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Green pass, ci siamo
Oggi Draghi potrebbe spiegare le nuove regole anti Covid. Polemiche sulla proposta della Confindustria, Cucinelli paga i suoi No Vax per stare a casa. Il caso Voghera. Domani iniziano i Giochi
Sono ancora il Green pass e la discussione sulle nuove regole per le Regioni a tenere banco: oggi dovrebbe essere il giorno delle decisioni. Lo stesso Draghi potrebbe spiegarle in una conferenza stampa. Fa intanto ancora discutere la proposta della Confindustria sull’obbligo del passaporto verde nei luoghi di lavoro. Ma per ora non c’è nessuna decisione in merito. Diverso invece il tema dell’eventuale obbligo oltreché negli ospedali, anche nelle scuole, almeno per gli insegnanti. Il Quotidiano Nazionale mette in risalto i dati dell’Istituto Superiore di Sanità: i vaccini funzionano e molto bene. La protezione dal virus, per chi ha fatto le due dosi, è del 96 per cento. Ed è del 79 per cento per chi ha solo la prima dose. Ieri sono state fatte 584 mila 415 iniezioni, sono 28 milioni e mezzo gli italiani vaccinati con con prima e seconda dose, pari al 53 per cento della popolazione sopra i 12 anni.
L’altro tema di giornata è fatalmente legato ad un episodio accaduto a Voghera, dove un assessore leghista ha avuto una lite con un marocchino irregolare, che alla fine è rimasto ucciso per un colpo di pistola. Colpo che secondo il politico locale, ora ai domiciliari, sarebbe partito accidentalmente. Le indagini sono in corso: ma le reazioni politiche sono molte. La recente anima garantista della Lega si sovrappone fatalmente al retaggio storico della legittima difesa/fai da te.
Importante discorso della ministra Cartabia di fronte al Parlamento sui fatti di Santa Maria Capua Vetere. I giornali ne parlano poco, rispetto alla novità dei contenuti espressi. Polemiche sulla linea del Pd di voler discutere a settembre il ddl Zan. Il Foglio parla di “auto trappola” di Letta. Silenzio di Fedez sulla dilatazione dei tempi di approvazione.
Sul fronte internazionale, molte notizie. Kerry spiega a Repubblica il G20 che inizia a Napoli sul clima. Orbán in Ungheria lancia un referendum popolare a favore della sua legge e contro la Ue. Merkel ottiene da Biden il via libera sul Nord Stream 2. Iniziano domani le Olimpiadi di Tokyo 2020, clima triste e un po’ surreale: da Lost in contamination, come suggerisce Emanuela Audisio. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
La sparatoria che ha coinvolto l’assessore leghista a Voghera e il Green pass sono i temi più gettonati dai quotidiani stamattina. Il Corriere della Sera avverte: «I prof devono vaccinarsi». Il Messaggero annuncia: Green Pass, obbligo da lunedì. Il Quotidiano nazionale riporta le cifre dell’Istituto superiore di sanità: I vaccini funzionano: ecco i numeri. Il Mattino paventa il contagio da varianti: Green pass, via da lunedì contro la “quarta ondata”. Su Voghera va la Repubblica: Assessore a mano armata. Immagine scontata della Stampa: Far West a Voghera. Libero vede strumentalizzazioni: Il leghista spara. La sinistra ci marcia. Il Manifesto sottolinea che il politico locale circolava con la pistola: Colpo in canna. Mentre Il Giornale interpella il capo della Lega ma poi fa il titolo sulla richiesta di Confindustria: Parla Salvini: «Orribile licenziare chi è senza green pass». Avvenire mette insieme le criticità per Draghi: I nodi del governo su giustizia e Covid. Il Fatto anche oggi ce l’ha con la Cartabia: La ministra bugiarda. E il Domani gli fa compagnia, criticando l’intervento della ministra sulla mattanza in carcere: Tutte le contraddizioni di Cartabia sulle violenze di stato a Santa Maria. Buone notizie dal Sole 24 Ore: Fisco, condono per 2,5 milioni. La Verità si occupa delle fortune dell’ex portavoce di palazzo Chigi: Indagine sui soldi di Rocco Casalino.
GREEN PASS, OGGI SI DECIDE
Ne parlerà con ogni probabilità direttamente Mario Draghi in una conferenza stampa, già stasera. Le nuove regole sul Green pass e sui nuovi parametri per i colori delle Regioni sono in approvazione. La cronaca di Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.
«Green pass obbligatorio con una dose di vaccino per tutti i luoghi al chiuso, compresi i ristoranti, doppia dose ovunque ci sia il rischio di assembramenti. Spetterà ai componenti della cabina di regia, convocata per questa mattina a Palazzo Chigi, definire gli ultimi dettagli prima del Consiglio dei ministri che approverà il decreto da far entrare subito in vigore. Ma la linea è tracciata, nonostante le resistenze del leader della Lega, Matteo Salvini. E sarà il presidente del Consiglio, Mario Draghi, a illustrare le nuove misure, probabilmente già questa sera, con una conferenza stampa. Rimane aperta fino a questa mattina la trattativa con i presidenti di Regione sui nuovi parametri per il passaggio tra le fasce di rischio, ma dai governatori è già arrivato il via libera all'obbligo della certificazione verde in zona bianca, purché sia consentito il rilascio anche a chi non ha completato il ciclo vaccinale. Per questo nel provvedimento sarà specificato che chi ha già ricevuto la prima dose debba effettuare il richiamo, altrimenti il green pass perderà validità. «Mi auguro non ci siano scelte draconiane, improvvise, imponderate, che escludono la maggioranza degli italiani dal diritto al lavoro, allo spostamento», avverte Salvini. La risposta arriva dalle ministre di Forza Italia, Mariastella Gelmini «il green pass serve per incentivare le vaccinazioni ed evitare possibili nuove chiusure» e Mara Carfagna «non è una camicia di forza, ma uno strumento di libertà che consenta agli italiani di svolgere in sicurezza attività che oggi o non si possono svolgere o possono svolgersi ad altissimo rischio». Ma in serata il leader della Lega rilancia: «Il green pass domani mattina significa togliere 30 milioni di cittadini italiani il diritto alla vita». Posizione molto diversa quella del titolare della Salute, Roberto Speranza, che ha sottolineato come la strada scelta «serve a mantenere tutta Italia in zona bianca, scongiurando il rischio determinato dall'aumento di contagi che alcune Regioni passino in zona gialla durante l'estate». Proprio per raggiungere questo obiettivo nel decreto devono essere inseriti i nuovi parametri che tengono conto dei ricoveri e non soltanto dell'incidenza dei nuovi contagiati settimanali su 100mila abitanti per il passaggio di fascia. La mediazione va avanti da giorni perché i presidenti delle Regioni ritengono che le percentuali indicate dal governo - 5% per le terapie intensive e 10% per i reparti medici - siano troppo restrittive e stamattina presenteranno una controproposta. L'accordo dovrà comunque essere raggiunto entro oggi se si vuole evitare che alcune regioni - Toscana, Lazio, Sicilia, Calabria e Campania - entrino nella fascia dove sono previsti restrizioni e divieti già domani con l'arrivo del nuovo monitoraggio. In fascia bianca basterà dunque avere una prima dose per stare nei ristoranti al chiuso. Sugli altri luoghi chiusi la decisione sarà presa oggi e spetterà alla cabina di regia - dopo il confronto con le Regioni e il parere del Comitato tecnico scientifico - stilare la lista che già comprende aerei, treni e navi. Dai governatori è invece già arrivato il via libera al green pass con doppia dose per i grandi eventi. «La Conferenza delle Regioni - conferma il presidente Massimiliano Fedriga che guida il Friuli-Venezia Giulia - ha elaborato alcune proposte sull'uso del green Pass in un'ottica positiva, ovvero per permettere la ripresa in sicurezza di attività fino ad oggi non consentite o limitate. Ad esempio grandi eventi sportivi e di spettacolo, discoteche, fiere e congressi». Proprio per incentivare i cittadini a completare il ciclo vaccinale, nel decreto sarà specificato che il green pass rilasciato a chi ha fatto la prima dose non sarà più valido se non ci si presenta all'appuntamento per la seconda. Il ministero della Salute ha invece chiarito che chi non è ancora riuscito ad ottenere il modulo potrà utilizzare il certificato vaccinale ottenuto dopo la prima oppure dopo la seconda dose. La certificazione viene rilasciata ai vaccinati, ma anche a chi è guarito dal Covid-19 oppure a chi ha un tampone con esito negativo effettuato nelle quarantotto ore precedenti. Ieri il direttore della Prevenzione del ministero della Salute Giovanni Rezza ha firmato la circolare che prevede «un'unica dose di vaccino per i soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 (decorsa in maniera sintomatica o asintomatica), purché venga eseguita preferibilmente entro i sei mesi dalla stessa e comunque non oltre dodici mesi dalla guarigione».
