"I giovani maestri di amicizia"
Inizia il viaggio del Papa in Portogallo. I giovani in primo piano, ma c'è anche la tappa di Fatima sulla pace. Il Pnrr riformulato divide. Renzi rilancia il sindaco d'Italia. Evacuazione dal Niger
Con l’arrivo di papa Francesco decolla oggi la Giornata mondiale della gioventù in Portogallo, che in realtà è articolata in tanti appuntamenti. Ci saranno 330 mila giovani da 22 diverse nazioni. Stasera si tiene la Festa degli italiani. Prima della partenza di oggi il Papa è andato a pregare nella cappella di Santa Maria Maggiore dedicata all’icona “Salus Populi Romani” (Vedi Foto del giorno), com’è sua consuetudine, mettendo sotto la protezione mariana questo viaggio. Lo ha fatto già ieri, anche perché il 31 luglio è stata la festa di sant’Ignazio e il fondatore dei gesuiti celebrò proprio in quella cappella la sua prima messa da sacerdote, dopo un anno intero di preparazione dalla sua ordinazione. Coincidenze estive.
La stessa presenza fisica dei giovani spingerà Bergoglio in questa visita a focalizzare i temi del futuro sostenibile del pianeta ma anche della pace. Sono due ferite aperte nel mondo del 2023: l’emergenza provocata dai cambiamenti climatici che fa temere per l’equilibrio ambientale e la guerra in Ucraina, che non dà tregua col suo carico di morte. Fatima è una tappa obbligata del viaggio in Portogallo e va oltre la GNG. Quasi costringe ad un paragone con il futuro delle Nazioni e con la pace. Ci sono poi temi legati al Portogallo, cui accenna in modo interessante il Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’educazione, il cardinal Josè Tolentino de Mendonça, portoghese d’origine. In una bella intervista ad Avvenire il “ministro” vaticano che è succeduto a Gianfranco Ravasi, crea stamattina un ponte fra la Gmg di Lisbona e un altro grande appuntamento d’agosto: il Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini. La chiave è proprio quella della kermesse riminese di quest’anno: l’amicizia.
Dice infatti il cardinal Tolentino: “I giovani sono maestri di amicizia, senza gli amici non accetterebbero di iniziare alla Gmg che li collega tra loro e alla figura del Papa. C'è un'amicizia enorme che lega questa generazione di ragazze e ragazzi al Santo Padre, visto come un amico autorevole, capace di dire le parole di cui hanno bisogno per guardare alle grandi sfide dei ragazzi del futuro. Perché, come ricorda appunto il Papa, l'amicizia non è fatta di idee ma è vita condivisa. Sull'esempio di Gesù che ci ha detto: io vi chiamo amici”.
Sarà invece un futuro cardinale, il designato Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, a celebrare stamattina alle 11,30 la solenne celebrazione alla Porziuncola di Assisi, in occasione della Festa del Perdono (qui nel sito tutti i particolari). Il 2 agosto del 1216 San Francesco annunciò al popolo: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso!”. Indulgenza plenaria oggi in tutte le parrocchie d’Italia. Coincidenze estive.
I fatti che sono sui giornali di oggi riguardano soprattutto le discussioni sulla riformulazione del Pnrr. Uno studio dell’ufficio tecnico del Senato suona critico sulla linea scelta del governo e solleva le proteste delle opposizioni. Che fine faranno i progetti accantonati per i 15,9 miliardi a cui si rinuncia con la rimodulazione del Recovery? Sul fronte politico l’altra novità è costituita dal rilancio “costituzionale” di Matteo Renzi sul Sindaco d’Italia, che interviene in un dibattito aperto dalla stessa premier Giorgia Meloni. Da leggere l’inquadramento del problerma scritto dalla costituzionalista Anna Maria Poggi sul Riformista di oggi.
Le notizie dall’estero sono ancora dominate dalla guerra in Ucraina e dalla crisi in Niger. Droni di Kiev sono tornati a colpire il cuore di Mosca, dando l’impressione che questi attacchi si intensificheranno. Dal Niger fuggono gli occidentali, italiani compresi. Ma c’è la possibilità di un intervento militare francese. Se arrivasse, scrive Domenico Quirico sulla Stampa, sarebbe un enorme favore alla Jihad. Donald Trump è stato nuovamente incriminato, questa volta per l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio. Ma i guai giudiziari dell’ex presidente non sembrano intaccare la sua popolarità: non ci sono candidati davvero alternativi nel campo repubblicano.
Wael Farouq presenta la sua nuova rivista “Jusur”, che in arabo significa ponti e lo fa con un’intervista al Riformista. A proposito, vi invito a sentire tutti gli episodi della serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo, che si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo. Gli episodi sono dedicati a personaggi molto interessanti: Giorgio La Pira, Taha Hussein, Pierre Claverie, Enrico Mattei Germaine Tillion e Shlomo Dov Goitein. E ascoltandoli troverete anche un contributo dello stesso Wael Farouq.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae papa Francesco ieri pomeriggio nella Basilica di Santa Maria Maggiore, mentre affida alla Vergine la trasferta in Portogallo e tutti i ragazzi e le ragazze dei cinque continenti che parteciperanno alla Giornata Mondiale della Gioventù.
Foto Vatican News
DECOLLA LA GMG, OGGI ARRIVA IL PAPA
È la quarta Gmg di papa Francesco ma questa visita ha anche il sapore di una tappa storica al santuario di Fatima. È la prima volta nella storia che un Papa si reca in questo luogo mariano con una guerra europea in corso. Mimmo Muolo per Avvenire.
«Non c'è Gmg senza il Papa. E l'atterraggio di Francesco oggi a Lisbona fa decollare ulteriormente il programma di questa 37ª Giornata mondiale, la quarta (dopo quelle Rio, Cracovia e Panama) cui prende parte Jorge Mario Bergoglio. Il viaggio apostolico del Pontefice in Portogallo, il 42° del suo pontificato, ha un perimetro in realtà più ampio di quello dell'incontro con i giovani. Comprende, infatti la tappa di Fatima, sabato mattina e diversi altri momenti extra, a partire proprio da questa prima giornata, dedicata ai contatti con le autorità e la Chiesa locale, cui si rivolgerà i primi due fra gli 11 discorsi previsti. Si tratta in effetti della parte più istituzionale del viaggio. Ma non meno ricca di contenuti delle altre. Perché c'è attesa per quanto il Pontefice dirà nel Centro Cultural de Belém, che venne costruito tra il 1988 e il 1992 per essere la sede della presidenza portoghese della Comunità economica europea. Un palazzo, con vista panoramica sul fiume Tago, che oggi è sede di conferenze e di un museo d'arte contemporanea famoso nel mondo. Viene dunque spontaneo pensare che temi come la situazione europea, la panoramica sullo scenario mondiale, la questione ecologica e la difficile ricerca della pace possano avere argomenti del discorso. Così come nel pomeriggio, durante i vespri con i vescovi, i sacerdoti, i consacrati e le consacrate, i seminaristi e gli operatori pastorali nel Monastero dos Jeronimos, il Papa possa toccare i problemi e le prospettive della Chiesa locale, che sta cercando di ripartire dopo alcuni casi di abusi e soprattutto di riprendere il contatto con i giovani. Il programma della giornata prevede la partenza da Roma alle 7.50 e l'arrivo a Lisbona (base aerea di Figo Maduro) alle 10,00 ora locale, quando in Italia saranno le 11,00. Quindi l'accoglienza ufficiale da parte del presidente portoghese, Marcelo Rebelo de Sousa, e il trasferimento al Palacio Nacionale de Belem, dove avverrà la cerimonia di benvenuto e l'incontro privato con lo stesso presidente. Alle 12.00 (le 13.00 in Italia), il Papa si trasferirà Centro Cultural de Belém, per pronunciare il suo discorso, al termine del quale si recherà in nunziatura per il pranzo e un breve riposo. Quindi aa partire dalle 16.30, sempre in nunziatura, Francesco incontrerà il presidente dell'assemblea della Repubblica, Ernesto dos Santos Silva, e il primo ministro portoghese, Antonio Costa. Il secondo e ultimo appuntamento pubblico della giornata è alle 17.30 il già citato incontro con i vescovi, nella cornice del monastero reale di Santa Maria di Belém, detto dos Jeronimos, in quanto destinato all'Ordine di San Geronimo, il protettore dei marinai. Un complesso monumentale di grande valore, dove il 13 dicembre 2007 si svolse la cerimonia della firma del “Trattato di Lisbona” dell'Unione Europea. In sostanza si tratta quasi di una giornata per disegnare gli scenari di fondo sui quali si taglia la Gmg. Ieri il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, parlando ai Media vaticani, ha ricordato come il Papa nutra «molte aspettative per questa Giornata di Lisbona» e che «già in diversi videomessaggi ha invitato i giovani a unirsi a lui ea preparare l'evento ecclesiale soprattutto nella preghiera». E lo stesso Pontefice, ha aggiunto il porporato, «prega per tutti i giovani nella consapevolezza che questi incontri hanno una grande forza in sé, addirittura la forza di cambiare, per qualcuno, la vita». In generale, ha fatto notare Parolin, la scelta di Giovanni Paolo II «e stata indubbiamente profetica». La Chiesa, dunque, «deve sentirsi sempre più impegnata, a livello mondiale, in favore della gioventù, in favore delle sue ansie e delle sue sollecitudini, delle sue speranze e per corrispondere anche alle sue attese».
