La Versione di Banfi

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Grillo demolisce Conte

alessandrobanfi.substack.com

Grillo demolisce Conte

Il Garante attacca l'ex premier e la sua proposta di Statuto. Recupera Casaleggio e vuole un voto. Scissione in vista? Accordo coi sindacati e freno al cashback. Rischio delta per i tifosi inglesi

Alessandro Banfi
Jun 30, 2021
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Grillo demolisce Conte

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Dunque Beppe Grillo ha risposto in modo durissimo alla richiesta avanzata da Giuseppe Conte di poter decidere sulla guida del Movimento. In un post ha bocciato come “seicentesca” l’idea del nuovo Statuto e ha chiesto di votare nuovamente sulla piattaforma Rousseau (Grillo recupera Casaleggio). Una rottura molto netta. Porterà a una divisione del Movimento? Non è ancora chiaro. Anche se la sostanza è che fra Grillo e Conte lo scontro è serio ed è improbabile oggi pensare ad una mediazione. A leggere Travaglio, impossibile: il linguaggio è quello da Ok Corral. Ne rimarrà uno solo. Che succederà al Governo? All’alleanza col Pd? Agli stessi candidati sindaci, a cominciare dalla Raggi? Tante domande, ad oggi poche risposte.

Intanto i problemi corrono. Oggi c’è un Consiglio dei Ministri che deve varare un Decreto sui licenziamenti (ieri trattativa fiume coi sindacati) e altre misure, fra cui rinvii fiscali e fine del cashback, misura cui i 5 Stelle tengono molto. La campagna vaccinale va avanti fra mille difficoltà: dalle 6 di ieri mattina alle 6 di stamattina sono state fatte 555 mila 53 somministrazioni. Domani Figliuolo incontrerà le regioni sugli approvvigionamenti di luglio, il timore è che i vaccini scarseggino. Sta diventando un caso internazionale di prima grandezza, legato alla variante Delta, lo stop ai tifosi inglesi: la nazionale britannica giocherà a Roma sabato prossimo per i quarti di finale degli Europei. I tifosi dovrebbero fare la quarantena. Succederà?

Se i 5 Stelle hanno i loro problemi, nel centro destra la vicenda dei candidati sindaci di Milano e Bologna sta diventando imbarazzante. Oggi c’è un nuovo nome per Milano sui giornali. Non si capisce la ragione di arrivare a luglio senza accordo. Buone notizie dall’Etiopia, secondo fonti accertate l’esercito si sarebbe ritirato da Macallé nel Tigray, dopo otto mesi di guerra civile. Il Papa “festeggia” Pietro e Paolo ricordando la missione della Chiesa degli apostoli. Vediamo i titoli.  

LE PRIME PAGINE

Il post di Grillo alle cinque della sera mette tutti d’accordo. Nel senso che obbliga i giornali a scegliere questo tema. Il Corriere della Sera annuncia: Grillo rompe con Conte. Per la Repubblica è un’espulsione: Grillo butta fuori Conte. Per La Stampa: Grillo affonda Conte, M5S nel caos. Avvenire è cosmico: Stelle roventi. Per Il Messaggero è possibile una divisione: Grillo rompe, ipotesi scissione. Per Il Fatto, fra i due: Ne resterà uno solo. Libero ricorda che fu il Garante a volere l’ex premier alla guida: Grillo violenta il suo Conte: «È un incapace». Il Manifesto predilige l’immagine del padre che aveva evocato lo stesso Conte: Il padre affondatore. Per La Verità: Grillo liquida Conte: «È una droga». Il Giornale sceglie un classico della storia dei 5 Stelle: Un vaffa a Conte. Diverse le scelte di altri giornali. Il Sole 24 Ore si focalizza sul nuovo accordo coi sindacati: Il governo: Cig o licenziamenti. Il Domani sulla vicenda delle violenze in carcere a Santa Maria Capua Vetere: Ora che c’è il video nessuno può più ignorare il pestaggio di Stato. Il Quotidiano Nazionale sceglie la terribile storia di cronaca della 16enne uccisa dal coetaneo: Chiara e i deliri dell’amico assassino.

GRILLO SFIDUCIA CONTE: È UN’ILLUSIONE

Dunque Grillo che aveva “creato” la leadership di Conte prima al Governo del Paese, Presidente del Consiglio di due diversi esecutivi, poi come capo dei 5Stelle, oggi lo delegittima completamente. E lo giudica inadeguato. Marco Imarisio per il Corriere della Sera analizza l’uscita del Garante.  

«C'è tutto Beppe Grillo, in quel post. A cominciare da un pragmatismo spregiudicato spesso sconfinante nel cinismo, che lui in privato sostiene di aver ereditato dalle sue antiche simpatie comuniste, ma invece si rivela quasi sempre uno strumento di difesa, per sé stesso e per il suo Movimento, e come ormai è noto nella sua visione le due cose coincidono. «Mi sento così: come se fossi circondato da tossicodipendenti che mi chiedono di poter avere la pasticca che farà credere a tutti che i problemi sono spariti e che dia l'illusione che si è più potenti di quello che in realtà si è davvero, pensando che Conte sia la persona giusta per questo». L'ex presidente del Consiglio non è mai stato una sua scelta, tanto meno una sua persona di fiducia. «Cosa centra con noi?» urlò l'Elevato durante la litigata nella hall dell'hotel con Luigi Di Maio e Davide Casaleggio che gli comunicavano la decisione di andare al governo con la Lega. Fin dall'inizio, in questa guerra di ego che ha avuto dentro ben poca politica, Conte per lui era la leva che gli era stata consigliata per trainare il Movimento fuori dal vicolo cieco nel quale si trova da almeno due anni ormai. Per via di un consenso al quale Grillo non ha mai dato molto peso nelle sue valutazioni, ne è testimone la lunga serie di epurazioni che di volta in volta hanno cancellato dalla galassia pentastellata astri che venivano dati in sicura ascesa. «Il consenso è solo l'immagine che si proietta allo specchio» scrive Grillo. Le cause, i problemi politici e organizzativi, e le ambiguità di fondo, rimangono. «E Conte, mi dispiace, non potrà risolverli perché non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione». Chi conosce Grillo, ha mai pensato che potesse usare il fioretto? «Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco». L'affondo più duro è questo. Non le critiche alle doti politiche e personali dell'ormai ex avvocato del popolo, per quanto feroci e paradossali possano sembrare, trattandosi pur sempre della persona che ha governato per quasi tre anni l'Italia in nome e per conto del Movimento. Quelle sono l'ennesima sottolineatura del fatto che lui non deve nulla a Conte, semmai il contrario. Quanto definisce «seicentesco» lo statuto preparato dall'ex presidente del Consiglio, in contrasto con la democrazia diretta, l'eterno feticcio che ritorna nel momento del bisogno, mette invece per iscritto il suo tarlo interiore di questi ultimi mesi. Se per sopravvivere dobbiamo cambiare fino a diventare il contrario di noi stessi, non è uguale a morire? Grillo lo ha chiesto a tutte le persone con le quali ha parlato in questa fase. Nei giorni scorsi, proprio i parlamentari più vicini a Conte, con due mandati già all'attivo, erano i più pessimisti sull'esito della trattativa. Binario morto, dicevano. Incomunicabilità tra due persone con troppa autostima per stare nella stessa stanza, e troppo ignare l'uno della storia dell'altro. «Le organizzazioni orizzontali come la nostra per risolvere i problemi non possono farlo delegando a una persona la soluzione... deve essere avviato un processo opposto: fare in modo che la soluzione decisa, in modo condiviso, venga interiorizzata con una forte assunzione di responsabilità da parte di tutti e non di una sola persona... Come una famiglia, come una comunità che impara dagli errori e si mette in gioco senza rincorrere falsi miti, illusioni o principi azzurri che possano salvarla...». In gergo tecnico, si chiama restaurazione. Grillo riporta tutto a casa, per citare il suo amato Bob Dylan. Chiama la consultazione in rete degli iscritti per l'elezione del Comitato direttivo, che è semplicemente un altro modo di chiamare il Direttorio che nacque alla fine del novembre 2014 quando per la prima volta l'ex comico disse di «essere un po' stanchino». E si voterà su Rousseau, con Grillo che rivela di aver chiesto a Davide Casaleggio il permesso per farlo. Ecco, il peso di quel cognome. Il cofondatore del M5S non ha mai avuto un rapporto facile con il figlio di Gianroberto. Ma la ferita dell'addio senza riconciliazione con l'amico dei tempi da pionieri, sanguina ancora. Il primo campanello d'allarme per Grillo è suonato quando Davide è la sua associazione sono stati messi alla porta in modo brusco, trattati da estranei, con un risarcimento economico di molto inferiore a quello che lui aveva suggerito. Quella è stata la prima volta in cui ha capito che la sua parola stava perdendo peso, che la scialuppa di salvataggio rappresentata da Conte esercitava un richiamo sempre più forte. Da quel momento, ha cominciato a pensare che non ne valeva la pena. Tutto il resto, ovvero il futuro del Movimento, non è scritto. Si parla infatti di «una visione a lungo termine, concordata, fino al 2050», quindi del nulla. La posta in gioco era quasi una questione privata. Grillo ha ribadito che a casa sua comanda lui. È andata come doveva andare».

