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Guerra d'odio e di vendetta
Le vittime civili di Bucha fanno cadere la maschera di Putin: il fine è l'annientamento degli ucraini. Zelensky scuote l'Onu: "Intervenite". La Ue decide a metà: sì al gas, no al carbone. Pace lontana
A che cosa porta l’orrore? Noi continuiamo a sperare nella pace. A pregare per essa. La preghiera è un “problema politico”, come dice il titolo di un famoso saggio di Jean Danielou. Ma le immagini e i video delle vittime civili ucraine a Bucha sgomentano il mondo. Ritirate le truppe russe, si scoprono la frustrazione e l’odio di un esercito animato dallo spirito di annientamento. Immagini da guerra civile, da regolamento di conti, da esecuzioni sommarie fra popoli che hanno coltivato rancore per anni. Lo storico Giovanni De Luna sulla Stampa ammette che qualcuno possa pensare che non ci sono abbastanza prove sulle responsabilità dell’eccidio: “Sappiamo - e questa è una certezza - che quei morti sono dei civili e questo - chiunque abbia compiuto il massacro - ci racconta la terribile realtà di una guerra che, fin dal suo inizio, ha scelto i civili come bersagli privilegiati”.
Il Presidente ucraino Zelensky parla all’Onu e in un discorso drammatico chiede giustizia, denuncia un “genocidio” (un errore secondo Paolo Mieli sul Corriere tirare in ballo questa parola), ed evoca poi Guernica con gli spagnoli. Certo, dice qualcosa che molti condividono: se non sapete intervenire in questi casi, voi dell’Onu che cosa ci state a fare? L’angoscia di queste ore è che l’orrore porti a prolungare la guerra, allontani la pace, fermi ogni possibile negoziato. Per Barbara Spinelli sono solo gli Usa ad avvantaggiarsi da una guerra lunga in Ucraina, una guerra che insieme metta in ginocchio l’economia europea e apra nuovi mercati energetici per il suo gas liquido.
In questo senso nasce un’altra domanda: che cosa ci sta a fare l’Unione Europea? Austria e Germania non hanno voluto chiudere l’afflusso di gas dalla Russia. Sarebbe stata forse l’unica sanzione (così sostiene Enrico Letta oggi ancora sul Foglio) che avrebbe davvero messo in ginocchio, e rapidamente, il regime di Putin. Invece no. Così anche per l’insensatezza di Bruxelles la guerra sarà lunga: l’Europa con una mano continuerà a finanziare ogni giorno le bombe di Putin e con l’altra la contraerea degli ucraini. Sfiancandosi in una contraddizione che la indebolisce sul piano economico e su quello politico. In compenso i Paesi europei espellono i diplomatici russi, anche noi e la Spagna, dopo Francia e Germania, in un altro segnale di ostilità, per così dire, a metà.
In un inconsapevole dialogo a distanza Domenico Quirico e Lucio Brunelli, in due articoli tutti da leggere, ragionano sull’orrore della guerra, chiedendosi il ruolo che hanno in essa Dio e il diavolo.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine di oggi è stata scattata dalla giornalista della Stampa Francesca Mannocchi. La sua è una testimonianza diretta di una inviata sul luogo degli orrori. Ecco il tweet che ieri sera alle 18.39 ha mandato in rete come didascalia di questa immagine: “Il corpo di un anziano giace lungo la strada che lambisce le rotaie del treno, a Bucha. I suoi vicini dicono che sia lì da dieci giorni e non hanno provato a portarlo via per paura che i soldati russi abbiano nascosto una mina tra i suoi abiti prima di ritirarsi”.
Foto Francesca Mannocchi per La Stampa.
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Foto e testimonianze dell’orrore, il discorso del presidente ucraino all’Onu, le nuove sanzioni: la guerra in Ucraina domina ancora le prime pagine. Il Corriere della Sera sintetizza così: Stragi, torture: orrore senza fine. La Repubblica cita una frase di Zelensky all’Onu: “Una Norimberga per Putin”. Anche Il Mattino utilizza una frase del presidente ucraino al Palazzo di vetro: «Bimbi torturati, l’Onu reagisca». Così come La Stampa: “Bambini torturati”. Ma l’Avvenire nota: Onu sempre più impotente. Il Giornale accusa vagamente: Hanno ucciso il negoziato. Mentre il Quotidiano Nazionale ricorda, su una foto di cadaveri civili: E c’è chi dice che non è vero. Il Manifesto è ancora su Bucha: La scena del crimine. Il Fatto mette in primo piano l’allontanamento dei diplomatici di Mosca: Russi espulsi e processo a Putin: solita ammuina. Il Domani valorizza le nuove misure decise dalla Ue: Le sanzioni sul carbone aprono la guerra energetica con la Russia. Per Il Foglio sono: Noccioline contro Putin. Invece Libero accusa: Il soldato Letta vuole portare l’Italia nel baratro. Il Messaggero è oggettivo: Carbone russo, stop della Ue. Il Sole 24 Ore avverte: Rincari di energie e materie prime: nel Pnrr già 3 miliardi di costi in più. La Verità ironizza: L’embargo alla vodka non ferma Putin.
LE DONNE DI BUCHA
Il reportage di Francesca Mannocchi della Stampa racconta le donne di Bucha. Ecco le violenze subite durante l'occupazione russa: "Facevano stendere gli uomini e simulavano esecuzioni Chiunque usciva veniva ucciso".
«Il cinque marzo Marina e Ivan provavano a scappare attraversando, forse di corsa, un giardino che si chiama Parco delle madri. È sulla strada che unisce Irpin a Bucha. Le giostre, lo scivolo e le altalene hanno mantenuto intatto il colore giallo e blu della vernice. Tutto intorno le case annerite dal fumo. A ricordare la loro presenza, il loro tentativo di fuga, oggi c'è una croce che riporta le loro date di nascita, 1980 la madre, 2009 il figlio e quella di morte uguale per entrambi: 5-3-2022. Sono rimasti lì per giorni i corpi, privati della sepoltura. Come decine, forse centinaia di altre vittime. Fino a due giorni fa, quando i parenti hanno potuto seppellirli e hanno scelto di farlo lì, nel punto esatto in cui la guerra li ha uccisi.
Sono tornata a Bucha ieri mattina, a cercare le storie dei sopravvissuti, e rispondere attraverso la loro voce a domande che non possono che sembrare inopportune. Tira un vento gelido a Stikolka, il quartiere di casermoni, quando arrivano i mezzi della Croce Rossa Internazionale a portare le prime bombole del gas, l'acqua e piccoli forni con cui cucinare. Dall'altra parte della strada due anziane cucinano davanti a un fuoco. I militari distribuiscono pane e farina. Irina Volkovy è lì con suo figlio Fedor. Mentre lei è in coda il bambino, sei anni, legge un libro, solo, seduto su un muretto. Ogni tanto lei si volta e gli sorride e lui restituisce il sorriso. Ha le guance segnate dal freddo. Le unghie sporche di chi non può lavarsi da settimane. Indossa abiti che non sono i suoi e scarpe di un adulto. Irina non è andata via da Bucha perché i soldati russi impedivano a suo marito e suo padre di andare via. Così ha deciso di restare. E poi, se tutti i giovani fossero andati via, chi sarebbe rimasto a prendersi cura degli anziani? È rimasta lei, a cucinare per tutti, nel rifugio del palazzo. Cercare la legna in mezzo alla neve, cercare le coperte nelle case per non far spostare gli anziani dalle cantine e accendere il fuoco al freddo, all'esterno, per sfamare tutti. Quello che c'è da sapere della guerra a Irina l'avevano raccontato i nonni. Quello che c'è da sapere sulla guerra, Fedor l'ha imparato da solo. Nel palazzo di Irina vivono anche Janna e suo marito Iuri. Il ventisei febbraio erano usciti di casa per andare al supermarket lungo la via che conduce a Irpin, verso Kiev. Quando sono tornati indietro hanno incontrato un check point russo. I soldati li hanno perquisiti, hanno chiesto loro i telefoni. Su quello di Janna c'era una foto di lei e suo marito insieme. Lui indossava la divisa militare dell'Unione Sovietica con una medaglia. Aveva combattuto in Afghanistan. I soldati russi hanno riso. «Vecchio - gli hanno detto - non ti ammazziamo solo per questo». Janna e Iuri si sono nascosti in un rifugio per una settimana. Intorno il rumore dei combattimenti. Dall'alto la minaccia delle bombe. La prima volta che sono riusciti a uscire di casa, lungo la via c'erano cinque cadaveri. Erano i loro vicini. Hanno chiesto ai soldati russi, che avevano occupato l'area, di poterli seppellire. Gli è stato negato. Sulla via parallela Janna ricorda un corpo diviso a metà, la parte superiore bruciata e non lontano le gambe. Nessuno riusciva più a capire chi fosse. Janna racconta la razzia, i negozi svuotati, e i mezzi russi carichi di tutto quello che erano riusciti a sottrarre alla gente: mobili, elettrodomestici, vestiti, scarpe, il cibo dei supermercati e dei negozi che i soldati avevano assaltato. E poi ricorda gli ultimi giorni di marzo, le battaglie più feroci. «Dopo aver lasciato la città - dice - tre carri armati russi sono tornati indietro. Entravano nelle case, nei rifugi, cercavano gli uomini. Hanno ucciso la gente che camminava in strada, pensando che fossero andati via. Sono tornati indietro per quello, sono tornati per punirci e deliberatamente». Solo due giorni dopo, il primo o il secondo giorno di aprile, prova a ricordare suo marito, sono usciti per seppellire i morti. Gli uomini hanno iniziato a scavare, decidendo di seppellire i morti lì dove erano stati uccisi. Le donne hanno cercato dei fiori nei campi, costruito delle croci su cui hanno scritto a mano i nomi delle persone che erano riuscite a identificare e detto una preghiera. Poi è arrivato per tutti, dalle autorità, l'ordine di camminare il meno possibile, di non toccare i corpi che giacevano a terra, di non entrare nelle case che erano state occupate dai russi. Perché ci sono mine ovunque, anche nascoste tra i cadaveri. Ecco perché ieri mattina, mentre provavo a entrare a Bucha, si sentivano colpi provenire da lontano. Erano le unità ucraine che avevano cominciato a sminare l'area. Ed ecco perché, al check point all'entrata della città, era bloccata anche la lunga coda di auto in ingresso. La prima che muoveva in direzione contraria a quella che abbiamo documentato nelle ultime settimane, erano le auto dei civili che volevano tornare a casa. Ma a passare, ieri mattina, erano solo i mezzi militari, quelli umanitari e pochissimi civili che dovevano tornare a riconoscere i morti. Per gli altri è troppo presto per tornare. È finita la battaglia, ma non la guerra, perché la guerra ha tante facce e la più cinica è quella che mostra nei primi giorni in cui le armi tacciono, quando chi è sopravvissuto vuole tornare a cercare la vita che aveva lasciato ma ne trova una sconosciuta, un corpo estraneo ad abitare i luoghi che erano stati cari e che non ci sono più. Chi è rimasto dentro, gli intrappolati, ha avuto il tempo di adattarsi a una vita sfigurata. Chi era riuscito a scappare no. Si riconoscono così gli abitanti di Bucha. I sopravvissuti alla battaglia, sporchi, anneriti, i lineamenti mutati, e gli altri, gli spaesati di ritorno. Così è Igor che è tornato a casa per riconoscere i corpi dei suoi vicini. Il primo giace a pochi metri da casa sua, un anziano vestito in una tuta da ginnastica nera e una giacca a vento. Un colpo alla nuca. Gli altri due distesi a poca distanza lungo la via che lambisce le rotaie del treno. Erano due fratelli. Igor li chiama per nome mentre si avvicina e indica alle unità di polizia chi sia Vladimir, chi Dimitri. Non può avvicinarsi di più per timore delle mine. Sulla strada il segno del passaggio dei carri armati. Uno ha stazionato per giorni all'ingresso dell'isolato. Chiunque provasse a uscire, attraversare le rotaie e scappare nei campi veniva ucciso. Così sono morti i suoi vicini. L'asilo di Bucha è stato inaugurato tre anni fa. Dentro sono ancora attaccati i disegni dei bambini. Quando i russi sono entrati in città settanta persone si sono rifugiate nello scantinato. Ne restano ancora una trentina. Le loro case sono andate distrutte, non hanno un posto in cui tornare, perciò restano qui, a vivere al buio, dormire nelle brandine sottoterra, lavarsi nei lavabo dei bambini di tre anni con le taniche di acqua fredda. Lorica ha quarantacinque anni, a Bucha la conoscono tutti. È una scrittrice. Ama l'opera, la storia dell'arte. Ha sempre qualcosa da studiare, una materia nuova da approfondire e di cui parlare con tutti. È stata lei la portavoce dei settanta costretti nel sotterraneo con i militari russi. Il suo interlocutore era Vadim, l'ufficiale venuto da Mosca che aveva già combattuto in Siria. Quando gli ha chiesto: «Cosa siete venuti a fare?», lui ha risposto «a liberarvi». «E da cosa dovete liberarci?» lo ha incalzato Lorica. Ma lui non ha saputo rispondere. Sapeva però bene come trattare gli uomini, prenderli a calci perché parlavano troppo. Farli stendere in ginocchio a braccia incrociate sulla testa simulando delle esecuzioni. Chiedere ai suoi uomini di uccidere chiunque passasse in strada. Uomini e donne, senza distinzione. Anche Tania viveva nelle cantine dell'asilo. Il tredici marzo ha assistito a una di queste esecuzioni. Tania era nel cortile dell'asilo per scaldare l'acqua sul fuoco, una donna è uscita dal portone del suo palazzo, il comandante Vadim ha dato ordine ai suoi uomini di sparare. La donna è morta sul colpo. Erano animali, dice. Sui nostri corpi, come animali. Tania ha i capelli raccolti dietro la nuca. Lo sguardo è in un altrove inaccessibile. Risponde da sola a una domanda che non ho avuto il coraggio di porle. Ho provato a nascondere i capelli, a mostrarmi più vecchia. Non volevo essere stuprata».