Luca Bolognini per il Quotidiano Nazionale prova a tirare le fila delle tante statistiche a disposizione, analizzando i numeri ufficiali dell’Istituto Superiore di Sanità.
«C'è una buona notizia: i vaccini funzionano. E anche l'ultimo report dell'Istituto superiore di sanità lo certifica. Tra l'11 giugno e l'11 luglio la stragrande maggioranza dei casi lievi diagnosticati in Italia sono stati identificati in soggetti non vaccinati. Su 27.353 infezioni, il 77% ha riguardato over 12 a cui non era stato ancora inoculato alcun siero. Percentuale che sale al 91% se si tiene conto di chi è risultato contagiato pur avendo ricevuto solo una dose o il monodose entro 14 giorni dalla diagnosi, ovvero il tempo necessario a sviluppare una risposta immunitaria completa. Ancora più chiara la situazione per chi ha dovuto ricevere cure ospedaliere: l'80% non era minimamente protetto dal virus. Cifra che tocca l'85%, se si considerano i ricoveri in terapia intensiva, e un drammatico 72% per i decessi. «Tra gli over 80, il 36% delle diagnosi di Sars-Cov-2, il 50% delle ospedalizzazioni, l'81% dei ricoveri in terapia intensiva e il 66% dei decessi sono avvenuti - spiega l'Iss nel suo rapporto, analizzando lo scaglione più protetto - in persone che non hanno ricevuto alcuna dose di vaccino e che sono attualmente il 9,5% della popolazione in questa fascia d'età». Un altro effetto della campagna vaccinale è la diminuzione dell'età per chi viene ricoverato deve essere preso in carico dalle terapie intensive. L’età media di chi viene ospedalizzato è di 52 anni, contro i 76 fatti registrare nell'aprile del 2020. Chi viene trasportato in terapia intensiva, invece, oggi ha circa 63 anni, contro i 76 di un anno e mezzo fa. Ma quindi, quanto sono effettivamente efficaci i vaccini? Secondo i calcoli dell'Iss, la protezione dall'infezione oltrepassa il 71% nel caso del ciclo incompleto, ma arriva all'88% se si sono ricevute entrambe le dosi. Ancora più elevata la protezione rispetto al ricovero in ospedale. L'efficacia in questo caso è in media dell'81% per chi ha ricevuto la prima dose (o Johnson&Johnson da meno di 14 giorni) e del 95% per chi ha completato il ciclo. Per il ricovero in terapia intensiva le percentuali sono 88% per una dose, 97% per due dosi. Per quanto riguarda i decessi, invece, la protezione è del 79% per il ciclo incompleto e del 96% con due dosi. Guardando i numeri assoluti dei contagi, in diversi hanno espresso il dubbio che non ci sia una gran differenza tra non vaccinati e immunizzati. In realtà, approfondendo, si scopre l'esatto contrario. «Se le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura - fa notare infatti l'Iss - si verifica l'effetto paradosso per cui il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile tra vaccinati e non vaccinati. In questi casi, l'incidenza, però, intesa come il rapporto tra il numero dei casi e la popolazione, è circa dieci volte più bassa nei vaccinati rispetto ai non vaccinati. Questi numeri se letti correttamente, quindi, ribadiscono quanto la vaccinazione sia efficace». Ovviamente meno persone si proteggono, più il virus circola. Con due controindicazioni: trasmettere il Covid a soggetti a rischio di malattia severa (anche se immunizzata) e favorire il fenomeno della comparsa di nuove varianti. Nuove varianti che magari potrebbero bucare i sieri anti Covid. Cosa che, per fortuna, fino a oggi non è ancora successa».
Sull’ipotesi di licenziare chi non si vaccina, lanciata dalla Confindustria, interviene il re del cashmere Brunello Cucinelli con un’intervista a Repubblica. Cucinelli, 63 anni, stilista e fondatore dell'omonima azienda della moda, sceglie la linea di lasciare a casa i No Vax, pur garantendogli lo stipendio.
«Chi non ha il Green Pass non lavora, questa è la proposta di Confindustria, con la minaccia di demansionamenti e quindi anche di riduzioni del salario per quei dipendenti che decidessero di non vaccinarsi. Si dissociano subito in coro tutte le organizzazioni sindacali, che puntano il dito sul fatto che i lavoratori sono cittadini, e che i protocolli di sicurezza sottoscritti con il govenrno ad aprile, sono ancora in corso e restano validi fino a prova contraria. Ma in qualche misura prendono le distanze anche gli imprenditori, tra cui Brunello Cucinelli, che confida che il presidente Draghi interverrà presto a dirimere la questione. Brunello Cucinelli, Confindustria propone cambi di mansioni per chi non vaccinandosi non potrà entrare in azienda, con possibili ricadute sullo stipendio. Lei che ne pensa? «Non voglio parlare per gli altri, ma non si possono stravolgere il funzionamento dell'azienda, le competenze e gli stipendi delle persone. Sono inoltre fiducioso che presto il governo interverrà per dirimere la questione. Del resto chi non è vaccinato non potrà viaggiare e andare al ristorante, ma in azienda ci passi 9 ore al giorno, e il rischio a cui esponi chi ti sta al fianco è molto più alto». Lei è stato tra i primi industriali ad aprire un centro vaccinale nel suo stabilimento di Solomeo insieme all'Asl. Come è andata la campagna nella vostra azienda? «Benissimo, ma vorrei precisare, che fin da subito abbiamo messo la sicurezza dei nostri dipendenti al primo posto. Da mesi abbiamo tre medici che lavorano per il gruppo e che in qualunque momento, se non stai bene, vanno a casa e fanno il tampone al dipendente e alla famiglia. Infatti su 1200 persone, abbiamo registrato solo 27 casi, una bella soddisfazione». Quanti dei vostri dipendenti hanno scelto spontaneamente di vaccinarsi? «Tantissimi. Su 1.200 meno dell'uno per cento non è vaccinato, e chiaramente in azienda si è venuto subito a sapere chi erano. Ora, come è logico che sia, i ragazzi che prima lavoravano allo stesso tavolo, non vogliono più stare a contatto con chi ha scelto di non vaccinarsi. In generale, comunque la risposta è stata molto positiva e ne sono orgoglioso. (…) E quindi cosa ha proposto di fare ai suoi dipendenti per affrontare i prossimi mesi? «Ho fatto una grande assemblea riunendo nel parco antistante i nostri stabilimenti a Solomeo, tutti i dipendenti presenti e distanziati. Ho portato loro i saluti e gli auguri del presidente Draghi, dicendo che presto il governo sarebbe intervenuto a regolare i prossimi passi e che verosimilmente presto potremmo essere autorizzati a recarci in azienda senza le mascherine, ma a quel punto potranno entrare solo coloro che hanno il Green Pass. Un principio che vale anche per chi viene a trovarci e per i collaboratori esterni. Proprio due giorni fa ho ricevuto la comunità finanziaria, anche in questo caso ci siamo visti in sicurezza: gli analisti e gli investitori sono entrati in azienda solo dopo aver fatto il tampone». Qual è stata la risposta dei suoi dipendenti? «Guardi in molti erano commossi, è stato un anno e mezzo complesso, il mio dovere è proteggere l'azienda e i dipendenti. Non posso imporre a nessuno di fare questa scelta, ma non posso neppure mettere a rischio chi ha scelto di vaccinarsi. Ho un caro amico, che ha già fatto due volte il vaccino e da 11 giorni è a letto con la febbre a quaranta perché ha preso una variante del Covid. Questa non è un'influenza, è una cosa grave» Quindi quell'1% che non può venire a lavorare che farà? «La mia proposta per loro è quella di stare a casa con un'aspettativa di sei mesi retribuita e poi si vedrà. Dio vede e provvede».
