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I grandi elettori sono già stanchi
Cominciano alle 11 col terzo voto per il Colle. Il centro destra presenta una rosa di tre candidati. Ma punta sulla Casellati. Tensione Russia-Ucraina: frena la Germania, il Papa prega per la pace
I grandi elettori sono già stanchi. Stamattina la nuova votazione è prevista a partire dalle 11. Vogliono concludere prima e così poter andare a cena per tempo. Francamente non si capisce perché non possano cominciare, non diciamo alle 8, ma almeno alle 9 e votare due volte al giorno. Con le schede burla (ieri hanno votato Rocco Siffredi) si sono già ampiamente guadagnati il disprezzo degli italiani. Forse non si rendono conto di dare, con il loro comportamento, una lezione di educazione civica disastrosa ai nostri giovani.
Ieri sono state 527 le schede bianche al secondo scrutinio. Al primo erano state 672. Il presidente della Repubblica uscente Sergio Mattarella è stato con 39 voti il più votato insieme al giurista Maddalena (39 voti anche per lui) nella seconda votazione. Il centro destra ha presentato la sua rosa di candidati: l'ex presidente del Senato Marcello Pera, l'ex sindaco di Milano Letizia Moratti e l'ex magistrato Carlo Nordio. Non ci sarà una rosa del centro sinistra, che chiede però di riunirsi e trovare una soluzione entro stasera, in vista del voto di domani: il “conclave a pane e acqua”, secondo Enrico Letta. Dalla quarta votazione cambierà infatti il quorum, abbassandosi a 505. L’impressione è che Salvini ed alleati si vogliano giocare la carta di Elisabetta Casellati, presentandola come super partes e devono aver avuto affidamenti in questo senso dal mondo 5 Stelle. L’altro eterno candidato (“uno di noi”, dicono in Transatlantico) è Pier Ferdinando Casini, lanciato da Matteo Renzi già da settimane. Giustamente Antonio Polito sul Corriere si chiede se davvero questa volta il capo della Lega vincerà la partita, che sta conducendo prevalentemente contro Mario Draghi.
Il mondo fuori da Montecitorio è concentrato sulla crisi Ucraina-Russia. L’escalation militare della Casa Bianca continua con la minaccia di inviare truppe dopo aver mandato una valanga di armi e munizioni a Kiev. La Germania frena disperatamente, l’Europa è in imbarazzo. E anche gli stessi ucraini cercano di moderare l’euforia bellicista e l’allarmismo di Biden e Johnson (che hanno enormi difficoltà interne da cui distogliere l’attenzione). Oggi è il giorno della preghiera per la pace proposta dalla diplomazia disarmata di Papa Francesco: gesti e appuntamenti in tutte le chiese italiane. C’è anche una grande polemica su una conferenza di imprenditori italiani, organizzata da tempo a Milano e a Roma (Hotel St. Regis) in teleconferenza con Vladimir Putin da Mosca. Pare che il governo Draghi avesse chiesto di rimandare il meeting, in nome del dialogo.
È disponibile da oggi il secondo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo secondo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Serena Andreotti, figlia di Giulio.
Ne è scaturito un racconto a tutto tondo dell’uomo politico e della persona che ha attraversato grandi crisi e altrettanti successi. Giulio Andreotti è stato un grandissimo servitore dello Stato, sul cui giudizio pesa un finale denigratorio che è poi stato smentito dalle sentenze finali dei processi contro di lui. Il bacio di Totò Riina è stata una delle più grandi fake news politico-giudiziarie della storia italiana che ha alimentato una rivolta contro la politica. La figlia Serena ne ripercorre le vicende con grande precisione e trasporto. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Stallo nelle trattative e ancora schede bianche per il Quirinale. Il Corriere della Sera ammette: Salvini fa 3 nomi ma è tutto fermo. Avvenire mette fuori un titolo-cartello: Super partes cercasi. Il Fatto celebra la liquidazione di Draghi: I partiti fanno da soli e il nonno va in panchina. Così come il Manifesto, ma con un’altra classe: Smacco al Re. Il Giornale vede: Tutti ostaggio del Pd. Il Quotidiano Nazionale elenca: La rosa di Salvini, il conclave di Letta. Il Mattino sottolinea i voti al Presidente uscente: Stallo Colle, cresce Mattarella. Il Messaggero si sforza di essere ottimista: Colle, ora i partiti accelerano. Mentre La Stampa descrive un’offensiva: Colle, la destra tenta la spallata. Libero avverte: Occhio al trappolone. La Repubblica identifica la vera carta di Salvini e alleati: Colle, l’ombra di Casellati. La Verità è sempre sul Covid: La prova che sbugiarda Pregliasco. Mentre il Sole 24 Ore è rivolto al futuro: Pnrr, già possibile una revisione.
SCHEDE BIANCHE GIORNO 2, I GRANDI ELETTORI SONO GIÀ STANCHI
Al secondo giro è già Sergio Mattarella il più votato: 527 schede bianche, 39 sì al Capo dello Stato. Ancora in primo piano i voti goliardici: consensi ad Al Bano, Baglioni e Siffredi. La cronaca di Concetto Vecchio per Repubblica.
«Il bollettino Covid registra 468 morti, gli italiani si preoccupano del caro bollette e il Parlamento italiano vota Rocco Siffredi. Ieri sera ha preso un voto nella corsa per l'elezione alla Presidenza della Repubblica. Voto burlone. Come quelli per Albano, Claudio Baglioni, Nino Frassica, Enrico Ruggeri. La piccola notizia politica è che ne ha presi 39, Sergio Mattarella. Segno che la pancia dei grandi elettori mostra i primi segni di inquietudine. Se va avanti così tra qualche votazione questo malumore potrà diventare una valanga, chissà. Quando il presidente della Camera Roberto Fico, alle sette di sera, inizia lo spoglio, il Transatlantico sembra come la sala da ballo di un gran hotel dopo una festa. Il vento gelido entra dalle finestre aperte spezzando le illusioni. L'euforia del primo giorno sembra già svanita. Anche Fico legge a tamburo battente i nomi di chi ha preso voti, vuole andare a casa. La giornata non ruota attorno a questo scrutinio, si sa, ma sul tridente Moratti-Nordio-Pera annunciato da Matteo Salvini, dal centrodestra, una rosa che in realtà è un roseto, perché tutti hanno capito che i veri candidati sono altri, Maria Elisabetta Casellati, su tutti, o Pier Ferdinando Casini, in subordine. I capannelli si fanno quindi più fitti e segreti. Le quotazioni di Mario Draghi sono in picchiata. «I senatori grillini non lo voteranno mai», dice un esponente pd che li conosce bene. «Piuttosto votano, nel riparo dell'urna, la Casellati, anche se rappresenta tutto quello che hanno combattuto prima di entrare in Parlamento». Casellati sta in aula e presiede la votazioni. Aspetta. Non si disunisce. Casini invece parla con tutti. È il decano del Parlamento, sempre eletto dal 1983, trentanove anni fa. È in vena intimista. Ha postato una sua foto in bianco e nero, da giovane a un congresso dc: «La passione politica è la mia vita», ha scritto. Con tanto di cuore e di tricolore. Pier, come lo chiamano tutti, insomma c'è. «Al Colle! Al Colle!" gli hanno scritto gli amici, commentando l'immagine. «Grandissimo», non ha contenuto l'entusiasmo il renziano Luciano Nobili. Renzi, si sa, lo ha candidato per primo. «Come la vivo?» , chiedono a Pier. «L'importante è la salute». Su un divanetto i senatori a vita Elena Cattaneo, Liliana Segre e Renzo Piano discutono tra loro. Cattaneo aggiorna i colleghi del borsino del Colle. Architetto Piano, i riti della politica l'annoiano? «Ma no, al contrario sento il peso della consapevolezza civica. È una cosa importante quella che stiamo facendo». Si tengono a braccetto Liliana Segre e Renzo Piano. «Lei è mia sorella », scherza lui. «Quanti anni hai?» gli chiede lei. «84 anni, cara mia». «Mi ha molto emozionato votare», dice Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. «È un privilegio essere qui, se penso a cos' è stata la mia vita». Vorrebbe una Presidente donna? «Il genere non importa. Conta che sia all'altezza». Tutti sanno benissimo che fino a domani sarà solo un gioco. Il presidente di Italia viva Ettore Rosato spera di farcela prima di sabato, quando si sposa suo figlio. Nel pomeriggio, come una distrazione nella noia, ecco la conferenza stampa dei capi del centrodestra. Matteo Salvini arriva prima di tutti, con la mascherina tricolore, si guarda intorno, «chi manca?» chiede dopo un po'. «Forza Italia», risponde Lupi. Salvini si attacca al telefono. Antonio Tajani arriva trafelato. Si mettono in posa Salvini, Meloni, Lupi, Toti, Tajani, Brugnaro, Ronzulli. Dopo trent' anni di capi di stato di sinistra è ora che tocchi a noi, dice Salvini. Grande delusione per la rosa di nomi tra i cronisti. E tutto un gioco di scacchi. Del resto questa è, da sempre, la partita più grande di tutte. «Come si fa un Presidente?» si chiedeva Vittorio Gorresio in Il sesto presidente. Scriveva: «Contrariamente a ciò che taluni ritengono il Presidente non è soltanto il personaggio decorativo che conferisce le onorificenze, accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, incarna l'unità nazionale, inaugura le fiere campionarie, accorre sollecito sui luoghi di un disastro. Egli è fornito di una tale massa di potere che la posta in gioco di ogni edizione presidenziale ha un valore politico pressoché incomparabile». Quelli del centrodestra escono tutti soddisfatti dalla saletta dei gruppi, il più ilare è Maurizio Lupi, che sulle scale si mette a cantare: «Meno male che Silvio c'è». «Non avere paura del buio» ha scritto Mattarella, rispondendo alla lettera di una piccola ammiratrice palermitana di sette anni, Emilia. Il buio che avvolge il Palazzo in questa sera di inverno. Il fatto che Mattarella abbia preso più voti di tutti, insieme al magistrato Paolo Maddalena, fa una certa impressione ai pochi rimasti davanti agli schermi tv piazzati davanti all'aula. Le schede bianche sono 527. Mattarella fino all'ultimo è la rete di protezione di un sistema impazzito. Ieri è tornato a Roma e ha diviso il suo tempo tra il Quirinale e la nuova casa. Il suo mandato scade il 3 febbraio. Rimarrà in carica in prorogatio se il nuovo Capo dello Stato non sarà eletto prima? Non si sa. È sera. Prendono voti Luigi Manconi, Fulvio Abbate, Nicola Gratteri, Massimo Giletti. «Moro» dice a un certo punto Fico. «Moro chi?» dice un deputato alzando lo sguardo dal telefonino. Anche Aldo Moro ieri ha preso un voto».