“L’AMICIZIA CHIAVE DEL RAPPORTO CON I GIOVANI”
Riccardo Maccioni sempre su Avvenire intervista il cardinal Josè Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione.
«I giovani stanno cambiando la Chiesa. Ma è l'intero Paese a vivere una stagione di trasformazione, con il corollario di energie fresche e pure di incognite che questo comporta. Il cardinale José Tolentino de Mendonça vede nella Gmg di Lisbona un punto d'arrivo e insieme di partenza per il suo Portogallo. «Da dieci anni a questa parte – spiega il porporato, prefetto del Dicastero vaticano per la cultura e l'educazione – uno dei segni più vitali e positivi della vita ecclesiale è legato al rinnovamento della pastorale giovanile, che ha portato a una vera e propria “rinascita” della presenza dei ragazzi, con il loro ardore, la loro gioia e la loro capacità di guardare al futuro. Nel mondo universitario, compreso quello civile, per esempio, si sono formati gruppi di studenti cattolici che hanno avviato processi di vera evangelizzazione.
Una ventata di novità.
I vescovi portoghesi si sono trovati davanti una generazione di giovani che nel cuore portano sogni, inquietudini e il desiderio di essere una forza di Chiesa che dal presente si collega al futuro. Quando ha presentato la candidatura a ospitare la Gmg il patriarca di Lisbona è stato molto chiaro nel dire che senza questa generazione giovane che sta rinnovando le strutture ecclesiali non avrebbe avuto il coraggio di affrontare l'organizzazione di un evento simile. In questo senso la Giornata è un punto di arrivo.
E insieme di partenza, mi sembra di capire.
Sì, c'è bisogno di ripartire, perché è in corso un cambio generazionale con quasi metà dei vescovi cambiati o che stanno per cambiare. E questo porta con sé la necessità di altri rinnovamenti. Penso al dramma degli abusi e alla consapevolezza di dover riguadagnare credibilità, ma anche alla capacità di coinvolgere i laici e di riprogrammare la Chiesa del XXI secolo, che deve avere una forte identità mariana essendo al tempo stesso samaritana, di servizio, “ospedale da campo ”, presenza che sa dialogare e non ha paura di abitare la frontiera.
Il rinnovamento non riguarda solo la Chiesa.
Il Portogallo non va più pensato come il villaggio “pacato”, rurale, omogeneo, cattolico di quarant'anni fa. Oggi è una realtà cosmopolita, urbana, dalla forte mentalità secolare. Si tratta di una sfida per la Chiesa, che deve reimparare ad abitare la trasformazione come presenza discreta e profetica che sa scoprire la propria rilevanza nel servizio, nell'umiltà, nella fedeltà alla Parola di Gesù.
Questa è una Gmg che ha una particolare attenzione alla presenza africana. Sarà anche l'occasione per guardare indietro, al passato coloniale?
Si tratta di un problema aperto, nel senso che con il Brasile oggi si è arrivati a una “narrazione”, a un rapporto improntato alla fratellanza mentre con i Paesi africani la questione dev'essere ancora affrontata culturalmente. La Gmg potrà essere l'occasione per un incontro fraterno. Però il Portogallo è ancora lontano dal porsi in profondità la domanda, dolorosa, su cosa è andato a fare e come si è comportato in Africa.
In questo campo non si respira cambiamento?
Ci sono nuove generazioni di storici che insistono sulla necessità di riflettere sul colonialismo.
In occasione della Giornata dei nonni e degli anziani, lo scorso 23 luglio il Papa ha rilanciato la necessità di un patto tra le generazioni.
Si prospetta come una Gmg importante anche in questo senso. È una dimensione veramente “fulcrale”. Voglio dire che oggi una generazione di giovani preparata accademicamente, pronta ad affrontare il mondo del lavoro e un percorso esistenziale, disponibile a spostarsi, è condannata alla precarietà. Chi ha 25-30 anni non riesce a essere autonomo economicamente e quindi a pensare al suo futuro. E questi ragazzi spesso vengono alleati proprio i nonni che li aiutano, li supportano, trasmettono coraggio, danno l'esempio, collaborano nella gestione familiare, ad esempio quando ci sono bambini piccoli. I nonni sono diventate figure assolutamente indispensabili nella vita quotidiana delle nuove generazioni.
Fin qui un patto che nasce dalla necessità. Ma esiste anche un aspetto più positivo.
Uso l'immagine della pianta che per vivere in pienezza ha bisogno di radici profonde e del coraggio dei rami che si stendono nelle foglie, nei fiori, nei frutti. Lo stesso vale per la nostra umanità, ben rappresentata nella metafora dell'albero dove si trova la successione cronologica che noi cogliamo in ogni attimo della nostra vita. Anche noi, come le piante, senza la saggezza delle radici non possiamo continuare a vivere.
In un'intervista ha detto che la sua prima “biblioteca” è stata la nonna.
Sì , perché lei che veniva da un cultura popolare di tradizione non scritta ma orale e mi ha riempito la testa, il cuore, l'intelligenza con il “sapore delle storie”. Quando vi ci immergiamo, non solo nel silenzio della lettura ma facendoci guidare dalla dolce voce di una nonna, quelle storie ci entrano dentro e non escono più, diventano una sorta di mappa del tesoro che portiamo sempre con noi.
Il suo ultimo libro è dedicato all'amicizia. La Gmg sarà l'occasione per viverla in profondità.
Nell'amicizia esiste solo futuro. Quando ci apriamo alla possibilità concreta di fratellanza con chi non conosciamo, comincia una storia di vita fatta di mutuo aiuto, di reciprocità. Una storia che cambia le condizioni del mondo, in cui si passa dall'indifferenza all'accoglienza, dall'ostilità all'ospitalità, dai muri di separazione all'incontro., alla celebrazione festiva sempre nuova, illuminante. I giovani sono maestri di amicizia, senza gli amici non accetterebbero di iniziare alla Gmg che li collega tra loro e alla figura del Papa. C'è un'amicizia enorme che lega questa generazione di ragazze e ragazzi al Santo Padre, visto come un amico autorevole, capace di dire le parole di cui hanno bisogno per guardare alle grandi sfide dei ragazzi del futuro. Perché, come ricorda appunto il Papa, l'amicizia non è fatta di idee ma è vita condivisa. Sull'esempio di Gesù che ci ha detto: io vi chiamo amici».