Sull’ipotesi di Confindustria interviene, in modo molto critico, Alessandro Sallusti su Libero:
«Confindustria sta pensando di rendere obbligatorio il vaccino, e quindi il possesso del Green pass, sui luoghi di lavoro, pena la messa a casa del lavoratore a retribuzione zero. Come noto noi siamo iper favorevoli ai vaccini e da tempo ci stiamo sgolando perché tutti gli italiani, mettendo da parte paure e pregiudizi, si facciano inoculare il salvifico siero. Ma pensiamo anche che per convincere i riottosi vadano messe in campo misure anche severe ma percorribili in punta di diritto, di buon senso e di fattibilità. Onestamente la proposta di Confindustria non mi sembra andare su questa strada e non solo per la violenza che porta con sé. Un conto è provare con ogni mezzo a vaccinare categorie professionali particolarmente esposte al rischio di contagiare (o essere contagiate) tipo infermieri, medici e insegnanti. Altro è legare in maniera diffusa il possesso del salvacondotto al diritto allo stipendio. Immaginate, per esempio, la quantità di cause di lavoro che verrebbero sicuramente aperte dai lavoratori esclusi e i ricorsi al Garante della privacy che ha più volte sentenziato a favore del diritto alla segretezza, anche nei confronti del datore di lavoro, che ogni cittadino ha sul suo stato di salute. Immaginate le tensioni sociali che anche strumentalmente verrebbero innescate dai sindacati e dai gruppi organizzati di no vax. Immaginate insomma il caos che una sospensione automatica da lavoro e stipendio per i non vaccinati produrrebbe in tutto il Paese. Se la montagna Confindustria, con i suoi centri studi e consulenti giuridici, ha partorito un simile topolino non c'è da stare allegri. Per esempio, come la metteremmo con quei lavoratori in attesa di vaccinazione con tempi - dettati dallo Stato di settimane e in alcune regioni di mesi per completare il ciclo delle due vaccinazioni che dà diritto al Green pass? E con i covizzati di recente che devono aspettare mesi prima di potersi vaccinare? E con i lavoratori che per la loro situazione sanitaria non possono accedere al vaccino? È evidente che la sicurezza sul posto di lavoro non può passare da una simile proposta. Non può in punta di diritto, ma anche per l'impossibilità pratica di metterla in atto almeno di non voler scatenare una guerra civile tra poveri».
Sulla prima pagina del Corriere della Sera Aldo Cazzullo ragiona su virus e libertà.
«La discussione sul vaccino è viziata da un grande equivoco. Il confronto non è tra chi difende la libertà e chi la nega. Il confronto è tra chi vuol essere - o si illude di poter essere - libero qui e ora, e chi vuol essere libero in modo duraturo; senza ritrovarsi a fine estate (se non prima) in questo frustrante giorno della marmotta, senza dover ricominciare da capo con i bollettini delle terapie intensive e i decreti di chiusura. Dovrebbe essere chiaro che la scelta giusta è la seconda. Nessun Paese democratico ha imposto l'obbligo di vaccino, se non (com'era inevitabile) agli operatori sanitari. Quasi tutti i Paesi democratici, però, hanno deciso di incentivare le vaccinazioni. Il diritto al lavoro è inviolabile; quindi è impossibile legare l'ingresso sul posto di lavoro al green pass. Ci sono però lavori che si svolgono a contatto con il pubblico. Un conto è difendere la libertà di non vaccinarsi; un altro è attentare alla libertà di lavorare - o usufruire di un servizio - senza venire in contatto con una persona che ha deliberatamente scelto di non vaccinarsi. Distinguere tra le generazioni, per arrivare a sentenziare che i giovani possono anche non immunizzarsi perché tanto non muoiono, significa non aver capito come si muove questa pandemia. Il virus resiste e muta proprio perché non è molto letale, ma è molto contagioso. L'unico modo per bloccarne o limitarne la circolazione e la mutazione è vaccinarsi tutti, o quasi tutti».
Michele Brambilla, direttore del Quotidiano Nazionale, da un po’ di giorni insiste sulla validità del Green pass per ridare libertà di movimento agli italiani. Oggi gioca, nel suo editoriale, con l’immagine del semaforo.
«In questi giorni in cui trattiamo il tema delle libertà individuali sollevato dai no vax e dai no green pass, ci stiamo colpevolmente dimenticando di un'altra categoria di cittadini: i no sem. Sono coloro che eccepiscono sull'obbligatorietà di rispettare le segnalazioni dei semafori. La loro argomentazione è semplice e chiara: «Se tu vuoi fermarti ai semafori, liberissimo, mica te lo proibisco. Ma io no». Il manifesto dei no sem sta circolando sul web: «Il semaforo limita la mia libertà di movimento, la mia libertà di scelta individuale. Cose previste dalla Costituzione e dal trattato di Schengen: libertà di circolazione, avete presente?» Secondo i no sem c'è un imbroglio alla base di tutto: «Io ammiro chi crede davvero che i semafori siano stati concepiti per la nostra sicurezza. Sul serio, senza ironia, capisco chi pensa che la vecchietta che attraversa la strada e non finisce sotto la mia macchina, poi per questo motivo campi altri cent' anni. È una cosa che ci hanno indotto a credere da sempre, indottrinandoci per bene». Chi siano queste persone che «ci hanno indotto», non è specificato, ma è chiaro: sono "loro". «Che poi - si legge nel manifesto dei no sem - quelli investiti sulle strisce, siamo sicuri che non avessero altre patologie? Sono morti "per" schiacciamento da auto o "con" schiacciamento da auto?». D'altra parte è il solito mainstream che ci nasconde la verità: «Non vi verranno mai a dire che ci sono fior di studi scientifici che dimostrano al cento per cento che se se un'automobile o un motorino va a forte velocità contro il palo di un semaforo si schianta con il rischio anche di morte. C'è tutta una letteratura al riguardo per cui i morti contro i pali dei semafori sono milioni». Ma i giornali e le tv se ne guardano bene dal dirlo. Il comico Roberto Lipari è l'autore di questa geniale parodia, che speriamo non offenda nessuno. La satira spesso serve a far riflettere: anche - speriamo - chi si ostina a credere che ci sia sempre un complotto dietro a tutto. Il disorientamento di molti sull'origine della pandemia e sulla sua gestione è comprensibile: sono state date molte informazioni contraddittorie, le cure variano ancora da medico a medico, i vaccini sono stati messi a punto in pochi mesi. Ma tutto questo - magari... - è successo perché in effetti ci siamo trovati in un bel casino, e nessuno poteva sapere come uscirne. Sappiamo però, intanto, che in Italia la doppia vaccinazione ha finora coperto nell'88 per cento dei casi dall'infezione, nel 94,6 dal ricovero e nel 95,8 dalla morte. E sappiamo che ieri siamo arrivati a 4.259 contagiati e 21 morti al giorno».
Chi non vuole mostrare il Green pass? I deputati. Su questo tema ad esercitare l’ironia è Mattia Feltri su La Stampa. Feltri riprendendo un tipico modo di dire dell’understatement piemontese, “Esageruma nen”, prende in giro Roberto Fico presidente della Camera.
«Tre anni e mezzo fa, all'esordio da presidente della Camera, quando colmò in autobus la distanza fra la stazione Termini e Montecitorio, Roberto Fico sublimò la dozzinale dottrina della parificazione fra parlamentare e uomo della strada. Gli si spiegò, col garbo dovuto ai ragazzi un po' sciamannati ma non sciocchi, che i rappresentanti del popolo necessitano di tutele ulteriori non in garanzia di sé ma degli interessi del popolo da cui sono stati scelti. Un'auto blu e una scorta non sono un privilegio, sono la tutela assicurata dallo Stato, in nome del popolo, a un alto rappresentante delle istituzioni, a un uomo che conta di più soltanto, e non è poco, per i doveri pubblici ai quali è chiamato. Si era fiduciosi ma francamente non si sperava in un risultato spettacolare al punto che il privilegio sarebbe stato offerto a noi, quello di vedere Fico all'Olimpico per la partita dell'Italia con nove agenti di scorta. Nove. Per carità, qui si sarebbe pure per la reintroduzione dell'immunità parlamentare, figuriamoci se ci si lamenta. Però, nove… Vabbè. Meglio così. Fico oggi è perfetto. Sembra un Casini che non si rade: va alle parate militari, omaggia i grandi della Terra, non sbaglia un colpo. Ieri, per esempio, gli hanno chiesto se il green pass sia applicabile pure in Parlamento. In fondo si sta discutendo se renderlo obbligatorio per entrare al ristorante, in discoteca, persino sui tram e in metropolitana. E sapete che ha risposto? La questione non esiste, ha risposto: non si può chiedere a un parlamentare se si è vaccinato o no. Al popolo sì, ai parlamentari no. Caro Fico, sa come si dice a Torino? Esageruma nen».
VOGHERA, LITE FINITA CON UN COLPO DI PISTOLA
Una lite finita con un colpo di pistola. Protagonisti: un assessore leghista di Voghera, con la fama di sceriffo, e un marocchino irregolare, con la fama di disturbatore. La cronaca di Repubblica, a cura di Sandro De Riccardis.