IL CENTRO DESTRA CALA IL TRIS, MA PENSA A CASELLATI
Gli esponenti del centro destra, guidati da Matteo Salvini, si sentono già vincitori nella difficile partita del Quirinale. L’astuzia sarebbe proporre tre nomi di bandiera, e avere pronta una carta di riserva: Elisabetta Casellati. La cronaca di Paola Di Caro e Marco Cremonesi.
«Il centrodestra alla prova. Dopo una notte di consultazioni con alleati e «avversari», Matteo Salvini è tentato dal cominciare a contare le forze in campo. Forse non già oggi, ultimo giorno con voto a maggioranza qualificata, ma comunque al più presto. Anche se non tutti nell'alleanza sono convinti che i tempi già siano maturi per rinunciare alla scheda bianca, che è comunque segnale di disponibilità al dialogo, per spedire i candidati sulla graticola della conta. In ogni caso, al di là del formale no alla rosa da parte di Pd, M5S e Leu, prima del voto di questa mattina il centrodestra tornerà a fare il punto sulla situazione. E magari anche Salvini e Letta torneranno a vedersi intorno a un tavolo o davanti a un caffè. Sulla scelta di oggi, peserà senza dubbio un primo resoconto riguardo allo «scouting», per esempio tra i 5 Stelle, che sarebbe in corso soprattutto da parte leghista. La proclamazione della «terna» ufficiale dei nomi, ieri pomeriggio, tra i parlamentari è da molti considerata semplicemente «un atto dovuto». Ma non è così: è il segno, per dirla con Salvini e con Meloni, che il centrodestra c'è, è compatto, avanza le sue proposte e non accetta dei «no pregiudiziali». Con il segretario leghista che avvisa: «Questi nomi non sono candidati di bandiera, noi non facciamo giochini». L'idea potrebbe essere quella di partire con il nome dell'ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio. Un po' curioso, forse, visto che l'ex magistrato a suo tempo aveva pronunciato un «non sum dignus»: «Non ho fatto neanche il consigliere comunale, meglio una donna liberale». Resta il fatto che il suo nome, ufficialmente proposto da Giorgia Meloni, è considerato quello che potrebbe meglio trovare consensi trasversali. E in ogni caso, sarebbe un buon test per vedere da dove si parte: se il centrodestra sulla carta conta 453 voti (sui 505 necessari), si potrebbe cominciare a intravedere il saldo tra i voti persi e quelli che, al contrario, potrebbero manifestarsi nel segreto dell'urna. Il coordinatore azzurro Antonio Tajani ieri ha spiegato agli alleati che Berlusconi potrebbe apprezzare molto la candidatura di una personalità a lui riconducibile. Il nome è quello di Maria Elisabetta Alberti Casellati, la presidente del Senato, che nella «rosa» non figura perché, dice Salvini, «abbiamo voluto tenere le cariche istituzionali al riparo dalla discussione». Così come lo stesso Tajani, che come spiega Salvini, pure «avrebbe tutti i titoli», non è tra le proposte ufficiale in quanto leader di partito. Resta il fatto che la presidente del Senato con ogni probabilità è la «carta coperta» che il centrodestra non vuole bruciare. Però, se i voti su Nordio dovessero risultare, come è possibile, insufficienti, la strada è meno semplice. E si banalizza nella domanda: «La presidente del Senato sarebbe in grado di fare meglio», al di là del fatto che formalmente non sia inclusa nella rosa? Salvini è convinto, come dice ai suoi, che «ce la si possa fare». Per lui, tra l'altro, sarebbe la possibilità di intestarsi - fatto senza precedenti come centrodestra - l'elezione di un presidente della Repubblica. Altri, convinti lo sono molto meno. Luigi Brugnaro, leader con Giovanni Toti di Coraggio Italia, ha detto che se il «centrodestra ha dato dimostrazione di compattezza», la situazione resta «evidentemente complicata». Per dire che «la strada per Draghi presidente è ancora aperta, ma dobbiamo garantire la continuità di governo». E poi, c'è Pier Ferdinando Casini. Pochi nella Lega escludono, e meno ancora lo escludono in Forza Italia, che l'ex presidente della Camera possa ancora essere in corsa, se le altre strade risultassero senza sbocchi. Nella Lega, pochi sarebbero soddisfatti anche perché tutti ne sono convinti: «Nel pacchetto di Casini al Quirinale, sarebbe inclusa anche una legge elettorale proporzionale». Non che il capo dello Stato c'entri con la legge elettorale. Ma chi lo ricorda, è liquidato con un gesto».
Il centrodestra cala il tris di nomi. Secondo Libero, il Pd finge di aprire ma non ha nessuna intenzione di rinunciare a un suo uomo. Occhio al trappolone, scrive Alessandro Sallusti.
«Sulla scacchiera del Quirinale muove il Centrodestra. Salvini, Meloni e Tajani hanno messo in campo una terna di candidati, il tris che Libero aveva anticipato sabato scorso: Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera. Parliamo di tre persone di parte ma non di partito, inattaccabili per storia, capacità e autorevolezza. Tre persone offerte con i più nobili intenti nell'arena delle consultazioni che rischiano però di fare la fine degli agnelli sacrificali per abbattere il muro eretto dalla sinistra contro candidati indicati dal Centrodestra. Una mossa tattica che ha prodotto l'effetto sperato: "Se ne può parlare", ha infatti commentato a caldo Enrico Letta che con il passare delle ore perde un po' dell'arroganza con cui aveva affrontato la partita, conscio che da solo non va da nessuna parte e che quindi doveva aprire uno spiraglio a Salvini e soci. Se nelle prossime ore si parlerà di uno di questi tre nomi odi altri lo vedremo. Non è sfuggito, per esempio, che della terna non faccia parte uno dei papabili di centrodestra con maggiori possibilità di successo, la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, né sia stato messo in campo Franco Frattini. Insomma, detto con grande rispetto ai tre, il nome buono su cui andare davvero alla conta potrebbe essere un altro. Caduto il "no" pregiudiziale a candidati non di sinistra, tocca al Pd fare la prossima mossa. Contrapporre alla rosa del Centrodestra un proprio tris o fare melina mentre si cerca un altro nome "condivisibile" sul quale andare a colpo sicuro su un candidato magari meno marcatamente di area tipo Casini o la Severino? La seconda ipotesi appare al momento la più probabile e se così fosse Salvini, Tajani e Meloni devono tenere occhi ben aperti e orecchie ritte, il trappolone è dietro l'angolo e sarebbe suicida rimanere con il cerino in mano dopo aver sacrificato Silvio Berlusconi e bruciato tre galantuomini, due uomini e una donna, della Repubblica. Non lo dico per mancanza di fiducia ma perché conosco i metodi subdoli della sinistra e non credo in alcun modo a un suo ravvedimento. Quando ieri sera ha detto: «Con il Centrodestra dobbiamo incontrarci e buttare via la chiave fino a un accordo» non vorrei intendesse che vuole fare prigionieri Salvini, Meloni e Tajani».