ODESSA, CIVILI GIUSTIZIATI
Corrispondenza da Odessa per Avvenire dell’inviato Nello Scavo. Altri testimoni dell'orrore: «Ci hanno allontanate, poi gli spari delle esecuzioni sommarie».
«Più che noncuranza sembra una sfida. Quasi nessuno a Odessa corre più nei rifugi quando suonano le sirene e si avvertono i colpi della contraerea e le brevi esplosioni che fanno tremare le trincee di sabbia e vibrare i cavalli di frisia. Le campane suonano ininterrottamente per avvertire del pericolo imminente, mentre tre navi militari vengono avvistate a poche miglia. Qualcuno fa il segno di croce e prosegue nella camminata, scendendo dalle colline al mare. I più giovani continuano ad ascoltare musica dagli auricolari, impermeabili alla minaccia. Come se dopo 40 giorni la guerra sia ineluttabile e insieme parte della quotidianità con cui convivere. Ma nei pochi bar aperti non si parla d'altro: Bucha. Il timore più grande in tutta la regione di Odessa è quello di scoprire nei villaggi passati al setaccio dalle forze russe crimini efferati di misura e orrore superiori a quelli documentati a Bucha e nelle altre aree sulla rotta per Kiev. A Mykolaiv, tra Odessa e la Crimea, dopo la strage di civili colpiti vicino al mercato dalle bombe a frammentazione, neanche negli ospedali ci si sente al sicuro: le granate sono piovute a ridosso dei reparti. Il massacro di Bucha è stato contestato ancora ieri dalla macchina della disinformazione, messa in crisi da un nuovo video girato da un drone prima dell'11 marzo, mentre la cittadina era occupata dalle forze russe. Si vede un uomo percorrere in bicicletta l'oramai tristemente nota via Yablunska. I militari di Mosca sono raggruppati in una strada laterale e da lì abbattono l'uomo. A dimostrare che il video è stato girato mentre le forze russe ancora si trovavano in città, contrariamente a quanto asserito dal ministro degli Esteri russo, Sergeij Lavrov, vi sono altre immagini riprese da un drone l'11 marzo in cui si vede che la casa accanto al punto in cui era stata uccisa la vittima viene distrutta. Mentre era ancora in piedi nel video dell'uccisione. Gli investigatori internazionali continuano a raccogliere riscontri. La lista di casi si allarga. Il 27 febbraio, le forze russe hanno radunato sei uomini nel villaggio di Staryi Bykiv, nella regione di Chernihiv, e li hanno giustiziati sommariamente. Tetyana, una testimone di Novyi Bykiv, che si trova di fronte a Staryi Bykiv, appena oltre il fiume Supiy, ha parlato con i parenti di quattro degli uomini uccisi. Ha detto a Human Rights Watch che il 27 febbraio il ponte tra Novyi Bykiv e Staryi Bykiv è stato fatto saltare in aria e le forze russe hanno bombardato entrambi i villaggi. «Conosco bene Viktoria, la madre di un giovane che aveva poco più di 20 anni e si chiamava Bohdan - racconta Tetyana -. Lei mi ha raccontato che i soldati le hanno detto di aspettare vicino a casa mentre prendevano Bohdan per interrogarlo. Hanno detto la stessa cosa ad altre famiglie. Invece, hanno prelevato lui e altri uomini, li hanno portati all'estremità del villaggio e li hanno uccisi». Viktoria, intervistata separatamente, ha confermato i dettagli: «Ci hanno detto di non preoccuparci, che li avrebbero spaventati un po' e poi li avrebbero lasciati andare». Le donne si sono allontanate per meno di 50 metri. «Poi abbiamo sentito gli spari». Hanno trovato i corpi riversi. «Tre erano su un lato dell'edificio, ma non mio figlio e mio cognato. Siamo andati dall'altra parte e li abbiamo trovati». Come fa una madre, Viktoria si è gettata sul ragazzo, e ha scoperto che «le sue tasche erano vuote, non aveva più il telefono, né le chiavi né i documenti di identità ». Quindi è corsa dai soldati chiedendo che almeno le facessero portare via il corpo: «Ma hanno rifiutato». Dmytro, 40 anni, è un testimone chiave. Perché l'orrore l'ha perseguitato. Lui e la sua famiglia sono fuggiti dalla città di Bucha, pesantemente bombardata, il 7 marzo. Ha detto che non conoscevano vie di evacuazione sicure, quindi hanno camminato a piedi, avvolti in lenzuola bianche e sventolando per aria stracci bianchi in segno di non belligeranza. Dopo alcuni chilometri hanno raggiunto il villaggio di Vorzel. Qui si sono rifugiati nel seminterrato di un edificio a due piani, insieme ad altri residenti. «C'era una donna che aveva ferite sul petto e alle gambe - ha riferito Dmytro -. Altre persone nel seminterrato hanno spiegato che le avevano sparato proprio lì, il giorno prima, quando i soldati russi avevano fatto irruzione nello stesso seminterrato e hanno lanciato una granata fumogena all'interno». Non bastasse, si stanno moltiplicando i casi di avvistamento di mine antiuomo. «Una rara circostanza: un Paese che non fa parte del Trattato sulla messa al bando delle mine del 1997 utilizza l'arma sul territorio di un Paese che è parte del trattato», commentano da Human Rigts Watch. L'Ucraina ha firmato la convenzione per il divieto di questi ordigni il 24 febbraio 1999 ed è diventata uno Stato parte il 1 giugno 2006. Le mine adoperate dai russi in Ucraina sono di nuova concezione. Si chiamano POM-3 , note anche come "Medallion". Sono dotate di un sensore sismico per rilevare una persona in avvicinamento ed espellere una carica esplosiva in aria. La detonazione della carica e dei frammenti di metallo può causare morte e mutilazioni in un raggio di 16 metri. L'ordigno è dotato di un dispositivo di autodistruzione che innesca l'esplosivo a distanza di ore o di giorni. Anche quando i russi dovessero ritirarsi, la loro presenza sarà segnalata da altre stragi».
BORODYANKA, PEGGIO DI BUCHA
Nei villaggi attorno a Kiev, affiorano i segni delle violenze sui civili da parte dei russi in ritirata. Il racconto di Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera.
«Non c'è limite al peggio. Adesso emerge che gli orrori di Borodyanka possono essere anche più gravi di quelli di Bucha. C'è ancora tanto da scoprire nelle zone appena abbandonate dall'esercito russo. Appena prima di raggiungere Bucha si scorgono tra le campagne segni di distruzioni e morte che due giorni fa non avevamo notato, nella foga di arrivare il prima possibile a quello che ci era stato descritto come il luogo dove più gravi sono state le stragi di civili. Ci sono gruppi di ville e alcuni capannoni colpiti dalle bombe e completamente bruciati. E nelle macchie di bosco attorno si distinguono dedali di trincee, bunker scavati nella terra scura e alberi abbattuti con tracce profonde di cingoli che vanno a perdersi tra la vegetazione. «I carristi russi cercavano il riparo dei pini per sfuggire ai nostri droni. Non è escluso ci portassero anche i loro prigionieri. Molti sono poi stati attaccati dall'aria. La zona va ancora perlustrata», ammette un ufficiale ucraino. Nei villaggi attorno a Kiev stanno emergendo segni di torture sui civili, e i dirigenti del governo Zelensky sostengono che atrocità terribili sono state individuate nella cittadina di Borodyanka, una ventina di chilometri a nordest di Bucha e una cinquantina dalla capitale. «Gran parte degli edifici sono stati distrutti, stimiamo vi siano 200 morti sotto le macerie, nelle cantine e nei giardini. La nostra area fu la prima ad essere occupata dalle truppe russe il 24 febbraio mentre marciavano su Kiev ed è stata liberata solo domenica scorsa, va ancora pulita e bonificata. Come a Bucha, stiamo cercando le fosse comuni», sostiene il sindaco di Borodyanka, Georgiy Erko. Lo stesso Zelensky ne ha parlato ieri nel suo discorso-appello all'Onu. Il calvario La zona era stata investita dalla violenza della guerra proprio all'inizio dell'attacco sulla capitale. Le colonne russe erano passate da qui arrivando da Chernobyl e per unirsi alle truppe aviotrasportate che erano asserragliate nell'aeroporto di Hostomel. Ma l'intera operazione era fallita, causando molte vittime tra i russi. Non è da escludere che proprio in questa fase anche diversi civili ucraini siano stati uccisi o feriti. Fu allora che iniziò il calvario di Borodyanka: l'intero centro è sventrato e il numero di palazzi colpiti o bruciati sia superiore all'80% dell'area urbana. Alcuni reporter hanno scorto vestiti e coperte scaraventati sulle cime delle piante dalla violenza delle esplosioni. Massacri nelle cittadine Notizie di massacri provengono anche dalle cittadine attorno a Kharkiv, dalle quali i russi stanno ritirandosi in modo sempre più rapido, e inoltre a Chernihiv, sulla strada che da Kiev porta in Russia, e quindi a Sumy e Izyum, dove i comandi di Putin cercano di riorganizzare le truppe per stringere d'assedio i contingenti ucraini impegnati per contenere l'avanzata nemica dal Donbass. E occorre ancora attendere per capire cosa sia davvero accaduto nel mattatoio di Mariupol. Ieri abbiamo potuto girare almeno tre ore in libertà per le strade sporche di guerra a Bucha. I corpi individuati nei giorni scorsi erano stati tutti raccolti e i poliziotti stavano documentando e fotografando le macchie di sangue sul terreno assieme ad ogni resto che potesse aiutare l'inchiesta in vista della scelta ucraina di accusare i russi di «crimini di guerra» al tribunale internazionale dell'Aja. Nei pressi di un centro commerciale Gennady Chernasky, un imprenditore di 47 anni, mostra dove assieme ai 13 famigliari sono riusciti a sopravvivere. «In giardino avevamo raccolto tanta legna e secchi d'acqua per cucinare. La notte non accendevamo alcuna candela, temevamo che i russi potessero fare irruzione», spiega. Le sue parole sono fattuali. «Qui hanno sparato con eguale intensità russi e ucraini. I comandi russi stavano vicino alla stazione elettrica e nei palazzi più alti, gli ucraini hanno bombardato a tappeto, anche molte nostre automobili sono andate distrutte dai loro colpi», racconta. Spari sulle famiglie Però non esita anche a sottolineare che i russi sparavano contro le famiglie che cercavano di fuggire in auto, mostra il suv del suo vicino ridotto in un colabrodo di buchi di proiettili. Quanto ai furti da parte dei russi, lui dice che gli appartamenti abbandonati sono stati metodicamente setacciati. «Hanno portato via tutto. Nel circolo dei nostri palazzi siamo rimaste in 4 famiglie su 124, i russi avevano raccolto un bottino gigantesco», ricorda. Stessa fine pare abbiano fatto i negozi e i grandi magazzini, ma non i supermarket e gli alimentari, dove la popolazione ucraina affamata ha letteralmente fatto a gara con i russi per accaparrarsi tutto ciò di commestibile che restava. Il 42enne Valery ha invece una testimonianza particolare: «Con mia mamma Sofia, di 75 anni, eravamo chiusi nel nostro piccolo appartamento quando la mattina del 12 marzo dieci soldati russi hanno fatto irruzione. Volevano il mio portatile, ho risposto che non l'avevo. Se ne sono andati, ma a fine marzo sono tornati, hanno chiuso mia madre in bagno accusandomi di essere una spia, hanno sparato in aria, volevano uccidermi in garage. Io mi sono inginocchiato di fronte a loro pregando in russo il loro Dio, visto che io appartengo alla chiesa del patriarcato di Mosca. Allora hanno minacciato che sarebbero tornati il giorno dopo. Ma la stessa sera se ne sono andati».
LA SPEDIZIONE DEI BENI RAZZIATI
La depredazione scientifica del territorio ucraino da parte dell’esercito russo è testimoniata dalle telecamere del circuito interno di uno spedizioniere in Bielorussia. Daniele Ranieri, passato a Repubblica, racconta la vicenda e pubblica molte foto-identikit dei militari russi.
