, l'attacco ad una chiesa del governatorato da parte di un gruppo di estremisti. L'ultima tragedia che ha visto coinvolta la comunità è avvenuta lo scorso 14 agosto a Inbaba, alle porte del Cairo, quando la chiesa di Abu Sifin è andata a fuoco e 41 fedeli sono morti nelle fiamme».
DUE UOMINI DI DIO E LA SIRIA
Lucio Brunelli nel suo Blog ricorda due religiosi che sono entrambi scomparsi e che amavano la Siria: padre Paolo Dall’Oglio e il vescovo siro-ortodosso di Aleppo Mar Gregorios Yohanna Ibrahim. Qui l’integrale del suo bell’articolo, di cui la Versione vi propone uno stralcio.
«Il primo prete portava lo stesso nome del grande convertito sulla via di Damasco, si chiamava Paolo Dall'Oglio, era un gesuita. Il secondo si chiamava Mar Gregorios Yohanna Ibrahim, era il vescovo siro-ortodosso di Aleppo. Si ritiene siano morti, tutti e due, uccisi, benché i loro corpi non siano mai stati ritrovati e nessuna sigla jihadista abbia mai rivendicato la loro esecuzione. Furono rapiti nel 2013, a poche settimane l’uno dall’altro. Mar Gregorios ad aprile, Paolo Dall’Oglio a luglio. Si suppone che a farli sparire siano stati gruppi di combattenti islamisti, al servizio di chissà quale delle potenze straniere che soffiavano sul fuoco del conflitto siriano. Tutti e due furono sequestrati nel nord della Siria mentre cercavano, con coraggio, notizie di altri sacerdoti rapiti, di cui speravano di ottenere la liberazione. Paolo fu visto l’ultima volta il 29 luglio a Raqqa, alcuni testimoni asseriscono di averlo accompagnato, ma solo per un tratto, verso il quartier generale del futuro califfato nero. Gregorios fu visto l’ultima volta il 22 aprile, ad Aleppo, in compagnia del vescovo greco ortodosso Boulos Yazigi, a bordo di un pick-up diretto verso il confine turco: l’auto fu ritrovata sul ciglio della strada, abbandonata, il corpo dell’autista era a terra, crivellato di colpi; si chiamava Fathallah, cattolico, padre di tre figli. (…) La guerra non aveva ancora profanato la magia di questi luoghi ma nel Paese si iniziava a respirare un'aria di inquietudine. Dal vicino Iraq centinaia di migliaia di profughi si erano riversati in Siria. La caduta del tiranno Saddam per ora non aveva portato più libertà e benessere ma solo nuovo terrore. Gli attentati sconvolgevano il Paese, la violenza vendicativa degli sciiti colpiva sunniti e palestinesi. Anche decine di migliaia di cristiani iracheni avevano trovato rifugio nel paese confinante. I loro racconti spaventavano i cristiani siriani. Il regime di Assad era stato inserito dalla Casa Bianca nella lista nera degli "stati canaglia" e il timore di finire allo stesso modo dei fratelli iracheni era condiviso da molti siriani, anche da quelli che non amavano il dittatore. Mar Gregorios era uno di questi. Pensava che una guerra contro Assad avrebbe scoperchiato il vaso di pandora delle lotte settarie e mosso gli interessi delle grandi potenze regionali. Soprattutto si arrabbiava quando il suo paese veniva accostato ai paesi musulmani fondamentalisti. Ci diede appuntamento all'università statale di Aleppo, dove lui teneva un seminario sulle relazioni internazionali. Voleva persuaderci che la Siria non era né l'Iran né l'Arabia saudita e che nel suo paese i cristiani godevano di maggiori spazi di espressione. Il fatto che un vescovo potesse tenere delle lezioni a degli studenti universitari in una nazione a maggioranza musulmana, per lui era già una prova di questa libertà. E certo non era una circostanza usuale nel Medio Oriente. (…) Paolo Dall'Oglio non poteva accettare che il costo della "protezione" dei cristiani fosse la rinuncia alla libertà, per tutti. Gli sembrava anche una politica miope puntare tutto su Assad, perché prima o poi il dittatore sarebbe caduto. Quando nel 2011 i primi moti di piazza fecero pensare che l'ora del cambiamento fosse arrivata anche a Damasco, Paolo si schierò, anima e corpo, a fianco dei rivoltosi. Sognò che le chiese cristiane, invece di guardare impaurite al cambiamento, si ponessero alla testa di una rivoluzione democratica che andava incoraggiata e guidata. Lo avevo cercato nel mio viaggio siriano del 2007, non era ancora famoso nei media ma mi avevano parlato dell'esperienza straordinaria del monastero di Mar Musa e desideravo raccontarla all'interno del reportage. Lo raggiunsi al telefono, purtroppo in quei giorni il gesuita era impegnato in un viaggio in Europa. Lo incontrai a Roma nel luglio 2012, esattamente un anno prima del suo rapimento. Paolo era stato espulso dalla Siria come "persona non grata" a causa delle sue prese di posizione contro il regime. La guerra divampava ormai sul suolo siriano e Paolo stesso cominciava a temere una escalation internazionale e una deriva fondamentalista. Lo intervistai in un angolo del Campidoglio, dove era stato invitato a tenere una conferenza sull'amata Siria. Fu un incontro per me indimenticabile. Ero convinto che l'unico modo per rendere persuasive le sue tesi fosse farlo reagire con i timori del clero siriano circa la "rivoluzione" anti Saddam. Padre Paolo rispose con molta efficacia: più il conflitto si estendeva (nel 2012 si entrava nel secondo anno di guerra), più la repressione si inaspriva e più quei timori si sarebbero rivelati fondati. Ma aggiunse che se le chiese cristiane avessero preso parte attiva nella lotta contro la dittatura, il cambiamento democratico sarebbe stato meno esposto ad un'egemonia integralista. Nel notiziario della sera fu trasmesso solo un breve brano del nostro dialogo. La versione integrale è stata però recuperata in uno speciale del Tg2, curato da Angelo Figorilli, a quattro anni dalla scomparsa di Paolo Dall'Oglio, nel 2017. (Si può rivedere qui, l'intervista dal minuto 8'34"). Avrei voluto far a sentire a Mar Gregorios l'intervista, chiedergli un commento, magari nella prossima edizione del Meeting di Sant'Egidio che era in programma nell'ottobre del 2013 a Roma. Ma nè Gregorio nè Paolo poterono parteciparvi. Furono rapiti pochi mesi prima. Me li immagino in qualche angolo del Paradiso, venerati come martiri dalle loro Chiese, con i cuori in pace ma impegnati anche lì in interminabili e appassionate discussioni sul futuro del Siria. Pare che da lassù le cose si vedano molto meglio».
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