Antonio Polito sul Corriere analizza le chance di colui che si è preso, su consiglio del suocero, il ruolo di king maker. Matteo Salvini:
«Dopo le bianche, le rose. Anzi, la rosa, visto che il centrosinistra non ha voluto giocare la sua. Con tutto il rispetto per il valore dei nomi che le compongono, si vede che le rose servono solo a preservare chi non vi è stato inserito. Ma intanto certificano il singolare ritardo con cui, a partita già cominciata, si comunica la formazione. Rosa contro rosa sarebbe stata una variabile del muro contro muro, solo più gentile, come dimostra il «fair play» con cui Letta e Conte hanno accolto quella presentata da Salvini e Meloni. Nel frattempo, però, ieri è stata di nuovo la fiera della scheda bianca, un'esplicita ammissione di debolezza delle forze politiche, che non hanno neanche l'ardire di sostenere a viso aperto un candidato di bandiera, nella paura che venga impallinato anche quello. Vedremo se oggi almeno il centrodestra si misurerà finalmente col voto segreto, per capire quanto vale in termini numerici. (…) Ci sono insomma pochi giorni per riparare a una falsa partenza e rimettere in careggiata il treno del Parlamento a Camere riunite con un'intesa tra tutte le principali forze di maggioranza. È un compito che spetta più di tutti a Matteo Salvini. Lo spappolamento della forza di maggioranza relativa, i Cinque Stelle, ha finito con il consegnare alla Lega un ruolo centrale, quasi da regista. L'uscita di scena di Berlusconi gli ha dato la guida sul campo delle truppe di centrodestra. Il giovane leader ha imbracciato con il solito piglio il bastone del comando, e ha promesso molto: il primo presidente proveniente dal centrodestra. È un obiettivo legittimo, se incontra un consenso ampio, che non spacchi il Parlamento e la maggioranza di governo. Ma è questo che sta provando a fare? C'è un nome fuori dalla rosa da lui presentata che ha questa chance? E, se così non sarà, è disposto a tornare o a convergere su una candidatura più trasversale e meno targata? Oppure tenterà la fortuna di un colpo parlamentare, raggranellando scoiattoli intorno a un candidato di parte? Salvini è oggi sospeso tra il rischio di un «Papeete due» e la chance di un primo vero successo politico. Nessun leader politico è del resto sopravvissuto a un rovescio nell'elezione del capo dello Stato. Ma, ancor di più del suo destino, conta quello del Paese. Dateci un presidente di valore, di prestigio, in grado di unire gli italiani e di rappresentarli di fronte al mondo. Se si riparte ora da dove si sarebbe dovuto cominciare una settimana fa, è ancora possibile».
LETTA: “ORA IN UNA STANZA A PANE E ACQUA”
Enrico Letta appare preoccupato e propone a Salvini ed alleati un Conclave per trovare una soluzione condivisa: «Ora in una stanza a pane e acqua». Maria Teresa Meli sul Corriere.
«Pd, 5 Stelle e Leu propongono ai leader del centrodestra di incontrarsi oggi per trovare insieme il nome giusto per il Quirinale. Una riunione che assomiglia tanto a un conclave nelle parole di Enrico Letta: «Finiamola con i tatticismi. Chiudiamoci in una stanza e buttiamo le chiavi. Pane e acqua fino a quando non arriviamo a una soluzione». E se il centrodestra dovesse rifiutare, magari facendo scendere in campo Elisabetta Casellati, si andrebbe allo scontro, fanno sapere i dem. In quel caso il centrosinistra presenterebbe un suo candidato: un nome che possa essere condiviso anche da Renzi e dai centristi. È chiaro, però, che a quel punto la maggioranza che sostiene Draghi salterebbe e si andrebbe alle elezioni. Ma non è la guerra il primo obiettivo di Letta, che in nome del dialogo in mattinata incontra Antonio Tajani. Con la proposta di un vertice tra i leader dei due schieramenti i giallorossi cercano anche di uscire dall'angolo in cui si sono trovati da quando l'intesa tra di loro ha dato segno di non essere più salda come prima. Scricchiola infatti l'asse Letta-Conte. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, i dem non si fidano più del leader M5S. Non da quando, pur di sbarrare il passo a Draghi, ha fatto capire a Salvini di essere disponibile a votare Franco Frattini. Il leader M5S riesce così a compiere una sorta di miracolo: Renzi e Letta si sentono e uniscono le loro forze per contrastare una candidatura giudicata troppo filo-Putin. In serata filtra che durante la riunione lo stesso Letta avrebbe detto a Conte: «Non bisogna cedere alle sirene di Salvini». I sospetti nei confronti dei 5 Stelle aumentano quando i dem notano che i leghisti tallonano tutti i parlamentari grillini: l'offerta di un caffè alla buvette è la scusa per chiedere voti a un eventuale candidato di centrodestra. La capogruppo pd alla Camera Debora Serracchiani ha il cellulare rovente: sono tanti i deputati che sfogano con lei il loro malumore nei confronti degli alleati. Il leitmotiv è questo: «Possibile che siano così fessi da non capire che in questo modo, rompendo la maggioranza, si andrebbe dritti alle urne?». Dove il «fessi», ovviamente, viene declinato con parole ben più pesanti. Il fatto poi che Conte torni a esternare il suo veto sul premier non contribuisce ad abbassare la tensione: «Draghi? Il mio ruolo non è difendere il destino dei singoli ma l'interesse della Nazione. Il timoniere non si cambia, deve restare lì». Resta perplesso anche qualche grillino. «Sono sorpreso, aveva detto che non metteva veti», osserva Gianluca Vacca. Ma è soprattutto il segretario del Pd che tanto ha investito su Draghi a rimanerci male. Per Letta solo il premier o un eventuale Mattarella bis possono rappresentare una vittoria. Anche l'amico Casini non sarebbe un successo suo bensì delle correnti dem. Prima del vertice giallorosso del pomeriggio c'è un altro braccio di ferro tra Pd e M5S: i secondi vogliono presentare una rosa, i primi si oppongono. Anche perché i papabili non vogliono essere inseriti in una lista del genere: rifiuta Riccardi, declina l'offerta Paola Severino, dice no anche Rosy Bindi. Alla fine Conte rinuncia alla rosa e nel contempo assicura: «I miei non voteranno mai Casellati né nessun altro candidato proposto dal centrodestra». I sospetti si attenuano e il clima tra i giallorossi si svelenisce».
CONTE E TONINELLI, GLI ANTI DRAGHI
I grandi elettori 5 Stelle sembrano essere percorsi da un’unica preoccupazione: impedire la salita di Mario Draghi al Colle. Ricompare l’ex ministro Toninelli e sgombera ogni dubbio al proposito. Commenta Mattia Feltri nella sua rubrica in prima pagina sulla Stampa.
«Provo un sentimento di profonda commozione nell'assistere alla strenua e disinteressata difesa della premiership di Mario Draghi da parte del Movimento cinque stelle, per una volta compatto come una falange. Sottolineo disinteressata, perché non vorrei mai che voi credeste a una subdola manovra per impedire al presidente del Consiglio di salire al Quirinale. Per carità. Ma che andate a pensare? I grillini sono sinceramente persuasi che le condizioni del Paese, in riferimento particolare al Recovery fund e alla pandemia, abbisogni della guida sicura e autorevole dell'attuale presidente del Consiglio. La mia commozione è tracimata in un fiume di lacrime quando ieri ho visto Danilo Toninelli barcollare alla sola ipotesi: «Draghi deve rimanere a Palazzo Chigi. Gli italiani vogliono che il governo continui a dargli una mano». Ma non lo dico contro Draghi, ha aggiunto, lo dico per il bene di tutti. Che piglio! Che senso di responsabilità! Lo so che cosa mi state per obiettare: ma ti ricordi che diceva un anno fa il medesimo Danilo Toninelli, e in sintonia con l'intero Movimento, quando Draghi stava per prendere il posto di Giuseppe Conte? Eh no, non lo ricordo e allora andiamo a vedere. Diceva così: «Il no a Draghi è nel nostro dna: non ci siamo mai piegati alle porcherie. Non ci vengano a chiedere di dargli la fiducia. È meglio restare all'opposizione o piuttosto andare a votare per bloccare ogni altra porcheria». Vabbè però anche voi, come siete pignoli. E poi la conoscete questa arcigna predisposizione dei grillini a cambiare idea. L'importante è che al fondo del loro cuore sia rimasta l'originaria purezza».
Antonio Bravetti sempre sulla Stampa fa il punto sulle divisioni interne al Movimento.