ANCORA DRONI UCRAINI SU MOSCA
Droni di Kiev tornano a colpire in territorio russo. Un grattacielo della capitale è colpito due volte in 48 ore. Il palazzo ospita molti importanti uffici governativi. Attacchi russi a Kharkiv e Kherson. Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera
«I droni ucraini devono sorvolare circa 600 chilometri di territorio nemico e dribblare il meglio dei sistemi antiaerei russi prima di raggiungere Mosca. Sarebbe sufficiente questa sola osservazione per evidenziare quanto i loro ripetuti attacchi degli ultimi due mesi nel cuore della capitale rappresentino uno smacco per Putin e i suoi generali. Se poi si dovesse scoprire che alcuni dei droni non arrivano dall'Ucraina, anzi sono stati addirittura lanciati da gruppi dell'opposizione o da cellule ucraine infiltrate nel territorio russo, la débâcle sarebbe ancora più grave. Si spiegano anche così l'imbarazzo e i rimpalli di responsabilità che filtrano evidenti dai portavoce del Cremlino. Ieri è successo ancora: per almeno la quinta, se non sesta volta dai primi di maggio, i droni di Kiev sono tornati a suonare il centro di Mosca. E, beffa delle beffe, per la seconda volta in 48 ore uno ha centrato il gigantesco palazzo di vetro nello Iq-quarter che ospita i quartieri generali di importanti uffici governativi: tra questi i ministeri dello Sviluppo Economico, quelli dello Sviluppo Digitale e delle Comunicazioni , oltre a quello dell'Industria e Commercio. I video diffusi in rete mostrano circa 150 metri quadrati di vetrate infrante e all'interno degli uffici bruciati. Una parte dei dipendenti adesso lavora da casa in remoto, come ai tempi del Covid. Proprio l'emergenza come durante la pandemia evidenzia la gravità del problema. I media locali in un primo tempo avevano minimizzato. Ma adesso anche le televisioni ufficiali si chiedono come sia stato possibile. La zona danneggiata è situata a soli 7,2 chilometri dalla Piazza Rossa. A Mosca tanti ricordano lo shock della notte del 4 maggio, quando due droni colpirono il tetto del Cremlino. I danni fisici furono irrisori, quelli morali vanno ancora valutati appieno: cinque giorni dopo le manifestazioni tradizionali e la parata per la festa della vittoria nella Seconda guerra mondiale furono molto ridotti. Oggi è lo stesso sindaco di Mosca, Sergei Sobyanin, a sottolineare che i droni nemici hanno colpito lo stesso luogo in due giorni. A suo dire, non ci sono vittime, domenica scorsa era rimasto ferito un guardiano. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, precisa che altri due droni sono stati intercettati e abbattuti nelle periferie, ma sulla dinamica degli attacchi rimanda al ministero della Difesa. E la cosa si replica per i raid ucraini sulla Crimea. Qui pare che tre droni siano stati abbattuti da due navi della flotta del Mar Nero. Gli ucraini mirano anche al porto di Sebastopoli. I russi comunque non stanno a guardare: proseguono gli attacchi quotidiani sull'Ucraina. Missili e droni sono tornati a suonare Kharkiv, nel Nord-est, causando almeno un ferito. Preso di mira anche un ospedale a Kherson, dove un giovane medico è stato ucciso. Kiev sottolinea che i bombardamenti russi lunedì hanno ucciso 12 civili e ferito 104 persone».
“IL NAZIONALISMO È UN’ACCUSA INGIUSTA”
Giacomo Gambassi intervista il vice rettore dell'università cattolica di Leopoli in Ucraina Myroslav Marynovych, che spiega: “La guerra finirebbe se solo il Cremlino lo volesse”.
«Ciò che sta facendo papa Francesco per liberare i prigionieri di guerra è impressionante. Stupisce anche la modestia con cui compie quest'opera di misericordia». Il vicerettore dell'Università cattolica di Leopoli, Myroslav Marynovych, conosce bene il ruolo del Pontefice di fronte a un dramma che in Ucraina tocca migliaia di famiglie. Anche lui ha partecipato a un'udienza privata in cui sono state consegnate a Francesco le liste di nomi di donne e uomini, civili e militari, catturati dai russi. «È il mio giovane amico Denys Koliada che ha visto il Pontefice diverse volte e ha affidato nelle sue mani molti casi. Sono per la maggior parte gli stessi parenti dei detenuti a scrivere lettere personali al Papa per chiedere il rilascio dei propri cari». Marynovych sa sulla pelle che cosa significhi finire in carcere per ordine di Mosca. Per due volte durante il regime sovietico è stato arrestato dal Kgb: aveva reso omaggio al padre della patria ucraina Taras Shevchenko. E ha trascorso dieci anni in un campo di lavori forzati. Attivista dei diritti umani, adesso di anni ne ha 74 ed è una delle voci laiche più ascoltate che esprime il mondo greco-cattolico.
Professore, la missione di pace del cardinale Matteo Zuppi ha già fatto tappa a Kiev, Mosca e Washington. Che cosa attendersi?
Come ucraini apprezziamo molto l'iniziativa. Ringraziamo il Papa e il cardinale perché a noi sta a cuore la liberazione dei bambini deportati. Tuttavia, all'inizio la società ucraina aveva percepito che compito principale della missione fosse di “riconciliare i due popoli”. Tutto ciò aveva causato sorpresa, in quanto l'Europa in molti casi non comprende la natura di questa guerra: non è un conflitto tra popoli fratelli, ma l'invasione di uno Stato per cancellarne l'identità. Putin vede la riconciliazione con l'Ucraina soltanto come scomparsa della nostra nazione.
Il Papa è già mediatore umanitario per il rilascio dei prigionieri. E adesso anche sul versante dei più piccoli.
La deportazione forzata dei bambini è un crimine che ha portato la Corte penale dell'Aia a emettere i mandati di cattura per il presidente Putin e per il commissario presidenziale per i diritti dei bambini, Maria Lvova-Belova. Sarei felice se il Papa e la Santa Sede riuscissero a convincere il Cremlino a fermare questi crimini.
C'è chi sostiene che un freno all'apertura delle trattative sia il nazionalismo ucraino.
La propaganda russa ha diffuso l'idea del “nazionalismo e fascismo ucraini” già prima dello scoppio della guerra. Anche la protesta di Maidan è stata descritta come “nazionalista”, sebbene la società ucraina non abbia permesso alla nostra democrazia di scivolare verso l'autoritarismo di stampo russo. Oggi nessuno cerca la pace più degli stessi ucraini. E la guerra finirebbe immediatamente se il Cremlino lo volesse. Invece, nella mente di Putin, i negoziati sono sinonimo di accettazione della resa da parte dell'Ucraina. Per capire la posizione ucraina bisognerebbe mettersi al nostro posto. Gli italiani gradirebbero una pace che li faccia diventare austriaci o francesi? La Russia ha violato tutti i possibili accordi con l'Ucraina, anche quelli riguardanti la sua integrità territoriale. Da dove viene allora la certezza che questa volta Putin rispetterà i patti? E perché, mi chiedo ancora, gli europei non si fidano della nostra intuizione secondo cui una tregua con Putin oggi porterà a una nuova guerra con l'Ucraina domani? Anche russi come Mikhail Khodorkovsky mettono in guardia su questo.
Non abbiamo il diritto, e anche il dovere, di realizzare una pace giusta che sia garanzia per le future generazioni?
In Ucraina si ritiene che l'aggressione russa abbia anche modificato la visione cristiana alla costruzione della pace. Perché? Da tempo si tende a sostituire il concetto di “guerra giusta” con quello di “pace giusta”. Ma, come mostra la guerra russo-ucraina, anche l'idea di “pace giusta” rischia di non rispondere a tutti i problemi che si presentano: talvolta il termine “pace”, in astratto, può nascondere interessi ben lontani dalla stessa pace. Non è possibile consentire una pace che renderebbe l'aggressione un metodo efficace per appropriarsi di territori stranieri. La pace giusta è una pace duratura. Inoltre, più crimini di guerra commettono la Russia in Ucraina, più significativi diventano gli argomenti etici nella valutazione degli eventi. Pertanto le democrazie mondiali dovrebbero risolvere correttamente il dilemma “sicurezza-valori”. Se i politici ignorano i valori attraverso ingiuste concessioni all'aggressore, egli diventa arrogante ed è minore la sicurezza che otteniamo».
SCONTRO SUL PNRR
Veniamo alle vicende italiane. I tecnici del Parlamento scrivono un documento in cui sostengono che mancano le coperture alternative ai progetti che dovevano essere finanziati con il Pnrr. Schlein: fermatevi, siamo pronti ad aiutarvi. Andrea Ducci per il Corriere.