«Una manata in faccia, la spinta, una pistola che spara e uccide. Davanti al bar "Ligure La Versa", in piazza Meardi, nel cuore di Voghera, Youns El Boussetaoui, 39 anni, marocchino irregolare con precedenti per spaccio e reati contro il patrimonio, senza fissa dimora, definito da molti un "disturbatore seriale", si aggira forse ubriaco tra gli avventori del locale. Sbraita contro una coppia di giovani, prende una sedia e la lancia contro un cagnolino di altri due clienti. Sono passate da pochi minuti le 22. Poco distante, c'è Massimo Adriatici, avvocato di 47 anni, fino al 2011 sovrintendente di Polizia presso il locale commissariato, assessore leghista alla sicurezza di Voghera (provincia di Pavia) nella giunta di centrodestra del sindaco Paola Garlaschelli. Adriatici vede la scena e decide di chiamare la polizia. Il marocchino lo capisce, si avvicina e inizia la discussione tra i due. Mette una mano in faccia all'avvocato e lo spinge facendolo cadere sul marciapiede, secondo l'indagine. E mentre cade la Calibro 22 di Adriatici spara un colpo, un solo proiettile che colpisce al cuore il marocchino e lo uccide. «Mi ha spinto ed è partito un colpo mentre cadevo a terra - si è difeso l'assessore, assistito dagli avvocati Colette Gazzaniga e Gabriele Pipicelli -. Era furioso perché stavo chiamando la polizia». Ma sarà ora l'indagine dei carabinieri, coordinati dal pm di Pavia Roberto Valli e dall'aggiunto Mario Venditti, a dover chiarire cosa sia successo. Adriatici ha mostrato a El Boussetaoui la pistola per dissuaderlo ad allontanarsi? L'ha estratta subito e ce l'aveva già in mano durante la discussione? E soprattutto: la Calibro 22 quando è stata caricata? Aveva già il colpo in canna o è stata scarrellata prima di sparare? Interrogativi da cui dipende il destino processuale di Adriatici, nella distanza che passa tra un'accusa di omicidio volontario, che lo ha portato ai domiciliari subito dopo la morte del magrebino, a quella di eccesso colposo in legittima difesa, formulata dalla procura nella richiesta di convalida dell'arresto, presentata oggi, nella quale i pm chiederanno probabilmente la conferma dei domiciliari. (…) I dettagli dei pochi minuti in cui si consuma la tragedia vengono visti in diretta da due clienti del bar, unici testimoni oculari sentiti subito dai carabinieri di Voghera, coordinati dal comandante provinciale Luciano Calabrò, che ascoltano anche i racconti di altri testimoni presenti vicino al locale martedì notte. Sono loro a raccontare della presenza rumorosa di El Boussetaoui, dell'aggressività verso i clienti del bar, della lite con l'assessore, infine dello sparo. È certo che la vittima non avesse con sé armi, nemmeno quella bottiglia di cui qualcuno aveva parlato nelle prime ore, un dettaglio smentito dagli stessi testimoni. Un lavoro lento e meticoloso di ricostruzione dei fatti, partito già martedì notte, con il pm Valli che si è recato davanti al bar Ligure e ha poi voluto interrogare personalmente i testimoni in caserma. Ora sarà il gip a decidere se convalidare l'arresto, e soprattutto se considerare congrua l'accusa meno pesante di eccesso colposo in legittima difesa».
Non è solo un triste caso di cronaca. Molti i commenti a sfondo politico. Ecco quello di Davide Parozzi nell’editoriale di prima pagina di Avvenire (titolo Quella pistola fuori posto).
«Se sulla vicenda penale non è possibile né giusto anticipare giudizi, vi è un risvolto di carattere politico che merita di essere affrontato. E che si condensa in un solo quesito: che bisogno ha un assessore di girare con una pistola in tasca? Adriatici, ex sovrintendente di polizia e ora avvocato, è in prima fila contro una serie di problemi di sicurezza che investono Voghera. Dalla movida violenta o fracassona, allo spaccio di droghe, agisce con piglio deciso tanto che per molti è una specie di 'sceriffo', pronto a tutto per fare rispettare la legge. Appunto. E proprio qui sta il primo nodo: è normale che un uomo politico giri armato (e con il proiettile in canna come ha ammesso lui stesso davanti a chi lo ha interrogato) per le vie della città che deve amministrare? Quasi che spettasse a lui colpire i trasgressori e non alle persone che sono state formate e addestrate dalle Istituzioni pubbliche a operare in situazioni anche difficili come quelle di martedì notte. La funzione della politica è quella di proporre soluzioni, individuare strade percorribili, trovare punti d'incontro e non agire in prima persona, e tanto più con armi da fuoco. Come ha sbottato un cittadino di Voghera, «qui non siamo in Texas». Il Texas di film e fumetti, ovvio. E proprio dal riconoscimento di essere altro rispetto alla visione della pistola facile come risolutrice di problemi nasce una seconda domanda. Ovvero quale cultura ci sia dietro ad un simile modo di presidiare la sicurezza di tutti. Se cioè la politica debba farsi carico di trovare un modo per occuparsi anche dei marginali, di chi dà fastidio, e intraprendere un percorso di convivenza e integrazione che sappia trovare un posto per ognuno. O se, invece, l'esaltazione securitaria, che molti voti fa prendere ma che non risolve mai fino in fondo i problemi, debba prevalere su tutto fino alle estreme conseguenze. Magari anche sulla scorta di messaggi da social media che esaltano la mano forte e chiedono interventi duri verso coloro che vengono percepiti come nemici da fermare a qualsiasi costo. Del resto negli anni passati, proprio il partito di Adriatici aveva avanzato proposte sull'utilizzo di 'ronde' formate da cittadini che - senza alcun titolo o formazione - avrebbero dovuto affiancare le forze dell'ordine per presidiare paesi o quartieri cittadini. E la retorica sulla «difesa che è sempre legittima» resta ancora uno dei cavalli di battaglia favoriti dai due principali partiti di destra. In conclusione, la gestione della sicurezza richiede un surplus di buonsenso da parte di tutti. Senza eccedere in derive 'buoniste' ma senza neppure abbandonarsi a pulsioni da giustizieri con tutti i rischi che ne conseguono. A Voghera, l'altra sera, non c'erano persone sbagliate nel luogo sbagliato. Fuori posto era la pistola».
Durissimo Michele Serra nella sua Amaca su Repubblica.
«Non si chieda alla Lega di prendere le distanze dal suo assessore di Voghera che ha sparato a un marocchino attaccabrighe per chiudere la lite, uccidendolo. Sia solo eccesso di legittima difesa, sia qualcosa di peggio, la Lega non può che riconoscersi in quell'impulso, in quella mentalità, in quel gesto. Qualche anno fa a poca distanza da Voghera, nel Piacentino, un piccolo imprenditore esasperato dai furti fece inginocchiare un rumeno sorpreso a rubare gasolio e gli sparò in pieno petto. Per fortuna del ladro, e del suo giustiziere, il colpo non fu mortale. Nella migliore delle ipotesi lo sparatore era una persona incapace di intendere la differenza tra un furto di gasolio e un'esecuzione sommaria, ma la Lega ne fece un eroe, un padre di famiglia perseguitato dalla magistratura, le vetrine dei negozi del suo paese erano pavesate di cartelli di solidarietà e Salvini andò a trovarlo in carcere come si fa con i perseguitati politici. La Lega è ciò che in America è la National Rifle Association: la brava gente che considera lecito sparare ai delinquenti e farlo in proprio, giustizia privata, perché lo Stato, si sa, è molle, la legge ha i tempi lunghi, e il mio cortile lo difendo da me, a mano armata. Dal sindaco leghista che ostentò con orgoglio il pistolone sui social al candidato leghista che sparava agli africani a Macerata, i precedenti sono parecchi, e molto eloquenti. Dicono di una cultura che non può certo flettersi al diritto di chi sbaglia, o di chi disturba, o di chi è di troppo. Una cultura da repulisti, da modi bruschi, da "fuori dalle balle" che fu di Umberto Bossi e oggi è l'altra faccia, perfettamente complementare, del Salvini melenso, quello dei "bimbi, le mamme e i papà". Non si può chiedere alla Lega di prendere le distanze dalla Lega».
Selvaggia Lucarelli sul Fatto sottolinea l’incoerenza di Matteo Salvini che mette insieme il garantismo alla Pannella e il giustizialismo delle ronde.