«Lasciando la Camera in serata, Giuseppe Conte sorride. «Abbiamo segnato un punto con il ritiro della candidatura di Silvio Berlusconi. Abbiamo aperto il dialogo con il centrodestra. Ora dobbiamo assicurare la continuità del governo». La stella polare del presidente del Movimento Cinquestelle resta la stessa degli ultimi giorni: lasciare Mario Draghi a palazzo Chigi. Ed è in quella direzione che Conte naviga: «Se abbiamo affidato a un timoniere questa nave in difficoltà - spiega - non ci sono le condizioni per cui si possano fermare i motori, perché si possa cambiare equipaggio e chiedere al timoniere un nuovo incarico». Al confronto con Enrico Letta e Roberto Speranza, raccontano, l'ex premier si sarebbe presentato con una rosa di nomi. Una strategia stoppata sul nascere dal Pd, che non vuole navigare nelle acque del centrodestra, temendo un'intesa tra Cinquestelle e Lega sul nome di Elisabetta Casellati. I capannelli in Transatlantico, ieri, questo raccontavano: molti uomini di Salvini attivi nei confronti dei grandi elettori grillini. Abboccamenti per sondare una possibile convergenza sulla presidente del Senato. «Impossibile - assicurano i vertici pentastellati - Casellati è un nome troppo di parte». Al pari dei tre proposti: Moratti, Nordio e Pera. Ma se Letta e Speranza considerano Draghi ancora in gioco, Conte fino all'ultimo tenterà di coinvolgere il centrodestra su un nome condiviso. «Abbiamo deciso di non presentare una rosa di nomi - dice dopo il vertice - in questo modo acceleriamo il dialogo con il centrodestra con l'impegno di trovare nelle prossime ore una soluzione condivisa. L'Italia non ha tempo da perdere. Non è il momento del muro contro muro». Conte rivendica la «chiarezza» e la «trasparenza» della sua azione: «In piena emergenza abbiamo chiesto al premier un'assunzione di responsabilità. Draghi? Il mio ruolo non è difendere il destino dei singoli ma l'interesse nazionale, dei cittadini. Il nostro percorso è molto lineare: il M5s parla al Paese in modo trasparente. Il nostro obiettivo è quello di difendere l'interesse nazionale». Un ragionamento che non convince del tutto Luigi Di Maio. Ancora ieri, proprio come lunedì, il ministro degli Esteri ha passato molte ore alla Camera. Incontrando e parlando con parlamentari del Movimento e di altri partiti. Alle 10.30 era già nel cortile altrimenti vuoto della Camera. Lui e una manciata di interlocutori intorno. A metà pomeriggio si destreggiava ancora nel palazzo. Come testimonia un breve e fortuito saluto con Giorgia Meloni, incrociata dopo l'annuncio dei tre nomi del centrodestra per il Quirinale. Nella cabina di regia di lunedì sera Di Maio ha ribadito a Conte come mettere veti a Draghi sarebbe un errore, perché il rischio è che il Movimento ne esca isolato. Conte ha registrato, pur restando fermo nella sua posizione: il premier non va spostato da palazzo Chigi. Le due posizioni potrebbero convergere nel caso in cui un vasto accordo politico riuscisse a confermare Sergio Mattarella al Quirinale e Draghi al governo. "Congelare" la situazione metterebbe d'accordo Conte e Di Maio e rinsalderebbe anche i gruppi parlamentari, dove ci sono molti tifosi del Mattarella bis. In serata, poi, un'altra cabina di regia. Al tavolo col centrodestra Conte vuole portare un nome «della società civile». Resta forte l'ipotesi di Andrea Riccardi, prima scelta dell'ex premier. Ma ieri, in Transatlantico, si vociferava a sorpresa anche di Paola Severino».
PANDEMIA, LE REGIONI VOGLIONO TOGLIERE I COLORI
Covid, i numeri confermano il calo dei contagi, anche se la conta dei decessi è pesantissima. Le Regioni insistono a chiedere al Governo: «Via le fasce di colore, in classe i positivi asintomatici» e presentano una proposta in sette punti. La cronaca di Adriana Logroscino sul Corriere.
«Via le fasce di colore. Distinguere, nel conteggio, sintomatici e asintomatici sia tra i ricoverati, sia tra i positivi in generale. Sospendere il tracciamento. Ridurre l'isolamento a soli tre giorni per i lavoratori dei servizi essenziali. E poi abbandonare la didattica a distanza per tutti tranne che per i ragazzi sintomatici. In sintesi «non vessare i cittadini che si sono fidati delle istituzioni, vaccinandosi e rispettando le regole, imponendo tamponi e isolamenti non necessari». Le Regioni ci riprovano. E questa volta il tono è perentorio. Bisogna «normalizzare», archiviare «misure che rischiano di mettere in crisi il sistema sanitario e i cittadini», come sintetizza il presidente del Friuli-Venezia Giulia e della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga. I governatori, al termine del vertice, hanno elaborato un documento fatto di sette richieste. Come rileva Luca Zaia, presidente del Veneto, «abbiamo preso una posizione forte perché di fronte a un cambio di scenario, bisogna cambiare approccio». Cioè fondamentalmente, come ripetono tutti, con relative sfumature, con la curva in frenata e l'elevato tasso di vaccinazione, è tempo di semplificare. «Basta caos - dice Eugenio Giani, presidente della Toscana -, si distingua semplicemente tra chi è vaccinato e chi non lo è». Attilio Fontana, presidente della Lombardia, lamenta le «sempre più numerose segnalazioni di famiglie bloccate in casa dal caos di regole complicate, spesso attuate diversamente da dirigenti scolastici che faticano a raccapezzarsi». Anche Nicola Zingaretti, presidente del Lazio, si concentra sul disagio patito dalle famiglie e dai ragazzi, costretti dalle attuali regole a lunghi periodi di didattica a distanza, pur senza essere positivi o senza avere sintomi. «Le attività scolastiche in presenza non vanno sostituite dalla dad quando bambini e ragazzi sono vaccinati e asintomatici. Si può combattere il Covid e semplificare la vita delle persone con regole chiare». La soluzione per la scuola, indicata dai governatori, si fonda su tre interventi: didattica in presenza sospesa solo per gli studenti sintomatici, via contact tracing e affidamento all'autosorveglianza. Scuola a parte, tornano poi tra le richieste dei governatori l'archiviazione del sistema delle fasce di colore e la revisione del bollettino che misura l'andamento della pandemia: i positivi asintomatici dovrebbero essere scorporati dal numero di positivi diffuso quotidianamente, e anche tra i ricoverati si dovrebbe distinguere tra chi in ospedale è finito per il Covid e chi è risultato incidentalmente positivo ma ha bisogno di cure mediche per altro. Spiega il ragionamento dei presidenti il governatore della Liguria Giovanni Toti: «Il sistema attuale così come i tracciamenti delle catene epidemiologiche, utili in passato, non sono più coerenti con l'andamento dell'epidemia. Vanno modificati in fretta». Una soluzione di compromesso che si delinea prevederebbe il mantenimento delle sole zone rosse, per tenere sotto controllo le situazioni più critiche di contagio. Sul tavolo le Regioni mettono anche la richiesta di una soluzione per il mancato riconoscimento del green pass agli stranieri che vengono da Paesi dove il documento ha una validità di 9 mesi: in Italia dal primo febbraio sarà di sei. La volontà politica del governo di rivedere le misure restrittive, c'è. Il 2 febbraio, data della prossima riunione Stato-Regioni, i governatori confidano di poter avere delle risposte.».
I ricercatori italiani chiedono dati aperti su vaccini e farmaci. L'Associazione «Alessandro Liberati» si unisce all'appello del British Medical Journal, ed è d'accordo anche il farmacologo Garattini. Niente a che vedere con i No Vax. Andrea Capocci per il Manifesto.