«La revisione del Pnrr si conferma una spina nel fianco del governo. A fornire munizioni alle opposizioni e ai sindaci, contrari alle proposte di modifica approvate in cabina di regia la scorsa settimana, è da ieri anche il dossier del Servizio studi della Camera sul «Monitoraggio dell'attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza». Il documento indica che il progetto di revisione del Pnrr predisposto dall'esecutivo non specifica «quali saranno gli strumenti e le modalità attraverso i quali sarà mutata la fonte di finanziamento delle risorse definanziate dal Pnrr». In ballo c'è il destino di 15,9 miliardi di euro. Quanto basta per alimentare una sfilza di attacchi al governo e al ministro per le Politiche europee e il Pnrr, Raffaele Fitto, che proprio ieri ha trascorso la giornata tra Camera e Senato (durante l'approvazione della risoluzione di maggioranza) per riferire al Parlamento sulle modifiche al Pnrr. Il ministro La presenza in Aula consente a Fitto di rivendicare «con forza all'azione del governo e del presidente del consiglio Meloni i risultati raggiunti». Durante il suo intervento il ministro segnala la risoluzione di maggioranza che impegna il governo «a trasmettere la revisione del Pnrr, comprensiva del capitolo RePower Eu, alla Commissione europea, e ad assicurare il pieno coinvolgimento del Parlamento, nonché la leale collaborazione con le Regioni e gli enti locali». Un passaggio quest'ultimo per cercare di tacitare le proteste dei sindaci preoccupati per il definanziamento di 13 miliardi di euro di interventi. Ma a innescare un nuovo fronte è, come detto, il dossier del Servizio studi della Camera. Secondo i tecnici di Montecitorio occorrerà indicare come verranno recuperate le coperture per i quasi 16 miliardi di euro che «il governo si propone di definanziare, totalmente o parzialmente, dal Pnrr. Tali misure devono essere rifinanziate con altre fonti». Nel documento viene ripetuto che «la determinazione di tali strumenti e modalità (di individuazione dei fondi, ndr) appare opportuna soprattutto con riguardo ai progetti che si trovano in stadio più avanzato. Tale determinazione appare fondamentale, inoltre, al fine di verificare che le fonti alternative di finanziamento dispongano di una adeguata dotazione di competenza e di cassa nell'ambito del bilancio dello Stato». Ad attaccare è la segretaria del Pd, Elly Schlein. «Caro ministro Fitto, ci avete fatto attendere per 10 mesi queste modifiche di cui parlate da un anno, vi abbiamo chiesto di discuterle, niente. Le abbiamo ascoltate dalla sua conferenza stampa. Il Parlamento è stato esautorato», lamenta Schlein, che però si dice disponibile a lavorare a fianco dell'esecutivo. «Siamo preoccupati per il Paese. Se volete condurre in porto il Pnrr noi ci siamo, tifiamo per l'Italia e vogliamo metterci alla stanga: a voi la possibilità» di cambiare registro dando udienza ai sindaci e alle opposizioni. Più drastico il leader M5s, Giuseppe Conte, che constata: «Dalla relazione di oggi alla Camera emerge chiaramente che sul Pnrr che serve per la nostra sanità, gli asili, lo sviluppo economico e l'ambiente è “buio Fitto” per il governo». Anche il leader di Azione, Carlo Calenda, non va per il sottile. «La marea di chiacchiere, giustificazioni, recriminazioni sul Pnrr, nasconde un punto e uno solo: siamo incapaci di gestire, implementare e spendere. Per questo stiamo fallendo l'obiettivo. Bene". Il quadro tratteggiato dall'opposizione e dai tecnici della Camera viene respinto al mittente dallo stesso Fitto, a sua volta difeso in blocco dalla maggioranza. «Non sono preoccupato dei rimproveri, ma del fatto che il governo si trova a non poter rendere questi interventi e di perdere queste risorse», ammette Fitto, che non si stanca di ripetere: «Non c'è nessun definanziamento, non c'è nessuno che è impazzito. Mi sfugge la ragione per cui dovremmo proporre la revoca dei finanziamenti delle misure sul dissesto o per i beni confiscati alla mafia».
IN ITALIA IL LAVORO C’È. NUOVO RECORD
I numeri del lavoro nella rilevazione mensile dell’Istat: il nostro Paese non aveva mai visto tanti occupati. A scarseggiare sono invece redditi e produttività. Pietro Saccò per Avvenire.
«L'Italia non ha mai avuto così tante persone al lavoro. Le rilevazioni mensili dell'Istat dicono che a giugno il numero di occupati tra i residenti di età compresa tra i 15 ei 64 anni è salito ancora: grazie agli 83mila occupati in più rispetto a maggio, il totale raggiunge i 23,59 milioni di persone . È un nuovo record, ma questo era quasi scontato: è dallo scorso dicembre che ogni mese il numero di occupati in Italia segna un nuovo primato. Sono ai massimi storici anche il tasso di occupazione, cioè la quota di occupati sul totale dei residenti, e quello di attività, che include anche chi non lavora ma è pronto a farlo: il primo è salito dal 61,3 al 61,5% , il secondo dal 66,4 al 66,5%. Il tasso di disoccupazione non è ai livelli più bassi di sempre, ma è comunque modesto: siamo al 7,4% contro il 9,2% medio dell'ultimo decennio. Anche volendo andare più a fondo per inoltrarsi nei freddi numeri dell'Istituto nazionale di statistica non si trovano dati che smentiscono questa immagine di un Paese dove il lavoro non è mai stato così abbondante. Sono ai massimi storici i lavoratori dipendenti (18,55 milioni) e tra loro è record anche per il numero di occupati con contratti a tempo indeterminato (15,55 milioni). I dipendenti a tempo determinato sono invece 3 milioni e gli autonomi poco più di 5 milioni. La crescita degli occupati prosegue malgrado il declino demografico abbia ridotto la popolazione in età da lavoro, che aveva raggiunto un massimo di 39,5 milioni di persone nel 2011 per poi calare sotto quota 39 milioni nel 2016 e sotto i 38 milioni nel 2022. Anche questo parametro andrebbe comunque un po' aggiornato, perché secondo le rilevazioni Istat ci sono almeno 700mila persone in Italia che lavorano pur avendo più di 65 anni (d'altra parte l'età per la pensione di vecchiaia è fissata a 67 anni). È anche vero che basta poco per essere considerati occupati secondo i parametri utilizzati dall'Istat, che sono quelli standard a livello internazionale: è sufficiente avere lavorato un'ora nella settimana in cui gli addetti dell'istituto conducono le loro interviste a campione tra la popolazione. Ma anche se si guarda il numero di ore lavorate, il migliore indicatore per misurare la reale domanda di lavoro, il quadro resta quello dei record: l'indice per i settori dell'industria e dei servizi nel primo trimestre 2023 è a 123,3 punti, il massimo storico e il 23,3% in più dell'anno base, il 2015. Eppure questi primati del lavoro non sono accompagnati da un boom economico. Il Pil italiano resta in una situazione di generale stagnazione, mosso più che altro da spinte che arrivano dall'esterno (prima la pandemia, poi le risorse del Pnrr). Senza questi choc, positivi o negativi che siano, il prodotto interno lordo italiano cresce eo cala di pochi punti decimali. Anche se si lavora sempre di più. Questo accade perché lavorare non basta, occorre farlo in maniera produttiva. E qui si torna allo storico problema italiano. Tra il 1995 e il 2021, ha calcolato ancora Istat, in Italia la produttività del lavoro è cresciuta in media dello 0,4% all'anno, contro una media europea dell'1,5%. In Francia e Germania la crescita media della produttività è stata superiore all'1%, più del doppio di quella italiana (e di quella spagnola). Allo stesso tempo, questa grande disponibilità di lavoro non sembra avere migliorato molto la condizione economica delle famiglie. E qui c'è l'altro punto problematico, strettamente legato a quello della produttività: la scarsità delle retribuzioni, che anche prima dell'impennata dell' ricchezza in molti casi non permettevano uno stile di vita soddisfacente alle famiglie. Non soltanto nelle situazioni estreme dei working poor, cioè le persone che restano povere nonostante abbiano un lavoro (in Italia si stima che siano circa 3 milioni) ma anche in quelle dei lavoratori medi: secondo le ultime rilevazioni di Eurostat, una coppia di lavoratori italiani che ha due bambini ha un reddito medio lordo di circa 48mila euro, contro gli oltre 62mila euro medi della zona euro, i 63mila di una coppia equivalente francese e i 75mila euro lordi di una coppia tedesca».
RENZI RILANCIA IL SINDACO D’ITALIA
Intervista di Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera a Matteo Renzi, che ieri ha riproposto la sua riforma istituzionale di premierato.
«Matteo Renzi, lei propone l'elezione diretta del premier: in che consiste?
«Semplice: il cittadino elegge il capo del governo come elegge il sindaco. Non è solo una mia proposta: è l'impegno che il Terzo polo, tutto unito, ha messo nel programma. Si tratta di ripristinare il potere al “cittadino arbitro” come lo chiamava Ruffilli. Inutile lamentarsi dell'astensionismo se poi uno va a votare e il suo voto non conta. Pensi alla ultime elezioni spagnole, ad esempio. Eleggere direttamente il premier significa difendere le istituzioni in un momento di crisi della democrazia nel mondo».
È una mano tesa a Meloni?
«Sulle riforme si lavora insieme, maggioranza e opposizione. Quando ero premier hanno fatto fallire la riforma pur di attaccarmi: non farò come loro. Quando la Meloni era all'opposizione mi attaccava tutti i giorni sull'euro, sulla Nato, sulle trivelle, sull'immigrazione. Io sono e resto all'opposizione di questo governo, ma se su questi temi lei ha cambiato idea, sono felice. Non si chiama inciucio, si chiama politica».