«“Le rivoluzioni nascono da scintille. Se per sani principi c'è bisogno di finire in galera, qua dentro tanta gente lo farà mettendo a rischio la sua libertà personale. Chi tocca uno dei nostri deve cominciare ad aver paura, chi arresta uno dei nostri senza motivo lo andiamo a prendere a casa ovunque sia, chi attacca la nostra gente deve avere paura. Non è una minaccia, ma un impegno. Il boia sa che se ci togliamo il cappio il primo a rimetterci le penne è lui”. Potrebbe essere il comizio di qualche testa calda di Forza Nuova o dell'ultrà di una curva e invece, a parlare così solo sette anni fa, era il promotore del referendum sulla Giustizia, Matteo Salvini. Ripeto, quel tizio al governo che invoca la giustizia giusta, il garantismo, la presunzione d'innocenza e così via. Quel tizio che dai gazebo grida "firmate per la giustizia" credendosi Pannella e che fino a poco tempo fa suggeriva di organizzare squadroni credendosi Maduro. Uno che al congresso della Lega suggeriva di andare a prelevare i giudici a casa, invitava gli elettori a commettere reati in nome della rivoluzione contro i boia di Bruxelles (tipo Draghi), che parlava di qualcuno che avrebbe dovuto "rimetterci le penne". Perché in questi anni sull'incoerenza di Matteo Salvini si sono consumati fiumi di inchiostro e pure numerosi affluenti, ma il periodo che attraversiamo ne condensa l'ipocrisia nel suo succo più concentrato di sempre. Del suo credibile sforzo per una giustizia giusta abbiamo appena detto, e basterebbe anche solo quello, se non si aggiungesse l'esilarante arringa di ieri in difesa dell'assessore alla sicurezza di Voghera, che ha sparato a un cittadino straniero in seguito a una discussione. Ora, a parte l'episodio in sé, per cui è un po' come se l'assessore al turismo a Pisa riempisse la torre di cariche esplosive e ci costruisse sopra un lavaggio auto, secondo Salvini "si tratterebbe di legittima difesa visto che accidentalmente è partito un colpo". In pratica, secondo il promotore del referendum sulla Giustizia, l'assessore si è difeso sparando a sua insaputa. L'imputato eventuale dunque è la pistola. O, al massimo, la mano dell'assessore, che però vivrebbe di vita propria tipo Mano della Famiglia Addams. Mi raccomando, andate a firmare il referendum. Pure con una mano non vostra, alla Lega va bene lo stesso. (…) E infine, l'ipocrisia acrobatica più spettacolare: la sua limpida, cristallina posizione sui vaccini. Basta domandargli se si è vaccinato per leggere nei suoi occhi la serenità di Totti quando gli chiedono di Spalletti. Ben attento a non scontentare i no-vax, non solo non si è vaccinato nonostante usi la mascherina per asciugarsi la fronte e faccia selfie pure con la spugnetta cattura-sporco, ma alla domanda "è favorevole alla vaccinazione?", risponde: "Io non vado in giro a inseguire la gente con la siringa!". Che voglio dire, è una risposta di per sé piuttosto curiosa. È tipo chiedere a qualcuno: "Le piace il mare?". "Be', non vado mica in giro con un ombrellone nel sedere!". O: "È favorevole all'eutanasia?". "Be' non vado mica in giro a mettere in faccia cuscini alla gente!". "Scusi Salvini, condivide le battaglie di Greta Thunberg?". "Sì, ma non chiedo mica a Claudio Borghi di farsi le trecce!". Boh. Roba che uno alla fine non sa mai dove collocarlo, quest' uomo. Salvini risponde a ogni offerta possibile, asseconda qualunque idea, ammicca a qualunque corrente. Giustizialista, garantista, pro-vax, no-vax, pistolero texano, fine giurista, euro-nemico, euro-scodinzolante. Tutto. Lui non cambia idea. Non cambia palco. Cambia platea. E chi dice che è un buon venditore di tappeti, sbaglia. Lui vende tutto, dai tappeti alle ciabatte elettriche. Solo che se torni a cambiare qualcosa di tarocco o non funzionante, scopri che il negozio è sparito: ha già aperto una pizzeria. Ogni volta che parla in una piazza gli andrebbe ricordato. Magari alzando una mano. E se non gli piace la domanda, ricordatevi: potete sempre dire che la mano non era la vostra».
CORSA CONTRO IL TEMPO PER LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA
A proposito di garantismo e giustizialismo, è ancora durissimo lo scontro sulla riforma della giustizia penale, che va approvata entro l’estate. Almeno nelle intenzioni di Draghi. Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera.
«La riforma della giustizia penale dev'essere approvata dalla Camera prima della chiusura estiva, se possibile entro luglio. Cioè la prossima settimana. Lo ha chiesto il premier Mario Draghi e lo hanno ribadito ieri il Partito democratico e la Lega. Intanto però la scadenza per la discussione in Aula fissata per domani è saltata, come certificato ieri in commissione Giustizia. Tuttavia non può (non potrebbe) saltare il sì di Montecitorio prima delle ferie, e a questo punto sembra inevitabile il voto di fiducia. Ma su quale testo il governo deciderà di mettere in gioco il proprio destino? Quale può essere il nuovo compromesso sulla prescrizione in grado di superare le critiche alla proposta della Guardasigilli Marta Cartabia approvata appena due settimane fa dal Consiglio dei ministri? L'ipotesi più accreditata è di alzare il tetto per i processi d'appello (prima della dichiarazione di improcedibilità) a tre anni per tutti i reati (eventualmente a quattro per i più gravi) e a un anno e mezzo in Cassazione. Tutto questo almeno fino al 2024, quando si potranno cominciare a vedere gli effetti degli altri interventi previsti per agevolare il compito dei giudici e accelerare i tempi dei processi: dall'ingresso di nuovo personale alla digitalizzazione, alle altre norme che dovrebbero avere un effetto deflattivo sui giudizi di secondo e terzo grado. È un'apertura verso i Cinque Stelle sponsorizzata dal Pd, sulla quale Lega, Forza Italia, Azione e Italia viva potrebbero essere d'accordo. Così loro potranno continuare a dire di avere cancellato la riforma Bonafede (prescrizione abolita dopo la sentenza di primo grado e stop) mentre i grillini potranno sostenere di avere ottenuto un ulteriore miglioramento a una modifica indigesta (sebbene approvata dai propri ministri). In ogni caso - a prescindere da quale sarà il risultato - la trattativa è in corso tra Montecitorio e Palazzo Chigi; perché la partita è diventata politica più che tecnica, e dunque deve giocarsi nel luogo più accreditati per la sintesi politica. Del resto la ministra della Giustizia il suo lavoro l'ha già fatto, e certo non è contraria a fornire un nuovo contributo per altri punti d'incontro. Ma quella che per vedere la luce ha bisogno di ulteriori modifiche non è la «riforma Cartabia», bensì la riforma del governo. Frutto, semmai, di una «mediazione Cartabia», che ha dovuto tenere conto delle richieste e dei veti di ogni partito. Un esempio: nella proposta originaria della ministra, il conteggio dei due anni concessi per celebrare il processo di secondo grado cominciava dalla prima udienza, mentre le forze di centrodestra più Azione e renziani hanno voluto che si anticipasse la decorrenza dalla presentazione dell'atto d'appello. Ma quasi ovunque passano mesi tra quel momento e l'arrivo del fascicolo in corte d'appello; in alcune città - come Roma o Napoli - anche anni. Il che significa improcedibilità certa, come ribadito dall'Associazione magistrati. Di qui la necessità di compensare quella concessione ai «garantisti» con tempi più realistici per la celebrazione. Ancora ieri, alla Camera, Cartabia ha difeso le ragioni delle modifiche alla riforma Bonafede. Non per rivendicare la prescrizione dei procedimenti, che è sempre «una sconfitta dello Stato», ma perché non si può dimenticare «il diritto costituzionale alla ragionevole durata del processo», e l'improcedibilità è soltanto «l'estremo rimedio per la sua salvaguardia». A chi paventa i rischi per i processi di mafia (sull'onda dell'allarme lanciato dal procuratore di Catanzaro Gratteri e dal procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho) la ministra ha risposto che spesso in quei casi sono previsti reati da ergastolo che restano imprescrittibili, ma i Cinque Stelle ribattono: tutti i processi per mafia, anche quelli dove non sono contestati omicidi, devono arrivare a conclusione. Sembra la rivendicazione di un ulteriore «doppio binario» per i tempi di prescrizione, che però troverebbe ostacoli nella parte destra della maggioranza. E così si torna alla mediazione, da incastrare con i tempi. Preso atto di buon grado dello slittamento («il rinvio può essere una opportunità per migliorare la condivisione delle forze politiche»), il presidente grillino della commissione Giustizia, Mario Perantoni, chiederà un nuovo calendario al presidente della Camera Fico, e la questione di fiducia passerà dal ministro dei rapporti con il Parlamento D'Incà. Tutti esponenti dei Cinque stelle. L'incastro delle date per rispettare la scadenza fissata da Draghi passa da loro».