«I dati e le decisioni sui farmaci e sui vaccini devono essere «aperti», cioè accessibili ai ricercatori per analisi indipendenti. Dopo l'appello del British Medical Journal (Bmj), lo chiede anche l'Associazione «Alessandro Liberati». L'associazione è il nodo italiano della rete internazionale Cochrane, una rete di ricercatori indipendenti che riesamina in modo sistematico i dati e la letteratura scientifica su terapie e dispositivi medici alla ricerca di manipolazioni, inconsistenze nei dati e conflitti di interesse. Ai tempi dell'influenza suina, proprio la Cochrane evidenziò il caso del Tamiflu, farmaco anti-influenzale comprato in miliardi di dosi da tutti i governi che, dopo una lunga battaglia per ottenere i dati originali dalla Roche, si rivelò assai poco efficace. Come hanno scritto l'attuale direttore del Bmj Karim Abbasi, l'ex-direttrice Fiona Godlee e il ricercatore Peter Doshi (uno dei protagonisti dell'affaire Tamiflu), le aziende che producono vaccini e terapie anti-Covid sono ancora restie a condividere i dati originali raccolti durante le sperimentazioni. Per il vaccino Pfizer, ad esempio, l'azienda si è detta disponibile a condividerli su richiesta, ma solo dopo il 2025. «È questo il tempo di chiedere i dati grezzi, ma è di fatto anche il tempo della necessaria crescita/imposizione del rigore scientifico, della trasparenza e della metodologia Cochrane, quindi la completezza e la ripetibilità del metodo», ha commentato la presidente dell'associazione Maria Grazia Celani. «Ma è un circolo vizioso perché con pochi dati o con dati selezionati le revisioni sono spazzatura». Evidenze affidabili e decisioni informate, secondo Celani, «dovrebbero rappresentare uno strumento unico e diffuso utilizzato dalle agenzie regolatorie ma anche da società scientifiche, università, riviste internazionali e nel corso di discussioni di esperti». Anche il più famoso farmacologo italiano, il fondatore e presidente dell'Istituto «Mario Negri» Silvio Garattini, è d'accordo con la richiesta. «In una situazione di questo tipo, con un impatto straordinario a livello mondiale, la richiesta di avere a disposizione i dati singoli è assolutamente ragionevole e condivisibile. I dati - prosegue non possono rimanere patrimonio esclusivo di chi li ha sviluppati, specie in un contesto che ha visto le aziende utilizzare i dati della ricerca di base pagata dal pubblico». La richiesta di trasparenza che riguarda vaccini e farmaci anti-Covid non c'entra nulla con la sfiducia pregiudiziale nei confronti dei vaccini. L'uso di dati aperti è uno standard che si va affermando in tutte le discipline scientifiche, non solo quelle mediche. La riproducibilità dei risultati, uno dei pilastri del metodo scientifico, presuppone infatti che i dati siano innanzitutto disponibili. Alla trasparenza dei dati, inoltre, è legata anche la fiducia della cittadinanza nelle politiche di sanità pubblica. E dalla fiducia dipende la partecipazione pubblica alle misure di prevenzione, e dunque la loro stessa efficacia, soprattutto durante una pandemia. Aumentare la fiducia nei confronti dei vaccini attraverso una maggiore trasparenza dovrebbe essere l'obiettivo proprio di chi in questi strumenti crede maggiormente. Comunicarlo senza passare per no vax non è facile, spiega Rita Banzi, responsabile del Centro Politiche Regolatorie in Sanità del «Mario Negri», se ci si concentra solo sui vaccini. «La richiesta di una maggiore condivisione dei dati deve valere per tutti i trattamenti, per tutte le malattie, per tutti gli studi e per tutti gli sponsor. Deve essere visto come un tema universale. Nel caso dei vaccini per Covid-19, tuttavia, l'urgenza esplicitata dagli autori rischia di far passare l'idea che ci sia qualcosa che non ci viene detto, qualche dato che dovremmo leggere in maniera diversa». Il problema della chiusura dei dati non riguarda solo la comunità scientifica, impossibilitata a svolgere ricerche indipendenti su alcune delle scoperte di maggior impatto sociale. Ma coinvolge le stesse agenzie regolatorie: tra quelle più rilevanti, solo la statunitense Food and Drug Administration richiede alle aziende di fornire i dati originali sui farmaci da autorizzare. L'Agenzia europea del farmaco, come quella inglese e canadese e la stessa Agenzia Italiana per il Farmaco, deve invece accontentarsi di dati aggregati. Secondo Antonio Addis, ricercatore del Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale della Regione Lazio e membro della Commissione Tecnico Scientifica dell'Aifa, le agenzie regolatorie dovrebbero adottare gli strumenti della ricerca indipendente. «La cosa che bisognerebbe fare - spiega - è portare la metodologia delle revisioni sistematiche e delle metanalisi, di fatto l'approccio Cochrane, all'interno delle agenzie regolatorie. Non si capisce perché la Cochrane non possa avere un accesso diretto ai dati attraverso le agenzie regolatorie».
MIGRANTI, SETTE UCCISI DAL FREDDO
Ancora sbarchi, sette migranti sono stati uccisi dal freddo, erano su un barcone soccorso ieri. Il centro d'accoglienza di Lampedusa esplode, la politica tace. Nino Femiani per il Quotidiano Nazionale.
«Morti per il freddo e gli stenti dopo una traversata angosciosa durata due giorni. Quando le motovedette della Guardia sono arrivate a soccorrere, a 18 miglia dalla costa, il barcone di 280 disperati in balia delle onde e del mare forza sei, in tre non respiravano già più. Altri quattro sono deceduti poco dopo, nonostante la disperata corsa per raggiungere Lampedusa. Sette i morti, tutti giovani bengalesi: è il tragico bilancio di una migrazione disperata partita dalle spiagge di Zuara, sulle coste libiche. Un sogno infranto per i sette uomini, morti per ipotermia. Si erano imbarcati nella località della Tripolitania, estremo nord-ovest della Libia, nota per la presenza di piccoli cantieri dove si costruiscono i barconi per le traversate verso Malta e la Sicilia. Su uno di questi avevano preso posto in 280, in gran parte nativi del Bangladesh con profughi provenienti da Sudan e Mali. Con il passare delle ore il mare si è fatto sempre più mosso, fino all'epilogo davanti all'isolotto di Lampione quando gli uomini della Guarda Costiera, sono riusciti a gettare le cime al barcone e a trainarlo al molo Favarolo di Lampedusa. Sulla vicenda la Procura di Agrigento ha aperto un'inchiesta, al momento a carico di ignoti. Per il procuratore capo Luigi Patronaggio si configura morte o lesioni come conseguenza di altro delitto legato al reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Le indagini serviranno, quindi, anche per identificare gli scafisti e gli organizzatori della traversata. «Ancora una tragedia, ancora una volta piangiamo vittime innocenti - dice il sindaco, Totò Martello - qui continuiamo a fare la nostra parte tra mille difficoltà (l'hot spot dell'isola è al collasso, ci sono 425 persone a fronte di una capienza massima di 250, ndr) nonostante il governo italiano e l'Europa sembrano avere dimenticato Lampedusa ed i lampedusani. Ma non possiamo andare avanti da soli ancora per molto». E in efetti la politica tace. I tempi delle risse furibonde sull'immigrazione sono lontanti se ieri da Roma non è arrivata una sola dichiarazione - da destra e da sinistra - su questa tragedia. «Tutto questo è inaccettabile», dice Claudia Lodesani, presidente di Medici Senza Frontiere Italia, mentre il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, annuncia l'invio di una lettera alla nuova Presidente del Parlamento europeo».
BECCIU NUOVAMENTE RINVIATO A GIUDIZIO
Nel processo per l'acquisto vaticano dell'immobile di Sloane Avenue a Londra nuovo rinvio a giudizio per il cardinal Becciu. L’accusa reiterata dai pm vaticani, dopo il primo stralcio, è subornazione del testimone. Mimmo Muolo per Avvenire.
«Nuovo rinvio a giudizio per il cardinale Angelo Becciu (subornazione del testimone monsignor Alberto Perlasca) e altri tre imputati (Mauro Carlino, Raffaele Mincione, Nicola Squillace e Fabrizio Tirabassi) nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, nato dall'acquisto di un palazzo a Londra. Archiviazione invece per l'accusa di peculato nei confronti dell'ex direttore del-l'Aif, Tommaso Di Ruzza. Sono le risultanze principali della sesta udienza, svoltasi ieri, del procedimento in corso in Vaticano. Udienza di soli 40 minuti, ma con molte novità. Il presidente del tribunale Giuseppe Pignatone si è scusato per il ritardo di oltre due ore con cui è iniziata l'udienza, spiegando che le richieste di rinvio a giudizio sono state depositate dall'Ufficio del promotore di giustizia solo ieri. E riguardano tutte il troncone di processo precedentemente stralciato, perché non erano state osservate le regole procedimentali. Pignatone ha anche precisato di non avere il potere di opporsi, ma ha fissato la prossima udienza il 18 febbraio, quando i tronconi verranno riuniti. Il pg Alessandro Diddi, conversando con i giornalisti, ha detto che «in questi mesi, in cui le difese degli imputati avevano chiesto maggiori approfondimenti e gli interrogatori non effettuati, nessuno degli imputati si è presentato. Noi però gli approfondimenti li abbiamo condotti, depositando sette faldoni di nuovi accertamenti». Tuttavia le difese continuano a chiedere la nullità radicale del procedimento perché alla data di ieri, a dire degli avvocati, non erano stati depositati tutti gli atti richiesti. Una situazione che si trascina dallo scorso 27 luglio. In particolare, Fabio Viglione, difensore di Becciu, ha eccepito che su un totale di 255 supporti informatici sequestrati, 239 non sono stati rilasciati in copia, mentre nessuna delle copie consegnate «può essere qualificata come copia forense » e «la totalità delle copie è costituita da dati più che parziali». L'altro difensore del cardinale, Maria Concetta Marzo ha detto che Becciu ieri non era in aula per non ascoltare «contenuti di dialoghi». Secondo la legale, infatti, «ci sono punti di prova trattati negli interrogatori di cui negli atti consegnati non viene riportata neanche una parola, e neanche un omissis». Nell'interrogatorio di Perlasca del 23 novembre 2020 «viene esplorato un sospettato rapporto intimo tra Becciu e Cecilia Marogna». Si sente il promotore di giustizia chiedere a Perlasca dei rapporti tra il cardinale e la donna e la risposta dell'interrogato è di non saperne nulla. Ma il magistrato insiste: «Ma come non sa nulla? L'ha mai sentito Crozza? Il cardinale ha querelato l'Espresso e non fa niente a Crozza? Io l'avrei massacrato, gli avrei fatto male». «Di questo tema di prova nel verbale non c'è neanche una parola », ha sottolineato Marzo, secondo cui sia i riferimenti alle «voci correnti» come nel caso di Crozza, sia i riferimenti alla 'moralità' del cardinale eccepiscono la nullità. Richiesta appoggiata anche da Luigi Panella, difensore di Enrico Crasso».