«Alla fine di marzo i reparti militari russi che per cinque settimane hanno tentato di assediare la capitale Kiev si ritirano dall'Ucraina, varcano il confine e arrivano in Bielorussia nella città di Mazyr. Tra loro ci sono anche soldati che occupavano le posizioni tra Bucha e Hostomel e che in questi giorni sono accusati di avere commesso crimini di guerra. Sabato 2 aprile alcuni militari entrano in un ufficio di spedizioni della Cdek, un corriere russo che lavora anche sulle lunghe distanze, e cominciano a spedire a casa tutto quello che hanno saccheggiato nelle case dei civili ucraini. Come se fosse la cosa più normale del mondo, danno nome, cognome, indirizzo e numero di telefono e una sommaria descrizione dei pacchi all'impiegata dietro al bancone: molti televisori, vestiti, condizionatori, gadget elettronici e altro ancora. Sono colli che pesano fra i 50 e i 450 chilogrammi per un totale di due tonnellate. Nell'ufficio però c'è una telecamera che registra tutta la scena per più di tre ore e la registrazione finisce in mano al Progetto Hajun , che è un gruppo di volontari bielorussi (anonimi, per sfuggire alla repressione) che monitora tutte le attività militari che avvengono sul territorio nazionale - e in particolare gli spostamenti dei russi. In pratica i razziatori di case ucraine compilano da soli davanti alla telecamera un registro delle loro razzie. Esempio: Kovalenko Yevgeny Yevgenievich manda 450 chilogrammi di attrezzi, casse audio, un tavolo, una tenda e altro a casa sua a Rubtsovsk. Segue numero di telefono. E ancora: Serdtsev Andrei Nikolayevich manda 150 chilogrammi di attrezzi, vestiti e un televisore a casa sua, di nuovo a Rubtsovsk. Segue numero di telefono. Sulla lista ci sono sedici nomi di soldati russi, ma c'è da considerare che si tratta di una registrazione di sole tre ore in un ufficio spedizioni qualsiasi. È lecito supporre che la stessa scena si sia ripetuta altrove, per giorni, con altri corrieri. È una mossa imprudente, considerato che l'esercito russo da un paio di anni tenta di mettere in guardia i suoi soldati dalla cosiddetta Osint, la pratica d'intelligence di raccogliere informazioni da fonti pubbliche. I militari sono diventati abbastanza accorti da non pubblicare immagini delle operazioni militari in tempo reale sui social, ma ancora commettono errori - soprattutto quando si sentono al sicuro, come spedire il bottino di guerra con un corriere. Che i russi abbiano saccheggiato le case dei civili ucraini è un fatto provato dalle numerose intercettazioni delle telefonate fatte a casa - perché in zona di guerra molte comunicazioni sono ascoltate per ragioni militari. I soldati descrivono quello che hanno rubato, spesso con l'approvazione dei familiari, e in alcuni casi accettano con tono compiaciuto richieste da casa su cosa saccheggiare. Dimmi cosa vuoi e te lo trovo, si sente dire.
I reparti russi che in questi giorni sono tornati a Mazyr, in Bielorussia, sono quelli che hanno partecipato all'invasione lungo la direttrice che da nord, dal confine, scendeva verso Kiev a ovest del fiume Dnipro. È facile per i bielorussi riconoscere i loro mezzi perché sono ancora contraddistinti dalla lettera V (e non dalla iconica Z) e sono gli stessi che occupavano le aree di Bucha, Irpin e Hostomel - dove in questi giorni sono stati trovati corpi di civili uccisi con le mani legate dietro la schiena e altre prove di atrocità. Secondo l'intelligence militare ucraina la 64esima brigata di fanteria motorizzata è arrivata nei giorni scorsi proprio a Mazyr e uno degli ufficiali sospettati di essere coinvolto nel massacro, il tenente colonnello Omurbekov Azatbek Asanbekovich, appartiene a quella brigata. Ora, dopo soltanto due giorni di riposo, lui e i suoi soldati saranno mandati a combattere nella zona di Kharkiv. Ieri il vice primo ministro dell'Ucraina, Mykhailo Fedorov, ha pubblicato la foto di un ufficiale che compare nel video delle spedizioni: è delle forze speciali, scrive il ministro, ha saccheggiato e ha anche commesso crimini di guerra a Bucha. E poi chiede di iscriversi a un canale pubblico Telegram che si occupa in modo specifico di dare un nome ai soldati russi, grazie al solito sforzo collettivo di raccolta informazioni. Gli attivisti del Progetto Hajun fanno parte di un movimento clandestino che in Bielorussia si oppone all'invasione russa dell'Ucraina e che vuole prevenire come può l'ingresso in guerra del Paese al fianco del presidente russo Vladimir Putin. Per questo motivo tengono d'occhio quello che fanno i militari russi e ieri hanno pubblicato intercettazioni radio compromettenti che riguardano la possibile defezione di un elicotterista russo: avrebbe abbandonato il suo squadrone durante un volo di trasferimento e si sarebbe diretto a sud verso il confine con l'Ucraina».
I DUBBI SU BUCHA, LE DOMANDE DI CAPUOZZO
Come dice la prima pagina del Quotidiano Nazionale: E c’è chi dice che non è vero. Storico inviato nella ex Jugoslavia e in Medio Oriente, Toni Capuozzo ha scritto per La Verità un pezzo contro-corrente, esprimendo dubbi sulla ricostruzione della stampa occidentale di quello che è avvenuto a Bucha.
«La prima domanda che mi sono fatto è: pensi che sia impossibile che i russi, ritirandosi, abbiano fatto, per vendetta e odio, una strage di civili? Non lo ritengo impossibile, ho visto troppe volte che la guerra porta a dare il peggio di sé. La seconda domanda è stata: pensi che sia impossibile che gli ucraini, aggrediti, bisognosi di aiuto, ansiosi di coinvolgere la comunità internazionale, abbiano «costruito» la scena? Ho una lunga esperienza, dal Kosovo al Libano, da Betlemme a Belgrado, di situazioni forzate, modificate, usate: in guerra ogni mezzo è buono. In più, in questo caso, ci sono i precedenti della ragazza di Mariupol (diceva la verità allora, o la dice adesso?), il mistero del teatro di Mariupol, i numeri che vengono forniti dalle Nazioni unite e dagli ucraini su vittime civili e perdite militari russe (sarebbero morti 400 militari russi per ogni civile ucciso.). Il mestiere del giornalista è farsi domande, anche quelle scomode. E allora mi ha sorpreso una sequenza di date: 1. Il 30 marzo le truppe di Putin abbandonano Bucha.
2. Il 31 marzo il sindaco, davanti al municipio, rilascia una dichiarazione orgogliosa, sul giorno storico della liberazione. Non parla di vittime per le strade.
3. Il 31 marzo Maxar Technologies pubblica le foto satellitari che rivelano l'esistenza di fosse comuni attorno alla chiesa. È una scoperta che poteva essere fatta a terra: è la fossa che pietosamente gli abitanti del posto hanno iniziato a scavare il 10 marzo per seppellirvi i propri morti nella battaglia - siamo poco lontani dall'aeroporto di Hostomel - in cui nessuno avrebbe fatto distinzioni tra civili e militari.
4. L'1 aprile va in onda su Ukraine Tv24 l'intervista al sindaco. Non è accompagnata da alcun commento sui morti per strada. E l'1 aprile un neonazi che si fa chiamare «Botsman» posta su Telegram immagini di Bucha. Dice solo di aver trovato un parlamentare, in città, non parla di morti. Ma lo si sente rispondere a una domanda: «Che facciamo con chi non ha il bracciale blu?». «Sparate», risponde.
5. Il 2 aprile la polizia ucraina gira un lungo filmato sul pattugliamento delle strade di Bucha (che non è enorme: 28.000 abitanti). Si vede un solo morto, un militare russo, ai bordi della strada. Nel filmato, lungo otto minuti, ci sono abitanti che escono dalle case e passanti che si fermano a parlare con la polizia. Lieti di essere stati liberati, ma nessuno parla di morti per strada. La cosa peggiore è quando uno racconta di donne costrette a scendere in una cantina, e uomini prelevati per essere interrogati.
6. Il 3 aprile il neonazi su Telegram incomincia a postare le foto dei morti. A tre giorni pieni dalla Liberazione.
7. Il 4 aprile, il New York Times pubblica una foto satellitare che riprende i morti per strada, spiegando che è stata scattata l'11 marzo (quindi i corpi sarebbero per strada da quasi due settimane, sembrano le armi chimiche di Saddam). Va da sé che onestà e indipendenza (che poi uno scambi l'indipendenza come dipendenza da Mosca mi fa solo ridere amaramente) impongono domande. Com' è che gli abitanti di Bucha che, sotto la dura occupazione russa, seppellivano i propri morti, questi invece, pur liberi, li lasciano sulle strade? Com' è che attorno ai morti non c'è quasi mai del sangue? Se una vittima viene sparata alla tempia, è una pozza, finché il cuore batte. Se gli spari che è già morto, niente sangue. Com' è che in una cittadina piccola e in guerra, dove nessuno presumibilmente si allontana da casa, nessuno ha un gesto di pietà, per tre giorni, neanche uno straccio a coprire l'oscenità della morte? Erano morti nostri o altrui? Se uno vuole credere, se cioè è questione di fede, anche l'osservazione che i morti, per bassa che sia la temperatura non si conservano così, è inutile. Morti pronti per il camera car che è una gincana tra i corpi. Una volta tirai un sasso a un randagio, io che amo gli animali, perché si stava cibando del corpo di un terrorista, e non era in una città affamata. Purtroppo mi interessano poco le testimonianze de relato - «mi hanno raccontato che» - o i servizi che aggiungono alla scena solo rabbia e indignazione, e pietà all'ingrosso. Ricordo ancora a Gerusalemme il responsabile della sede Rai scrivere una mail privata ai dirigenti palestinesi attorno alle immagini di un linciaggio a Ramallah: «La Rai non avrebbe mai mandato in onda immagini che vi danneggino». I gonzi pubblicarono la mail di solidarietà sui giornali. Né mi turbano le accuse dei tifosi, dei trombettieri e dei tamburini. Senza insulti sono disposto a discutere con chiunque, e so che quelle persone, chiunque fossero, in qualunque circostanza fossero state uccise, a qualunque scopo venissero esibite (i russi per terrorizzare, gli ucraini per emozionare il mondo) sono morte nel modo peggiore, e meritano pietà e giustizia, non propaganda. Resta l'orrore e la speranza che commissioni severe indaghino e la facciano pagare ai responsabili. Se sono russi, irraggiungibili, resteranno nell'album delle infamie. Se qualche ucraino ha abbellito o costruito la cosa, è giusto almeno porsi un altro paio di domande scomode. Come fai a non mandare armi a un popolo così martoriato, come fai a non reagire all'orrore? Come fai a convincere l'opinione pubblica mondiale che bisogna mandare altre armi e puntare a punire l'invasore, non a negoziarne il ritiro? Come si giustifica un'escalation? In poche parole: a chi giova? Ma, attenzione, anche rispondere a questa domanda non dà alcuna certezza. Perché la guerra è calcolo, ma ancora di più follia e stupida ferocia».
LE LETTERE DAL FRONTE E LA BANALITÀ DEL MALE
Bella riflessione di Mattia Feltri sulla prima pagina della Stampa.
«Mi è tornata alla memoria la lettera alla moglie di un soldato nazista, riportata in un vecchio libro di Guido Knopp. Il soldato è in Ucraina. Ma niente più di una coincidenza. Scrive alla moglie della sua giornata, la marcia, il rancio, l'ingresso in un paese, la blanda resistenza spazzata via in un paio d'ore. C'è da regolare i conti con la comunità ebraica e li regolano a modo loro: abbiamo preso i neonati, scrive, e uno li lanciava in aria e un altro gli sparava, come a un piattello. Ne ho ammazzato uno anche io così, scrive. Stammi bene amore mio, sogno di riabbracciarti. Un soldato russo ha telefonato alla moglie da Bucha, dove le donne sono state stuprate col fucile davanti ai figli e poi ammazzate e ammazzati i loro figli, e queste sono le cronache dei nostri giorni. Il soldato ha telefonato a casa e ha chiesto che cosa dovesse rubare. Un computer, ha detto la moglie, ché serve a nostra figlia. Non è per proporre un pigro parallelo fra i nazisti di allora e i russi di oggi, ma fra gli uomini di oggi e gli uomini di ieri, e indietro nei secoli e nei millenni, tutti accomunati dal miscuglio fra la violenza più spaventosa e la più blanda quotidianità, e accompagnati dall'eterno sbalordimento per l'umanità che ci ricasca. Omero maledisse la guerra, e gli infiniti lutti, otto secoli prima di Cristo. «Tu, uomo, sei stato capace di questo; la civiltà di cui ti vanti è una patina, una veste: viene un falso profeta, te la strappa di dosso, e tu nudo sei un mostro, il più crudele degli animali», scrisse Primo Levi quasi tre millenni dopo, in un epitaffio su noi tutti che dire meglio non è possibile».
ZELENSKY PARLA ALL’ONU
Atto di accusa del Presidente Zelensky in un intervento video all'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dice: "Fate qualcosa, altrimenti potete chiudere". E chiede un processo per i crimini di guerra di Putin. La cronaca di Alberto Simoni sulla Stampa.