Marco Travaglio scrive un lungo editoriale per il Fatto in cui elenca una serie di critiche e contraddizioni del Garante. Titolo del commento rivolto soprattutto alla base dei 5 Stelle: Lasciatelo solo.

«Se Grillo voleva distruggere Conte, è riuscito nell'impresa di rafforzarlo ancor di più. Se invece voleva distruggere i 5Stelle, è riuscito nella missione di annientare se stesso, o quel poco che ne resta. Basta leggere i commenti al suo ultimo post su Facebook, che lui crede visionario e invece è soltanto delirante: era da quando l'Innominabile annunciò trionfante il ritiro delle sue ministre dal governo Conte che non si riscontrava una tale unanimità di vaffanculo. Che, per un esperto del ramo, dovrebbe essere motivo di riflessione. Ma purtroppo Beppe non riflette più. Fino a qualche tempo fa, ci inviava delle lettere firmate "Beppe Grillo e il suo neurologo". Poi, tragicamente, il suo neurologo morì. E se ne sente la mancanza. Barricato nel suo bunker, in piena sindrome di Ceausescu, l'Elevato si rimira allo specchio e si dice quanto è bravo. È come l'automobilista che imbocca l'autostrada in contromano e pensa che a sbagliare siano tutti gli altri. Scambia Draghi e Cingolani per grillini, cioè le allucinazioni per visioni. E ora, mentre il grillino Draghi straccia altre due bandiere dei 5Stelle e di Conte -il blocco dei licenziamenti e il cashback utilissimo per la transizione digitale, il sostegno al commercio e la lotta all'evasione - facendo felice la destra (soprattutto la Meloni, che però sta all'opposizione), lui tenta di abbattere l'unico leader che aiuterebbe il M5S a restare al governo con la schiena dritta. E spiana la strada allo smantellamento delle ultime conquiste superstiti: quelle sulla giustizia. Del resto, come ha detto l'altro giorno alla Camera, i suoi ministri si sono girati i pollici per tre anni (infatti Bonafede e la Azzolina vivono sotto scorta). Sono Draghi & C. che hanno "visione": non certo Conte, che un anno fa si inventò il primo lockdown d'Europa e un'altra cosetta come il Recovery Fund finanziato con Eurobond, costruendo il consenso per farlo approvare all'unanimità dal Consiglio dopo quattro giorni e quattro notti di battaglia. Quisquilie: tant' è che, per rendere meno "seicentesco" lo Statuto di Conte, Grillo pretendeva di guidare la politica estera del M5S, col decisivo argomento che conosce l'ambasciatore cinese. Il suo neurologo gli avrebbe spiegato la ridicola assurdità della pretesa. E anche il paradosso di essersi inimicato tutti gli amici e trasformato nell'idolo di tutti i nemici, ansiosi di liberarsi - tramite lui - di un movimento che con Conte minaccia di rinascere (leggere i giornaloni e la stampa di destra per credere). Ma purtroppo il neurologo non c'è più e non è stato sostituito. In compenso, nel bunker, torna Casaleggio jr., richiamato in servizio per apparecchiare l'elezione di un Comitato direttivo di cinque membri. Cinque vittime sacrificali votate al sadomasochismo che si stenta a immaginare chi possano essere. Potrebbero pure candidarsi i fuorusciti in attesa di espulsione, tipo Lezzi, Morra, Laricchia &C. Che però avevano lasciato i gruppi parlamentari in polemica contro l’ingresso del M5S nel governo Draghi imposto proprio da Grillo e osteggiato proprio da Casaleggio (che, fra l’altro, si oppone a qualunque deroga al limite dei due mandati). Un altro paradosso da neurologo: per sbarrare la strada a Conte, che ancora l’altro ieri ha ribadito il sostegno a Draghi (ma da posizioni critiche e mature), il Visionario Elevato farebbe eleggere un Direttorio di nemici assatanati del governo col potere di sfiduciarlo. Ma è improbabile che l’elezione su Rousseau possa mai avvenire. Carente di neurologi, Grillo lo è anche di avvocati. Altrimenti qualcuno gli avrebbe spiegato che quella non è più la piattaforma del M5S (che ne ha un’altra) e soprattutto che Casaleggio – salvo commettere reati – non può violare l’ordine del Garante della Privacy di non trattare i dati degl’iscritti, dopo averli consegnati al legittimo titolare: il reggente Vito Crimi. Ora, siccome il partito di maggioranza relativa in Parlamento non può restare senza guida alla vigilia di un autunno caldo a suon di licenziamenti e del rush finale per l’elezione del capo dello Stato, l’unica votazione che ha un senso è quella per il nuovo capo politico: da una parte Conte, sulla base del suo Statuto e della sua Carta dei Valori, che vanno subito resi pubblici; dall’altra Grillo o chi per lui (se mai troverà un essere senziente disposto a fargli da prestanome), sulla base del suo post di ieri. Così finalmente saranno gli iscritti, davanti a un’alternativa chiara e netta senza più quesiti suggestivi, a decidere se i 5Stelle devono vivere con Conte o morire con Grillo. Del quale resta da capire se sia ancora lucido o irrimediabilmente bollito, e soprattutto quale delle due alternative sia la peggiore. Se è lucido, sta lavorando scientemente per il re di Prussia e dunque va messo in condizione di non nuocere. Se invece è bollito, sta lavorando inconsapevolmente per il re di Prussia e dunque va messo in condizione di non nuocere. Come? Lasciandolo solo, cioè nella condizione che ormai predilige, convinto – come Cesare secondo Plutarco – che sia “meglio essere primo in un villaggio che secondo a Roma”. Ma qui il villaggio ha le dimensioni di una delle sue ville. E i padri padroni sono tali finché i figli diventano adulti, escono di casa e iniziano a camminare con le proprie gambe. Nel governo, in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni e fra gli iscritti ci sono decine di migliaia di figli di Grillo ormai maggiorenni che sanno cosa devono fare».