CARTABIA SULLA MATTANZA: “VIOLENZA INAUDITA E A FREDDO”
Ma ieri l’atto più importante della Ministra Cartabia è stato l’intervento in Aula a proposito delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La cronaca sul Manifesto di Eleonora Martini.
«Santa Maria Capua Vetere, così come vent' anni fa, nei giorni del G8 di Genova, sono stati consumati, per mano di servitori dello Stato, «atti di violenza inaudita». «Sono spie di qualcosa che non va». Forse mai prima d'ora un ministro di Giustizia aveva pronunciato in Parlamento parole di condanna tanto chiare e dure nei confronti delle divise violente. Ci ha messo del tempo, la Guardasigilli Marta Cartabia, a decidere di presentarsi alla Camera e al Senato per riferire sui fatti già noti da un anno, sui quali il deputato di +Europa Riccardo Magi aveva già presentato un'interrogazione parlamentare, e diventati uno scandalo pubblico mondiale con la diffusione dei video a fine giugno. Cartabia lo ricorda, ma c'erano indagini in corso, spiega stendendo un velo pietoso sulla totale copertura ministeriale concessa agli aguzzini, a caldo, dal suo predecessore, il pentastellato Bonafede. Questa volta però la ministra non usa, per riferire in Parlamento, la ricostruzione fatta dal Dap ma quella del Gip che ha emesso 52 ordinanze di misure cautelari per 51 agenti e per il provveditore regionale della Campania. «In totale - riferisce Cartabia - sono 75 le unità di personale sospese dal Dap», compresi il direttore reggente e la vicedirettrice del carcere. Poi ci sono «altri indagati» sui quali «attendiamo gli sviluppi dell'indagine». Mentre «tutti i detenuti coinvolti sono stati trasferiti». La Ministra non sa ancora, mentre parla a Montecitorio e più tardi a Palazzo Madama, che la procura di Torino proprio ieri ha chiesto il rinvio a giudizio di 25 operatori del carcere "Le Vallette", compresi l'allora direttore e il capo della polizia penitenziaria, accusati a vario titolo delle violenze perpetrate su una decina di detenuti tra l'aprile 2017 e il novembre 2018. Tra i reati contestati, per la prima volta in un carcere, anche quello di tortura. Dunque si potrebbe dire che il ritardo con cui Cartabia si è presentata in Parlamento è quasi un punto a suo favore. Perché, «bisogna aver visto», dice citando il costituente Calamandrei e invitando deputati e senatori ad entrare nelle carceri (loro che possono farlo con facilità). «Visitate un'articolazione mentale: è un'esperienza davvero indimenticabile», raccomanda spostando subito lo sguardo sulle carenze strutturali del sistema. Forse troppo presto. Anche se non fa sconti: «Nessuna giustificazione, nessuna attenuante». È «una ferita e un tradimento della Costituzione e della divisa», ripete. Come si evince anche dalle immagini, dice, «non vi era alcuna una sommossa in atto, non si trattava di una reazione necessitata da una situazione di rivolta. Si è trattato di violenza a freddo». «La perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020 sarebbe stata disposta al di fuori dei casi consentiti dalla legge, eseguita senza alcun provvedimento del Direttore», se non un «dispositivo orale» emanato «a scopo dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere e appagare presunte aspettative del personale di Polizia». La ricostruzione è ancora presa in prestito dal Gip, Sergio Enea. Durante il suo sopralluogo con il premier Draghi, Cartabia ha poi appreso che «molti degli agenti coinvolti normalmente non erano addetti alla sorveglianza, avevano altre funzioni». La Guardasigilli riferisce anche del caso «di Lamine Hakimi, affetto da schizofrenia, morto il 4 maggio nella sezione Danubio del carcere» dopo essere stato vittima di violenza inaudita. Anche se il Gip non ha visto connessioni tra le botte e il decesso, da ricondurre invece secondo il giudice «all'assunzione di medicinali che, combinandosi con i farmaci assunti dal detenuto in ragione della terapia a lui prescritta, ha comportato un arresto cardiaco». Purtroppo su questa assurda morte del detenuto algerino il cui corpo è stato rinviato in patria ma non si sa dove, la Ministra non va oltre il minimo sindacale. Così come non va molto oltre quando individua «tre linee di priorità»: «strutture materiali, personale e formazione». Cartabia vuole più posti letto ma anche più «spazi di socialità», maggiore «videosorveglianza», più agenti, più operatori e più direttori (il testo completo del suo intervento sul manifesto online). Giustamente, pone un accento particolare sulla formazione, «non solo quella iniziale, ma permanente». Perciò annuncia «un gruppo di lavoro impegnato ad elaborare un modello di formazione innovativo e moderno». «Mai più violenza», è il motto. Peccato che non abbia pronunciato una parola riguardo ai codici identificativi per gli agenti, unico modo per agevolare il corso della giustizia, in questo e in altri casi. Peccato che, pur parlando di sovraffollamento, non abbia neppure accennato ad un provvedimento di condono di piccole pene (indulto) o, come chiede il neopresidente di +Europa Magi, a «una riforma della normativa a partire dai "fatti di lieve entità" che nel nostro Paese in sette casi su dieci portano in carcere» (nel testo della riforma Cartabia infatti solo un riferimento alla "tenuità del fatto"). Perché è per reati di lieve entità, come il piccolo spaccio, e in generale in violazione del testo unico sugli stupefacenti, che è in cella un terzo dei detenuti».
DDL ZAN, IL PD VUOLE RINVIARE A SETTEMBRE
Rinvio a settembre, questa è il nuovo obiettivo della strategia del Pd sul ddl Zan. Il Foglio la chiama stamattina “l’auto trappola” di Letta.
«La scelta di Enrico Letta di non accettare il dialogo sulla legge che reprime l'omofobia porta quasi inevitabilmente al rinvio della legge Zan a settembre. Tutti sapevano che insistere nel braccio di ferro avrebbe portato a questo esito, Letta compreso. Per questo la tattica adottata appare incomprensibile: non è neppure una questione di principio, se è vero come si dice che il Pd intende presentare in Senato un ordine del giorno "interpretativo" in cui si ammorbidiscono proprio i punti della legge più contestati. Ma anche questa mossa non potrà superare le critiche: una legge che ha bisogno di un'interpretazione "autentica", peraltro priva di valore giuridico, ancora prima di essere approvata è una legge con evidenti elementi di ambiguità. D'altra parte a settembre le cose non miglioreranno affatto, anzi il clima parlamentare diventerà ancora più complicato, come capita sempre durante il semestre bianco, quando si è certi che le Camere non possono essere sciolte e quindi vengono alla luce le convinzioni personali anche in dissenso con le scelte dei gruppi. La tattica di Letta appare tanto evidentemente suicida che cominciano a sorgere dubbi sulle vere ragioni che l'hanno suggerita. In fondo il rinvio non scontenta i Vescovi e può essere presentato all'area più intransigente del pensiero gender come una prova di coerenza adamantina. L'intesa con i 5 stelle manterrà un punto di solida convergenza almeno fino alle elezioni amministrative e poi si vedrà. Se fosse questo il calcolo machiavellico di Letta, avrebbe le gambe corte: alla fine tutti giudicheranno l'eventuale testo approvato. Se non sarà approvato nulla non basterà dare la colpa a Matteo Salvini, se uscirà un testo di compromesso sembrerà assurdo l'atteggiamento tenuto ora. Può capitare di finire nelle trappole ordite da altri, ma costruirsele da sé è davvero un po' troppo».
Sulla stessa linea Ivan Scalfarotto, militante gay, renziano, primo promotore di una legge sulla materia 8 anni fa, intervistato da Giovanna Casadio per il sito di Repubblica.