«Volodymyr Zelensky chiede un tribunale sul modello di Norimberga per processare la Russia per crimini di guerra, parla di "atti terroristici" come quelli compiuti dall'Isis in Medio Oriente e evoca il genocidio perché la Russia "distrugge sistematicamente ogni diversità etnica e religiosa". E lo fa con brutalità, fucilando i civili per strada e nelle loro case, stuprando le donne e deportando i bambini. Camicia marrone anziché la ormai iconica maglietta verde militare, il presidente ucraino parla in videoconferenza al Consiglio di Sicurezza che è riunito per discutere delle immagini di Bucha. E ai rappresentanti dei 15 Paesi membri Zelensky mostra un video raccapricciante sulle devastazioni russe. È non solo un documento, ma un monito perché - spiega - «quello che avete visto a Bucha succede a Irpin, Dymerka e in altri luoghi». L'Ucraina - al quarantesimo giorno di guerra - resiste, e il suo presidente è apparso più provato anche se non meno combattivo. Intento a mobilitare ogni genere di aiuto e sostegno per fermare l'aggressione russa che vuole rendere l'Ucraina «una terra di schiavi silenziosi». Intervenire al Palazzo di Vetro è anche l'occasione per suonare la sveglia ai grandi. «Dove sono le garanzie che deve dare l'Onu? Dove è la pace che il Consiglio deve costruire?», esordisce Zelensky gelando la platea alla quale chiede in pratica di riformarsi, di cambiare pelle per essere efficace, oggi in Ucraina, domani in altri scenari. E in un nuovo schema la Russia deve essere rimossa affinché - dice - non possa più esercitare il diritto di veto. «Altrimenti potete chiudere» ha chiuso quasi stizzito il suo intervento e collegarsi qualche ora dopo con Madrid dove ci sono i parlamentari ad ascoltarlo. A loro evoca Guernica: «Siamo nell'aprile del 2022 ma sembra di essere nell'aprile del 1937 quando il mondo ha saputo quello che era successo in una delle vostre città, Guernica». Ma per i russi, ovviamente, la versione di Zelensky è una falsità. Alimentata e sorretta dagli occidentali. Al Consiglio di Sicurezza è infatti l'ambasciatore di Mosca Vasily Nebenzya a provare a smontare le accuse di massacri sistematici che muove il leader di Kiev. Una difesa con pochi fatti. Il rappresentante di Mosca riporta le parole di qualche testimone - li indica per nome e poi legge le loro frasi - per accusare gli ucraini di saccheggi, furti, stupri ed esecuzioni. Si limita a dire che «i social sono pieni di questi racconti», come a sottolineare che se gli ucraini basano le loro accuse sui filmati dei cellulari, anche i russi hanno contro-argomentazioni. Nebenzya però sfodera la narrazione tradizionale di Mosca, quella che equipara gli ucraini ai nazisti, «un tumore da estirpare» che ha portato alle operazioni speciali. «In Ucraina ci sono i nazisti che uccidono, non solo soldati e prigionieri russi ma anche la loro gente», ha ribattuto in un intervento in cui alla fine si è spinto a dichiarare che a Bucha «non è stato fatto male ad alcune civile». Tesi che si fa ora dopo ora più difficile da sostenere. Nuove testimonianze raccolte da agenzie indipendenti gonfiano il dossier. Rosemary De Carlo delle Nazioni Unite afferma che «abbiamo ricevuto accuse credibili». E da Londra Boris Johnson è esplicito: Putin commette crimini di guerra. E Draghi da Torino per firmare un patto con la città da oltre un miliardo, parla «delle atrocità commesse a Bucha, Irpin e in altre località liberate dall'esercito ucraino» che «scuotono nel profondo i nostri animi europei e di convinti democratici». «I crimini di guerra -aggiunge il premier - devono essere puniti». È la linea degli alleati. Washington - che per oggi annuncia un nuovo round di sanzioni che dovrebbe colpire gli investimenti - sta studiando il percorso da seguire. Julianne Smith, ambasciatrice Usa alla Nato, parlando del summit dei ministri degli Esteri che si svolgerà oggi, ha detto che bisogna individuare il percorso per portare la Russia davanti alla giustizia. Ma «stiamo raccogliendo le prove sulla responsabilità di Putin: poi ci sono diverse opzioni, anche oltre la Corte internazionale penale e il Consiglio di sicurezza».
ESPULSI I 30 DIPLOMATICI RUSSI
Dopo Francia e Germania, anche l’Italia e la Spagna espellono diplomatici russi. Marco Galluzzo per il Corriere della Sera.
«In quella che è anche come un'operazione politica coordinata dentro l'Unione europea il governo italiano ieri mattina ha annunciato di aver espulso, dichiarandoli persone non gradite, 30 diplomatici russi che lavorano all'ambasciata che ha sede a Roma. L'Italia dunque fa la stessa mossa che due giorni fa aveva compiuto Berlino, 40 diplomatici di Mosca espulsi, poche ore dopo passo ricalcato dalla Francia (35 espulsi). Ieri è toccato all'Italia e subito dopo è arrivata anche la decisione della Spagna, che ha dichiarato persona «non grata» 25 diplomatici della Federazione russa. In Europa Romania, Svezia, Slovenia e Danimarca, nel corso della giornata, hanno preso analoghe decisioni. Altri 19 diplomatici nel pomeriggio sono stati espulsi anche dalla rappresentanza presso l'Unione europea. L'Unione europea agisce «in risposta alle azioni illegali e inquietanti» dei membri designati della Missione russa contro gli interessi e la sicurezza dell'Ue e dei suoi Stati membri», ha riferito un portavoce. Dall'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina sono in tutto 315 i diplomatici russi espulsi dai Paesi occidentali. Il conto l'ha fatto l'agenzia russa Tass. «La decisione che abbiamo preso è in accordo con altri partner europei e atlantici», ha dichiarato il presidente del Consiglio Mario Draghi, che in sostanza fa capire che il coordinamento è avvenuto anche con Washington. È stato ieri mattina il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, da Berlino, ad annunciare la decisione del governo italiano. Come anticipato dal Corriere la lista dei diplomatici russi è stata stilata con la collaborazione dei nostri servizi di sicurezza. «Tale misura, assunta in accordo con altri partner europei, si è resa necessaria per ragioni legate alla nostra sicurezza nazionale, nel contesto della situazione attuale di crisi conseguente all'ingiustificata aggressione all'Ucraina da parte della Federazione Russa», ha spiegato il ministro. La reazione Una «decisione miope» che non rimarrà senza risposta. Così il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha definito la decisione dei tanti Paesi europei di espellere diplomatici russi. «Limitare le possibilità di comunicazione diplomatica», in una situazione «senza precedenti», è una «decisione miope», ha spiegato Peskov. Secondo il portavoce, le espulsioni «in primo luogo, complicheranno ulteriormente le nostre comunicazioni, necessarie per la ricerca di un accordo, e in secondo luogo, porteranno inevitabilmente a misure reciproche». La Russia darà «una risposta adeguata all'espulsione di diplomatici dall'Italia», ha aggiunto la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova. Draghi, ieri a Torino, ha ribadito che «i crimini di guerra devono essere puniti. Il presidente Putin, le autorità, l'esercito russo dovranno rispondere delle loro azioni». Come nel caso degli altri Paesi europei anche nel caso italiano i diplomatici espulsi vengono accusati o di atti di spionaggio o di mettere a rischio, con il loro lavoro, «la sicurezza nazionale», come ha dichiarato Di Maio. L'ambasciatore russo in Italia Razov ha rimarcato che da parte delle autorità italiane non sia stata «fornita alcuna prova» delle azioni dei diplomatici. La maggioranza Fra le reazioni si segnala quella della Lega: «La storia insegna che la pace si raggiunge con il dialogo e la diplomazia e non espellendo i diplomatici». Di Maio ha commentato in questo modo: «Evito di rispondere alle provocazioni». Anche il Pd ha criticato la Lega: «Strana idea della sicurezza nazionale, permettere alle spie di un altro Paese di fare il proprio lavoro e magari chiamarla pure pace», è il commento di Lia Quartapelle. La posizione della Lega è stata ribadita da Matteo Salvini: «Non entro nel merito della decisione ma le guerre si vincono con la diplomazia, il dialogo, l'ascolto e il buon senso».
LA UE E L’EMBARGO DEL CARBONE
Quinto pacchetto di misure economiche contro la Russia: sul tavolo dell’Unione Europea ci sono nuove sanzioni per 20 miliardi. Francesca Basso per il Corriere.
«Divieto di importazione del carbone dalla Russia, che sottrarrà alle casse del presidente Vladimir Putin 4 miliardi all'anno. Dopo il massacro compiuto a Bucha e in altre città dell'Ucraina dalle truppe russe, l'Ue rafforza le sanzioni contro Mosca. Oggi gli ambasciatori degli Stati membri presso la Ue discuteranno il quinto pacchetto presentato ieri dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e appare probabile che sul carbone si raggiunga il consenso. Anche gli Stati Uniti oggi annunceranno nuove sanzioni contro la Russia in coordinamento con gli altri Paesi del G7 e con l'Ue. La Cnn , citando una fonte dell'amministrazione americana, riferisce che le misure vieteranno ogni nuovo investimento in Russia, aumenteranno le sanzioni contro le istituzioni finanziarie e le imprese statali e sanzioneranno dirigenti del governo russo e loro familiari. Ieri Washington ha vietato a Mosca di ripagare i suoi debiti con i dollari detenuti nelle banche statunitensi. Come reazione, ieri il presidente russo Vladimir Putin ha proposto di «monitorare» le consegne di cibo ai Paesi «ostili» al Cremlino. Nel quinto pacchetto di sanzioni presentato da von der Leyen, oltre all'embargo sul carbone è previsto il divieto totale di transazioni su quattro banche delle sette già escluse dal sistema di pagamento internazionale Swift e il blocco dei porti europei alle navi russe e gestite da russi, fatta eccezione per quelle che trasportano prodotti agricoli e alimentari, aiuti umanitari ed energia. È previsto anche il divieto di accesso alle compagnie di trasporto su strada russe e bielorusse e ulteriori divieti di esportazione mirati, per un valore di 10 miliardi di euro, in settori in cui la Russia è vulnerabile come i computer quantistici e i semiconduttori avanzati, i macchinari sensibili e mezzi di trasporto. È stato anche allargato lo stop all'import per un valore di 5,5 miliardi: colpirà una serie di prodotti dal legno al cemento, dai frutti di mare ai liquori. Le imprese russe non potranno più partecipare agli appalti pubblici nei Paesi Ue né soldi europei potranno essere usati per finanziare enti pubblici russi. Infine è stata allungata la lista delle personalità colpite dalle sanzioni. La presidente von der Leyen ha anche spiegato che Bruxelles è al lavoro su «ulteriori sanzioni, anche sulle importazioni di petrolio» e sta «riflettendo su alcune delle idee presentate dagli Stati membri, come tasse o canali di pagamento specifici come un conto di garanzia». È da tempo che la Polonia e i Baltici chiedono di colpire gli idrocarburi. Due giorni fa il presidente francese Emmanuel Macron aveva detto che si doveva agire «in particolare su carbone e petrolio». E il ministro tedesco delle Finanze Christian Lindner aveva spiegato che «la Germania sosterrà ulteriori sanzioni» ma «al momento non è possibile tagliare il gas». No sul gas anche da Austria e Ungheria. Delle tre fonti fossili russe il carbone è quella da cui l'Ue dipende meno, anche se per alcuni Paesi resta uno sforzo importante. Nel mix energetico tedesco, ad esempio, il carbone pesa per circa il 15%, in Italia per il 3,5%. Il premier Mario Draghi ieri ha detto che l'Italia appoggia in pieno la linea di Bruxelles. Al termine dell'Ecofin a Lussemburgo, il ministro dell'Economia Bruno Le Maire ha spiegato che «i 27 hanno posizioni che non sono per forza identiche sul perimetro e sul calendario delle sanzioni. Ma il principio base è l'unità dei 27. Le discussioni avranno luogo nelle prossime ore» partendo dalla proposta della Commissione».
Il segretario del Pd Enrico Letta spiega al Foglio di oggi perché chiudere i rubinetti del gas russo. È il direttore Claudio Cerasa a raccogliere il suo parere.
«Sul tema dell'embargo del gas russo, il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, pur avendo già fatto capire che il nostro Paese non porrebbe un veto in caso di decisione dell'Ue di bloccare il gas russo, da giorni si trincera dietro una formula molto vaga, l'Italia agisce in pieno coordinamento con l'Unione europea, formula astuta per non esporsi aspettando che magari un giorno sia la Germania a fare un passo difficile verso l'embargo. Una formula meno diplomatica, per così dire, è invece quella utilizzata in questi giorni dal segretario del Pd Enrico Letta, favorevole a un blocco totale delle importazioni energetiche dalla Russia. Abbiamo chiesto ieri al segretario del Pd di spiegare meglio la sua posizione: "Rinunciare al gas e al petrolio russo credo sia una priorità assoluta. E andare in questa direzione significa accelerare tutto. Significa accelerare la fine della guerra. Significa accelerare i processi di pace. Significa togliere risorse alla Russia di Putin e alle sue follie. Significa, poi, accelerare anche altri processi, come quello della costruzione di una sostenibilità energetica europea, e significa poi, in virtù di un nuovo e cruciale equilibrio, accelerare alcune misure necessarie da mettere in campo per evitare la terza recessione". Non è detto che basti, ma contro i genocidi non c'è altra scelta possibile: meno noccioline, più embarghi».
MA GLI UCRAINI POSSONO DAVVERO VINCERE?
L’ex generale Nato Fabio Mini sul Fatto di oggi sostiene che l'esercito di Putin è “quattro volte quello di Zelensky”, e gli ucraini non potranno mai vincere, nonostante armi e sostegno dell’Occidente. Solo l'intervento degli Usa e della Nato possono battere Mosca, ma l'Europa tornerebbe “all'età della pietra”.