Sempre per il Fatto De Carolis e Zanca raccontano lo choc della classe dirigente del Movimento: stretta fra l’incudine del rinnovamento contiano e il martello delle critiche del fondatore.

«La bomba del Garante li rende muti, li svuota. Soprattutto, cambia il loro modo di guardarsi. In un pomeriggio di brutta afa, stipati in Parlamento, i Cinque Stelle restano increduli. "Mai visto uno sconforto così", riassume un big che tifa "rivolta" contro Beppe Grillo. Nell'attesa, ogni eletto scruta già il vicino con occhi diversi. Perché si chiede da che parte starà o starebbe. Il post con cui Grillo ha scagliato all'inferno Giuseppe Conte e la sua rifondazione è una porta con vista sulla scissione, o almeno su una durissima battaglia interna. Da una parte i contiani, decisi a vendere la pelle dentro o anche fuori il M5S: dall'altra i fedelissimi a prescindere del Garante. Già, perché "c'è anche chi ha tirato un sospiro di sollievo - sussurra una deputata al primo mandato - convinto che Conte sia stato troppo egoista e che con lui il Movimento sarebbe troppo cambiato". E a naso, tra i soddisfatti abbondano gli eletti al primo giro, quelli che come Grillo non vogliono toccare il vincolo dei due mandati. In mezzo, le variabili. E la prima e principale si chiama Alessandro Di Battista, l'ex deputato da alcune settimane in Bolivia. In questi giorni, anime sparse del Movimento lo hanno cercato con messaggi anche lì. E nella serata in cui i 5Stelle esplodono, Di Battista sembra già il giocatore che tutti cercano, quello che se lo prendi potrebbe fare la differenza per le rispettive squadre. Lui rientrerebbe nel Movimento, magari candidandosi nel comitato direttivo evocato da Grillo? Appena rientrato in albergo, Di Battista risponde così al Fatto: "Finché il M5S starà nel governo Draghi io non voglio avere nulla a che fare con il M5S, sono lineare". Ma lei con chi si schiera, in questa disfida? "Io mi siederò al tavolo con chi mi garantirà voti in meno a questo esecutivo". È la sua precondizione, mentre i 5Stelle dall'altra parte del globo friggono sui propri dolori. Roberta Lombardi, membro del comitato di garanzia, ci mette tutte e due le gambe: "Non condivido una riga del post di Grillo, così ci rimette nella gabbia di Rousseau". Ed è uno dei tanti lati del problema, perché riabbracciando in un amen Davide Casaleggio, il Garante ha fatto infuriare molti 5Stelle, soprattutto della vecchia guardia. Intanto, però, che fare? Il direttivo della Camera, pressato dai deputati disorientati, convoca per le 19 di oggi un'assemblea. E non sarà facile: "Cercasi mediatori di comprovata esperienza, no perditempo", dice l'ex ministro Vincenzo Spadafora. Invece in Senato, il cuore del M5S contiano, gli eletti si radunano già ieri. Cercano di capire cosa fare, come reggere e come coesistere innanzitutto con il Grillo tornato genitore -padrone, come lo definirebbe Conte. D'altronde è a Palazzo Madama che ci sono fedelissimi dell'avvocato come Stefano Patuanelli, Paola Taverna, l'ex capogruppo Gianluca Perilli e Alessandra Maiorino. " Ma i contiani avranno il coraggio di staccarsi?" è la domanda di un deputato di peso. Forse il tema principale nei colloqui tra eletti. L'unica certezza per ora è l'emergenza. E per questo in serata si riuniscono i big del 28 febbraio, cioè i maggiorenti che quella domenica di febbraio assieme a Grillo incontrarono Conte sulla terrazza di un hotel romano sui Fori Romani, chiedendogli di prendersi il Movimento. Ma Luigi Di Maio, l'ex capo politico, "uno dei migliori ministri degli Esteri della storia" secondo il Grillo di giovedì scorso, non può esserci, impegnato al G20. Il Garante gli affiderebbe volentieri il ruolo di primus inter pares nel comitato direttivo, cioè ripartirebbe innanzitutto da lui. Ma Di Maio non ne ha nessuna voglia, almeno non ora, non così. "Luigi ha mediato fino all'ultimo" ripetono dal suo giro. Poi però Grillo ha calato la sua sentenza, e "subito dopo il telefono di Di Maio è esploso", dicono. Quando su Roma cala il tramonto, sono gli altri maggiorenti a ritrovarsi per cercare un filo in mezzo alla follia. "Ma uscire vivi da questo casino sarà un'impresa" sibila un veterano. In tutto questo, lì fuori ci sarebbe sempre un governo, quello di Mario Draghi. Un nodo centrale per Di Battista, ma non certo solo per lui. Così ecco la senatrice Susy Matrisciano: "Caro Beppe, prima di questa votazione direi forse che occorre votare la permanenza al governo oppure no, che ne dici? Visto che hanno bloccato il cashback, credo anche Davide sia d'accordo...". Verranno giorni ancora più difficili, per il Movimento».

Francesco Bei per Repubblica osserva che per i fondatori, capi carismatici, è sempre complicato lasciare il potere ai delfini, che all’inizio erano stati lanciati perché ritenuti degni di fiducia. Non riuscì nemmeno a Berlusconi e a Pannella.