UCRAINA, LA GUERRA E LA PACE
Giorni di grande tensione, dopo l’invio a Kiev di una valanga di armi e munizioni da parte degli Stati Uniti. Nelle prossime ore Nato e Usa devono rispondere ufficialmente alle richieste scritte avanzate dalla Russia. Il punto di Elena Molinari per Avvenire.
«Le potenze occidentali chiariscono la posizione dei loro pezzi sulla scacchiera dell'Europa orientale, in una settimana decisiva per la crisi russo-ucraina. Nei prossimi giorni infatti sia la Nato che gli Stati Uniti invieranno a Mosca le risposte formali alle sue richieste di garanzie di sicurezza: una sorta di ultimatum russo che l'Alleanza atlantica e Washington hanno già precisato di non poter accettare per intero. «Stiamo finalizzando le proposte della Nato. Invieremo un documento scritto entro questa settimana», ha detto il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, sottolineando che le proposte dell'Alleanza arriveranno «in parallelo» con quelle degli Stati Uniti. Stoltenberg ha anche precisato che la Nato non ha in programma di schierare le sue truppe da combattimento in Ucraina, proprio mentre la Casa Bianca precisava di non avere «alcuna intenzione o interesse o desiderio di inviare truppe Usa in Ucraina unilateralmente». Il dubbio sull'invio a Kiev era sorto perché Washington nei giorni scorsi ha messo in allerta 8.500 soldati. «La Nato è un forum per sostenere i nostri partner e i Paesi del suo fianco orientale», ha affermato la Casa Bianca, dopo che il portavoce del Pentagono aveva dichiarato che le truppe Usa sono «pronte» a riempire subito i ranghi di una forza di risposta rapida Nato. Trasferimento confermato da Biden. I chiari sforzi di non farsi trovare impreparati da una mossa russa, evitando al tempo stesso ogni malinteso che possa essere usato dal Cremlino come pretesto per un attacco sono il termometro della tensione ai confini russo-ucraino, che ha raggiunto temperature da ebollizione. La Russia infatti ha risposto alla mobilitazione Usa e Nato con esercitazioni delle sue truppe corazzate in Crimea e ricordando a Washington che si aspetta una riduzione delle forze Nato nell'Europa orientale. Fra le precauzioni delle ultime ore rientra anche l'ordine di rientro inviato dal governo del Canada ai familiari dei diplomatici accreditati a Kiev, seguendo l'esempio di Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Germania. Nel frattempo le continue consultazioni transatlantiche puntano a ricompattare il fronte alleato, fra Usa e Gran Bretagna da una parte che si aspettano un'aggressione di Mosca in qualsiasi momento e sono pronte a fornire mezzi, armi, munizioni e fondi a Kiev, e il resto d'Europa, che sembra più credere a un bluff di Vladimir Putin e insiste sulla via del dialogo, pur preparando sanzioni. Ufficialmente, però, Joe Biden e i leader europei ostentano unità. Ieri la Casa Bianca ha sottolineato che, al termine di una videoconferenza, gli alleati hanno ribadito le loro «preoccupazioni» comuni per il rafforzamento della presenza russa al confine con l'Ucraina ed «espresso il loro sostegno alla sovranità e all'integrità territoriale» del Paese. Alla chiamata avevano partecipato Biden, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il primo ministro Mario Draghi, il presidente polacco Andrzej Duda, il premier Boris Johnson, il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel e il segretario generale della Nato. Il dialogo fra alleati continua anche su misure per contrastare eventuali tagli di rappresaglia da parte di Mosca delle forniture di gas all'Europa e a sanzioni finanziarie coodinate «anche a Putin se necessario». ha detto Biden. La Casa Bianca sta «identificando riserve non russe di gas naturale in Nordafrica, Medio Oriente e Asia e hanno avviato consultazioni con tutti i grandi produttori per aumentare, se necessario, le forniture all'Europa».
Ma la Germania frena. La diplomazia accelera nel tentativo di fermare la pericolosa escalation in Ucraina. Ieri il presidente francese Macron è volato a Berlino dal cancelliere Olaf Scholz: l'asse franco-tedesco vuole trattare. Il punto della situazione di Uski Audino da Berlino per La Stampa.
«La Germania frena, punta i piedi, recalcitra all'idea di un conflitto militare con la Russia alle porte di casa. Finge di ignorare il tintinnar di sciabole e ripete il suo mantra: «Se ci sarà una violazione dell'integrità territoriale dell'Ucraina i costi saranno molto alti». Nel frattempo però, esportare "armi letali" rimane fuori discussione. E per uscire dall'isolamento in cui rischia di finire, dopo che gli alleati europei hanno fatto a gara per offrire sostegno all'Ucraina in termini di sistemi d'arma, Berlino cerca e trova la sponda dell'alleato francese. Il presidente Emmanuel Macron ieri è arrivato nella capitale tedesca per ribadire che sull'Ucraina tra i due Paesi c'è «unità»: «entrambi lavoriamo ad una de-escalation delle tensioni», per un dialogo con Mosca a tutti i livelli e formati possibili. Venerdì si sentirà con Vladimir Putin, mentre stamattina si comincerà a Parigi con il primo incontro del Formato Normandia a livello di consiglieri diplomatici. È la prima volta dal 2019 che tornano a sedersi allo stesso tavolo rappresentanti di Russia e Ucraina, con la mediazione di Francia e Germania. L'intenzione è rimettere in moto un discorso interrotto e provare «a imprimere una dinamica positiva» su temi concreti, ha spiegato Macron in conferenza stampa. Ma le critiche al governo di Berlino rimbalzano sulla stampa tedesca, soprattutto sulla questione dell'export di armi. Tre giorni fa il ministro degli Esteri di Kiev Dmytro Kuleba si è detto «deluso dal continuo rifiuto della Germania di autorizzare la fornitura di armi difensive», in un'intervista a Welt, e il giorno dopo su Bild il sindaco della capitale ucraina, Vitali Klitschko, ha accusato Berlino di «tradimento» e di «omissione» di soccorso. Sorvolando sul fatto che le critiche maggiori trovano spazio sui quotidiani del gruppo Axel-Springer, come Welt e Bild, che non mancano occasione per rintuzzare il governo a guida socialdemocratica, è vero che la pressione su Berlino aumenta di giorno in giorno da parte degli Stati vicini. Come nella vicenda dei 9 obici di tipo sovietico D-30 dell'ex esercito della Ddr che l'Estonia vorrebbe dare all'Ucraina ma non può. Per farlo servirebbe l'autorizzazione tedesca. Grande imbarazzo a Berlino hanno suscitato poi le dichiarazioni nel fine settimana del vice-ammiraglio della marina militare Kay-Achim Schoenbach. Durante un incontro pubblico in India l'alto ufficiale ha definito il timore di un'aggressione russa in Ucraina un «nonsense», «la Crimea è perduta e non ritornerà mai», l'Europa «ha bisogno della Russia contro la Cina», e Vladimir Putin vuole solo «essere trattato con rispetto». Di fronte allo tsunami suscitato da tanta naiveté, il militare è stato costretto alle dimissioni, accettate a tempo di record dalla titolare della Difesa Christine Lambrecht. La solidarietà offerta da Berlino all'Ucraina è di tipo diverso, ha ricordato ieri Scholz. Si concretizza nell'assicurare al Paese che rimanga terra di transito del gas russo, garantendo il prolungamento dei suoi contratti, si attua nei rapporti economici e nelle prospettive future di collaborazione su rinnovabili ed energia a idrogeno e sul piano militare, nel sostenere i costi di un ospedale da campo. «L'Ucraina sa che può contare sulla Germania come partner» ha ribadito Scholz, ignorando le critiche di Kiev. Le ragioni della cautela di Berlino sulla Russia hanno radici antiche ma pragmatiche. «La Russia è un partner difficile ma non è un nemico dell'Europa» ha ribadito il leader dei conservatori bavaresi, Markus Soeder in un'intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, dando voce a una consapevolezza radicata tanto nel campo conservatore quanto in quello socialdemocratico. La Germania ha un forte interscambio commerciale e economico con la Russia e sul piano del gas «nessuno approfitta tanto dal gas russo quanto la Germania» tanto che «nemmeno nei tempi più bui della guerra fredda si è messa in discussione il legame energetico tra Unione sovietica e Germania», ha aggiunto Soeder sulle sanzioni. Le "misure restrittive", infatti, sono la vera ragione della cautela tedesca. «La clava più dura non è sempre la spada più intelligente» ha fatto sapere la ministra degli Esteri Annalena Baerbock a Bruxelles, commentando le sanzioni. Per esempio spaventa gli imprenditori tedeschi l'opzione di tagliare fuori le banche russe dalle operazioni di pagamento internazionali che funzionano tramite il fornitore di servizi Swift, riferisce Handelsblatt. Intanto la Croazia si sfila e fa sapere che non parteciperà alle operazioni della Nato in Europa dell'Est ma ritirerà il suo contingente dalla Polonia».