«Leggendo i giornali si hanno descrizioni catastrofiche sulla situazione dei russi in Ucraina. Ci si può chiedere da dove vengano e quanto siano attendibili. Una fonte ufficiale che fornisce dati a tutti i parlamentari dell 'Unione europea (Eprs) durante le prime fasi della guerra rendeva noto che: con 900mila uomini le forze armate russe sono più di quattro volte più numerose delle forze ucraine, che nel 2021 erano composte da 196mila uomini. L'esercito russo può schierare 280mila truppe. Si stima che ci siano attualmente 150mila soldati russi presenti in Ucraina, mentre circa 20mila rimangono pronti in riserva. Prima dell 'invasione, la Russia disponeva di 15.857 veicoli corazzati da combattimento, in confronto ai 3.309 dell'Ucraina - quasi cinque volte di più, così come oltre dieci volte il numero di aerei (1.391) rispetto agli ucraini (132). Nel gennaio 2022 l'Ucraina ha riorganizzato le sue Forze di Difesa Territoriale (Tdf) con una nuova forza di riserva, che a metà febbraio 2022 avrebbe puntato a raggiungere 1,5-2 milioni di membri. Il numero effettivo di soldati Tdf è sconosciuto.
DAVIDE E GOLIA? LE 4 DIRETTRICI DELLE MANOVRE MILITARI In pratica si trattava del classico Davide contro il filisteo Golia e la sassata della resistenza ucraina avrebbe colpito il gigante in mezzo agli occhi facendolo crollare. È curioso il ruolo delle sassate nella storia delle potenze: da Davide a Balilla e alle intifada dei palestinesi (eredi dei Filistei), o nelle piccole cronache nostrane come quelle tirate da pseudopacifisti alla fregata Carabiniere della nostra Marina a Taranto e nell 'anima religiosa con i cinque "sassi" (tanti quanto quelli di Davide) che la Madonna di Medjugorje ha indicato ai suoi fedeli. La sassata è un simbolo potente del debole verso il potente, del suddito verso il dominatore, dell'arcaico contro il tecnologico, della fede contro il demonio e del disperato contro il tracotante. Ma, se il simbolo si applica alla situazione in Ucraina, i conti del rapporto presentato ai parlamentari europei non tornano. Considerando che le operazioni speciali della Russia si sono sviluppate a cavaliere di 4 assi di penetrazione, l'invasione russa sarebbe stata condotta da meno di 40 mila uomini per direttrice che, calcolato 3:1 il rapporto tra forze di sostegno e forze combattenti (ma in Iraq gli anglo-americani avevano un rapporto di 7:1), si avrebbero meno di 10 mila uomini impiegati in combattimento per ogni asse. A queste forze d'attacco si sarebbero contrapposte 196mila uomini, di cui 60mila combattenti e quindi 15 mila soldati per ogni direttrice. Senza contare almeno mezzo milione dei 2 milioni di milizie territoriali, tra cui le formazioni dei "nazisti perbene" concentrate nei centri urbani. Considerando infine che l'attacco, per poter sopraffare un avversario in difesa, deve almeno raggiungere una superiorità di 3:1, risulterebbe che per un attacco contro 15mila avrebbe dovuto avere 45mila uomini per ogni direttrice e non 10mila. In effetti l'Ucraina in difesa sin dall'inizio avrebbe avuto un rapporto di forze vantaggioso di 4,5:1. Con questi numeri i russi non avrebbero nemmeno potuto attraversare il confine, figurarsi se avrebbero potuto invadere tutta l'Ucraina o mirato alla totale estinzione del popolo ucraino.
Nessun esercito avrebbe potuto conquistare tutto il territorio acquisito dai russi in venti giorni. E, se le forze ucraine schierate a Sud nella pianificata rioccupazione della Crimea, fossero in grado di costituire una minaccia e i russi fossero in ritirata, non avrebbero ripreso le operazioni fino a Odessa e non ci sarebbero migliaia di truppe ucraine circondate nella sacca tra Donetsk e Dnipro. I conti non tornano. A meno di non ammettere che, nonostante la schiacciante superiorità numerica a tavolino le forze ucraine abbiano sbagliato tutto. Lo spostamento di truppe corazzate dispiegate come strumento di pressione strategico-politica è un buon segnale soltanto se l'obiettivo strategico di quella operazione è stato raggiunto e non sappiamo ancora cosa i russi ritengono di aver raggiunto. Ma potrebbe anche essere un brutto segnale: se i russi valutassero inutile la pressione su Kiev perché inefficace, il riposizionamento individuerebbe una nuova fase e le truppe di terra potrebbero fare spazio alla sistematica eliminazione di Kiev dall'alto. È immaginabile la frustrazione delle forze strategiche russe di fronte a una battaglia terrestre a obiettivi limitati dalla quale sono state escluse. Finora. Anche tra le forze armate russe, come in quelle americane ed europee, ci sono i fautori della guerra alla "finiamola una volta per tutte" predicata dagli oligarchi statunitensi che assecondano le mire di Biden sul cambio di regime al Cremlino e da quelli russi che vorrebbero lo stesso a Kiev. Ma è tutta gente che non sa fare i conti né politici né militari. Nei fatti, le pretese di questi falchi tralasciano di considerare che il cambio di regime con la forza in questo caso significa l'innalzamento dello scontro militare e il suo ampliamento a livello continentale. Questa escalation non è evitabile con nessuno dei provvedimenti in atto. Che, anzi, la accelerano».
MISSIONE DI PACE E AIUTI A LEOPOLI
L’arrivo dei profughi in Europa. Su Avvenire c’è un reportage sulla missione di pace e di aiuti arrivata a Leopoli: «C’è un tessuto sociale da ricostruire». Paolo Lambruschi.
«Vicinanza e solidarietà alla popolazione ucraina e un messaggio di pace. Li hanno portati in un viaggio a Leopoli l'arcivescovo di Cagliari e vicepresidente della Cei Giuseppe Baturi, il direttore di Caritas italiana don Marco Pagniello ed Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli. Baturi ha potuto incontrare l'arcivescovo latino Mieczyslaw Mokrzycki, cui è legato da antica e profonda amicizia dai tempi degli studi a Roma. Con questa missione in Ucraina si rafforza la collaborazione a ogni livello tra l'organismo pastorale della Chiesa italiana e la più grande associazione cristiana per ottimizzare gli aiuti che arrivano da circoli e parrocchie. «Mi sono recato in questa terra martoriata - afferma Baturi - per incontrare un caro amico e assicurargli vicinanza. Ho constatato le ferite di questa nazione, il senso di paura e precarietà che si avverte quando si attivano gli allarmi nella città, il bisogno di un supporto fraterno per lenire le sofferenze di una popolazione duramente provata. È stato bello vedere una chiesa, e i sacerdoti in particolare, mobilitata come il buon samaritano a dare aiuto alle persone sofferenti, senza distinzione di appartenenza politica e religiosa». Per Caritas italiana era importante incontrare i direttori della Caritas latina e di quella della chiesa greco cattolica. Le Caritas dall'inizio della guerra hanno aiutato oltre mezzo milione di persone e inviato circa 500 tonnellate di aiuti di prima necessità in tutto il paese. Sono stati organizzati punti di raccolta e informazione nei 60 centri di accoglienza, nei quali hanno offerto riparo a più di 8000 persone, assistenza sanitaria e sostegno psicologico mirato. «Leopoli è la porta di ingresso degli aiuti umanitari, l'hub che le Caritas europee hanno realizzato per rag- giungere da qui la popolazione anche nelle zone bombardate. Qui abbiamo voluto far sentire ancora una volta la nostra vicinanza - spiega don Pagniello, che a metà marzo si era recato in Moldavia, Romania e Polonia - nella preghiera e nella carità operosa che non si stanca di alimentare la speranza anche tra le macerie di una guerra. Abbiamo finalmente potuto incontrare insieme don Vyacheslav Grynevych, direttore di Caritas Spes (quella latina, ndr) e Tetiana Stawnychy, presidente di Caritas Ucraina, per incoraggiarli a proseguire nella loro incessante azione accanto alla popolazione locale, assicurando il sostegno di Caritas Italiana. E con le Acli in Italia e qui la collaborazione sarà ancora più stretta». Caritas Italiana ieri ha subito messo a disposizione altri 600mila euro per le Caritas in Ucraina - in particolare in favore di chi sta subendo traumi e disagi psicologici - in Polonia, Romania e negli altri Paesi impegnati nell'accoglienza, inclusa l'area balcanica. Nel contempo prosegue l'accoglienza diffusa nelle diocesi italiane che domenica vivranno un momento di preghiera per la pace durante le celebrazioni delle Palme. «Fin dall'inizio della guerra i nostri circoli Acli sui territori hanno dato prova di grande generosità - racconta il presidente nazionale Emiliano Manfredonia, ci sembrava giusto portare un segno di presenza tangibile al popolo ucraino anche a livello nazionale. Abbiamo sostenuto la carovana della pace settimana scorsa, domenica siamo partiti da Roma con un furgone carico di aiuti ». A Leopoli il leader aclista si è quindi unito al vescovo di Cagliari e a don Pagniello rilanciando la collaborazione con la Caritas a ogni livello. «In questi due giorni - aggiunge - le sirene del preallarme ci hanno ricordato che questa gente, anche i bambini, ha imparato a convivere con la guerra. Noi vogliamo portare un aiuto diverso dalle armi per costruire la pace. E lavorare in futuro per la riconciliazione». Gli aclisti hanno incontrato gli amministratori della regione e con le strutture ospeda-liere, in particolare con l'ospedale pediatrico, che necessitano di maggior aiuto. Significativo l'incontro con i rappresentanti istituzionali del luogo per capire i bisogni e le necessità della popolazione e del tessuto economico della Regione. «Ad esempio - aggiunge Manfredonia - molte aziende non vogliono andarsene, anche se manca la manodopera. Chiedono all'Europa di aiutarle ed è importante per ricostruire il tessuto economico e sociale. Inoltre ci ha colpito la volontà di aderire all'Ue. Tutti i palazzi espongono la bandiera blu stellata accanto a quella nazionale». Manfredonia ha visitato anche la sede del Patronato Acli a Leopoli, l'unico presente nel Paese, che sta svolgendo un compito fondamentale per garantire diritti previdenziali ai tanti ucraini e alle tante ucraine che hanno lavorato in Italia. Il vescovo di Leopoli ha inviato ieri un ringraziamento all'arcivescovo Baturi, alla Caritas e alla chiesa italiana «per la preghiera, ma anche per la solidarietà che ci viene offerta per tutto ciò di cui abbiamo bisogno, in particolare negli ospedali, per curare quotidianamente i feriti e per l'accoglienza dei bambini orfani».
ESPLODE L’ORRORE MA DIO DOV’È?
Il Patriarca Kirill benedice la guerra. Ma bisognerebbe scegliere tra benedire e governare. È un'antica tentazione che allontana dal vero cristianesimo. Domenico Quirico per La Stampa.