«La bomba sganciata ieri da Beppe Grillo contro Conte era prevedibile, imprevisti sono solo gli esiti, sia sulla stabilità dell'esecutivo Draghi, sia sul futuro politico dell'ex Avvocato del Popolo. I precedenti, a pensarci bene, non depongono molto a favore dei delfini che provano a subentrare. Senza che sembri blasfemo per gli uni e per gli altri, è inevitabile l'accostamento di Grillo a due grandi leader carismatici come Berlusconi e Pannella. Specialisti entrambi nell'allevare promesse, salvo poi affossarle in culla. Il Marco nazionale fece crescere i vari Rutelli, Negri, Della Vedova, Capezzone, ma mai fino al punto da lasciar loro libero campo. Quanto al Cavaliere, fece credere al povero Angelino Alfano di aver davvero deciso di compiere il famoso passo indietro, di restare alle sue spalle come "padre nobile" (adesso si dice "garante"). Quando però venne il momento, improvvisamente Berlusconi scoprì che ad Angelino mancava un certo "quid" per essere davvero leader del Pdl. Allo stesso modo soltanto oggi Beppe Grillo si accorge che Conte è privo di "visione politica" e "capacità manageriali". Quelle che evidentemente sembrava possedere quando solo quattro mesi fa lo supplicò di prendere le redini del Movimento. Per non parlare del fatto che è stata affidata a Conte la gestione dell'Italia nella crisi più grave dalla seconda guerra mondiale. Ma il gioco delle similitudini, purtroppo per Grillo e per quanti credono alla prospettiva del M5S, finisce qui. Perché sia Berlusconi che Pannella possedevano qualità per andare avanti tranquillamente dopo aver sfilettato i delfini pro tempore. Il Cavaliere aveva (ha) un impero mediatico e disponibilità illimitate di denaro. Pannella aveva sia il carisma, sia la capacità politica di rinascere ogni volta dalle proprie ceneri. Ma Grillo senza Conte dove andrà? Non bisogna mai dimenticare infatti che lo stesso Grillo è stato in qualche modo "inventato" a sua volta da quello che è sempre stato il vero leader occulto del M5S: Gianroberto Casaleggio. Il quale fin dai tempi di WebEgg, l'azienda del gruppo Telecom Italia di cui era amministratore delegato, studiava i meccanismi di canalizzazione e orientamento del consenso sul digitale. Grillo come fenomeno politico nasce con il blog, ma l'idea stessa del blog e della Rete, l'idea del partito digitale e della democrazia diretta, sono tutte di Casaleggio. Di cui Grillo appare in quegli anni come la maschera per il grande pubblico. È Casaleggio che "crea" i meet-up, che fa diventare quello di Grillo il settimo blog al mondo, che scrive materialmente i post e seleziona i commenti. Grillo riempie i teatri, il partito glielo gestisce chiavi in mano Casaleggio con il suo staff. Che in quel periodo, scherzando ma nemmeno troppo, ama descriversi a metà tra un Licio Gelli e un Enrico Cuccia. Un manovratore nell'ombra, insomma. La "visione politica" che Grillo oggi rivendica a dispetto di Conte, lo stesso comico non l'ha mai avuta. La prendeva in prestito dal vero "visionario", Casaleggio. Il quale, peraltro, avrebbe aborrito il comitato direttivo che Beppe vuole far eleggere su Rousseau per "concordare una visione a lungo termine, al 2050" (niente di meno!). In "Supernova", il libro imprescindibile sulla vera storia del M5S, Nicola Biondo e Marco Canestrari riportano una delle massime del fondatore Casaleggio: "Ogni eletto risponderà al programma M5S e alla propria coscienza, non a organi direttivi". Quindi, se era seicentesco, come dice Grillo, lo statuto elaborato dall'avvocato Conte, altrettanto lontano dalla mitica visione delle origini sarebbe questo comitato direttivo di signor nessuno a cui dovrebbero obbedire gli eletti in Parlamento. Sempre che domani Grillo non si svegli come il capitano Bligh e scopra che l'equipaggio del Bounty ha deciso nella notte di abbandonarlo alla deriva su una piccola lancia».

Per Maurizio Belpietro de La Verità, “il caso è chiuso”: colui che doveva prendere le redini del Movimento ha concluso la sua corsa.

«Grillo attacca il suo pupillo, colui che lui stesso ha contribuito a mettere sul piedistallo di Palazzo Chigi dandogli dell'incapace. Tuttavia, questo è il meno perché, dopo aver ribadito che l'ex premier non ha visione politica e neppure capacità di bravo amministratore, un Beppe imbufalito quasi quanto il giorno in cui ha attaccato i pm di Tempio Pausania che intendevano processare il figlio per stupro, ha raddoppiato le accuse, dicendo che Conte è un allucinogeno, una specie di ecstasy capace di creare illusioni. (…) Un de profundis per la leadership dell'ex avvocato del popolo che non lascia spazio a ripensamenti. Se quello dell'ex premier era un ultimatum, quello di Grillo è la soluzione finale. Il caso è chiuso: l'uomo che voleva farsi leader, prendendo la guida di un Movimento a cui neppure è iscritto, cambiandone le regole per potersi auto proclamare guida suprema, si è fatto male. Da presidente del Consiglio per caso, si trova per caso fuori da tutti i giochi: fuori dal Movimento, fuori dal Parlamento e pure fuori da quelle che un tempo avremmo definito le stanze che contano. Sì, mai ascesa e discesa politica furono tanto rapide. Grillo ha archiviato in un solo colpo la sua candidatura, il suo statuto (che ha definito seicentesco) e la sua voglia di rivincita. Non ci sarà alcun voto sulle clausole che Conte avrebbe voluto per incoronarsi leader. Ce ne sarà uno sulla piattaforma Rousseau (che è nelle mani di Davide Casaleggio, un nemico dell'ex premier), ma per eleggere il nuovo direttivo. Conte certamente non avrà preso bene le parole del fondatore e forse proverà, nonostante abbia giurato di non averne alcuna intenzione, a fondare un proprio partito, ma le scissioni, da quella capitanata da Gianfranco Fini a quella voluta da Massimo D'Alema, sono sempre finite in un vicolo cieco ed è questa la prospettiva più concreta dell'avvocato che, soddisfatto di sé, appena un anno e mezzo fa diceva: nella mia carriera ho vinto il 99 per cento delle cause. Ecco, poi c'è un uno per cento che fa la differenza, perché è l'unica causa che conta».

VACCINI, TIMORI PER LE SCORTE DI LUGLIO

La campagna vaccinale di luglio, nonostante le buone notizie degli accordi fra Regioni per le dosi in vacanza, crea preoccupazioni nei responsabili delle Regioni. Domani ci dovrebbe essere un incontro con Figliuolo. La cronaca di Michele Bocci su Repubblica.  