Con la consueta intelligenza Giulio Sapelli viene intervistato da Libero sul caso Ucraina- Russia. E sembra riecheggiare un commento di Alberto Negri scritto qualche giorno fa per il Manifesto. Commento in cui ci si chiedeva: fra Nato e Russia “Chi assedia chi?”
«Economista, storico, accademico e dirigente d'azienda, già indicato nel 2018 come possibile Presidente del Consiglio dei Ministri nel ruolo che poi andò a Conte, Giulio Sapelli è un'analista che certe dinamiche oggi al centro della crisi tra Russia e Ucraina le aveva già indicate ad esempio nel suo libro del 2015 Dalla Russia con dolore. Il nuovo disordine mondiale. E sul tema è anche tornato l'anno scorso nel suo libro Nella storia mondiale. Stati mercati guerre. «Sia pure a ben trenta anni di distanza, stiamo pagando il prezzo che dopo il crollo dell'Urss non ci siano state una nuova Yalta o un nuovo Congresso di Vienna per risistemare l'equilibrio europeo e il concerto delle nazioni. Si è invece fatta una politica di erosione di ciò che rimaneva del vecchio impero sovietico, che ha naturalmente riaperto in Russia una piaga storica. È un tipo di reazione che hanno sempre avuto dai tempi degli zar, fin dalla guerra del '700 contro gli svedesi, ogni volta che si sentono aggrediti ai confini. Se la gente rileggesse le memorie di Gorbaciov e di Reagan, saprebbe che tra i due era stato fatto un patto tra gentiluomini: dei Paesi confinanti con la Russia storica, nessuno avrebbe dovuto aderire né all'Unione Europea, né alla Nato. Ed è invece una cosa che gli americani hanno subito contraddetto. Il concerto europeo avrebbe avuto bisogno di un anello di Stati neutrali tra la Nato e la Russia, perché una potenza euroasiatica non deve sentirsi minacciata. Non averlo fatto ha portato ha crisi a ripetizione, ed ha poi favorito la Cina, dal momento che ha spinto i russi tra le sue braccia. E la Cina è una potenza molto più aggressiva della Russia, come sta dimostrando oggi davanti agli occhi di tutti». Ma non ci sono anche responsabilità russe in tutta questa situazione? «Certamente, anche perché la Russia ha sempre avuto tra le sue molte tendenze di linee di politica estera anche quella di estendere il suo dominio. Ma la responsabilità principale è nella errata politica americana e della Unione Europea, che non si rendono conto di quanto sia importante legare la Russia all'Europa». Ma l'interesse delle Superpotenze a non avere presenze ostili ai confini corrisponde la storica sensazione dei vicini di queste Superpotenze di essere da loro vessati... «Ciò è avvenuto da sempre: basta rileggersi la Guerra del Peloponneso di Tucidide. Ma proprio perché c'è questa costante, le potenze intermedie dovrebbero avere un ruolo di moderazione». In altri termini: Usa e Russia hanno il diritto a non avere vicini ostili, ma dovrebbe avere anche la sensibilità di non farsi percepire dai vicini come prepotenti... «Ma ciò richiede una intelligenza diplomatica molto elevata. Secondo me i russi un po' ancora la hanno, perché sono allievi di Primakov che è stato un grande diplomatico e un grande ministro degli Esteri, che ha fatto gli interessi della Russia. Anche dell'imperialismo russo, sì: c'era un imperialismo sovietico, c'è un imperialismo russo. Però con una cultura molto superiore a quella americana, che mi pare vada allo sbando pericolosamente. A partire dall'appoggio dato alle cosiddette primavere arabe, che hanno aperto al fondamentalismo islamico. La diplomazia francese e la diplomazia russa sono due grandi scuole. Quella americana, purtroppo, dopo che Kissinger non ha più avuto un suo ruolo è profondamente decaduta». Però Svezia e Finlandia, durante la Guerra Fredda di un neutralismo spesso filo-sovietico, sono oggi talmente spaventate dalla Russia che parlano per la prima volta di entrare nella Nato. Non è che la cosa sta scappando di mano un po' da tutte le parti? «Temo di sì, ne stavo giusto parlando con una analista intelligente come Marta Dassù. Credo ci sia qualcosa nel sistema di potere russo di oggi che rende il potere di Putin non così stabile come un tempo, e che da qui vengano fughe in avanti. Sul fatto che questa aggressività debba ricoprire qualche difficoltà interna, non c'è alcun dubbio». C'è anche la denuncia che in questo momento la Russia stia esportando ideologia autoritaria. «Anche su ciò non c'è alcun dubbio. La Russia è una autocrazia, non è certo una democrazia. È una sorta di autoritarismo, come la avrebbe definita Juan Linz. Io la definirei più propriamente autoritarismo moderato». Lei è a favore di un asse tra Occidente e Russia per bilanciare la Cina... «Sì, bisogna fare ponti d'oro: il nemico principale è la Cina. Ma c'è una differenza tra me e altri analisti: secondo me la politica estera deve farsi con la ragion di Stato. Non ci deve essere una alleanza delle potenze democratiche contro le potenze autoritarie: sarebbe un approccio infantile. L'internazionalismo democratico non ha nessun senso. Bisogna far prevalere la pace attraverso la Ragion di Stato, e quindi moderando il ruolo dell'ideologia nella politica estera».
LA CONFERENZA DEGLI IMPRENDITORI IMBARAZZA IL GOVERNO
Big delle aziende italiane a Milano e a Roma incontrano Vladimir Putin in una teleconferenza che ora fa discutere. Il governo fa sapere: è stato chiesto in extremis di non tenere l'evento. All’incontro previsti Enel, Unicredit e Intesa. Gianluca Paolucci per la Stampa.
«Una situazione grottesca», si lascia scappare un funzionario governativo. Di certo la videoconferenza tra Putin e alcuni dei bei nomi dell'imprenditoria italiana, in programma per oggi, è un caso a livello internazionale. Oggetto dell'incontro, spiega un comunicato del Cremlino, «le prospettive di ulteriore espansione dei legami di affari tra i due Paesi». Mentre la Russia prepara l'invasione dell'Ucraina e Nato e i nostri partner europei studiano le contromisure. Il governo ha anche chiesto in extremis di non tenere l'evento, confermano fonti di Palazzo Chigi. E ieri sera, dopo le conferme del pomeriggio, sarebbero arrivate una serie di defezioni per effetto della «moral suasion» del governo. Il panel dei partecipanti da parte italiana, in possesso de La Stampa, comprende anche i big di partecipate pubbliche come l'amministratore delegato di Enel, Francesco Starace e il numero uno di Saipem, Francesco Caio (in dubbio ieri sera). Non ci sarà l'ad di Eni, Claudio De Scalzi, con il gigante petrolifero rappresentato dal vicepresidente - con passaporto italiano e russo - Ernesto Ferlenghi. Confermati a ieri sera anche Andrea Orcel, a capo di Unicredit, il presidente di Generali Gabriele Galateri, Emma Marcegaglia, Andrea Clavarino di Coeclerici, Francesco di Amato di Maire Technimont, Gianpiero Benedetti di Danieli, Guido Barilla, Luigi Scordamaglia di Cremonini. Presenta anche Antonio Fallico, numero uno di Intesa Russia e grande tessitore di relazioni tra Mosca e il mondo impreditoriale italiano, nella sua veste di presidente dell'associazione Conoscere Eurasia. Fonti diplomatiche italiane si sono affrettate a precisare che si tratta di una iniziativa privata e non ci sarà nessun rappresentante della Farnesina. Anche se in una prima versione dell'evento era presente il nome, tra i partecipanti, dell'ambasciatore italiano a Mosca - nonché fratello del top manager Enel - Giorgio Starace. A fare gli onori di casa, il presidente di Pirelli nonché co-presidente del comitato impreditoriale italo-russo, Marco Tronchetti Provera. E Vincenzo Trani, presidente della Camera di commercio italo-russa e principale azionista di Delimobil, società di car sharing attiva in Russia che ha nel board anche il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. Si tratta di «un'occasione di dialogo fattivo senza retorica politica», ha detto lo stesso Trani. Sta di fatto che la conferenza arriva poche ore dalla telefonata di del presidente Usa Joe Biden a una serie di leader europei trai quali Mario Draghi. E mentre Usa e Ue preparano l'estensione delle sanzioni e contromisure drastiche. «Sono state confermate l'importanza di mantenere il più stretto coordinamento tra gli alleati e l'esigenza di una risposta comune», recitava un comunicato di Palzzo Chigi a proposito della telefonata con Biden. Ce n'è abbastanza per definire la conferenza prevista per oggi «grottesca».