«Ma nella guerra Dio dove è? Nelle immagini di una fossa in cui sono gettati i cadaveri delle vittime del sobborgo di Bucha si disegna netto incombente il profilo di una chiesa con le dorate cupole a cipolla, di un bianco che acceca. Fantasma? Condanna? Invocazione? Allora mi sono chiesto: ma in questa guerra di cristiani Dio dove è? Arroganza, direte, cercare di decifrare il disegno di Dio, ancor di più la sua assenza. Forse come nella poesia spesso non è la parola la cosa più bella ma il silenzio che avvolge la parola, così avviene per Dio: quello che parla di più non è ciò che è detto e ciò che non è detto, non le parole ma i silenzi. Eppure. Quando siamo di fronte allo scandalo di un Dio cristiano che viene schierato sul campo, che viene gettato in campo con la croce a benedire bandiere e armi russe... e poi c'è lo stesso Dio che, nonostante gli appelli accorati, vibranti del suo vicario contro la guerra sacrilega, sembra rinviare la vittoria sul male a chissà quando. Noi poveri cristiani che non abbiamo pazienza, abbiamo il dubbio che ci siano momenti in cui il creatore rinuncia al gioco e getta le carte sul tavolo. E forse siamo di fronte a uno di questi momenti. E allora non si può esser che muti e soli, si vive tra due abissi. Pensavamo fosse una guerra tra nazioni e una guerra per il predominio. Scopriamo che Dio viene gettato in mezzo come uno strumento della guerra totale in cui non può non può mancare l'apporto, con le bombe la violenza intimidatrice, le bugie, anche del fanatismo. Il patriarca di Mosca Kirill benedice le bandiere del Cremlino, i soldati della Santa Russia impegnati in Ucraina, secondo la sua unzione, in una mistica crociata contro il paganesimo d'occidente, un tema che pensavamo limitato alle grullaggini dei cosiddetti filosofi del putinismo, marmaglia assortita dalle lunghe barbe mosaiche ma non certo tolstoiane. Leon Bloy diceva: «Aspetto i cosacchi e lo Spirito santo». Ricordo che anche l'ultimo Solzenicyn teneva questi discorsi. Finito l'esilio nel pagano occidente, appena dopo essersi inchinato alla «terra di Kolyma» e ai suoi milioni di martiri, questo straordinario lottatore dell'arte contro la violenza e la menzogna, iniziò invece a inveire contro la irrimediabile eclissi dei valori spirituali, contro l'illuminismo degenerato che aveva partorito la teoria, empia, dell'"egoismo ragionevole" e "l'umanesimo secolaristico". Tra incensi e candele Kirill, l'incedere fiero, la chioma d'argento, incarna l'ennesimo notabile salmodiante della nomenklatura in mitria e piviale, in una continuità che parte dagli zar, sopravvive nella lunga parentesi comunista e approda finalmente, trionfante, alla restaurazione putiniana. In fondo il primo esercizio repressivo in cui il potere autocratico si è allenato a spezzare le ossa ai dissidenti risale al diciassettesimo secolo e a farne le prove furono degli eretici, maledetti dalla gerarchia, i Vecchi Credenti, la parte più istruita, intraprendente e viva del popolo russo. Kirill benedice. Ma bisognerebbe scegliere tra benedire e governare. Dovrebbe stupirsi nel guardarsi presiedere con viso da "santificetur" a un gioco brutale come una partita di poker. Così brutale che la untuosità più perfezionata non potrebbe mai riuscire a seguirne il ritmo feroce. Mentre con un volto serafico e immerso nei sacri paramenti il patriarca funzionario salmodia testi in cui trovate consacrata la indiscutibile legittimità del più forte, lui, il più forte, Putin osserva con soddisfatta compiacenza. Dio ancora una volta è con noi. Anche Koba l'insospettabile, messo alle strette dagli invasori tedeschi, tirò fuori dai suoi capaci gulag qualche monaco superstite e benedicente il santo popolo offeso. Gli invasori, loro, "Gott mit uns" per non dimenticarsene l'avevano scritto sulla borchia della cinghia che teneva su i pantaloni. La guerra sfronda brutalmente con l'odio, la violenza, il terrore, lo schifo. È storia dell'uomo e quindi anche storia di Dio. Noi, separati solo da bizantine sottigliezze dal Dio di Kirill, non abbiamo forse il diritto di insister troppo sullo scandalo di un conflitto che si vorrebbe santo. Abbiamo già fatto le cose in grande in un passato non remotissimo purificando con il fuoco gli eretici. Pietà per gli incendiari! Immagino che anche la Chiesa di Kirill, seppure imperfetta, sia viva. Simile ai più umili e diseredati dei suoi figli, cammini zoppicando da questo mondo all'altro. Commette errori, li espia e se si riesce a distogliere per un attimo gli occhi dalla sue pompe così apprezzate dagli zar di tutti i tempi, ebbene la sentirebbe pregare e singhiozzare con noi nelle tenebre in cui vagano anche i suoi figli prediletti in armi. Perché la coinvolgiamo dunque? Perché lo scandalo che da lei mi proviene, ferisce l'anima nel vivo, alla radice stessa della speranza. Voi dite che lo fate perché siete certi di benedire una buona causa, difendere la santità dal diavolo occidentale e modernista? Ma noi vi osserviamo non in nome dei santi, come potremmo?, ma delle persone che vi somigliano come fratelli e che vengono uccise in queste settimane di guerra, anche di quelli che portano la divisa che voi benedite. Siete posti a guardia dei peccatori? Ebbene è il mondo di peccatori che voi avete rinnegato e deluso, e questi vi rimproverano non le vostre colpe ma il vostro orgoglio. Immaginiamo la risposta: che avete pur sempre a disposizione i sacramenti con cui si arriva alla vita eterna e che non li rifiutate a chi li chiede. Il resto sarebbe affare di dio, che saprà distinguere. È una vecchia frase troppo cinica per essere santa, che purtroppo storicamente non possiamo rinnegare, appartiene anche a noi di quell'altra metà del dio cristiano. Già. Ma forse si potrebbe chiedervi qualcosa di più: ovvero di amare quelli che soffrono».
IL DIAVOLO, PROBABILMENTE
Il giornalista Lucio Brunelli, ex direttore del Tg di Tv2000 e per anni vaticanista in Rai, ha scritto nel suo Blog una riflessione dal titolo Il diavolo, probabilmente.
«C’è come una regia malvagia che, in modo lucido e sistematico, spinge giorno dopo giorno gli eventi ucraini sull’orlo di un precipizio globale. Un piano inclinato su cui sembrano scivolare giù, come sospinti da una forza inarrestabile, tutti i residuali tentativi di negoziato e con essi ogni speranza di pace a breve termine. Forza inarrestabile da noi, persone comuni, che assistiamo impotenti, come di fronte a un fato crudele, al susseguirsi di notizie che irrompono nelle nostre case e accrescono la nostra ansia. Viene da pensare a come i nostri genitori e i nostri nonni (di noi che non siamo più giovani) abbiano seguito gli eventi che precedettero le due guerre mondiali del ‘900. Con quali informazioni - non c’era internet, non c’era la tv - e con quale percezione. Se anche loro come noi sentirono che una tragedia immane stava preparandosi, come un rotolare fatale di eventi la cui corsa nessuno riusciva più a fermare. Il Diavolo, probabilmente. Era il titolo di un film di Robert Bresson che mi è tornato mille volte in mente, in questi giorni. Perché il male esiste, opera da sempre in ogni individuo, in ciascuno di noi ma a volte è come se prendesse le sembianze di una forza oscura, organizzata, lucida, che si impossessa di brani di storia, muovendo personaggi, decisioni, eserciti. Come comparse nelle sue mani. In una sequenza di orrori che toglie il fiato. C’era una questione seria in Ucraina orientale, le comunità russofone discriminate. Poteva e doveva essere risolta, con il concorso della comunità internazionale esigendo il rispetto dei diritti già riconosciuti anche da Kiev negli accordi di Minsk 2. C’era il timore di una Russia che si sentiva accerchiata dalla Nato, e anche tale questione, stimando la pace il bene più grande, poteva forse essere risolta, con uno statuto di neutralità garantita. Poi ecco l’impulso arrogante e scellerato del nuovo zar, Putin, l'annuncio di una guerra che pochi ritenevano pensabile tanto era gravido di brutti presagi: l’invasione militare dell’Ucraina, le bombe, migliaia di giovani russi mandati a uccidere e a morire, milioni di profughi... Ogni ipotetica ragione lasciava il posto a un torto, inescusabile. Follia. Poi, dopo le prime settimane di combattimenti, ecco la ripresa di un filo di dialogo, le delegazioni che si incontrano e mettono pure per iscritto alcuni punti di intesa. Spiragli, compromessi imperfetti ma accettabili, forse, per evitare il peggio: cioè altri morti, altre atrocità, perché la guerra è così, libera la belva che è in noi, e in guerra non si muore nel proprio letto ma sotto le bombe: la guerra è un moltiplicatore di male, prigionieri torturati, esecuzioni sommarie di presunti sabotatori e collaborazionisti, civili innocenti massacrati: sono il portato di ogni guerra, dagli albori dell’umanità fino al conflitto in Bosnia passando per i due tremendi conflitti mondiali. In barba a ogni convenzione umanitaria, sempre. Così a ogni spiraglio negoziale che si apriva corrispondeva un qualche evento che affossava le trattative. Dopo ogni spiraglio una spirale di nuove malvagità. Biden e la Casa Bianca, bisogna dirlo, non hanno mosso un dito per riportare al centro la diplomazia e favorire una soluzione meno cruenta; anzi, sembravano (Dio mi perdoni per questo cattivo pensiero) compiacersi del fallimento dei negoziati. Con quale fine: fare dell’Ucraina il Vietnam russo? Indebolire con un colpo solo l’ex Unione sovietica e l’attuale Unione europea? L’escalation sotto gli occhi di tutti. Dalla fornitura di equipaggiamenti militari all’invio di carri armati, dalle sanzioni contro gli oligarchi amici di Putin all’auspicato stop agli acquisti europei del gas russo. Un crescendo che si fermerà dove e quando? Diventerà normale anche ipotizzare un conflitto nucleare? Nel contempo un’informazione che sembra puntare sempre più a eccitare gli animi, a mobilitare emotivamente l’opinione pubblica, prepararla allo step successivo, piuttosto che a raccontare e spiegare tutte le sfaccettature della realtà. Il diavolo, probabilmente. Principe della menzogna. E della divisione. Questa guerra sta provocando una dolorosa implosione del mondo cristiano ortodosso. I preti russi e i preti ucraini benedicono le truppe dei rispettivi paesi. Se Putin cita senza vergogna il Vangelo per giustificare l’invasione in Ucraina spuntano come funghi poster con immagini di soldati armati, infarcite di citazioni di salmi. Nell’ex granaio sovietico si era già consumato, prima che scoppiasse la guerra, il primo grave scisma infra-ortodosso. La decisione del Patriarca di Costantinopoli di riconoscere l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina aveva portato a uno strappo violento con il Patriarca di Mosca, proprio alla vigilia del primo importante Sinodo pan-ortodosso della storia moderna, celebrato a Creta nel 2016 (che infatti fu un fallimento). Un’ortodossia così lacerata, oggi ancora più divisa dal furore nazionalista della guerra, diventa un macigno nel cammino verso quella piena comunione con Roma che fu il grande sogno del Concilio ecumenico Vaticano II e degli ultimi Papi. Oggi ci vuole la carità e la pazienza di Francesco per aiutare un dialogo in cui, paradossalmente, il Papa diventa il primo cucitore delle ferite interne alla stessa Chiesa d’oriente. Macerie spirituali accanto alle macerie materiali di una guerra che non a caso Francesco definisce “sacrilega”. Chissà se da questa catastrofe ecumenica potrà nascere, in futuro, qualche bene. Alcune tra le menti migliori del mondo ortodosso già si interrogavano su quale perdita è stata, storicamente, la mancanza di un punto di unità sovranazionale, più libero da condizionamenti etnici e asservimenti politici, quale fu (nel bene e nel male) nel primo millennio quella Chiesa di Roma chiamata a ‘presiedere nella carità’ l’intera Chiesa universale. Chissà. Oggi a prevalere non sono certo le previsioni ottimistiche ma una “violenza diabolica” di fronte alla quale il vescovo di Roma, fin dall’inizio del conflitto, invita a impugnare le “armi di Dio”: la preghiera, il digiuno, l’affidamento a Maria. Non come fuga religiosa per non vedere tutta la ferocia degli uomini e certamente non rinunciando fino all’ultimo allo strumento prezioso della diplomazia. Ma forse proprio perché dietro la malvagità degli uomini (“Dio abbia pietà di noi, tutti siamo colpevoli”) vede in azione un Male che attraversa e sembra quasi sovrastare gli eventi tenebrosi di cui siamo purtroppo testimoni. E che solo il Principe della Pace può sconfiggere e rigettare negli inferi. Come nell’affresco della cattedrale di Anagni dove un Cristo a cavallo, con il suo arco, scocca la freccia che colpirà uno dei Cavalieri dell’apocalisse, quello che porta nel mondo la sciagura della guerra».
LA GUERRA FRATRICIDA
Maurizio Caverzan intervista per La Verità l’arcivescovo cattolico di Mosca Paolo Pezzi. Che dice: «Questo non è uno scontro tra confessioni. Se dei cristiani si fanno la guerra è perché hanno dimenticato di esserlo».
«Paolo Pezzi è l'arcivescovo di Mosca. Nato nel 1960 a Russi (Ravenna), nel 1980, durante il servizio di leva alcuni commilitoni gli fanno conoscere Comunione e liberazione. Dieci anni dopo diventa sacerdote ed entra nella Fraternità di San Carlo Borromeo, fondata da don Massimo Camisasca. Dal 1993 è a Novosibirsk, in Siberia. Torna in Italia nel 1998, ma 5 anni dopo è di nuovo in Russia. Nel 2007 Benedetto XVI lo nomina arcivescovo di Mosca: 2,7 milioni di chilometri quadrati, 56 milioni di abitanti, 180.000 cattolici battezzati. I suoi autori prediletti sono Luigi Giussani, Karol Wojtyla, Joseph Ratzinger, Charles Péguy e Paul Claudel, oltre ai maggiori scrittori russi. In La piccola chiesa nella grande Russia, appena pubblicato (con Riccardo Maccioni) da Ares, fra cento aneddoti e riflessioni racconta l'incontro con una babushka in Siberia alla quale avevano ucciso davanti agli occhi i due figli: «Che cosa penso di Stalin?», rispose l'anziana donna a precisa domanda. «Guardi che io l'ho perdonato tanti anni fa, perché se non si perdona non si vive più. E io come avrei potuto continuare a vivere, dopo aver visto uccidere due figli?». «Ricordo che mi misi a piangere e me ne andai zitto zitto con la coda tra le gambe», annota Pezzi.
Eccellenza, da un mese e mezzo il Paese dove esercita il suo servizio pastorale è entrato in guerra. Qual è stato il suo primo pensiero quando ha saputo dell'iniziativa del presidente russo Vladimir Putin?
«Un pensiero di stupore, non pensavo si arrivasse a questo. Poi immediatamente dolore e anche angoscia per la gente, per chi inevitabilmente avrebbe sofferto senza saperne il perché, e senza avere voluto questo. Solo dopo un po', lo confesso, mi sono ripreso, andando a pregare in cappella».
Dal suo osservatorio privilegiato per i rapporti che ha avuto con le rappresentanze del Cremlino aveva mai temuto che potesse prodursi una situazione del genere?
«Sinceramente mai».
Aveva colto dei segnali preoccupanti di qualche natura?
«Segnali sì, ma non che si sarebbe arrivati a tanto».