«I timori legati al calo di consegne di Pfizer a luglio che le Regioni hanno manifestato alcuni giorni fa iniziano a diventare realtà. I presidenti hanno chiesto un incontro al commissario straordinario per l'emergenza, generale Francesco Figliuolo, per avere il quadro preciso delle consegne. Si dovrebbe svolgere domani. Le Regioni basano le politiche vaccinali delle prossime settimane su quanto comunicato dai tecnici della struttura commissariale. «Da quei dati vediamo un calo del 35-40% delle dosi rispetto a giugno», ha detto l'assessore alla Salute del Lazio, Alessio D'Amato. Figliuolo però ha inviato una settimana fa un comunicato per dire che a luglio arriveranno 14,5 milioni di dosi contro le 15,3 di giugno, cioè 800 mila in meno, solo il 5%. In quel caso il quadro sarebbe molto diverso, praticamente nessuno andrebbe in difficoltà. In attesa del confronto, si iniziano a prendere provvedimenti. «Avevamo già tutte le agende piene per luglio, così non riusciremo a prendere nuove prenotazioni - spiega l'assessore alla Salute della Puglia, Pier Luigi Lopalco - Dobbiamo anche rimodulare tante prenotazioni, tra le 3 e le 400mila». Si riusciranno a garantire le seconde dosi di Pfizer. «Cercheremo di spostare gli appuntamenti di chi ha meno di 50 anni». La Toscana ha da giorni il portale prenotazione chiuso per tutti gli under 60. Si fanno solo AstraZeneca, Johnson& Johnson e in qualche caso Moderna. «Secondo i nostri calcoli comunque riusciremo a non spostare gli appuntamenti già presi - dice il presidente Eugenio Giani - C'è ancora qualche dubbio solo sull'ultima settimana di luglio». Anche l'Emilia- Romagna non sta prendendo nuove prenotazioni. «Siamo preoccupati, come le altre Regioni, per il calo dei quantitativi di luglio - dice l'assessore alla Salute Raffaele Donini - Speriamo che possano giungere elementi di certezza dal confronto nazionale, assicurando la somministrazione delle seconde dosi ed evitando il rischio di rinviare parte delle prenotazioni per la prima dose». Il Lazio ha già fatto sapere che sposterà in avanti le vaccinazioni della fascia 12-16 anni, e intanto non prende più prenotazioni per luglio e che sposterà probabilmente 100mila appuntamenti già presi nel prossimo mese».

Al G20 di Matera lo scontro internazionale sui vaccini ha dimostrato quanto la lotta mondiale alla pandemia sia una questione strategica. La cronaca di Paolo M. Alfieri per Avvenire.

«Il multilateralismo come mezzo per contrastare anche l'impatto sanitario della pandemia di Covid-19. A Matera il ministro Luigi Di Maio ha accolto ieri i 32 partecipanti al G20 dei ministri degli Esteri e dello Sviluppo (in video collegamento solo i rappresentanti di Cina, Brasile e Australia) chiarendo l'obiettivo della presidenza italiana. Ma sul tema si è acceso lo scontro a distanza tra Washington, Berlino e Pechino. «La pandemia ha messo in luce la necessità di una risposta internazionale a emergenze che trascendono i confini nazionali. Il multilateralismo e la cooperazione sono fondamentali per rispondere alle sfide globale - ha detto Di Maio -. L'Italia sostiene un multilateralismo efficace con una leadership dell'Onu». In agenda, oltre al rilancio del multilateralismo per affrontare le sfide globali, ampio spazio per l'Africa, con un approfondimento sulle politiche di inclusione di giovani e donne, commercio, transizione energetica, sicurezza alimentare. Antony Blinken, segretario di Stato Usa, ha sottolineato che «il multilateralismo è il nostro strumento migliore per affrontare le sfide globali che abbiamo davanti, che sia la pandemia di Covid, la crisi climatica o la costruzione di una ripresa economica sostenibile». Per Blinken l'incontro di ieri «rafforza questo ruolo vitale ed il nostro impegno profondo per questo». «Dobbiamo portare più vaccini in più Paesi», ha aggiunto il segretario di Stato Usa, ricordando che gli Stati Uniti hanno stanziato 2 miliardi dollari a Gavi per il programma Covax, che ha l'obiettivo di distribuire i vaccini anti-Covid in modo equo nel mondo ma che finora ha proceduto con molti ritardi. «Il nostro principale obiettivo è una strategia per uscire dalla crisi del Covid-19, soprattutto in Africa», aiutando il continente a «ricevere più vaccini», ma anche ad aumentarne la produzione, gli ha fatto eco la commissaria Ue per i Partenariati internazionali, Jutta Urpilainen. «Se vogliamo rafforzare la resilienza» dei sistemi sanitari in Africa, «anche in vista di altre crisi in futuro, abbiamo bisogno di aumentare la produzione dei vaccini», ha evidenziato la commissaria. Servono «azioni urgenti per invertire la tendenza attuale» in Africa, cominciando a sviluppare «la capacità di produzione locale dei vaccini», è stato l'appello lanciato dal ministro degli Esteri della Repubblica democratica del Congo, nelle sue vesti di presidente dell'Unione Africana, ai capi delle diplomazie del G20. Christophe Lutundula ha inoltre esortato ad aumentare «la capacità di fare i test nei Paesi che non dispongono dei prodotti o dei laboratori necessari». Da parte sua la Cina ha rivendicato di aver fornito finora oltre 450 milioni di vaccini contro il Covid a circa un centinaio di Paesi. Il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, dopo aver espresso l'auspicio di un «vero multilateralismo», ha esortato gli altri Paesi che possono farlo a evitare le restrizioni sulle esportazioni, dando il loro contributo a colmare «il gap nelle immunizzazioni». Il multilateralismo «non è uno slogan altisonante e tanto meno può essere uno strumento per l'attuazione di azioni unilaterali», ha osservato Wang Yi sollecitando i suoi omologhi a opporsi al «gioco a somma zero». Il ministro tedesco Heiko Mass ha sottolineato però che la «diplomazia vaccinale» messa in atto da Cina e Russia punta ad «ottenere vantaggi geostrategici di breve termine», invece di salvaguardare la salute globale. Il G20, ha aggiunto Mass, è un'opportunità per cooperare in tempi di crisi globali ed è importante avere al tavolo Pechino e Mosca, con cui però restano le divergenze. Tra i temi discussi dal G20 la sicurezza alimentare, tema affrontato anche nella dichiarazione congiunta che sottolinea come a causa della pandemia 100 milioni di persone in più soffriranno la fame. «Chiediamo a tutti gli attori pertinenti nei nostri Paesi e oltre di attuare le seguenti azioni urgenti necessarie alla ripresa dalla crisi, anche intensificando la cooperazione nordsud, sud-sud e triangolare, con l'obiettivo di raggiungere un mondo libero da fame e malnutrizione, realizzare il diritto a un'alimentazione adeguata, alleviare la povertà e promuovere società giuste, pacifiche e inclusive», si legge nella dichiarazione finale. «Sono particolarmente orgoglioso del fatto che tutti abbiamo ribadito l'impegno contro l'insicurezza alimentare adottando la dichiarazione di Matera. E sono molto orgoglioso che l'adozione sia avvenuta qui, confermando il ruolo di leadership dell'Italia», la chiosa di Di Maio.».

TIFOSI INGLESI A ROMA? “NON ENTRANO”

L’Inghilterra ha battuto la Germania agli Europei e ora la prossima partita si giocherà a Roma. Ma senza tifosi, che a causa della variante Delta non possono venire in Italia. Luigi Ippolito per il Corriere della Sera.