«Sono veramente stupefatto da chi, come Enrico Letta, adesso vuole rimandare a settembre il ddl Zan. Se troviamo un accordo sulla formulazione presentata da noi di Italia Viva, che non intacca le tutele e risolve il problema dell'ostruzionismo della destra, la legge contro l'omotransfobia potrebbe davvero essere approvata in poche ore. Vorrei capire a chi giova questo ritardo». Ivan Scalfarotto, renziano, sottosegretario, il primo a presentare una legge sull'omofobia nel 2013, contrattacca. Alle accuse del Pd di volere affossare il ddl Zan, fornendo assist alla Lega, risponde: «Sono incredulo per il clima di odio nei confronti di chiunque voglia semplicemente discutere. Gli attacchi di Monica Cirinnà, che somigliano a liste di proscrizione, sono inaccettabili e sconsiderati». Scalfarotto ha appena finito di parlare al telefono con Barbara Masini, la senatrice forzista, che ha fatto coming out e preso una posizione a favore della legge, in dissenso dal suo partito. «Barbara Masini è stata presa di mira sui social, ma dovremmo solo dirle 'grazie' per il coraggio e la generosità che ha dimostrato». Scalfarotto, lei alla Camera ha votato a favore del ddl Zan, perché ora non le va più bene? «Mi va benissimo, altroché. La rivoterei cento volte. Ma non ha i voti. Al Senato i numeri sono più risicati. Inoltre la maggioranza di governo è cambiata. Abbiamo visto che solo la settimana scorsa il ddl Zan ha evitato la sospensiva, a scrutinio palese, per un voto. Non ho cambiato idea rispetto al contenuto della legge, ma deve necessariamente cambiare la tattica di gioco per approvarla». Ma tra Italia Viva e Pd sul ddl Zan c'è una resa dei conti politica? «C'è un posizionamento politico da parte del Pd anche a costo di sacrificare la legge. Com'è chiaro anche dalla volontà di farla slittare a settembre, per i Dem è più importante agitare la questione dei diritti civili che portare a casa la legge». Voi renziani avevate annunciato che non avreste presentato emendamenti, invece l'avete fatto. Ora ve la prendete con Monica Cirinnà, la responsabile diritti del Pd, che ha detto ci sono i nomi e i cognomi di chi, anche tra i renziani, ha chiesto modifiche. Cosa c'è di scandaloso? Perché parlate di liste di proscrizione? «Abbiamo ritenuto che la nostra soluzione, tecnicamente valida, andasse messa a disposizione dei senatori. Dire ai tg che si hanno i nomi di chi la pensa diversamente, è inaccettabile. Monica spieghi cosa vuole fare!».
INIZIA IL G20 SULL’AMBIENTE A NAPOLI, PARLA KERRY
Il direttore di Repubblica Maurizio Molinari intervista John Kerry, inviato speciale sul clima del presidente Biden, alla vigilia del G20 di Napoli sull’ambiente.
«Difendendo l'ambiente abbiamo la possibilità reale di migliorare la vita delle persone e siamo alla vigilia del maggior cambiamento dalla rivoluzione industriale». L'inviato speciale Usa sul clima, John Kerry, ci incontra a Villa Taverna, ha al fianco lo stretto collaboratore David Thorne, ex ambasciatore a Roma, e studia con attenzione i documenti preparatori del G20 dell'Ambiente che si apre oggi a Napoli. Kerry è consapevole delle resistenze di Pechino come delle tensioni inter-europee ma guarda oltre: crede «in una convergenza del G20 sugli impegni del G7», parla di «collaborazione possibile con Mosca», plaude alla «coesione Ue» a dispetto delle polemiche sul "Green Deal" e guarda con fiducia alla conferenza Onu che si terrà in novembre a Glasgow perché «le co-presidenze di Italia e Gran Bretagna ci fanno ben sperare». Segretario Kerry, lei chiede al summit del G20 di seguire il G7 nell'impegno sulla protezione del clima. Crede che il vertice di Napoli ascolterà tale suggerimento oppure sarà bloccato dai veti incrociati? «La mia impressione è che i singoli Paesi vogliono fare meglio nella protezione dell'ambiente e vogliono riuscirci adesso». Eppure le differenze ci sono e il summit appare tutto in salita... «Ci possono essere differenze di opinione se una decisione è abbastanza o se qualcuno sta facendo meglio di altri. Dunque bisogna ascoltare tutti, con attenzione. Ed è ciò che farò al summit di Napoli. Ma il G7 è stato un grande successo per gli impegni sottoscritti - non finanziamento di impianti a carbone all'estero, riduzione delle emissioni nel 2020-2030 e riduzione della crescita della temperatura terrestre a 1,5 gradi e credo possiamo riuscire a procedere su questa strada con il pieno sostegno del G20. Abbiamo più opzioni a Napoli». L'Italia, presidente di turno del G20, sta tentando di favorire un accordo al summit sull'Ambiente. Può farcela? «Certo, i vostri ministri, come Cingolani, stanno facendo un grande lavoro, sono molto competenti. Ho incontrato il premier Draghi ed è stato molto chiaro con me nel descrivere le ambizioni dell'Italia: non solo per accompagnare Cop26 al successo ma anche per indicare la strada verso il futuro. La co-presidenza di Italia e Gran Bretagna per la Cop26 ci fa ben sperare». L'Unione Europea si è impegnata a non emettere emissioni entro il 2050, riducendo i gas nocivi almeno del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. È un obiettivo realistico o rischia di affossare le nostre economie? «È un obiettivo realistico, raggiungibile e positivo per l'economia. Siamo di fronte alla possibilità della più grande trasformazione dalla rivoluzione industriale. Saranno creati milioni di posti di lavoro. Non c'è alcun dubbio su questo. Ad esempio, in America dobbiamo creare una rete elettrica nazionale - che non abbiamo - e ciò significa lavori, elettricisti, idraulici, esperti di cavi, edili, tecnici di mezzi pesanti. Abbiamo di fronte la necessità di realizzare costruzioni imponenti ed altri Paesi si trovano in situazioni analoghe. E non è tutto perché dobbiamo sviluppare nuove tecnologie: idrogeno verde, impianti di elettrolisi che più saranno efficienti meno costeranno. L'idrogeno non crea emissioni, se non viene prodotto con carburanti fossili, e questo significa che possiamo arrivare all'idrogeno pulito. Certo, c'è anche l'idrogeno blu che può essere realizzato con il gas ma noi vogliamo ridurre tutte le emissioni. Possiamo farcela? Si. È chiaro come ci arriveremo? No. Dobbiamo avere maggiori ambizioni. Ed è per questo che ci vedremo a Glasgow, in novembre, alla Cop26 dell'Onu». (…) Nel discorso pronunciato lunedì a Londra lei ha offerto alla Cina un'alleanza con l'Occidente per la difesa del clima. Crede che accetterà? «Fino a quando non rifiutano, possono accettare. Sto lavorando molto con i cinesi. Ho fatto 14 incontri digitali con loro ed in un'occasione, quando sono andato di persona a Shanghai, l'esito è stato positivo. Dunque credo che la Cina accetterà, perché sappiamo tutti che senza di lei - come senza le altre grandi economie del Pianeta - non possiamo farcela. Se noi andiamo a zero e Pechino continua a crescere con le emissioni, la difesa del Pianeta fallirà. Non è una questione di politica o ideologia ma di matematica e calcolo: e gli scienziati sanno assai bene cosa dobbiamo fare». Sulla strada verso il summit Onu sul Clima di Glasgow possiamo dire che Cina e India sono gli ostacoli maggiori? «No. Sono parte di un mosaico di sfide con cui abbiamo a che fare. La sfida per il clima è diversa in ogni Paese. Ve ne sono alcuni senza elettricità, ve ne sono altri con imponenti quantità di energia ma senza gas. Dobbiamo far leva sulla nuova tecnologia per affrontare una simile agenda. Di una cosa sono certo: la questione climatica può essere affrontata e risolta soltanto se tutti i Paesi partecipano. E può generare lavoro e ricchezze praticamente ovunque. Servono ad esempio accordi regionali sull'acqua dei fiumi, affinché tutti traggano vantaggio dall'idro-energia che è pulita».
ORBÁN INDICE UN REFERENDUM ANTI UE
Mossa a sorpresa dell’autocrate ungherese Viktor Orbán che ha annunciato un referendum popolare sulla sulla controversa legge che la Ue gli contesta. La cronaca di Repubblica.