Ho letto nel libro La piccola Chiesa nella grande Russia che il capo di gabinetto dell'amministrazione del presidente russo è un lettore delle encicliche di papa Francesco. Che rapporto c'è tra i rappresentanti del Cremlino e il magistero della Santa Sede?
«Non il capo di gabinetto, ma un responsabile dei rapporti con le religioni presso l'Amministrazione del presidente. Certamente sapevo che sono molto informati, ma mi stupì che avesse già studiato un testo come la Laudato si' e per di più non ancora pubblicato in russo. Come lui stesso mi disse in Amministrazione sono molto attenti al magistero del Papa, soprattutto per quel che riguarda le encicliche "sociali", diciamo».
Pochi giorni fa papa Francesco ha pronunciato l'atto di consacrazione della Russia e dell'Ucraina al Cuore immacolato di Maria. Com' è stata vissuta dai fedeli di Mosca questa consacrazione?
«In modo molto toccante e molto forte. La cattedrale era piena, e quando ho chiesto ai sacerdoti presenti di essere disponibili alle confessioni durante la liturgia penitenziale voluta dal Papa, mi ha stupito vedere la fila incessante dei fedeli. Anch' io ho confessato quasi un'ora».
Dopo questa iniziativa di Francesco riveste particolare responsabilità il fatto che la cattedrale dove presiede le celebrazioni sia intitolata all'Immacolata concezione di Maria?
«No, direi piuttosto che è un passo nel cammino che facciamo. Dieci anni fa, ad esempio, ci fu la consacrazione della arcidiocesi all'Immacolata, e due anni fa abbiamo avuto un pellegrinaggio dell'icona della Madonna di Fatima per le parrocchie e le famiglie della arcidiocesi con l'intento di suscitare un maggior interesse alla Parola di Dio. Il pellegrinaggio è stato infatti accompagnato da preghiere e litanie alla Mater Verbi, alla Madre del Verbo».
In questo periodo ha notato un fervore diverso nel popolo dei fedeli?
«Sì, alla celebrazione penitenziale cui è seguita la consacrazione al Cuore immacolato di Maria, ho notato partecipazione, desiderio di perdono, e riscoperta di condivisione di carità. Dopo la pandemia di Covid ho invece notato un gran desiderio di tornare a guardarsi in faccia, di avere relazioni in presenza. Mi ha molto colpito che molti fedeli siano tornati alla Chiesa proprio per aver sperimentato questa solitudine, e quindi questo bisogno direi fisico di sentirsi vicini. Con tutto l'aiuto che ci ha indubbiamente dato, le celebrazioni e gli incontri a distanza non sono fatti per l'uomo. L'uomo ha bisogno di comunione».
Qual è la sua prima preoccupazione nel rincuorarli?
«Richiamare alla conversione dei nostri cuori».
E nel parlare del popolo ucraino?
«Di solito non ne parlo, non amo le generalizzazioni. Parlo ai miei fedeli concreti che hanno radici ucraine; cerco soprattutto di condividerne il dolore: molti di loro hanno parenti e amici in Ucraina. Ho notato che la condivisione reale è una "parola" molto più efficace».
Che rapporti intrattiene con la Chiesa ortodossa?
«Rapporti di conoscenza reciproca, di amicizia, e, talvolta, di collaborazione su questioni puntuali. Ho rapporti con il Patriarca due o tre volte all'anno soprattutto in occasione della liturgia ortodossa del Natale e della Pasqua. Con diversi vescovi e sacerdoti. Tra i laici ho soprattutto rapporti culturali o di attività caritative».
Concorda con chi dice che questa è anche una guerra tra confessioni cristiane?
«No, non concordo. Se dei cristiani si fanno la guerra, come è già avvenuto in passato, è perché hanno dimenticato di essere cristiani. Più spesso invece finiscono per essere usati da chi ha altri scopi».
O tra diverse giurisdizioni ortodosse?
«Tanto meno».
L'omelia pronunciata qualche giorno fa dal primate ortodosso Kirill, considerato vicino a Putin, ha fatto pensare che il conflitto iniziato in Ucraina contempli anche un attacco all'Occidente e alle sue libertà considerate eccessive e dannose. Qual è la sua valutazione in proposito?
«Penso che i responsabili delle diverse comunità cristiane non dovrebbero mettersi su un piano di difesa da un attacco di questa o quella parte del mondo. Personalmente non considero la secolarizzazione come un male da superare, ma come una circostanza, magari difficile, una prova, in cui mostrare la testimonianza cristiana, l'annuncio cristiano».
Papa Francesco ha ripetuto parole di condanna per la guerra in atto, definendola ripugnante, vergognosa, scandalosa. Ha detto che i potenti decidono e i poveri muoiono. Che eco hanno nella sua diocesi queste parole?
«Un'eco molto forte. Per questo ripeto ai miei fedeli ciò che disse, mi pare, una volta Giovanni Paolo II: "Quando i potenti di questa terra si incontrano - o si scontrano, aggiungo io - allora la Chiesa prega"».
Qual è il primo pensiero al mattino quando apre gli occhi?«Quando non sono troppo sfinito, il primo pensiero è di gratitudine perché Cristo c'è, e io ci sono, e quindi posso offrire la mia giornata a Lui. A volte questa coscienza è immediata, a volte occorre attendere la preghiera dell'Angelus, o il primo "veni Sancte Spiritus, veni per Mariam". Spesso accade con grande commozione quando mi metto di fronte al Santissimo, cosa che avviene di solito all'inizio del mattino. A volte mi aiuta un buon caffè».
Cosa c'è nelle sue preghiere?
«Innanzitutto la domanda della mia conversione, poi la domanda della conversione dei cuori a Cristo. Nelle mie preghiere c'è poi tanto dolore e tanta paura che vivono i miei fedeli, e di cui mi faccio carico.
C'è il desiderio di condividere, di accompagnare, più che di risolvere, magari magicamente, delle situazioni».
I cristiani come possono collaborare al superamento di questa crisi?
«Il contributo originale dei cristiani è essere una presenza costruttiva di rapporti nella società, essere portatori di speranza, essere come fiammelle nel buio. Una fiammella per quanto piccola accende tutta la notte in cui ci troviamo».
Come considerare i tentativi in atto di organizzare un incontro tra papa Francesco e il patriarca ortodosso Kirill? Potrebbe essere più significativo per la ricerca del dialogo e della pace un viaggio del Papa a Kiev?
«Penso che i tentativi di papa Francesco vadano letti nella prospettiva che egli mi sembra mostrare in occasione di tutti i conflitti: il Papa, se volete, è disponibile. In questo senso parlerei piuttosto di dialogo tra le parti che non di mediazione, ma sono miei pensieri. Un viaggio a Kiev per me è paragonabile al viaggio fatto in Repubblica Centroafricana, se non sbaglio. Bisognerà vedere se ci sono le condizioni per un viaggio del genere oggi a Kiev».
Quanta speranza possiamo attribuire a questo incontro?
«La speranza, soprattutto in certi momenti della storia, può poggiare solo in Dio. Un incontro porterà frutto solo a partire da questa speranza».
Per finire, dalla cattedrale metropolitana dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria quale messaggio vuole diffondere?
«Il messaggio che diffondo dal 24 febbraio è di rischiare sul perdono, cioè sulla possibilità di guardare l'altro non come un potenziale nemico, ma come amico. Per me la Madonna, "di speranza fontana vivace" come la chiama Dante, mettendo in bocca a san Bernardo quel bellissimo inno nel Paradiso, è il sostegno a guardare i miei fratelli uomini con questo sguardo. In queste settimane mi ripeto spesso e ripeto spesso quanto disse papa Francesco durante il suo viaggio in Iraq: "Da dove può cominciare il cammino della pace? Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l'inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo"».
LE VITTIME DI QUESTA GUERRA SONO I CIVILI
C’è un rischio di assuefazione all’orrore, provocato dalle immagini che ci arrivano da Bucha. L’analisi di Giovanni De Luna, saggista e professore di Storia all'Università di Torino.
«L'orrore delle immagini che arrivano da Bucha può anestetizzare i nostri sensi invece di indignarci. Il rischio dell'assuefazione nasce proprio dalla facilità con cui quelle foto arrivano a casa nostra. Lo scrisse già a suo tempo Paul Valéry: «Come l'acqua, il gas o la corrente elettrica entrano, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per rispondere ai nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini che si manifestano a un piccolo gesto e poi subito ci lasciano». Guardare è diventata un'abitudine come altre; guardiamo seduti a tavola, nel letto sotto le coperte, protetti dalla nostra inviolata domesticità, al sicuro da bombe e mitragliatici. E la morte perde la sua eccezionalità, la sua mostruosità, per diventare spettacolo da usare, consumare e poi rimuovere. Più le immagini tendono a proporsi in modo invasivo, totalizzante, a sedurre con l'immediatezza delle loro rappresentazioni, più noi reagiamo proteggendoci da un orrore tanto funesto quanto molesto. Ma è una protezione fasulla, come quella offerta dal fatalismo di chi si limita a scuotere la testa mormorando «è la guerra!», come se si trattasse di un'alluvione, di un terremoto, di qualcosa che non appartenga all'uomo, non dipenda dall'uomo, non sia decisa dall'uomo. O come quella di chi, di fronte agli scempi di quei corpi dilaniati e profanati, cede alla tentazione di un estetismo che porta a confinare le loro immagini in una sorta di catalogo da collezionista dell'orrore da consultare senza passione, senza indulgere a nessun tipo di emozione. E invece quelle immagini devono commuoverci, emozionarci. Emozione e conoscenza sono indissolubilmente legate. Se non ti emozioni non hai lo stimolo a conoscere. E senza conoscenza l'orrore diventa un'abitudine. Per conoscerle occorre che smettano di essere icone dell'orrore e ci parlino, ci parlino raccontando tutto quello che possono sui morti che ritraggono, sui fotografi che le hanno scattate, sulle loro intenzioni, su quali delle due parti contrapposte rappresentino. E' vero quelle immagini ci sono sempre state. Nelle prime guerre importanti di cui esistono resoconti fotografici, quelle ottocentesche di Crimea e la Guerra civile americana, e in tutte quelle che precedettero la Prima guerra mondiale, il combattimento vero e proprio era tecnicamente al di là della portata della macchina fotografica. La svolta ci fu con il perfezionamento dell'attrezzatura professionale, l'avvento di macchine fotografiche leggere, come la Leica, con pellicole da 35 mm. che potevano essere esposte 36 volte prima di dover ricaricare l'apparecchio. La Guerra civile spagnola (1936-39) fu così la prima a essere documentata integralmente da uno stuolo di fotografi professionisti, inviati in prima linea e nelle città bombardate, così come la guerra del Vietnam fu la prima seguita giorno dopo giorno dalle telecamere; da allora, le battaglie e i massacri filmati «in diretta» sono divenuti un ingrediente abituale della quotidianità televisiva. In Vietnam morirono 135 fotografi; questa cifra sottolinea l'ansia di documentare la verità, inseguendola fino alla linea di fuoco dei combattimenti, che segnò allora il rapporto tra la fotografia e la guerra; ne vennero fuori immagini destinate a suscitare forti emozioni e grandi passioni politiche, da quella del 1° febbraio 1968, scattata da Eddi Adams, con il colonnello Nguyen Ngoac Loan, capo della polizia sudvietnamita, colto nell'attimo in cui spara a bruciapelo a un prigioniero vietcong, a quella con la bambina nuda, ferita, in fuga dal villaggio bruciato dal napalm, scattata nel 1972 da Huynh Cong Ut. Poi, transitando oltre il Novecento, dopo la fine della Guerra Fredda guardare la guerra diventò un'altra cosa. E si fece concreto il rischio, denunciato per prima da Susan Sontag, che il profluvio di immagini che arrivava dai mille teatri di guerra potesse produrre solo assuefazione e rimozione. «Troppa luce abbaglia», diceva Pascal: la reiterazione ossessiva della morte prima la spettacolarizza, poi l'annulla. Per quanto tragiche possano essere, ci sono immagini che provocano come una reazione di rigetto, quasi che la vittima fosse colpevole del suo «eccesso» di sofferenza. L'«uomo dei consumi», plasmato dal mercato, che abita il mondo post-novecentesco, divora voracemente anche la morte messa in scena; l'unica alternativa a questo pigro ottundimento sembra dischiudere orizzonti ancora più perversi: le fotografie delle atrocità belliche possono solo suscitare proclami di vendetta e odio per il nemico. Per non soccombere a questi rischi bisogna guardare a quelle immagini come documenti, come una fonte di conoscenza. Quelle di Bucha raffigurano morti fatti dai russi durante i giorni dell'occupazione? O sono di morti ammazzati dagli ucraini nei giorni immediatamente successivi alla ritirata dei russi? Siamo presi in mezzo, frastornati dalle opposte dichiarazioni e, come molti hanno scritto, sappiamo solo che in guerra la verità è sempre la prima vittima. Ma sappiamo anche - e questa è una certezza - che quei morti sono dei civili e questo - chiunque abbia compiuto il massacro - ci racconta la terribile realtà di una guerra che, fin dal suo inizio, ha scelto i civili come bersagli privilegiati. Civili sono morti a Mariupol, Kharkov, Chernihiv, Izium e nelle altre città ucraine martoriate e occupate dagli invasori russi; civili sono stati rastrellati e infamati come collaborazionisti; civili son stati indirizzati in falsi corridoi umanitari per essere deportati; civili sono stati usati come ostaggi per proteggere le truppe combattenti. Questa è l'orribile modernità della guerra in Ucraina. Nessuna guerra simmetrica tra eserciti regolari che rispetti le antiche regole del diritto bellico, ma una mostruosa carneficina, una dimensione disumana in cui si entra solo per uccidere e per farsi uccidere. Nessuna assuefazione è possibile. Se non riusciamo a percepire lo scandalo di quelle immagini è perché qualcosa è morto anche dentro di noi e la guerra è pronta a cibarsi delle nostre anime morte».