«Dopo la «battaglia di Wembley» sulla sede della finale europea si apre un nuovo, possibile fronte di attrito con i britannici: con la vittoria di ieri dell'Inghilterra sulla Germania, la nazionale inglese dovrà giocare l'incontro dei quarti di finale sabato a Roma, ma la quarantena di cinque giorni imposta il 18 giugno dal governo italiano per chi arriva dalla Gran Bretagna rende impossibile per i tifosi inglesi - conti alla mano - venire a tifare per la propria squadra avendo «scontato» il tempo previsto dalle disposizioni dell'esecutivo di Mario Draghi. Londra chiederà un'eccezione? Al momento sembra difficile: anzi, le autorità italiane intensificheranno i controlli, sia in aeroporto che allo stadio, per identificare eventuali «infiltrati» inglesi. A chi arriva chiederanno il motivo dell'ingresso in Italia e le modalità della quarantena obbligatoria: i trasgressori rischiano pesanti multe ma anche un procedimento penale. All'Olimpico sabato saranno ammessi 16 mila spettatori. Il 68% dei biglietti è stato già venduto, mentre il restante 32% viene messo a disposizione dei Paesi le cui Nazionali disputano l'incontro: questo vuol dire che circa 2.500 biglietti saranno venduti dalla federazione inglese. Ma quanti li acquisteranno, sapendo che è di fatto impossibile venire in Italia per tempo? È una sfida tutta da giocare, forse anche sul terreno della politica. Sulla questione della finale è invece scesa in campo l'Unione Europea: «L'Uefa deve analizzare molto attentamente la situazione delle semifinali e della finale degli Europei a Wembley», ha detto ieri il vicepresidente della Commissione, Margaritis Schinas: «L'idea di uno stadio pieno in un momento in cui siamo così preoccupati per la presenza della variante Delta dà il messaggio che serve una valutazione attenta». «Mi sento in ottima compagnia - ha concluso Schinas - perché ho visto che Angela Merkel e Mario Draghi condividono le medesime preoccupazioni». E infatti il presidente del Consiglio italiano era stato il primo a sollevare la questione dell'opportunità di disputare la fase finale degli Europei a Wembley: ed era stato prontamente spalleggiato dalla cancelliera tedesca. A Londra però la faccenda non sembra essere all'ordine del giorno. Anche perché all'indomani delle dichiarazioni di Draghi il portavoce di Boris Johnson aveva ribadito che la Gran Bretagna «è ansiosa di organizzare delle fantastiche semifinali e finale a Wembley e lo farà in modo sicuro». E anche la Uefa era sembrata escludere la possibilità di uno spostamento delle partite. In questo momento il governo britannico è interamente concentrato in casa sulla fine di tutte le restrizioni, prevista per il 19 luglio: per quella data Boris Johnson intende ricondurre il suo Paese alla piena normalità e apparirebbe strano farsi sfilare la fase finale degli Europei. La fiducia di Johnson nella possibilità di lasciarsi alle spalle la pandemia è dovuta all'efficacia della campagna di vaccinazione britannica: l'impennata dei contagi non si è tradotta in un aumento dei ricoveri e dei decessi. In altre parole, il Covid è stato degradato a una specie di influenza con la quale si può convivere. Diverso è il discorso in Europa, dove il basso livello di immunizzazione della popolazione rende pericoloso il diffondersi della variante Delta: è per questo che a Londra molti pensano che l'Europa invochi restrizioni contro la Gran Bretagna per scaricare altrove la propria responsabilità nei ritardi sui vaccini».

OGGI IL CDM, ACCORDO SUI LICENZIAMENTI

Alla fine, dopo una lunghissima giornata di trattative, Governo e Sindacati hanno trovato un accordo sulla proroga del blocco dei licenziamenti. Oggi il Consiglio dei Ministri dovrebbe approvare il Decreto. Enrico Marro per il Corriere.

 «Dopo una riunione fiume con i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Mario Draghi ha accettato di rafforzare i limiti allo sblocco dei licenziamenti già decisi lunedì nella riunione della «cabina di regia» a Palazzo Chigi. Sindacati soddisfatti. In particolare, oltre alla proroga del divieto di licenziare fino al 31 ottobre per il tessile e i settori collegati (abbigliamento, calzature), per tutte le aziende che hanno tavoli di crisi aziendali aperti al ministero dello Sviluppo, nelle Regioni e nelle Prefetture, ha riferito il segretario della Cisl Luigi Sbarra, sono previste 13 settimane in più di cassa integrazione straordinaria gratuita. Infine, è stato raggiunto un «avviso comune», cioè un'intesa tra governo, sindacati e associazioni imprenditoriali, che impegna le aziende a utilizzare tutti gli ammortizzatori sociali a disposizione prima di arrivare ai licenziamenti. Le misure verranno approvate oggi dal Consiglio dei ministri con un decreto legge che conterrà anche il rinvio di una serie di scadenze fiscali. Slitterà al 31 agosto la ripresa delle attività di riscossione e di invio delle cartelle esattoriali da parte dell'Agenzia delle entrate e al 30 settembre il termine per il pagamento delle rate della Rottamazione ter e del «saldo e stralcio». Per i Comuni ci sarà un mese in più, fino al 31 luglio, per determinare le tariffe della Tari. Il decreto, compreso il finanziamento delle settimane aggiuntive di cassa integrazione, il potenziamento della legge Sabatini (incentivi per le pmi) e un nuovo prestito ponte per Alitalia, dovrebbe utilizzare circa 2 miliardi avanzati dai fondi per i contributi a fondo perduto per le partite Iva. Con lo stesso provvedimento verrà anche sospeso, da domani primo luglio, il cashback. Tornando ai licenziamenti, quello che doveva essere un semplice incontro per informare i sindacati di come il governo avrebbe da un lato confermato lo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio e dall'altro introdotto una serie di salvaguardie per i lavoratori dei settori e delle aziende più in crisi, si è trasformato in una maratona, cominciata alle 15 e terminata in tarda sera, dopo diverse interruzioni per approfondimenti tecnici e per acquisire il consenso delle varie associazioni datoriali, in particolare della Confindustria, all'avviso comune che inquadra i licenziamenti come extrema ratio. Draghi e i ministri Daniele Franco (Economia) e Andrea Orlando (Lavoro) si sono trovati davanti a un fronte sindacale agguerrito. Maurizio Landini (Cgil), Luigi Sbarra (Cisl) e Pierpaolo Bombardieri (Uil) hanno contestato l'utilizzo dei codici Ateco per individuare le aziende del tessile e affini. I codici, ha osservato in particolare Bombardieri, rischierebbero di lasciare fuori molte aziende delle filiere. Landini ha insistito affinché le 13 settimane di Cig aggiuntiva per le aziende in crisi degli altri settori fossero obbligatorie e non facoltative, ma la Confindustria non ha ceduto e l'avviso comune sottoscritto impegna infatti le parti a «raccomandare» l'utilizzo di tutti gli ammortizzatori «in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro» (ma non c'è l'obbligo). Infine, le parti apriranno un tavolo di monitoraggio della situazione».