«Viktor Orbán va alla guerra con l'Europa. Il premier ungherese ha annunciato un referendum sulla controversa legge che proibisce di discutere di omosessualità e transessualità con bambini e adolescenti, equiparandoli di fatto alla pedofilia e criminalizzando l'intera comunità Lgbtq. Definita una «vergogna» dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, la legge ha fatto scattare il 15 luglio scorso una procedura d'infrazione dell'Ue nei confronti di Budapest per violazione dei diritti fondamentali. Ancora una volta, il tribuno magiaro alza il livello dello scontro con Bruxelles e con una mossa tipica del suo repertorio si rivolge alla pancia del Paese profondo, con la carta truccata dello scontro di civiltà: «È in gioco il futuro dei nostri bambini, non possiamo cedere nulla su questo terreno», ha detto Orbán in un messaggio su Facebook. E ancora: «Nelle scorse settimane Bruxelles ha attaccato l'Ungheria sulle misure di protezione dei minori. Ma le nostre leggi non permettono propaganda sessuale nei nidi, nelle scuole, in televisione e nella pubblicità. Solo la volontà popolare può difenderci». Orbán non ha indicato una data per il referendum, che prevede 5 domande. Agli ungheresi verrà chiesto fra l'altro se sono favorevoli alle lezioni sulla sessualità senza il consenso dei genitori, se sostengono «l'esposizione illimitata dei piccoli a contenuti sessuali dannosi sui media» e se sono d'accordo con la «promozione di trattamenti per il cambiamento di genere per i minori». A tutti i quesiti, il premier chiede di rispondere con un «no complessivo». Orbán ha fatto riferimento a un altro plebiscito, quello del 2016, quando chiese ai cittadini di rifiutare l'accettazione dei migranti: «Si voleva forzare l'Ungheria, ma il referendum e la comune volontà del popolo fermarono Bruxelles». In realtà, quella consultazione non fu valida perché votò meno del 50% degli aventi il diritto, ma Orbán continuò a dire no a ogni piano di redistribuzione. Anche questa volta, l'opposizione appare orientata al boicottaggio. «Faremo come nel 2016, il referendum sarà nullo e inefficace», si legge in una nota del portavoce di Demokratikus Koalíció, secondo cui «il regime di Orbán è arrivato all'ultimo atto e la fine non sarà impedita da un altro referendum basato sulla menzogna». Secondo l'organizzazione ungherese Lgbtq Hatter, l'annuncio di Orbán tradisce il tentativo di lanciare una «campagna di odio», tesa a distogliere l'attenzione dai veri problemi che lo assillano, non ultimo lo scandalo di Pegasus, il software che il governo ungherese ha acquistato da una società israeliana per spiare giornalisti e oppositori. Ancora più preoccupante per Orbán è l'ipotesi che la Commissione europea tagli i 7,2 miliardi di euro dal Recovery Fund per l'Ungheria, di cui intanto ha già bloccato il piano di crescita e resilienza, a causa delle scarse garanzie della governance, dell'assenza di controlli e della corruzione diffusa».
MERKEL CONVINCE BIDEN: SÌ AL NORD STREAM 2
Altro fatto internazionale di grande importanza: la Cancelliera tedesca Merkel ha ottenuto il via libera di Washington al gasdotto Nord Stream 2. Paolo Mastrolilli su La Stampa:
«Gli Usa danno alla Germania il via libera per il gasdotto Nord Stream 2, in cambio dell'impegno a difendere l'Ucraina dalle aggressioni russe e garantire che il gas di Mosca continui a passare anche da Kiev. Nello stesso tempo invitano il presidente Zelensky alla Casa Bianca ad agosto, per rassicurarlo ed evitare che si butti in braccio alla Cina. È l'accordo annunciato ieri da Washington e Berlino, dopo un braccio di ferro durato anni. Nord Stream 2 è il gasdotto pensato per collegare Russia e Germania direttamente, passando sotto il Mar Baltico. Le ultime due amministrazioni americane si erano opposte, perché il progetto rischia di isolare l'Ucraina. Sul suo territorio infatti passano i tubi che attualmente portano in Europa il gas di Mosca, che paga a Kiev 3 miliardi di dollari all'anno per il transito. Grazie a Nord Stream 2 il Cremlino potrebbe chiudere il rubinetto ucraino, facendo mancare al Paese confinante tanto le risorse economiche ricavate dall'energia, quanto l'unica leva politica da usare per contrastare l'aggressione russa, cominciata con l'annessione della Crimea. L'amministrazione Biden aveva iniziato a rivedere il dossier dall'insediamento, partendo da due punti: primo, il bisogno di ricostruire l'alleanza con la Germania e l'Europa, per contenere la Cina e fare progressi sul clima; secondo, la presa d'atto che ormai il gasdotto è completo al 90%, e quindi non era più realistico pensare di poterlo cancellare. La Casa Bianca aveva già lanciato un segnale, quando nelle settimane scorse aveva rinunciato ad imporre sanzioni alla compagnia che gestisce il progetto. I negoziati con Berlino intanto erano proseguiti, e sono stati completati con la recente visita della cancelliera Merkel a Washington. Ieri quindi è arrivato l'annuncio: gli Usa tolgono il veto a Nord Stream 2, in cambio dell'impegno della Germania a difendere gli interessi dell'Ucraina. Nel dettaglio, i due Paesi investiranno diversi milioni di dollari per aiutare Kiev a sviluppare le infrastrutture di energia rinnovabile. Berlino poi dovrà garantire che Mosca continui a pagare i 3 miliardi di dollari dati oggi al Paese confinante, in base al contratto che scade nel 2024. È incerto però come riuscirà a farlo, visto che dall'intesa è stata esclusa la clausola «kill switch» che avrebbe consentito di bloccare il flusso su Nord Stream 2 in caso di violazioni. Ieri Merkel ne ha parlato con Putin. L'ex segretario di Stato Pompeo ha detto che l'accordo è un regalo al Cremlino, voluto da Biden perché la sua priorità ossessiva è il clima, dove ha assolutamente bisogno di Merkel, che quindi non poteva alienare con sanzioni sul gasdotto. Così però dimentica che Nord Stream 2 è arrivato al 90% di completamento durante l'amministrazione Trump, che non ha fatto molto per bloccarlo. Il timore degli Usa ora è che Zelensky si butti nelle braccia della Cina, perciò lo hanno invitato alla Casa Bianca il 30 agosto. Si tratta di capire quali garanzie concrete può offrire Washington a Kiev, per evitare il suo isolamento».
OLIMPIADI A TOKYO, “LOST IN CONTAMINATION”
Domani si inaugurano i giochi olimpici di Tokyo 2020. Emanuela Audisio per Repubblica racconta i “giochi tristi”, segnati dall’incubo del virus e dagli spalti vuoti.
«Quella di domani sarà una cerimonia inaugurale sobria, poco effervescente, senza effetti speciali, tranne una sorpresa finale (se non entreranno in azione gli hacker come a Pyeongchang 2018). Ma soprattutto nuda: niente pubblico, poco più di mille persone, stadio vuoto. L'ordine delle nazioni è deciso dal sillabario giapponese quindi l'Italia entrerà quasi subito, in 18ª posizione, tra Israele e Iraq, a fare da cuscinetto tra due Paesi che non si amano. In via eccezionale, dato che ospiteranno i prossimi Giochi, gli Usa (2028) sfileranno per terzultimi, seguiti dalla Francia (2024) e dal Giappone, squadra di casa. Tra i pochi leader presenti, un po' meno di 15 persone (a Rio erano 40): il presidente Macron e la First Lady, Jill Biden. Però l'imperatore Naruhito ci sarà, ma non la moglie, Masako, l'imperatrice triste, che ha un grande feeling con la popolazione e che sembra voler sottolineare una certa lontananza della famiglia reale da questa manifestazione. Siamo alla terza generazione: il nonno di Naruhito, Hirohito, inaugurò quelle di Tokyo '64 e di Sapporo '72, il padre Akihito i Giochi di Nagano '98. Anche se l'imperatore sta pensando di eliminare dalle 17 parole di rito che deve pronunciare il termine «celebriamo» troppo offensivo verso chi è stato colpito da lutti. Nessuna spensieratezza, molta intensità, seguendo il copione del teatro giapponese. Ci sarà poco da divertirsi, come alle feste dei matrimoni, ma almeno la cerimonia è stata accorciata a due ore e quaranta minuti. Atleti contingentati, mascherine, e molti tagli a un programma che è stato rivoluzionato da una serie di incidenti: prima le dimissioni del direttore creativo Hiroshi Sasaki, che aveva suggerito un (inopportuno) costume «Olympig » per la star influencer Naomi Watanabe e poi quelle del musicista Oyamada, in arte Cornelius, per bullismo conto un disabile, con conseguente eliminazione della sua parte di colonna sonora. Harakiri perfetti, senza cornetti rossi portafortuna. Tokyo 2020 sarà la consapevolezza che c'è poco da ridere come in Madame Butterfly. E che i sogni sul futuro a volte si fermano, perché è meglio far prevalere l'umiltà. Non ci saranno uomini che volano (Pechino 2008) né regine che si paracadutano (2012), ma un Lost in Contamination che invita ad abbassare la testa sulla sofferenza del mondo e degli atleti».
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