LA DIPLOMAZIA DISARMATA DEL PAPA
Francesco ha indetto una giornata di preghiera per la pace. Oggi dunque nelle chiese italiane ci saranno appositi incontri. E c'è attesa per quanto potrebbe dire il Papa durante l'udienza del mercoledì. L’editoriale di Avvenire è a firma di Fabio Carminati:
«La pace, nel cuore orientale d'Europa, sembra in pericolo come mai era successo nei decenni recenti. E oggi, seguendo l'appello di papa Francesco a «tutte le persone di buona volontà perché elevino preghiere a Dio Onnipotente affinché ogni azione e iniziativa politica sia al servizio della fratellanza umana», la Chiesa si fa orante proprio per preservare la pace minacciata in Ucraina. Perché la risposta alle discordie non sia nelle armi. La crisi, infatti, è grave e rischia di avvitarsi ulteriormente. L'Europa, che potrebbe avere un ruolo di mediazione tra Russia e Nato, appare disunita. I tre Paesi Baltici e la Polonia temono l'avanzata di Mosca e usano toni duri in ogni occasione, mentre gli altre partner continentali scelgono una linea di massima cautela. Stesse divisioni nell'incontro in video di quasi un'ora e mezza dell'altra sera tra Joe Biden e gli alleati. Si procede in ordine sparso: Gran Bretagna e Spagna rafforzano i contingenti nell'area, l'Italia mantiene le sue forze in teatro rispettando gli equilibri Nato disegnati prima dell'escalation. E tutti si trincerano dietro la parola magica «diplomazia» che deve prevalere sulle armi. Ma di passi avanti se ne fanno pochi. Alcuni analisti sostengono che a Biden e a Boris Johnson, entrambi alle prese con crisi interne «rilevanti», mantenere alta la tensione serva a distogliere lo sguardo dalle difficoltà domestiche. E si fa notare che la soluzione della Casa Bianca per supplire a un eventuale blocco delle forniture di gas dalla Russia sarebbe poco plausibile: il presidente Usa ha infatti identificato in Arabia Saudita e Qatar i soccorritori energetici dell'Europa. Due interlocutori poco graditi a numerose cancellerie europee. Poi c'è il "caso Germania", dove pesa l'eredità che la 'diplomatica' Angela Merkel ha lasciato al suo successore socialdemocratico Olaf Scholz: il gasdotto North Stream2, costruito in una sorta di joint venture con Vladimir Putin. Tutti questi elementi creano una situazione ancora più instabile. Nel confronto tra Russia e Nato, le tensioni sono accresciute dal posizionamento di truppe di Mosca in punti nodali al confine svedese, ucraino e polacco. Ma l'aggressività di Putin si scontra con una constatazione: ogni giorno di guerra e di invasione dell'Ucraina costerebbe alla Russia milioni di dollari (dieci volte più dei soldi già spesi per mantenere l''assedio'). E mai come adesso le aspirazioni non corrispondono alle disponibilità. Certo, il Cremlino non è ancora in "rosso", ma quel gioco che si chiama globalizzazione lo tiene in ostaggio. Sta usando anche truppe private nei conflitti per procura in Africa e America Latina. Putin ha poi un rivaleamico (per convenienza e in chiave anti-Usa) nella Cina di Xi Jinping. E questa amicizia costa, perché mai i cinesi regalano qualcosa. Sull'altro fronte c'è Joe Biden, al minimo della popolarità e al massimo del desiderio di dimostrare il peso di Washington. Ironia della sorte, la partita si gioca ancora una volta lontano da casa, lontano da quell'America che gli esprime solo il 40% dei consensi e a 7mila chilometri da Kiev. Per un uomo che aveva fatto della politica del disimpegno nel Vecchio Continente uno dei punti chiave della strategia anticinese (per reperire di truppe e ridistribuire risorse), tutto questo rischia di essere un boomerang. Insomma: (al di là delle ragioni morali) sembra che una guerra oggi non convenga a nessuno. Ma va evitato che i contendenti si trovino a combatterla solo e cinicamente per salvarsi la faccia. Per questo, la disarmata diplomazia di papa Francesco affianca, anche con la preghiera, gli sforzi di chi lavora per far tornare indietro le lancette dell'orologio dell'Apocalisse».
L’INCHIESTA SU BORIS JOHNSON DIVENTA DI POLIZIA
Regno Unito, il premier Boris Johnson in grande difficoltà: ci sono anche prove di una festa del suo compleanno con tanto di torta e invitati durante il lockdown. Ora indaga anche la polizia. Sabrina Provenzani per Il Fatto:
«Dopo settimane di tentennamenti e giustificazioni, il Metropolitan Police, il corpo di polizia londinese, ha finalmente deciso di aprire una indagine formale sul partygate, la serie di feste tenute nella primavera del 2020 a Downing Street 10, residenza e ufficio del primo ministro britannico, in presunta violazione delle restrizioni Covid imposte al resto della popolazione. Presunta perché a denunciarne l'esistenza e l'irregolarità sono state fughe di notizie rilanciate da vari organi di stampa, mentre Johnson ha sempre dichiarato ufficialmente di aver creduto in buona fede, o essere stato indotto a credere, che si trattasse di incontri di lavoro consentiti, anche quando abbondavano vino, formaggio e relax primaverile in giardino. L'ultima goccia di uno stillicidio iniziato prima di Natale è l'ennesimo scoop di ITV : a Downing Street nel 2020 si sarebbe festeggiato il compleanno del premier, il 19 giugno, prima con un party in ufficio, con tanto di torta e coro di auguri quando i canti erano proibiti ovunque per il rischio di aumentare i contagi. La linea difensiva ricorda le precedenti: non è stata una festa, solo una pausa di 30 minuti per il dolce e gli auguri, con il premier di passaggio per soli 10 minuti, in piena osservanza delle regole vigenti al momento. Meno chiara la giustificazione per il party successivo, in serata, nella residenza privata con familiari e amici, in numero ben superiore dei sei consentiti ai comuni mortali per i ricevimenti al chiuso durante il primo lockdown. E quindi perché il Met si è finalmente deciso a vederci chiaro, dopo aver rimandato per settimane con la bizzarra giustificazione che non avesse senso indagare su passate violazioni del protocollo Covid? Qui ci sono solo supposizioni. La prima è che stavolta il coinvolgimento del premier non si possa negare, visto che era il suo compleanno. La seconda, diffusa da Downing Street nel primo pomeriggio di ieri, è che l'intervento della polizia comportasse il rinvio della pubblicazione dell'inchiesta di Sue Gray, l'alta funzionaria incaricata di ricostruire gli eventi. Avrebbe quindi fatto guadagnare tempo a Johnson, il cui destino politico appare appeso a quei chiarimenti. Sembra però che la Gray si sia opposta a questa eventualità, abbia concluso il suo rapporto e chiesto di renderlo noto nella sua interezza senza indugi. Il capo del Met, Cressida Dick, non avrebbe obiettato e la pubblicazione sarebbe quindi imminente. Ma, il diavolo è nel dettaglio, la decisione finale spetta a Boris Johnson, che ha sempre dichiarato di volere la massima trasparenza, ma ora fa sapere di stare ancora valutando se e cosa il pubblico possa sapere. È vero che la Gray ha regole d'ingaggio limitate alla ricostruzione dei fatti e nessun potere sanzionatorio, ma la pubblicazione delle sue conclusioni è un passaggio essenziale, perché nei giorni scorsi è apparso chiaro come i ribelli conservatori, quelli che vogliono liberarsi di un premier ormai tossico anche per una parte del partito e del suo elettorato, aspettino solo gli esiti di quell'indagine per avviare formalmente o meno la procedura interna di sfiducia nel premier e segretario del partito. In nome della governabilità, nel Regno Unito le dimissioni del primo ministro non portano a elezioni anticipate, ma sono gestite come un affare interno al partito di governo: il processo si avvia quando viene raggiunto il 15% di richieste di dimissioni sul totale dei deputati di quel partito. La sfiducia deve essere poi confermata dal 50% più 1. Se non passa, il primo ministro non può più essere sfidato per un anno: altrimenti resta in carica ad interim e si apre la competizione fra aspiranti alla premiership. La prima scrematura viene fatta dai deputati, mentre la scelta fra i due più votati viene delegata agli iscritti al partito, che nel caso dei Conservatori sono poco più di 100 mila persone in tutto il paese. Ma l'intero processo dura almeno due mesi, e il precipitare della crisi ucraina pesa: meglio affrontare un possibile intervento militare con un primo ministro pro forma o con un premier debole, ricattabile e disprezzato anche dai suoi?».
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