Calenda dice no all'elezione diretta.
«Il programma elettorale del Terzo polo lo ha firmato Calenda, non io. C'era l'elezione diretta del premier. A forza di cambiare idea Carlo smentisce anche se stesso».
Azione, ma anche il M5S, vi attaccano perché non chiedete le dimissioni di Santanchè.
«Io sono all'opposizione e anche oggi voterò contro la fiducia al governo. Sfiducia politica a tutto il governo, Santanché inclusa. Ma non chiedo le dimissioni per un avviso di garanzia. Voto contro il governo per ragioni politiche, non giustizialiste. Capisco le polemiche dei Cinque Stelle che su questi temi sono rimasti giustizialisti come ai vecchi tempi. Azione invece ha fatto la nostra stessa scelta: hanno cambiato idea su Twitter, non in Senato».
Calenda vi attacca perché Boschi, Bonifazi e Nobili sono andati a cena con Santanchè.
«Il mondo va a pezzi dal Niger all'Ucraina. L'aumento dei prezzi mette in ginocchio il ceto medio. L'Europa è a un bivio: o si rilancia o muore il sogno dei padri fondatori. Davanti a questi problemi, mi permetterà di non interessarmi alle cene di Bonifazi o di Richetti. Ognuno va a cena con chi vuole. Attaccare gli alleati per una cena non mi sembra lungimirante e nemmeno liberale. Io combatto contro sovranisti e populisti, Calenda mi attacca. È un problema suo: io l'ho voluto ministro, ambasciatore, candidato del Terzo polo. Se dopo dieci anni di collaborazione lui ritiene che il fatto politico su cui caratterizzarsi sia il derby Capalbio-Twiga è un problema suo».
Perché tiene tanto alla Commissione sul Covid?
«È vero: ci tengo tanto. E ci tengo perché non ho paura della verità. La verità sui soldati russi chiamati in Italia da Conte, sulle mascherine e le provvigioni, sui banchi a rotelle e le scelte sull'edilizia scolastica, sulle riaperture, sulla campagna di vaccinazione. E a chi dice che le commissioni di inchiesta non servono, dico: andate a parlare con la famiglia di David Rossi e poi ne riparliamo. Azione e Italia viva hanno votato a favore di questa proposta alla Camera. Noi non cambieremo idea al Senato».
Mattarella ha espresso perplessità.
«Mattarella ha ricordato l'articolo 82 della Costituzione. E ha fatto benissimo. Ma il nostro presidente viene dalla scuola di Leopoldo Elia: mai farebbe uno sconfinamento di campo. Lui è un bravo arbitro che ricorda le regole ai giocatori. I quali devono dimostrare di saperci fare con il pallone, non devono tirare la giacchetta dl direttore di gara».
Perché non ha firmato la proposta sul salario minimo, che nel 2018 aveva sponsorizzato?
«Perché la proposta di Conte e della Cgil prevede l'istituzione di un fondo pubblico per finanziare questa misura. Che significa? Che per fare il salario minimo si alzano le tasse a tutti gli altri lavoratori. A me sembra sbagliato. Fare le riforme aumentando le tasse riesce a tutti. Il Jobs Act, gli 80 euro, Industria 4.0, l'Irap sono riforme che noi abbiamo fatto senza aumentare le tasse».
Invece appoggia la proposta Cisl sugli utili ai lavoratori.
«È una proposta saggia: se l'azienda va bene, è giusto che gli utili dati ai lavoratori siano detassati. Così si aiuta il ceto medio. Su questa vicenda mi sento molto più vicino alla Cisl che alla Cgil. Non mi dispiace».
È vero, come dicono, che mira a soffiare FI a Tajani?
«Una follia. Chi lo dice soffre il caldo, Caronte ha fatto più danni del previsto».
Che farà alle Europee?
«Quello che facciamo da anni: smentire quelli che ci vogliono in crisi. Italia viva sta molto bene. Eravamo 14 parlamentari, siamo in 16, il prossimo anno saremo venti. A ottobre andiamo a congresso. E alle Europee aiuteremo i riformisti a sconfiggere sovranisti e populisti».
RENZI RILANCIA IL SINDACO D’ITALIA 2
Angelo Picariello per Avvenire analizza le reazioni e anche le difficoltà con Carlo Calenda.
«Firmo qui di fronte a voi la proposta di legge di revisione costituzionale che il governo non ha avuto la forza di fare in nove mesi. Chiacchiera, chiacchierava ma non la fa, allora la presente io: “Disposizioni per l'introduzione dell'elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri”». La “mossa” di Matteo Renzi va in scena in una sala Nassirya del Senato gremita di giornalisti telecamere, nella consapevolezza che il leader di Italia viva non è uno che può lasciare a bocca asciutta la stampa convocata a inizio agosto. Una proposta per stanare il governo in difficoltà nel portare avanti insieme la riforma presidenziale targata Meloni e quella dell'autonomia spinta dalla Lega, che incontra mille resistenze in aree in cui il consenso del partito della presidente del Consiglio è molto forte e radicato. Una “mossa”, questa, che non punta solo a mettere in mora il governo ma anche l'alleato, con il quale cala il gelo, forse definitivo. «Cosa pensa Calenda? L'elezione diretta del premier era sul nostro programma. A Carlo capita di dare risposte su quello che penso io, ma io non mi permetto di dare risposte su quello che pensa lui». È la fotografia, nemmeno dissimulata, di una incomunicabilità ormai totale fra due partiti che avevano fino a poco tempo fa la prospettiva di presentarsi insieme alle Europee. La coordinatrice di Italia via Raffaella Paita, in serata aggiunge del suo. Questa proposta «Carlo Calenda l'ha raccontata e difesa nelle piazze durante la campagna elettorale. Se oggi pur di attaccare Renzi smentisce anche se stesso è un problema suo, non nostro. Calenda passa la giornata ad attaccare Italia viva, sembra ossessionato». Chiude la partita proprio Calenda, in serata: «Non firmerò la proposta di Renzi sul premierato, siamo per l'indicazione del presidente del Consiglio ma non per l'elezione diretta», spiega il leader di Azione. Per un'altra proposta di Renzi, “Italia sicura”, è stata chiesta invece la calendarizzazione al Senato in I Commissione. Mira al contrasto al dissesto idrogeologico. Renzi attacca il ministro dell'Ambiente Pichetto che al Festival di Giffoni si è commosso. «Tutti a dire: che bello avere un ministro così sensibile. Io vado controcorrente. Un ministro che si commuove dimostra tutta la sua umanità. Ma se il giorno in cui tu piangi per il futuro del Pianeta, il tuo governo taglia 16miliardi dal Pnrr su prevenzione e rischio idrogeologico, le tue sono lacrime di coccodrillo. Sbaglio? Rimettete in piedi “Italia Sicura” invece di piangere». La terza proposta, infine, aderendo a una iniziativa della Cisl, punta alla «partecipazione al lavoro per una governance di impresa partecipata dai lavoratori. Vuol dire che se fai un bel guadagno a fine anno, detasso l'utile se va in tasca ai lavoratori. Uno strumento molto potente - lo definisce Renzi - contro le disuguaglianze». Insiste sulla commissione d'inchiesta sul Covid: «L'ho chiesta dall'inizio e non ci rinuncio». Sulla giustizia sta col governo: «La giustizia giusta non ha colore politico, ma è un'esigenza di tutti gli italiani». Ma sul resto non è tenero, con Meloni. «Si parla tanto di salario minimo: ma al ceto medio chi ci pensa? Ricordiamoci sempre: questo governo ha aumentato la benzina per dare soldi alle squadre di serie A. E per me questa è la dimostrazione più netta di come governino i populisti».
POGGI: SI APRA IL DIBATTITO
La costituzionalista Annamaria Poggi sul Riformista di oggi traccia un quadro per comprendere l’iniziativa istituzionale del leader di Italia Viva.