SPINELLI: GLI USA VOGLIONO UNA LUNGA GUERRA
Secondo Barbara Spinelli, che scrive sul Fatto, il conflitto per gli Stati Uniti è una leva per cambiare l'ordine mondiale a proprio vantaggio e a spese dell'aggressore russo, ma anche degli alleati europei. Però i calcoli di Washington rischiano di risultare errati. La guerra “per procura” può rivelarsi un boomerang.
«Ci sono delle grandi trasformazioni che si fanno a caldo, nel mezzo di guerre e di propagande feroci e prolungate. Solo dopo molto tempo le trasformazioni o rivoluzioni vengono considerate inevitabili, e in alcuni casi necessarie. Parliamo della fine della dominazione geopolitica degli Stati Uniti, del possibile tramonto dell’egemonia globale del dollaro, infine di un conflitto tra produttori di gas e petrolio che scalzando gli abituali protagonisti sembra avvantaggiare in primis gli Stati Uniti, potenziale esportatore numero uno che profittando dei torbidi ucraini promette di rifornire l’Europa di gas naturale liquefatto in caso di blocco delle forniture russe (il Gnl è a tutt’oggi il più costoso e il più inquinante che esista). Tutto questo sarà possibile se la guerra in Ucraina continua a lungo, come ha ufficialmente auspicato Biden quando non si è limitato a chiamare Putin un macellaio, ma ha anche indicato le aspettative della sua amministrazione (non degli europei e dei civili ucraini, che in un conflitto protratto hanno tutto da perdere): “Per vincere questa guerra – così Biden a Varsavia – non ci vorranno giorni o mesi. Sarà una lunga lotta”, per come somiglia alla “battaglia per la libertà contro l’Urss, che durò non giorni o mesi ma anni e decenni”. Chi vorrebbe d'altronde trattare col Macellaio, anche se un giorno dovrà? In Europa nessun governo, se si escludono Ungheria e Serbia. Fuori dall 'Europa invece quasi tutti: in Asia, Africa, Paesi arabi, Israele, America Latina. Nell'Unione europea i popoli sono contrari a sanzioni e invio di armi, ma i governanti se ne infischiano, comportandosi come fossero personalmente in guerra. Draghi per esempio avviluppa l'obiettivo di pace in una delle sue frasi più sibilline e malriuscite: "Non siamo in guerra per seguire un destino bellico", il che vuol dire che prescindendo dal destino, di cui nessuno di noi sa un granché, l'Italia è in guerra. Non che i suoi colleghi europei siano meno sibillini, ma pochi sono i politici che come Enrico Letta esigono addirittura il blocco immediato delle importazioni di gas e petrolio russo (c'è qualcosa di infantile in Letta, come non fosse completamente adulto. Gli manca il pensiero sequenziale, il calcolo delle conseguenze concrete di quello che dici e fai. Giustamente Calenda lo invita a ragionamenti meno sgangherati sulla dipendenza italiana dal gas e petrolio russi). Verrà forse il giorno in cui sapremo qualcosa di meno impreciso su quel che è successo a Bucha presso Kiev: chi ha ucciso in quel modo? I russi hanno voluto lasciare questo ricordo nel ritirarsi dalla città il 30 marzo, cioè 4 giorni prima della scoperta del macello? Perché? Come mai il sindaco di Bucha ha annunciato il 31 marzo che in città non c'erano più truppe russe e non ha accennato ai civili uccisi in strada con le mani legate dietro la schiena? In attesa di prove genuine, ci concentreremo dunque sulle grandi trasformazioni indicate all'inizio. Abbiamo detto del gas liquefatto nordamericano. Resta da interpretare in questo quadro la richiesta russa di pagare le esportazioni energetiche in rubli e non più in euro o dollari. È una replica alle sanzioni sempre più pesanti subite da Mosca e anche all'intenzione Usa di sostituirsi in Europa ai fornitori russi. Gli europei hanno reagito denunciando giustamente una violazione degli accordi di forniture, ma senza badare a due elementi cruciali. Primo: le vie d'uscita esistono (si paga in due tappe: inizialmente in euro, convertiti poi in rubli). Secondo elemento: è una contromossa che non cade dal cielo, era nell'aria da anni. La posta in gioco è l'egemonia del dollaro come moneta di riserva globale: il suo tramonto potrebbe essere accelerato dalla guerra in Ucraina. L'inevitabilità di questo declino ha le sue ragioni d'essere. Non si può escludere la Russia da tutte le transazioni finanziarie (sistema Swift), bloccare le riserve della sua Banca centrale (643 miliardi di dollari), comminare sanzioni ad infinitum, puntare a un cambio di regime al Cremlino, senza prevedere che prima o poi questa politica danneggerà il fronte occidentale, Europa in primis, ma anche Washington, che sta infiammando il conflitto sperando che Putin e tutti i filistei cadano d'un sol colpo come colonne spezzate d'un tempio. Non esiste più da tempo l'ordine creato nel secondo dopoguerra a Bretton Woods, non c'è più fiducia nella stabilità del dollaro come riserva monetaria internazionale, visto che la moneta Usa riflette le volontà e gli interessi statunitensi da quando si è sganciata dall'oro. L'alternativa ancora non c'è. L'unica moneta che oggi ha elementi di stabilità, e che sia pure marginalmente tende a divenire rifugio, è quella cinese: lo yuan. Si capisce lo sgomento ma non la sorpresa degli europei: l'egemonia del dollaro è messa in questione da almeno 13 anni, e l'euro è troppo schiacciato sulla geopolitica Usa per rappresentare un'alternativa allettante come moneta di riserva internazionale. Già nel 2008 Mosca e Pechino reclamarono la"de-dollarizzazione" del sistema monetario internazionale e cioè una diversa unità di conto, che riflettesse l'interesse di altre potenze commerciali e non fosse al servizio dei soli interessi Usa. Era una rivolta contro la militarizzazione del dollaro e la domanda di un'unità di conto multipolare: un "paniere" di varie monete, in parte agganciato all'oro. Ne parlò nel marzo 2009 l'allora governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, che elogiò l'unità di conto (chiamata Bancor) immaginata negli anni 40 da Keynes e affossata poi dagli Usa a Bretton Woods. Il governatore della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, definì il dollaro uno "strumento inaffidabile" nel maggio 2019. Anche Brasile e India auspicano la de-dollarizzazione. In Italia ci fu chi appoggiò questa rivoluzione dei rapporti di forza monetari: nel febbraio 2010, Tommaso Padoa-Schioppa, ministro dell'Economia del governo Prodi, riesumò Bancor e disse che "l'orientazione monetaria globale era fissata o fortemente influenzata dalla Riserva federale Usa, esclusivamente in base a considerazioni nazionali". Dopo le rovine del Covid, la guerra in Ucraina sta cambiando i rapporti tra Stati, con effetti sconquassanti nella Russia che l'ha scatenata e in gran parte del pianeta che ne soffrirà le conseguenze (blocco delle forniture di energia, cibo, concimi, metalli). Ma con effetti tutt' altro che promettenti a Washington, che pretende di dominare il pianeta con quest' ennesima guerra per procura».
PUTIN VUOLE ANNIENTARE L’UCRAINA
L’Europa è diventata un campo di battaglia. Putin vuole distruggere l’Ucraina, gli Usa ingaggiano una guerra per procura. L’analisi di Alberto Negri sul Manifesto.
«Cadono le maschere. Quella indossata da Putin, padrino di un massacro e di crimini di guerra a ripetizione. Mosca sta conducendo una guerra totale, di annientamento. Non c'è un obiettivo politico o di governo del territorio ucraino. Come poteva sembrare all'inizio (e come dichiarava lo stesso Putin) ma l'intenzione di lasciare terra bruciata e di ottenere al massimo il controllo, se riesce, del collegamento via terra della Crimea al Donbass. Ma è caduta anche la maschera della Nato dove gli Usa sul campo di battaglia europeo conducono le danze per assestare alla Russia una sconfitta epocale con una guerra per procura usando gli ucraini come la loro fanteria. L'idea di fare dell'Ucraina, giorno dopo giorno, l'Afghanistan di Putin sembra sempre più concreta. I civili, in questa ottica di scontro strategico per la supremazia, sono le vittime «collaterali» di questo gioco al massacro, come del resto abbiamo visto in passato dall'Afghanistan, all'Iraq, dalla Libia alla Siria, dalla Palestina allo Yemen. La differenza questa volta è che le vittime le facciamo entrare in casa, prima, come sottolineava ieri nel suo editoriale sul manifesto Norma Rangeri, le tenevamo fuori anche se erano i profughi delle «nostre» guerre, americane e della Nato. Il massimo che si può sperare, dopo Bucha, è una tregua armata, non la pace. E il dopo Bucha, in attesa di video, foto e testimonianze di altri massacri, peserà assai, in una guerra che come spesso accade non ha una sola verità. In otto anni di relativa calma - tra la guerra del 2014, l'annessione russa della Crimea e il 2022 - nessuna sensata proposta di pacificazione dell'Ucraina, da Minsk in poi, ha avuto il minimo successo o riscontro, figuriamoci adesso. Ricordiamoci che alla vigilia della guerra abbiamo visto un corteo di presidenti, primi ministri, cancellieri, capi della diplomazia, arrivare a Mosca: un numero di visite pari ai fallimenti ottenuti perché un compromesso geopolitico e diplomatico era ormai irraggiungibile. Oggi nessuno, almeno sembra, ha intenzione di andare al Cremlino, lo stesso Putin ha sbarrato la porta e le espulsioni dei diplomatici, da una parte e dall'altra, sono un segnale evidente che lo strumento negoziale è in coma. La sensazione è che ci attendono tempi pericolosi. Erdogan si dà da fare per una mediazione ma Israele - preso dai suoi guai («terrorismo») - è caduto in un silenzio preoccupante perché probabilmente più dei turchi conosce Putin e soprattutto gli americani. L'ex capo del Mossad Eprhaim Halevi all'inizio della guerra scriveva su Haaretz che bisognava salvare la faccia a Putin: conosceva sicuramente più di noi le capacità, anche militari, di resistenza degli ucraini e la determinazione degli americani di punire Putin. Oggi non si sa più quale faccia salvare e come. I carri armati russi a Bucha, bruciati, sventrati, volati via come fossero di cartone, con i soldati inceneriti dentro, sono il simbolo della sconfitta russa nella battaglia di Kiev e della resistenza ucraina con le molotov, i droni e la cyberwar, già attuata nei primi giorni di guerra. Centinaia di civili massacrati qui e altrove sono diventati il bersaglio della frustrazione dei russi. Verità evidenti, altre negate e offuscate: ma quando cala la polvere della battaglia emerge l'orrore della guerra.
E a che cosa serve l'orrore? A fermare la guerra? No, chiaramente a continuarla. Lo vuole Putin che ha davanti due obiettivi: conquistare un pezzo della costa del Mar Nero, e punire la popolazione ucraina che gli si è schierata contro mentre immaginava che una buona parte lo sostenesse. Questa è stata la prima amara sorpresa per il leader del Cremlino. La seconda è stata che l'Ucraina, con l'appoggio decisivo degli Stati uniti, era già diventata un prolungamento dell'Alleanza atlantica, con un esercito di 200mila uomini, milizie e guardia nazionale comprese, e persino armi sofisticate. L'aviazione russa vola poco perché non ha davvero il controllo del cielo mentre le armi della contraerea ucraina riescono a colpire in volo missili e proiettili russi. L'aviazione russa ha perso già dozzine di aerei ed elicotteri mentre i carri armati eliminati dagli ucraini non si contano, sbriciolati dai Javelin: armi anticarro che possono colpire direttamente o in picchiata, hanno lasciato centinaia di carcasse sul terreno. La reazione dei russi è stata terrificante. Si chiama guerra totale alla russa: milioni di ucraini non hanno più una casa dove tornare. Ed è quello che volevano in fondo anche gli americani quando per due mesi avvertivano che Putin era pronto a invadere l'Ucraina. Non hanno però mosso un dito per evitare il conflitto. Qualcuno pensa che Putin sia caduto in una trappola. Non abbiamo ancora elementi per affermarlo e in ogni caso non costituisce una giustificazione. Se fosse stata una trappola però anche l'Europa ci è cascata: qui alla guerra totale non credeva quasi nessuno. Al massimo si pensava a un'operazione militare limitata al Donbass. Nessuno immaginava che il continente sarebbe diventato un campo di battaglia. Il mondo è tragicamente cambiato senza che noi facessimo nulla. Ci meritiamo il peggio? Speriamo di no, per gli altri è già arrivato».
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Guerra d'odio e di vendetta
buongiorno Alessandro, ti suggerisco di leggere l'intervista a >Karaganov su Newstatesman.
buon lavoro e come sempre complimenti