DISACCORDO SULLA FINE DEL CASHBACK

Una misura considerata importante dal Governo precedente e che invece Draghi vuole archiviare, il cashback, crea malumore fra i 5 Stelle. Claudia Voltattorni sul Corriere della Sera:

«Il cashback si conclude il 30 giugno». Poi si vedrà. Poche parole ma definitive del ministro dell'Economia Daniele Franco mettono la parola fine alla misura voluta dall'ex premier Giuseppe Conte nel suo secondo governo e avviata lo scorso dicembre per incentivare i pagamenti elettronici (escludendo però gli acquisti online) e combattere l'evasione. E a poco servono le proteste (solitarie) del ministro dell'Agricoltura Stefano Patuanelli durante la cabina di regia a Palazzo Chigi: la storia del cashback potrebbe fermarsi qui. Doveva durare fino al giugno 2022, di sei mesi in sei mesi, con un costo di circa 4,7 miliardi. «Sospesa per migliorare» viene spiegato da chi ha appoggiato la decisione presa due giorni fa a Palazzo Chigi. Ma è quasi certo che invece il percorso del cashback si fermi definitivamente. Perché, come ha spiegato anche il premier Mario Draghi motivando lo stop, non è uno strumento sufficiente per combattere l'evasione. Si ipotizza quindi una misura alternativa che possa incentivare gli esercenti a preferire i pagamenti elettronici ai contanti, una sorta di meccanismo di credito d'imposta per i pos». 

Mario Pierro sul Manifesto fa notare che Misiani, responsabile economico del Pd, non è così contrario allo stop della misura, che il Governo ora decide.

«Il cashback di Stato e la lotteria degli scontrini, pilastri della politica economica del «Conte 2» e dell'attuale candidato a sindaco di Roma e già ministro dell'economia Roberto Gualtieri, si ferma oggi. Ad agosto saranno pagate le somme accumulate con le transazioni fatte con carte di debito e credito, il «superpremio» da 1.500 euro sarà riconosciuto ai maggiori utilizzatori con più di 689 transazioni e poi, dopo una pausa di sei mesi, la misura potrebbe decadere. A meno che la verifica politica in corso non la prolunghi permettendo di salvare le apparenze. I Cinque Stelle, sostenitori dei pagamenti online presentati come politica anti -evasione, si sono opposti alla decisione presa da una cabina di regia a Palazzo Chigi. «Sospenderla è un errore. Mi auguro si possa tornare indietro su questa decisione», ha detto il ministro e capodelegazione dei Cinque Stelle Stefano Patuanelli. Di avviso diverso è Antonio Misiani, già vice ministro dell'economia e oggi responsabile economico del Pd, secondo il quale «la sospensione del cashback è l'occasione per un monitoraggio accurato dei risultati della sperimentazione» e per introdurre i «correttivi necessari a migliorare la strategia di incentivazione dei pagamenti digitali. L'altra gamba della maggioranza, a cominciare dalla Lega, ha festeggiato lo stop di una misura finanziata con più di 4 miliardi di euro con l'obiettivo di generare transazioni elettroniche tali da ripagare la cifra e permettere allo Stato di guadagnare. Matteo Salvini si è intestato la decisione. «L'abbiamo chiesta perché ogni miliardo di euro va reinvestito in lavoro e in sostegno alle imprese. L'idea della lotteria di Capodanno a chi fa la spesa con il bancomat o con la carta di credito non è l'idea di Paese che ho in testa. Ognuno deve essere libero di fare la spesa pagando come e dove vuole». Brinda anche Forza Italia: «Che sia uno stop definitivo, perché si tratta di una misura demagogica i cui costi hanno ampiamente superato i benefici» ha detto la capogruppo in Senato Anna Maria Bernini. Anche l'altra destra di Fratelli d'Italia, alleata di Forza Italia e della Lega, ma strategicamente posizionata all'opposizione, è passata all'incasso politico. «Insieme alla lotteria degli scontrini è un'idiozia che ci costa 4 miliardi. Ora ci è arrivato anche il governo Draghi. I quasi 2 miliardi risparmiati siano destinati ad attività e lavoratori colpiti dalla crisi e dalle chiusure» ha commentato Giorgia Meloni. La guerra interna alla maggioranza si spiega con il fatto che la decisione del governo Draghi è una smentita di quello precedente. Eppure i risultati dei primi sei mesi del rimborso di Stato del 10% delle spese fatte con carte, bancomat sono stati buoni: 7,86 milioni di cittadini hanno fatto transazioni valide e di questi 5,9 milioni hanno già maturato il diritto a ricevere un rimborso fino a 150 euro. Complessivamente, dall'inizio del programma sono stati circa 8,9 milioni i cittadini che hanno aderito, con un totale di 790 milioni di transazioni elaborate e 16,4 milioni di strumenti di pagamento attivati».

CANDIDATI SINDACI, TORMENTONE NEL CENTRO DESTRA

Ultimo giorno di giugno e non è ancora chiaro chi il centro destra candiderà a Milano e Bologna per la carica di Sindaco alle prossime elezioni amministrative di autunno. Nessuno poteva immaginare uno stallo così prolungato fra le varie forze politiche. Emanuele Lauria per Repubblica.

«Una possibile schiarita su Napoli, ancora foschia su Milano e Bologna. Il centrodestra cerca di colmare i ritardi sulle candidature in tre grandi città, in un clima sempre più difficile per via della competizione interna serrata fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ormai i sondaggi - perché solo di questi si può parlare quando il voto è lontano - danno Lega e Fdi sostanzialmente appaiati: per Swg è davanti Fratelli d'Italia, per Enzo Risso la leadership è saldamente del Carroccio (che però ha commissionato quest' indagine), per Demopolis i due partiti hanno la medesima percentuale del 21 per cento. In questa situazione difficile trattare con l'alleato-rivale, ancor di più se l'obiettivo è intestarsi un candidato che partirà sfavorito in tutti e tre i capoluoghi. «Ora dobbiamo decidere», sbuffa in serata Ignazio La Russa, vicepresidente del Senato che per Fdi segue la partita delle candidature. Da settimane, ormai, per quanto riguarda Milano il mantra di La Russa è: «Aspettiamo Matteo». E Matteo Salvini, ieri a Bologna, ha promesso che, dopo la lunga teoria di rinunce, entro il fine settimana saranno presentati non solo gli aspiranti sindaci ma «squadre di amministratori» sia a Milano sia sulla via Emilia. Gli ultimi nomi, per il capoluogo lombardo, sono quelli di Andrea Farinet (docente universitario e presidente della fondazione Pubblicità progresso) e, in alternativa, del primario del Sacco Luca Bernardo. Nella strana corsa meneghina l'unico punto fermo sembra il candidato vicesindaco, Gabriele Albertini, ma del "tridente" per Palazzo Marino dovrebbe far parte anche una donna in quota Fratelli d'Italia. Salvini continua a dare la carte, prosegue nel suo «no» ai candidati politici che a Milano sbarra la strada a Maurizio Lupi e a Bologna ad Andrea Cangini. Il centrodestra, sempre a Bologna, dovrebbe dare l'incarico di sfidare Merola all'imprenditore cattolico Fabio Battistini o all'editore Roberto Mugavero. «Vogliamo ripetere il miracolo Guazzaloca», ha scandito ieri il leader della Lega a Corte Isolani, sotto il sorriso beffardo di Romano Prodi, che lì abita e si è affacciato alla finestra per assistere - così ha definito la conferenza stampa di Salvini - «a una cosa post-moderna». E poi c'è Napoli, dove la coalizione tenta di evitare un crash che avrebbe ripercussioni sulle altre città: a un passo dalla rottura definitiva, il magistrato Catello Maresca ha accettato di presentarsi con le effigie dei partiti del centrodestra, a patto che sui simboli ci sia un riferimento al suo progetto per la città. Poco prima, La Russa aveva definito Maresca «un uomo intelligente, che sa che un'iniziativa civica deve essere inclusiva».