«Ieri dalla Sala stampa del Senato è partito ufficialmente il dibattito politico sulla riforma costituzionale della forma di Governo. Una riforma più volte annunciata dal Governo, in realtà già dalla campagna elettorale di Giorgia Meloni, ma al momento ancora non formalizzata in un testo. Battendo tutti nei tempi, in primis lo stesso Governo, il Senatore Renzi ha presentato un ddl focalizzato sull’aspetto più rilevante del mutamento della forma di Governo: l’elezione e i poteri del Presidente del Consiglio. Nel nucleo essenziale essa prevede a) l’elezione a suffragio universale diretto del Presidente del Consiglio dei ministri contestuale all’elezione delle Camere; b) il rinvio del meccanismo elettorale ad una futura legge elettorale; c) l’assunzione da parte del Presidente così eletto della piena responsabilità politica del Governo attraverso, in primo luogo, la nomina e revoca dei ministri; c) la permanenza del rapporto fiduciario con le Camere: tolta la fiducia iniziale (conseguente all’elezione diretta) il Parlamento può sempre, nell’arco della legislatura porre fine all’esperienza del governo; d) la previsione della regola del simul/simul: la sfiducia del Parlamento al Presidente eletto interrompe la legislatura e si torna a votare. E’ poi previsto un meccanismo assai interessante e originale: considerata l’esigenza di non sottoporre l’Esecutivo a continui rischi di sfiducia, nel caso di voto contrario del Parlamento ad un provvedimento su cui è posta la questione di fiducia, il Presidente del Consiglio può chiedere al Presidente della camera interessata di ripetere la votazione a breve giro (già il giorno successivo). Il modello è quello che Renzi ha più volte ribattezzato del “Sindaco d’Italia” che ha avuto il pregio di rendere stabili i governi locali. Provo a riassumere alcune motivazioni per cui ritengo che una tale proposta costituisca una forma interessante di razionalizzazione della forma di governo parlamentare/assembleare che andrebbe seriamente considerata dalle altre forze politiche. La prima è che la crisi della democrazia dei partiti ha prodotto una ormai permanente difficoltà del meccanismo elettorale di produrre unità nel momento elettorale. Un nuovo assetto costituzionale non può prescindere dal riportare al centro il cittadino “arbitro”, secondo la bella ed efficace espressione di Roberto Ruffilli. Nella proposta Renzi il cittadino torna arbitro ed il suo voto conta davvero, poiché individua chi governerà presumibilmente per 5 anni. La seconda è che le coalizioni che si presentano alle elezioni sono ormai divenute cartelli elettorali che hanno l’unico obiettivo di vincere e non di governare e che dimenticano il giorno dopo il programma che hanno presentato agli elettori. Con questa proposta, invece, si tolgono alibi al Presidente eletto che non può nascondersi dietro veri o presunti ostacoli alla realizzazione del suo programma che dipende dalla capacità che avrà di comporre la squadra di governo e di guidarla. La terza è che il Presidente del Consiglio non ha poteri reali sulla “sua” maggioranza e interlocuzione reale con il Parlamento come istituzione e tale debolezza si riverbera in debolezza nel contesto europeo e internazionale. Un Presidente che ha dinanzi 5 anni ha ragionevole continuità temporale di relazioni e possibilità di essere preso “sul serio” nel contesto internazionale. La quarta è che tale debolezza obbliga il Presidente della Repubblica a fare continuamente da stampella al Presidente del Consiglio e inevitabilmente conduce verso una torsione dello stesso ruolo presidenziale: è la seconda volta che rieleggiamo un Presidente della Repubblica. Il che dovrebbe far riflettere sulle patologie orami irreversibili dell’attuale sistema politico e parlamentare. Due avvisi ai naviganti in conclusione. Il primo è che nessuna riforma costituzionale ha, in se e per se, poteri miracolosi e nessuna è così perfetta da non comportare rischi. Tuttavia è la direzione che conta: la razionalizzazione della forma di governo parlamentare (con rafforzamento del Presidente del Consiglio) è ormai ritenuta da tutti indispensabile. Il secondo è che le riforme che durano ed hanno successo sono quelle condivise: occorre dunque un grande patto e lo spirito di operare “sotto il velo di ignoranza” e per il solo bene comune».
NIGER, PARTONO GLI EUROPEI
Niger, partono gli europei. Mentre il Mali e il Burkina Faso sono pronti a difendere i golpisti. Si teme lo scontro armato, prime evacuazioni per italiani e francesi. Alessandra Muglia per il Corriere della Sera.
«Passano i giorni e la tensione cresce. Resta poco tempo per poter escludere uno scontro armato in Niger: sabato scade l'ultimatum lanciato ai golpisti dagli Stati africani occidentali dell'Ecowas che hanno minacciato di far fronte alla forza se il presidente Mohamed Bazoum non verrà reintegrato. Una decisione apprezzata da Stati Uniti e Unione europea che temono la caduta dell'ultimo baluardo di democrazia nel Sahel, mentre il club dei leader putschisti, con Mali e Burkina Faso in prima fila, ha avvertito ieri che «un intervento militare in Niger per riportare al potere Bazoum equivarrà per noi a una dichiarazione di guerra». In assenza di (buone) notizie sul fronte delle trattative portate avanti dai mediatori, è scattata la corsa a far rimpatriare gli stranieri, rimasti intrappolati dopo la chiusura dello spazio aereo. A fare da apripista, la Francia, primo bersaglio dell'ostilità diffusa nel Paese africano per il suo passato coloniale e quel che è seguito, presa di mira nelle proteste pro-golpisti di domenica. Ieri mattina sono iniziate le operazioni di rimpatrio su base volontaria dei quasi 600 francesi di Niamey e dintorni: riguardano esclusivamente i civili e nessuno dei suoi 1.500 militari. Sempre ieri, Madrid ha quasi ultimato l'evacuazione degli oltre 70 cittadini spagnoli nel Paese. Anche il governo italiano ha inviato ieri «un volo speciale» per i concittadini che vogliono tornare: i primi rientri sono attesi per oggi. Conta su una soluzione negoziale della crisi Washington che non ha finora predisposto alcuna evacuazione. Del resto l'amministrazione Biden è stata riluttante finora a etichettare il rovesciamento in Niger come golpe: «Stiamo monitorando la situazione e cercando di impedire che il presidente Bazoum venga rimosso dall'incarico», ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller, insistendo sul fatto che la situazione è «fluida». Parlare di colpo di Stato potrebbe costringere gli Stati Uniti a interrompere l'invio di aiuti militari. La partnership economica e di sicurezza degli Usa con il Niger vale centinaia di milioni di dollari, ha ricordato Blinken dichiarandoli «a rischio». Una linea prudente e attendista: del resto se l'Occidente taglia gli aiuti, il rischio è di agevolare lo scivolamento del Niger nell'orbita russa. Infatti Washington non la pensa come Kiev, convinta com'è che dietro l'azione di forza in Niger ci sia Mosca. «Il sostegno espresso ai ribelli dai rappresentanti del Mali filorusso e del Burkina Faso non fa che aumentare la forza che la Russia abbia un piano globale per provocare instabilità volta a minare l'ordine di sicurezza globale», ha argomentato Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Zelensky. «Non ci risulta», ha replicato da Washington il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa, John Kirby. Anche l'Unione europea si discosta dalla lettura di Kiev: «Non abbiamo alcuna indicazione della presenza della Wagner» in Niger, ha precisato ieri un portavoce della Commissione europea».
I RISCHI DELL’INTERVENTO OCCIDENTALE
Analisi di Domenico Quirico per La Stampa sul “Sahelistan”. Che scrive: gli occicdentali rischiano di commettere l’ennesimo errore e di intervenire “nelle terre di Dio”, alimentando la Jihad.
«C'è eccitazione, attesa fremente nel Sahelistan. Dall'Adrar des Ifoghas, sconfinato teatro dove gli unici ornamenti sono le pietre e i cespugli di quella coriacea, miseranda pianta che è il lentisco, alle piste dell'immenso Teneré, il deserto dei deserti, fino al Lago Ciad e ad Agadez accucciata sotto il suo minareto di sabbia vecchio di 500 anni, in tutti gli innumerevoli santuari del Jihad saheliano, da alcuni giorni si avverte il brivido delle ore decisive. Sì. I terroristi esultano. Ancora una volta Allah ha fatto il miracolo: gli occidentali e i loro servi apostati stanno per commettere l'ennesimo errore, intervenire nelle terre di Dio, aggredire il Niger per metter sulla sedia lo schiavo di Parigi, il traditore dei traditori, il ridicolo presidente Bazoum, appena dissellato dai golpisti. Non imparano davvero mai, i perversi. Solo dio poteva confondere così le menti di Macron e dei suoi accoliti. Negli accampamenti dei mujaheddin le preghiere sono più ferventi del solito, si scambiano le notizie che arrivano da Niamey: i colonialisti si agitano impauriti e furibondi, nessuno dà più loro retta, minacciano a vanvera, i nigerini assaltano l'ambasciata francese, non si parla più dell'Isis o di Al Qaeda come se fossero scomparsi, solo di Putin e della Wagner, il caos avanza a larghi passi. Il caos che è il braccio di dio: sia dunque lode a dio grande e misericordioso. Per i talebani d'Africa che hanno costruito il califfato del grande Sahara, sconfitto due scalcinate offensive francesi, e vogliono ripetere i fasti di Raqqa e di Mosul, nessun scenario poteva essere migliore. I bianchi, i crociati invadono un Paese musulmano che già li odia dal profondo, una grande guerra africana può scoppiare tra le giunte militari di Mali, Burkina Faso e Niger e gli alleati degli occidentali uniti nella Cedeao, con francesi, americani, italiani insabbiati nel Sahel. Ai "garibu", i bambini che stanno all'uscita delle città per chiedere l'elemosina e sono gli occhi dei ribelli, è stato raccomandato di dar l'avviso subito quando compariranno i soldati stranieri. Negli accampamenti nelle zone "liberate" si preparano le armi. I droni francesi e americani, le nostre fallibili meraviglie, passano alti nel cielo e non vedono niente: solo macchie di arbusto, segni indecifrabili sulla sabbia, tombe semisepolte che coprono pietosamente la saggezza di qualche marabutto, e nel deserto di pietra frustato dal vento e dal sole solo un allucinato alternarsi di luce e ombre. Loro sono lì che aspettano l'annuncio. È il sogno dei jihadisti: gli occidentali che arrivano a Niamey per restaurare la loro democrazia, liberare il loro presidente, e, ovviamente, aiutare le popolazioni derelitte. Come assicurano da decenni. Neanche i più ottimisti potevano sperare in un altro Iraq sulle rive del Niger, nella ripetizione africana dell'Afghanistan. Non c'è stato bisogno di molta propaganda islamista per convincere questi sudditi della Francia per l'eternità che narrano loro bugie. E che gli occidentali sono qui per difendere i loro interessi, le miniere di uranio di Arlit, parcheggiare fuori vista i migranti, tener lontane la Russia e la Cina, puntellare obbedienti regimi di ladri. Hanno paura della loro debolezza, hanno paura di perdere. Trovare reclute non è stato difficile, bisognava diventare una parte di questo mondo dei deserti, mimetizzarsi, far proprie le lotte locali, offrire denaro, preghiere e kalashnikov. Perché qui chi comanda non sono le città, comanda chi è padrone del deserto delle sue immensità, delle sue carovaniere, dei pozzi, dell'oro, dei traffici, dei suoi linguaggi. Solo per noi, ignoranti, il deserto è un esotico vuoto silenzioso. Mentre gli aiuti umanitari e per lo sviluppo finivano nei conti in banca dei nostri fedelissimi, benoccultate da ciance facili, predigerite senza bisogno di masticare ( la globalizzazione ha salvato milioni di persone…) il jihad ha predicato tra le popolazioni percosse dalla miseria e dalle prepotenze dei presidenti "democratici": i Tuareg, le "peaux rouges", i pellerossa come li chiamano con sprezzo sulle rive del Niger, e i pastori nomadi che ignorano le delizie dei confini insormontabili. I colpi di Stato militari sono stati una benedizione per il jihad: ora tutto è chiaro. Di qua i buoni musulmani, di là gli infedeli con i loro accoliti. Il minacciato intervento militare dei Paesi vicini che la Francia vuole utilizzare per africanizzare la guerra è un altro tassello favorevole. Degli eserciti dei «nostri amici d'Africa» non hanno certo paura. Togolesi, beninois, senegalesi, nigeriani son soldati fiacchi, dalle uniformi flosce come le portano i cattivi soldati. Preoccupano solo i ciadiani, come loro guerrieri del deserto; nella battaglia di Timbuctu contro Abu Zeid il Macellaio furono loro a vincere. Da un anno e mezzo, da quando "i crociati" si massacrano tra loro in Ucraina e coltivano il loro spinoso giardino, per il jihad africano sono tempi fausti. Il Burkina Faso è diventato il cuore del califfato, i militari stufi di essere mal pagati e usati come carne da macello hanno preso il potere, e così hanno perso l'aiuto occidentale, la creazione di milizie di autodifesa a base etnica ha scatenato un favorevole guerra parallela fatta di vendette, odi antichi, prepotenze. Le sciagurate sanzioni che ora colpiscono anche la popolazione del Niger moltiplicano le masse di disperati tra cui si possono distribuire kalashnikov e offrire possibilità di vendetta. La nostra "lotta al terrorismo", che ha martoriato luoghi dove ogni vita è soltanto in prestito, in un mondo che non concede nascondigli, ha creato nel cuore dell'Africa un enorme spazio vuoto e disperato, offlimits per noi, aperto a chi avrebbe saputo riempirlo. Le rotte della droga, delle armi, dei profeti dell'islam totalitario hanno continuato intanto ad attraversare il deserto. I sequestri sono diventati una industria, l'unica che rende. Nei caffè del Sahel ti elencavano le tariffe per gli stranieri: «Tu sei italiano, non vali niente come i locali, i francesi sono una miniera, li fanno pagare più degli americani perché li odiano di più…». I jihadisti, straordinari manipolatori di anime e di furori mitici, (il paradiso, la purezza, il martirio), hanno riempito quel vuoto, lo hanno modellato a loro immagine e somiglianza. La materia non è altro che energia compressa, un dito contiene tante piccole Hiroshima. I miti sono insiemi di energia compressa. Nel Sahel il mignolo attende il nostro ennesimo errore».
TRUMP, NUOVA INCRIMINAZIONE PER CAPITOL HILL
L’assalto a Capitol Hill è stato alimentato dalle bugie dell’ex presidente Donald Trump. Non è più un’opinione ma un’incriminazione ufficiale. Eppure l’ex presidente non sembra perdere popolarità. Alberto Simoni per La Stampa.
«Donald Trump è stato incriminato per aver tentato di rovesciare l'esito delle elezioni. Sapeva di aver perso contro Biden ma ha messo in atto uno schema per impedire il passaggio di poteri e restare alla Casa Bianca. E questo clima ha portato all'assalto di Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Questo è il senso dei quattro capi di accusa (tre parlano di cospirazione) sostenuti dal gran giurì econsegnati ieri pomeriggio a Donald Trump. "Pur avendo perso, l'imputato era determinato a restare al potere", ha scritto Smith nella prima pagina del documento riassumendo mesi di inchiesta, interrogatori, raccolta di prove e sottolineando che l'attacco a Capitol Hill è stato "innescato dalle bugie". In una breve conferenza stampa Smith ha definito "eroi coloro che hanno difeso Capitol Hill, hanno difeso i principi democratici e le istituzioni". È la terza incriminazione da aprile per l'ex presidente: la prima è quella formulata a New York per i soldi usati per comprare il silenzio di Stormy Daniels per la storia extraconiugale del 2006; quindi in giugno c'è stata l'incriminazione per i documenti classificati custoditi impropriamente aMar-a-Lago. Infine, ieri al termine di una giornata in cui si sono rincorse le voci e le mosse dei giurati sono state messe sotto la lente da parte dei reporter, è arrivata la notizia della richiesta di incriminare Trump per le interferenze elettorali e il 6 gennaio. Con tutto il suo carico di polemiche, reazioni e interrogativi in vista delle prossime elezioni – Trump è nettamente in testa perle nomination repubblicana – e sullo stato di salute della democrazia Usa. Nel 2024 presumibilmente quindi ci saranno almeno tre processi contro il tycoon. Resta invece ancora appesa la decisione del gran giurì della contea di Fulton, Georgia».
MYANMAR, GRAZIATI 6 ANNI A SAN SUU KYI
Clemenza parziale e sconto di pena di 6 anni per Aung San Suu Kyi. La mossa per la “Quaresima buddhista”. La leader democratica 78enne ne ha però altri 27 da scontare. Stefano Vecchia per Avvenire.