TIGRAY IN FESTA, RICONQUISTATA MACALLÈ

Notizie frammentarie ma certe indicano che il governo etiope si è ritirato dal Tigray, dopo otto mesi di guerra civile. La cronaca di Repubblica.

«In una svolta importante nella guerra civile che infuria da otto mesi nel Tigray, regione settentrionale dell'Etiopia, i guerriglieri tigrini lunedì sera hanno iniziato a entrare nel capoluogo: le truppe del Governo centrale si sono ritirate dalla città. L'esercito etiope occupa la regione da novembre, dopo averla invasa di concerto con forze eritree e milizie per strapparne il controllo al governo regionale. I combattenti tigrini, conosciuti come Forze di difesa del Tigray, hanno trascorso mesi a ricompattarsi e reclutare truppe, e poi, la scorsa settimana, hanno lanciato un contrattacco in direzione del capoluogo, Macallè. I giornalisti del New York Times a Macallè hanno visto migliaia di residenti scendere in strada lunedì sera, sventolando bandiere e sparando fuochi d'artificio dopo aver sentito che stavano avanzando. La rapida offensiva ha rappresentato un serio smacco per il governo del primo ministro etiope Abiy Ahmed, che aveva inviato truppe nella regione l'anno scorso dichiarando che l'operazione si sarebbe conclusa nel giro di poche settimane. Sisay Hagos, 36 anni, lunedì stava festeggiando a Macallè: «Ci hanno invaso. Abiy è un bugiardo e un dittatore, ma è già sconfitto. Il Tigray sarà indipendente». Un alto funzionario insediato dal governo federale ha confermato che le forze tigrine sono in città e hanno preso il controllo dell'aeroporto e della rete di telecomunicazioni. Il governo etiope ha proclamato lunedì un cessate il fuoco unilaterale nel Tigray, ma non è chiaro se le forze ribelli abbiano accettato la tregua. Rifugiati e osservatori internazionali hanno accusato le forze di invasione di atrocità su larga scala con episodi di pulizia etnica, e di aver spinto la regione sull'orlo della carestia. Fin dall'inizio, però, il partito che controlla il governo regionale - il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Fplt), per molti anni al potere in Etiopia - aveva promesso di resistere. Per tutta la giornata i soldati etiopi sono stati visti abbandonare Macallè a bordo di veicoli, portandosi dietro materiali saccheggiati secondo la testimonianza di organizzazioni internazionali e operatori umanitari. I soldati sono entrati perfino nel compound dell'Unicef e del Pam e hanno disconnesso Internet, secondo le stesse fonti. I negozi hanno abbassato le saracinesche. Lunedì pomeriggio la sede del governo ad interim del Tigray era spettralmente deserta. Fuori, gli agenti della polizia federale sono stati visti caricare in fretta e furia le loro cose su pullman in attesa, preparandosi a partire. All'Axum Hotel, dove alloggiavano alcuni dei dirigenti ad interim, un addetto alla reception ha detto che i funzionari avevano pagato il conto domenica e se ne erano andati. Alcuni lunedì erano già rientrati ad Addis Abeba».

CHIESA CREDIBILE, SOLO SE LIBERA

Ieri messaggio del Papa per la festa dei santi Pietro e Paolo, patroni di Roma. Una solennità che ha dato lo spunto a Francesco per parlare della Chiesa, “libera” perché “liberata”. Gli Apostoli “non si lamentano degli altri, del mondo” ma testimoniano con l’esempio.

«Nell'omelia della Messa per la solennità dei santi Pietro e Paolo, il Papa propone un'immagine plastica, indica un itinerario che ha come modelli proprio i due grandi apostoli. "Liberi" perché "liberati" dall'incontro con Cristo, perché avvolti dal suo amore che guarisce. Il segreto, meglio la chiave per una vita felice, di risposta positiva a Dio e di abbraccio ai fratelli, si trova infatti nel lasciarsi toccare dal Signore, nell'essere disponibili a venire trasformati dal suo sguardo. «Come Pietro - sottolinea Francesco -, siamo chiamati a essere liberi dal senso della sconfitta dinanzi alla nostra pesca talvolta fallimentare; a essere liberi dalla paura che ci immobilizza e ci rende timorosi, chiudendoci nelle nostre sicurezze e togliendoci il coraggio della profezia». Come Paolo - aggiunge il Pontefice -, «siamo chiamati a essere liberi dalle ipocrisie dell'esteriorità; a essere liberi dalla tentazione di imporci con la forza del mondo anziché con la debolezza che fa spazio a Dio; liberi da un'osservanza religiosa che ci rende rigidi e inflessibili; liberi dai legami ambigui col potere e dalla paura di essere incompresi e attaccati». Il risultato di questo cammino di liberazione è una Chiesa affidata alle mani dell'uomo ma «condotta dal Signore con fedeltà e tenerezza», una comunità debole e proprio per questo, come direbbe l'apostolo, «forte» della presenza di Dio. E che, in quanto "liberata", può diventare strumento di liberazione: «dal peccato, dalla morte, dalla rassegnazione, dal senso dell'ingiustizia, dalla perdita della speranza che abbruttisce la vita delle donne e degli uomini del nostro tempo». Si tratta allora di capire quali sono le catene da spezzare, quante le porte sbarrate da aprire nelle nostre società e realtà cittadine. Ma anche di quale libertà vogliamo fidarci, se di quella donataci dalla «novità di Gesù» che ci fa camminare sotto la guida dello Spirito Santo, o se invece preferiamo lasciarci prendere dall'illusione della gloria, del successo mondano. Un bivio, una domanda che il Papa ripropone rivolgendosi agli arcivescovi metropoliti nominati nell'ultimo anno e che proprio per questo, secondo tradizione, riceveranno il "pallio" benedetto da Bergoglio durante la celebrazione nella Basilica Vaticana e loro consegnato in diocesi dai nunzi apostolici. Un «segno di unità con Pietro» lo definisce il Papa, che «ricorda la missione del pastore che dà la vita per il gregge ». Infatti «è donando la vita che il pastore, liberato da sé, diventa strumento di liberazione per i fratelli». Si tratta, osserverà il Pontefice all'Angelus, di operare il passaggio fatto dei santi Pietro e Paolo, per diventare testimoni. Non «ammiratori, ma imitatori di Gesù». Non «spettatori, ma protagonisti del Vangelo» che credono coi fatti. «Pietro non ha parlato di missione - sottolinea Francesco -, è stato pescatore di uomini; Paolo non ha scritto libri colti, ma lettere vissute, mentre viaggiava e testimoniava». E proprio in quanto testimoni, gli apostoli e chi li imita «non si lamentano degli altri e del mondo, ma cominciano da sé stessi. Ci ricordano che Dio non va dimostrato, ma mostrato; non annunciato con proclami, ma testimoniato con l'esempio».

Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana  https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

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Grillo demolisce Conte

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