«Non si è ancora conclusa la lunga serie di procedimenti giudiziari nei confronti di Aung San Suu Kyi, agli arresti dal colpo di Stato militare del primo febbraio 2021, ma ieri i complessivi 33 anni di carcere raccolti finora sono stati ridotti di sei anni. A carico della 78enne Premio Nobel per la Pace, guida del movimento democratico dal 1988, restano ancora 14 capi d'accusa. Con lei anche il presidente della repubblica deposto dal golpe, Win Myint ha ottenuto un perdono parziale. L'occasione, ha spiegato un portavoce della giunta al potere, è una più ampia amnistia garantita a 7.000 detenuti in occasione dell'inizio della Quaresima buddhista. Non una novità assoluta quella delle amnistie che in occasione di particolari ricorrenze restituiscono la libertà a migliaia di carcerati, tuttavia la riduzione della pena complessiva per Aung San Suu Kyi si include in un perenne tiro alla fune tra i vertici delle forze armate guidati dal generale Min Aung Hlain e le forze democratiche che continuano a opporsi, nelle piazze, con azioni di boicottaggio e disobbedienza civile ma anche con le armi al “fatto compiuto” del ritorno al potere degli uomini in divisa che sembravano aver lasciato spazio alla vita democratica per poi fare marcia indietro due anni fa. Fallito finora il tentativo di indurre la loro principale rivale a una qualche forma di accoglienza delle loro pretese di controllo del Paese, hanno spostato Aung San Suu Kyi, in diversi luoghi di reclusione nella capitale Naypydaw, e una settimana fa l'hanno trasferita dal carcere ai domiciliari. Dall'arresto, di lei esiste una sola foto rubata in un'aula di tribunale vuota, anche se le sue condizioni di salute sembrano buone. Per fonti annunciate al movimento democratico, la mossa di ieri, è il massimo che i militari potrebbero concederle senza segnali di limitazione a una popolazione che, contrariamente al precedente mezzo secolo di dittatura, sembra ora compatta nell'ostacolare il percorso annunciato dai generali dal colpo di stato verso nuove elezioni e una “vera democrazia” da essi diretta. A questo proposito, lunedì scorso il generale-presidente Mint Shwe ha informato che il Consiglio nazionale per la difesa e la sicurezza nazionale ha rinnovato per altri sei mesi lo stato d'emergenza in scadenza e di conseguenza decretato un ulteriore rinvio delle elezioni che la Costituzione del 2008, scritta dai militari, prevede che non si possa tenere prima di sei mesi dalla fine dell'emergenza. Intervenendo alla radiotelevisione nazionale, lo stesso capo del regime ha riconosciuto che il Myanmar non è ancora sotto il suo pieno controllo. «Abbiamo bisogno di tempo per continuare una preparazione sistematica come nostro dovere, poiché non dovremmo affrettare le prossime elezioni», ha spiegato. Continuano intanto le violenze e sono un milione e mezzo gli sfollati che vivono in condizioni di disagio e rischio lontano dai loro villaggi distrutti nei combattimenti o incendiati per ritorsione. Sulle vittime gli scambi di accuse sono reciproci. I morti dovuti alla repressione sarebbero per l'opposizione 3.800 (e 24mila gli arrestati), mentre per la giunta i «terroristi» che le si oppongono uccisero 5.000 persone. Finora le pressioni internazionali sul regime non hanno dato risultati concreti, e nemmeno quelle sulle parti per portarle al negoziato. I Paesi della regione che avrebbero maggiori possibilità di forzare i militari a un qualche compromesso continuano a mantenere il principio della non-ingerenza nonostante al loro interno non manchino voci che chiedono un intervento più incisivo».
SPAGNA, 7 FEMMINICIDI NEL MESE DI LUGLIO
Non è solo un problema italiano. In Spagna nell’ultimo mese ci sono stati 7 femminicidi. La cronaca è di Avvenire.
«Sette femminicidi confermati e uno sospetto in un solo mese, quello di luglio: sono le cifre che hanno il ministero delle Pari opportunità spagnolo convocare per la giornata di ieri una riunione del cosiddetto “comitato di crisi” per l'analisi di questo fenomeno . A presiederla è stata la ministra delle Pari opportunità, Irene Montero. Lo hanno riferito ai media nazionali. Il “comitato di crisi” viene convocato quando si registra un aumento di crimini gravi contro le donne in un lasso di tempo breve (successe ad esempio anche tra dicembre 2022 e gennaio 2023): l'obiettivo è studiare eventuali lacune nella prevenzione dei femminicidi e nella risposta delle amministrazioni pubbliche alle necessità delle vittime. Le ultime due vittime accertate di femminicidi in Spagna sono due ragazze di 26 e 29 anni. Nelle ultime ore di ieri, si sono aperte indagini, anche, per chiarire le circostanze dell'omicidio di un 22enne nicaraguense, il cui marito è stato arrestato come presunto autore del crimine ai danni della moglie».
JUSUR, OVVERO I PONTI NEL MONDO DEL 2023
Sarà stampata anche in Italia la nuova rivista “Jusur”, che in arabo significa ponti. Ne spiega la filosofia il suo direttore Wael Farouq, intellettuale arabo già docente in diversi atenei occidentali, attualmente professore di Lingua e Letteratura araba all’Università Cattolica di Milano, in un’intervista sul Riformista di ieri.
«Lei è il direttore di questa nuova rivista che ha mantenuto il titolo arabo anche nella versione italiana e in quella inglese: Jusur, che significa ponti. Guardando ai primi numeri, ci sono contributi importanti da esponenti della cultura araba, a cominciare dal segretario generale della Lega Musulmana Mondiale Al Issa ma anche importanti intellettuali occidentali, come Oliver Roy e di origine ebraica come Joseph Weiler. Lei nell'editoriale sottolinea il valore del dialogo interculturale. Che cosa significa?
Abbiamo mantenuto il titolo arabo Jusur per la rivista in tutte le lingue per la particolarità di questa parola. Jusur, che significa ponti, è una parola araba che traccia un percorso di incontro tra il verbo jàsara che significa “andare, passare attraverso” con il sostantivo “jasàra” che significa “audacia, coraggio del cuore”. Il nome “jusur” sintetizza l’essenza di un progetto che vuole lasciare spazio alla volontà e al desiderio delle persone di aprire nuovi orizzonti, attraverso un cammino che richiede il coraggio del cuore e che permette a chi scrive e a chi legge di essere a sua volta un elemento di connessione tra il mondo del presente in cui si vive e il mondo del futuro a cui si aspira. La nostra non è, in realtà, una rivista di dialogo interculturale, ma uno spazio dedicato alla testimonianza del bello che si incontra in ogni cultura. Per questo, in tutti i numeri, mettiamo al centro il quotidiano e l’ordinario, come il cibo, cercando di far conoscere l’Altro attraverso la sua testimonianza. Di conseguenza, non è un dialogo in cui ci sono due parti che cercano di trovare un interesse comune o un compromesso per convivere, ma uno spazio di conoscenza che permette di andare oltre i limiti della nostra conoscenza dell’Altro. Le forma tradizionali del dialogo, infatti, sono limitate e il limite sono i nostri stereotipi e pregiudizi sull’Altro. Questa rivista, invece, cerca di aprirsi, ponendo la conoscenza dell’Altro come scopo finale del dialogo.
Quale riflessione è importante oggi dentro il mondo islamico e nel dialogo con gli altri mondi?
Nel mondo islamico, ma anche nel mondo occidentale, dominano gli stereotipi sull’Altro che vengono sempre confermati da eventi come, per esempio, il rogo del Corano in Svezia e la corrispettiva reazione violenta in Iraq. Sono proprio questi i limiti di cui vorremmo liberarci. Il dialogo è stato spesso solo una reazione che parte dalla paura del conflitto o della guerra. Noi, invece, con questa rivista, vorremmo che il mondo islamico vedesse che in Occidente c’è fede vissuta e vedesse la sua bellezza. Vorremmo liberare l’immaginario islamico dallo stereotipo del mondo occidentale ateo e senza morale che vive una libertà nata contro Dio e che continua a essere contro Dio. Perché noi crediamo che i valori della civiltà occidentale siano essenziali per il futuro del nostro mondo. Ecco perché non possono essere il soggetto di un dialogo che cerca il compromesso.
La religione è insieme un'eredità culturale ma anche qualcosa di sempre vivo, in dialogo con la storia. Oggi che contributo possono dare le religioni e le fedi alla costruzione di un mondo migliore?
Il ruolo principale dell’esperienza religiosa è generare senso e significato per la vita, per ogni persona ordinaria nella sua quotidianità. Il problema più grande, oggi, è che le religioni spesso sono ridotte a forme, regole e rituali. Questa è la cosa che limita la possibilità per le religioni di giocare il ruolo più importante nella realtà del mondo di oggi.
Si fa una rivista quando si vuole lanciare un messaggio... sicuramente lei si prende la responsabilità in prima persona di provare a farlo. Perché lei sente che i tempi sono maturi. Ma qual è questo messaggio, volendo sintetizzare?
I tempi non sono mai maturi. La maturità dei tempi significherebbe la fine dell’agire umano nella sua realtà. Spero quindi che ciò che pubblichiamo nella rivista Jusur non sarà ricevuta come un messaggio, bensì come un invito a prendere parte a un cammino su una strada che accoglie tutti, diretti verso un futuro migliore e motivati dal desiderio del mistero che ci porta a una nuova terra mai immaginata prima».
Leggete qui gli articoli di Mercoledì 2 agosto: