I partiti metabolizzano il bis
Leader e coalizioni devono digerire il secondo mandato a Mattarella. Salvini scrive, Meloni si sente sola, Conte vuole espellere Di Maio, Letta guarda al centro. Crisi ucraina oggi all'Onu
I partiti devono metabolizzare il loro plateale fallimento. La stima per Sergio Mattarella non manca ma la crisi al loro interno e all’interno delle coalizioni è evidentissima e per certi versi clamorosa. I giornali si dividono fra quelli che sottolineano la durissima resa dei conti nei 5 Stelle (come Repubblica e Fatto) e quelli che sottolineano i maldipancia nel centro destra (come Libero e Giornale). Non sarà facile neanche la nuova fase del governo Draghi, che di fatto inizia oggi. Sergio Mattarella parlerà giovedì. Vedremo. Da notare due interviste paradossali. Alessandro Di Battista, dall’esterno dei 5 Stelle, ha sempre gridato al golpe del governo “horror” del banchiere Mario Draghi. Adesso appoggia a posteriori l’idea della salita diretta al Colle della responsabile dei servizi segreti Elisabetta Belloni, in polemica con l’odiato Luigi Di Maio. Roba davvero sudamericana, non proprio coerente con chi vorrebbe essere un nuovo Che Guevara... Antonio Tajani insiste in un colloquio col Giornale: se Berlusconi fosse andato al voto avrebbe vinto. Come no!
L’articolo di Matteo Salvini per Il Giornale sulla rifondazione del centro destra di governo è interessante. Anche se contiene ancora un alto tasso di ambiguità fra la linea conservatrice ed europeista e quella populista del “prima gli italiani”. A Salvini va comunque riconosciuto grande senso di responsabilità nel finale di partita sul Colle, quando ha fatto propria e condivisa la scelta del bis a Mattarella. Riconoscimento che viene oggi dal Foglio. Schietta anche la Meloni, che accarezza l’idea di correre da sola, fino in fondo. Il che apre prospettive diverse sulla legge elettorale proporzionale. Prospettive che interessano molto a Enrico Letta e a tutti i “centristi”, a cominciare da Matteo Renzi.
Pandemia. Oggi Consiglio dei Ministri (Draghi sta pensando di raddoppiare le riunioni settimanali del governo) che dovrebbe tornare sulle misure anti-Covid, a cominciare da quelle sulla scuola. Nei numeri del contagio intanto scende l’indice di positività e anche il numero dei decessi, 235 ieri. Ma era domenica e nei giorni festivi le cifre vanno prese con cautela. La curva comunque sta calando, ancora lentamente ma sta calando.
Dall’estero oggi riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che dovrebbe occuparsi dell’Ucraina. Interessante schedone sul Paese e sulla storia della contesa, nel Corriere della Sera grazie al “Data room” di Battistini e Gabanelli: aiuta a inquadrare la follia di un’emergenza internazionale e di un rischio guerra per noi europei sempre meno comprensibile.
È disponibile il secondo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo secondo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Serena Andreotti, figlia di Giulio.
Ne è scaturito un racconto a tutto tondo dell’uomo politico e della persona che ha attraversato grandi crisi e altrettanti successi. Giulio Andreotti è stato un grandissimo servitore dello Stato, sul cui giudizio pesa un finale denigratorio che è poi stato smentito dalle sentenze finali dei processi contro di lui. Il bacio di Totò Riina è stata una delle più grandi fake news politico-giudiziarie della storia italiana che ha alimentato una rivolta contro la politica. La figlia Serena ne ripercorre le vicende con grande precisione e trasporto. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…
… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il secondo episodio.
https://www.spreaker.com/user/15800968/serena-andreotti
E qui il sito della Fondazione De Gasperi
http://www.fondazionedegasperi.org/
Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.
Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.
Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Leader e coalizioni devono digerire la soluzione del bis al Colle. Il Corriere della Sera spiega: Alta tensione nei partiti dopo il voto. La Repubblica punta sul Movimento: M5S, Di Maio accusa Conte. Il Fatto concorda: Draghi battuto, partiti divisi. Nel M5S processo a Di Maio. Anche Il Manifesto gioca con le parole mettendo le foto dei 5 Stelle: Litership. Quotidiano Nazionale: Tutti contro tutti, i partiti nel caos. Anche nel centro destra, c’è discussione. Libero è diretto: Parla la Meloni. «Rifaccio il centrodestra. Non mi ferma nessuno». Il Giornale invece pubblica un articolo programmatico del capo della Lega: Il piano di Salvini. «Ora il partito repubblicano». Domani va sui compiti del Governo Draghi: Il test Colao. Il Messaggero insiste: Il governo spinge sulle riforme. Il Sole 24 Ore sottolinea le misure in politica economica: Draghi riparte da bollette e pensioni. La Stampa sul “rimpasto” mancato: Draghi, primo no a Salvini. La Verità vede invece il Governo nei guai: Così hanno incastrato Draghi. Il Mattino pensa al discorso di giovedì: Mattarella: riforme urgenti.
DOPO IL BIS. LE CONSEGUENZE DI MATTARELLA
Dopo la corsa per il Colle i partiti vorrebbero subito iniziare la corsa che li porterà alle elezioni. Dalla Lega ai 5 Stelle, le forze della maggioranza sono senza fiato. Francesco Verderami per il Corriere.
«Dopo la corsa per il Colle vorrebbero subito iniziare la corsa che li porterà alle elezioni. Le forze della maggioranza sono però senza fiato, spossate dalla prova del Quirinale nella quale hanno mostrato - ognuna per la propria quota parte - limiti politici, inadeguatezza di classe dirigente, incapacità a mediare: doti essenziali per riconquistare quel primato che rivendicano. Ma anziché cercare un nuovo centro di gravità, già si sentono - dalla Lega fino al Pd, passando per M5S e Forza Italia - certe mezze frasi che anticipano voglia di rivincita. È come se invece di risolvere la loro crisi, volessero aggirarla con nuove sfide celoduriste. Ambientate a Palazzo Chigi. Parlando del governo, infatti, Salvini ha chiesto il «tagliando», Conte ha evocato l'«agenda», Letta ha indicato i «temi prioritari». «Sarà un anno frizzante», sussurra un membro della segreteria dem. Quasi non fosse accaduto nulla, prevale insomma l'istinto primordiale di rivalsa, sebbene le macerie dei loro partiti e delle loro coalizioni siano davanti ai loro occhi. Il centrodestra non esiste più e si vedrà se e in che modo resusciterà. In Forza Italia si vede la faglia di frattura che sta per dividere ciò che resta del mondo berlusconiano da chi prenderà la strada del nuovo centro: «Tanto non sarebbero stati ricandidati», diceva l'altro giorno in Transatlantico un dirigente azzurro indicando il parterre governativo. Nel Carroccio si mordono la lingua per non dire che la strategia di Salvini «ci ha portato a perdere il Quirinale, a spaccare la coalizione e a inimicarci il premier, che non è un bonaccione». È vero che a modo suo il leader della Lega ha avuto un ruolo decisivo per la rielezione di Mattarella, perché - rivela una fonte accreditata - «senza un suo pronunciamento, al capo dello Stato non sarebbe bastata la dichiarazione di Berlusconi per accettare di tornare». Ma il prezzo politico del fallimento da kingmaker è altissimo e incide nei rapporti di partito: Giorgetti ha atteso che Salvini capitolasse prima di minacciare le sue dimissioni da ministro, così da vendicarsi con il segretario che un paio di settimane fa - in piena trance agonistica - si era proposto come «asso di briscola» per il governo. Il Capitano non perderà la leadership della Lega ma già oggi non è riconosciuto più come capo della coalizione, perché Forza Italia si è autonomizzata e la Meloni ha annunciato l'Opa sull'alleanza che verrà. Se verrà, perché dipenderà dalla legge elettorale. E in questo senso anche la leader di Fratelli d'Italia rischia di veder sfumare il suo disegno. In ogni caso, siccome tutti si giocheranno tutto alle prossime elezioni, si preparano alla competizione usando il governo come terreno di battaglia. Accadrà anche nel centrosinistra, che sta ai materassi. La lotta nel Movimento tra Conte e Di Maio fa supporre un divorzio non consensuale. D'altronde, se il primo dice che «quello pensa solo alla sua poltrona» e il secondo dice che «quello è pericoloso», non è che ci sia altro da dire. Al Nazareno attendono di vedere come andrà a finire, ma nonostante gli abbracci alla Camera tra «Giuseppi» e Letta il rapporto tra i due si scioglierà: «Bisogna solo dare tempo al tempo», commentava un maggiorente dem mentre osservava la sceneggiata preparata ad uso mediatico. E pure nel Pd tira una certa arietta, «anche se per una volta nessuno di noi ha lasciato le penne sul Quirinale», ride di gusto uno dei capicorrente. Ma già l'affaire Belloni ha segnato il partito: bastava notare ieri la discrasia tra l'affermazione di Letta («il capo del Dis era formalmente compatibile con il ruolo di capo dello Stato») e la dichiarazione di Borghi, esponente della sua segreteria («L'Italia non è l'Egitto»). Tutto poi ruota attorno al tema delle liste elettorali, dove i lettiani pregustano il finale. Se così stanno le cose, a detta di un autorevole ministro dem «la curiosità sarà vedere il clima che si respirerà in Consiglio». Oggi si capirà. Ma siccome in agenda - oltre alla pandemia e al Pnrr - andranno esaminati la riforma del Csm, il dossier sull'energia, il nodo dei trasporti. E siccome questa discussione avverrà mentre in Parlamento partirà la bagarre sulla legge elettorale, ben tre rappresentanti del governo fanno la stessa previsione sul futuro dell'esecutivo. «Mica semplice». «Montagne russe». «Navigazione complicata». E uno di loro si spinge a dire: «Arriveremo a ottobre». «Ma nessuno avrà interesse a far saltare il quadro politico. Se non per convinzione, per convenienza», aveva sostenuto Guerini per rassicurare alcuni esponenti di Base riformista: «Magari ci sarà un po' di turbolenza». Ed è a quella «turbolenza» che la Meloni si riferiva ieri, mentre analizzava con un esponente di FdI la situazione di governo. Finché ha esclamato: «Pensa come starà Mario (Draghi, ndr). Mo' se famo du' risate». Aveva in mente Salvini? ».
DOPO IL BIS. TERREMOTO NEI PARTITI: I 5 STELLE
Clima da resa dei conti nel Movimento 5 Stelle. C’è chi vuole il cambio di leadership e invece chi difende Giuseppe Conte. L'ira di Grillo sul caso Belloni, perché si è esposto fuori tempo massimo. Il retroscena di Matteo Pucciarelli su Repubblica.
«C'è solo una cosa che al momento mette d'accordo le due tribù del M5S, i "contiani" e i "dimaiani": stavolta bisogna andare fino in fondo, perché così è impossibile andare avanti. Tra i due, alla fine, ne rimarrà solo uno. Giuseppe Conte si sente tradito e per Luigi Di Maio vorrebbe una sorta di processo pubblico, non solo davanti ai parlamentari, ma di fronte a tutti gli iscritti. Il ministro ed ex capo politico invece non ha alcuna intenzione di scusarsi di qualcosa e anzi, tesse la tela in quelle che prima erano le "sue" truppe, gente da lui messa in lista nel 2018, nella convinzione che sia possibile scalzare l'attuale presidente o comunque relegarlo in un angolo. Già provato dall'affare Riccardo Fraccaro nella settimana prima del voto per il Quirinale, con il già ministro sospettato di aver tramato alle spalle di Conte per mandare al Quirinale Giulio Tremonti, il presidente del Movimento si sente accerchiato. I take delle agenzie di stampa sul M5S non direttamente riconducibili ai vertici, i retroscena sui giornali: ogni commento o critica al suo operato è vista come una trama dei dimaiani. E così, a mali estremi estremi rimedi. La parola "espulsione", riecheggiata già per Fraccaro, ora torna per Di Maio. «Ora basta, vanno cacciati tutti, meglio pochi ma uniti », si è sentito dire negli ultimi giorni - più volte - da esponenti vicini all'attuale vertice. «La situazione è fuori controllo, serve un chiaro atto di sfiducia contro Conte e i suoi», promettono invece i dimaiani. Loro non se ne vogliono andare né gli basta fare la corrente di minoranza. I giochi per il Quirinale sono stati una sorta di pre-congresso, la convinzione del ministro è di poter contare su almeno 70-80 parlamentari, ad oggi (sono solo 20, replicano dall'altra sponda). È difficile dire come andrà a finire, perché al di là degli schieramenti in chiaro - i pesi massimi con Di Maio sono la viceministra all'Economia Laura Castelli e l'ex ministro Vincenzo Spadafora; i fedelissimi di Conte sono il capodelegazione al governo Stefano Patuanelli e l'ex reggente del Movimento Vito Crimi - c'è una vasta area grigia dentro il M5S che non ha ancora preso una posizione e che resterà alla finestra in attesa di fiutare l'aria. E poi ci sono le variabili. La prima: Grillo, il garante acciaccato ma ancora capace di spostare gli equilibri. Da tempo viene tirato per la giacca da entrambi i versanti, la sua assenza complica le cose perché ognuno gli mette in bocca tutto e il suo contrario. Ora viene descritto in piena sintonia con Conte, ora infuriato per essere stato ingannato sempre da Conte facendolo esporre su Belloni. Nessuno però dimentica la plateale demolizione di Conte, la scorsa estate, che stava facendo anche allora saltare in aria il M5S. Arrivarono proprio Di Maio e Roberto Fico a riportarlo a più miti consigli. Il presidente della Camera in questi giorni si è tenuto distante dalla contesa e tale resterà almeno fino al nuovo insediamento di Sergio Mattarella, di sicuro un suo coinvolgimento produrrà degli smottamenti in un senso o nell'altro. Dopodi ché Di Maio gode ormai di ampia stima nel cosiddetto establishment e non solo politico, ma Conte ha (o avrebbe) i voti fuori dal palazzo grazie ad un ancora alto consenso personale. E come dimenticare infine Alessandro Di Battista, ex di lusso oggi svincolato ma che se tornasse in partita potrebbe ancora fare la differenza? Sui social non manca mai di attaccare il M5S per i suoi "tradimenti" ma intanto ha comunque difeso Conte. Chi perderà il duello rusticano potrebbe anche decidere di andarsene, fondando altro. Un esito che complicherebbe la vita a molti: al centrosinistra e poi al governo stesso, peraltro alla Farnesina si continua a ritenere che Conte in cuor suo voglia farlo cadere. Commenta un big di primo piano: «Andremo in guerra, ci saranno morti e feriti. E però obiettivi, esigenze, linguaggi e target sono ormai troppo diversi». Chi conosce bene Di Maio lo racconta come avveduto nelle cose di partito, pronto a ingaggiare battaglia quando è certo di vincerla. Altrimenti chissà, dopotutto il Parlamento sembra orientato a varare una legge proporzionale e il destino di Mario Draghi in politica potrebbe non esaurirsi al 2023.».
DOPO IL BIS. TERREMOTO NEI PARTITI: MELONI SI SENTE LEADER
«Rifaccio il centrodestra, non mi ferma nessuno». Giorgia Meloni appare battagliera e gelosa della sua autonomia, non solo dal Governo. Ma anche dalla coalizione. Antonio Rapisarda per Libero.
«Dopo il giorno della rabbia (e dell'orgoglio) per Giorgia è già l'ora del progetto. «Da oggi lavoro per riformare il centrodestra. Un centrodestra che possa regalare delle soddisfazioni a chi crede nelle nostre idee, nei nostri valori e non vuol essere trattato come un impresentabile. Come un cittadino di serie b». Sulle rovine del centrodestra "parlamentare" - «polverizzato» dai franchi tiratori e sepolto dallo "strappo" effettuato da Berlusconi e Salvini sulla rielezione di Sergio Mattarella - la leader di Fratelli d'Italia è pronta a ricostituire un intero blocco politico a misura del suo popolo. Non solo. A incarnarne fin da subito la guida naturale, insieme alla «falange» dei suoi grandi elettori di cui si è detta assolutamente fiera: «In un panorama politico in cui tutti dicono una cosa e poi ne fanno un'altra», ha ricordato a proposito di ciò che è avvenuto sul Quirinale, «noi non facciamo cose contrarie da quelle che dichiariamo». Nonostante la frattura dilatatasi nella settimana quirinalizia con Lega e Forza Italia («Mi sembra che abbiano preferito l'alleanza col centrosinistra, sia per Draghi sia per Mattarella», ha spiegato al Corriere dichiarando saltata l'alleanza), la risposta granitica giunta dalla sua comunità - e dall'ottimo riscontro nelle votazioni a scrutinio segreto per Guido Crosetto e Carlo Nordio - le fa esclamare: «Nulla è perduto». Questa certezza Meloni ha tenuto a ribadirla ieri in una lunga diretta Facebook, a ridosso del pranzo. Come per rassicurare direttamente il popolo dei social su un fatto: se è vero che in Parlamento il centrodestra, con suo sommo stupore, si è scoperto minoranza «tra gli italiani» invece «è maggioranza». È a questa comunità che ha scelto di rivolgersi. Prima di tutto per riflettere ancora sul perché la coalizione abbia mancato l'appuntamento con la storia. «Avevamo l'occasione vera di eleggere per la prima volta un Presidente della Repubblica che rappresentasse la maggioranza degli italiani che votano centrodestra e che non hanno potuto mai esprimerne uno della loro area politica e culturale». Obiettivo distante 55 voti, «che si potevano trovare». Per questo, come ha ricordato, la richiesta agli alleati era stata quella di presentare «un nostro candidato alla terza chiama: per dimostrare di avere i nostri voti». Risposta? «Hanno detto che non era possibile, che non c'erano le condizioni». La verità? «Mi fa ammattire: Non si è voluto fare. Non ci si è voluto credere davvero». Il risultato - dopo l'impallinamento di Elisabetta Casellati (ad opera di azzurri e centristi) - è stata la rielezione di un capo dello Stato indicato sette anni fa dal Pd e lo sgomento degli elettori che hanno reagito inveendo sui profili di tanti esponenti "governisti" del centrodestra. OPPOSIZIONE Ma dopo la rabbia, dicevamo, per la Meloni è già tempo di rimboccarsi le maniche. «Tutto si può ricostruire», ha assicurato. «Bisogna crederci, non bisogna abbassare la testa e dire di no quando si deve dire di no». E se la fase 2 di Fratelli d'Italia è maturata con l'opposizione ai governi giallo-verde-rosso e "dei migliori", l'ulteriore passaggio prende spunto da quello che la fondatrice di FdI giudica il ventre molle che ha determinato la rottura del "vecchio" centrodestra: «In quello che costruiremo non può esserci un centro trasformista che può formarsi con il proporzionale, spregiudicato e pronto a muoversi ovunque si governi». Un avvertimento al capitano leghista e al Cavaliere a non cedere un millimetro sul maggioritario, dunque alla tentazione neo-proporzionalista: «Se ci staranno, ci sarà poco da aggiungere, perché con il proporzionale si riproduce la palude degli ultimi governi». I primi segnali di chi non ci sta, come spiegava ieri Libero, sono arrivati già dalla "chiama" conclusiva: dove più di trenta ribelli hanno votato il "meloniano" Nordio (e qualcuno scheda bianca) non solo come protesta nei confronti del «sì» a Mattarella di Carroccio e azzurri ma come apprezzamento per la coerenza di FdI. Ma l'operazione riformatrice di Giorgia, per chi conosce il Meloni-pensiero, non si fermerà al ceto politico dei tanti delusi e indignati desiderosi di traslocare dagli altri partiti del centrodestra. Tutt' altro. Per capirlo bisogna seguire le tracce di Atreju. Nell'edizione del 2021, versione natalizia, alcune mosse erano già chiare. Fra gli ospiti, ad esempio, ben tre quirinabili: Pera, Cassese, Nordio, componenti della futura "rosa" del centrodestra. Segno che FdI, che sta maturando nella "casa dei conservatori", è pronto a recepire - in tutte le forme - il contributo del meglio che l'Italia non conforme al progressismo è pronta ad offrire. In nome di quella maggioranza di italiani che per Giorgia & co non sono e non possono essere trattati «come cittadini di serie b».
Matteo Salvini scrive un lungo articolo per Il Giornale, che è un manifesto per il centro destra di governo. Il modello è quello del «partito repubblicano» nordamericano. Per federare liberali, garantisti e cattolici.
«È inutile nasconderci dietro un dito. Le votazioni per il presidente della Repubblica hanno mostrato la potenziale forza, ma anche i limiti, della coalizione di centrodestra come è attualmente. A fronte di una forte volontà di coesione e alla presenza di un progetto politico-culturale organico, credibile, capace all'azione di forze centripete che hanno tarpato le ali alle nostre legittime ambizioni. Personalmente ho la coscienza pulita: al di là degli insulti e delle critiche che ho subìto, ho messo la faccia per proporre soluzioni di prestigio che a sinistra hanno bocciato sistematicamente. Non mi abbatto. E rilancio. Io rispetto chi ha detto no al governo di unità nazionale, no a Draghi e l'altro ieri no all'elezione di Mattarella, ma non capisco la scelta di attaccare gli alleati che hanno maturato una decisione diversa. Non rispetto, invece, chi ha detto sì a tutto questo e poi si è reso artefice di operazioni di «tradimento» che ricordano brutte pagine della nostra storia, di cui fra l'altro è stato vittima nel passato anche il Presidente Berlusconi. Bisogna reagire e creare daccapo le condizioni del nostro stare insieme. Anche il progetto più convincente ha bisogno di una gamba politica che lo faccia camminare, di una organizzazione adeguata che metta capo a una unità di intenti e di azione pratica che valorizzi e non disperda le nostre forze. Gli attuali schemi non riescono a garantire del tutto questo ancoraggio al reale: non basta sommare le nostre forze ma è necessario che si cominci a ragionare in un'ottica veramente unitaria. È giunto il momento di federarci. Solo un nuovo contenitore politico delle forze di centrodestra, a cominciare da quelle che appoggiano il governo Draghi, può agire in modo incisivo. Per federarci abbiamo bisogno di superare gli egoismi: non annullando, ma valorizzando le nostre differenze e facendole poi convergere in una sintesi in cui tutti si possano riconoscere. La sintesi culturale, valoriale, in verità già esiste: i nostri valori sono chiari, solidi, alternativi a quelli della sinistra. Prima di tutto l'Italia, il sentimento nazionale che deve farci da guida e portarci a difendere gli interessi dei nostri cittadini. E ad apprezzare il grande lavoro fatto ogni giorno dai tanti sindaci, governatori, amministratori nelle nostre realtà locali, compresi i civici. Va apprezzata anche la loro richiesta di valorizzare le autonomie e le specificità territoriali. Bisogna cominciare dall'economia, dalla struttura reale che regge il nostro Paese: dal popolo dei piccoli e medi imprenditori, dei produttori e dei liberi professionisti, delle partite Iva. Questo popolo non chiede allo Stato sussidi o assistenza, ma di essere messo in condizione di lavorare e produrre, senza intralci, senza vessazioni, con una fiscalità non punitiva come quella attuale. Ci proponiamo di realizzare il nostro progetto di flat tax, in linea con le pratiche virtuose di detassazione di altri Paesi. La Federazione dovrà avere una forte impronta liberale perché noi crediamo nell'individuo, nella sua capacità di perseguire un autonomo progetto di vita, nella sua iniziativa privata. Lo stesso sviluppo economico ci sarà e sarà forte e duraturo solo se al popolo dei produttori sarà lasciato quanto più ampio campo libero possibile. C'è poi uno Stato da riformare, con tutta la sua amministrazione e la sua burocrazia. Le procedure vanno semplificate, i servizi al cittadino vanno resi rapidi ed efficaci, la legislazione va ridotta e anch' essa semplificata. Lo Stato deve mostrarsi amico del cittadino, non vessarlo. Siamo per l'introduzione del presidenzialismo, che, in un'ottica democratica, garantisce incisività al potere e trasparenza e responsabilità ai decisori. Crediamo altresì in una seria riforma della giustizia, che vogliamo autonoma e «terza», cioè non politicizzata come avviene oggi in molti casi. Siamo per la separazione dei poteri e per il garantismo liberale: i processi a mezzo stampa non ci piacciono e la «presunzione di innocenza» va ad amici e ad avversari perché è un principio di civiltà giuridica e liberale. Non vanno creati «mostri» mediatici prima di arrivare a una sentenza. Crediamo nei valori della sicurezza e della legalità, contro la violenza diffusa nelle nostre strade, vicini alle forze dell'ordine che devono farsene garanti ogni giorno fra mille difficoltà. La stessa libertà, e il nostro modo di vivere, possono esercitarsi solo se ci liberiamo dalla paura e se chi delinque è messo in condizione di non farlo. Contro il fanatismo islamico, e contro ogni forma di intolleranza, ci richiamiamo con forza ai valori di tolleranza, convivenza e rispetto reciproco che affondano nelle radici giudaico-cristiane della nostra cultura. Saremo pertanto tolleranti con tutti tranne che con gli intolleranti, cioè con coloro che vogliono servirsi delle nostre garanzie per conquistare il potere ed annullarle. Crediamo nei valori cristiani e della famiglia, che vogliamo tutelare ritenendola il baluardo stesso della nostra civiltà. Con tutta evidenza, c'è oggi bisogno di politiche che salvaguardino questa istituzione fondamentale e mettano in atto, attraverso la sua difesa, concrete azioni volte ad arginare il fenomeno della denatalità. Anche la scuola va per noi potenziata e depoliticizzata: l'istruzione e l'educazione devono mirare non a indottrinare gli allievi, ma a formare il loro carattere e a dotare ognuno di essi di spirito critico. Crediamo che le degenerazioni del «politicamente corretto», e la connessa volontà di riscrivere la storia secondo i dettami della cancel culture, vadano strenuamente combattute in quanto minano alla base le ragioni della nostra civiltà e le fondamentali libertà di pensiero e di espressione. Vogliamo che l'Italia si doti di una politica energetica che la renda autonoma e che sia nello stesso tempo ecologicamente sostenibile. In questo campo come in altri bisogna superare gli ideologismi e affrontare la realtà in senso pragmatico, puntando ad esempio anche sul nucleare di ultima generazione, sicuro e pulito. Vogliamo essere chiari anche su un altro aspetto decisivo: è necessario pensare un sistema di regole equilibrate e di buonsenso che conducano a una transizione ecologica senza fanatismi, per evitare conseguenze sociali che non ci possiamo permettere e difficoltà nell'accesso alle future risorse. Prima gli italiani. Lo diciamo non in un'ottica di esclusione o di chiusura, ma di una solidarietà effettiva e non ideologica con chi vorrebbe venire a vivere nel nostro Paese. Siamo per una immigrazione controllata e che si svolga nella legalità e nella sostenibilità per il Paese ospitante, e quindi di qualità per gli stessi immigrati. A questi ultimi chiediamo altresì di accettare le nostre leggi e rispettare la nostra cultura e i nostri valori. Crediamo anche nell'Europa, e riteniamo auspicabile e da perseguire una unione fra i popoli e le nazioni del continente, ma siamo critici del modo in cui è andata costruendosi negli anni e opera ora l'Unione europea. Essere europeisti, per noi, significa valorizzare le differenze e le diversità culturali dei popoli europei non renderle omogenee e standardizzate secondo i rigidi parametri elaborati dai burocrati di Bruxelles. Vogliamo che a livello europeo, ma anche nazionale, la legislazione sia lasciata quanto più possibile alle comunità di prossimità in un'ottica federalistica e di sussidiarietà. Vogliamo che l'Italia sviluppi una politica estera autonoma e di salvaguardia dell'interesse nazionale, ma in un contesto di lealtà con i nostri alleati e nella cornice del tradizionale atlantismo. Altri punti potranno chiaramente essere discussi e introdotti nella nostra agenda. Già questi però sono sufficienti a indicarci una direzione di marcia. Checché ne dicano i nostri avversari, la nostra cultura politica esiste, è forte, solida, ben piantata nel terreno della realtà e della tradizione. Essa è vicina al comune pensare di tanti italiani, tendenzialmente maggioritaria. Darle un valore politico effettivo, concreto, che allo stato attuale non ha, è da oggi il nostro compito. E questo esige che si individui non solo la direzione di marcia, ma anche il percorso politico da seguire. Il nostro modello può essere quello del Partito Repubblicano americano: la federazione di centrodestra delle forze che appoggiano il governo Draghi sarà uno spazio politico ove troveranno ospitalità le varie anime e le diverse sensibilità di una cultura politica alternativa al progressismo di sinistra, tutte diverse, pur nella comune cornice qui delineata, ma tutte protese verso uno stesso obiettivo politico. Ci troviamo a un bivio: vivacchiare può significare morire, decidersi per un cambiamento e federarsi è un rischio, ma anche un'opportunità. È l'occasione per cambiare il centro destra e, con esso, trasformare, finalmente e in modo sostanziale, anche l'Italia. Ora o mai più».
DOPO IL BIS. TERREMOTO NEI PARTITI: LETTA GUARDA AL CENTRO
Un centro sinistra ammaccato, un sistema dei partiti in agitazione. Giovanna Vitale fa il punto su Enrico Letta e il Pd.
«Matrimoni contro natura». Così in casa Pd definiscono le coalizioni figlie del Rosatellum, la legge elettorale con correzione maggioritaria varata nel 2017: aggregazioni buone per vincere le elezioni, ma incapaci poi di governare insieme e persino di accordarsi nei passaggi cruciali della legislatura. La prova più lampante sarebbe il cortocircuito politico scaturito dalle trattative sul Quirinale, che ha disintegrato il centrodestra («Non esiste più», Giorgia Meloni dixit ) e ammaccato per bene il centrosinistra. Naturale epilogo dei tre esecutivi nati in quattro anni con tre diverse maggioranze - gialloverde, giallorossa, larghe intese - nessuna delle quali ha corso unita alle ultime elezioni. La ragione per la quale, con l'eccezione di Fdi, nei partiti sta avanzando un fronte trasversale che spinge per modificare la legge elettorale in senso proporzionale. Se con soglia di sbarramento alta - al 5% come in Germania - per evitare un eccesso di frammentazione, oppure cancellando i collegi uninominali con l'introduzione di un premio ai vincitori, resta ancora da vedere. Tuttavia la discussione è aperta e prima o poi dovrà essere affrontata. Anche se non sarà semplice «Poiché il governo Draghi si basa sulla formula dell'unità nazionale, bisognerà trovare una sintesi fra tutte le forze che lo sostengono», avverte il costituzionalista Stefano Ceccanti. E le scorie accumulate nella battaglia per il Colle certo non aiutano. Lo ha ribadito pure Enrico Letta che bisogna fare in fretta: «Abbiamo un anno per riformare la politica», ha spiegato il segretario del Pd a In mezz' ora in più . Oltre alla norma contro i cambi di casacca, urge mettere a punto un sistema «che permetta ai cittadini di scegliere gli eletti e di eliminare la peggiore legge che c'è mai stata, il Rosatellum». E se lo dice lui, da sempre tifoso del maggioritario, vuol dire che qualcosa si è rotto nel patto tra politica ed elettori. E pure nella sua coalizione. Circostanza che lo obbliga ad allargare l'orizzonte, a guardare altrove, anche oltre il perimetro giallorosso. «L'attuale sistema che attribuisce ai vincitori nei collegi un terzo dei seggi costringe i partiti a stare insieme, ma non garantisce né la coesione né la stabilità», spiega il senatore Luigi Zanda, altro "maggioritarista" pentito. «Da qui la necessità di tornare al proporzionale, ma con una soglia al 5% per scongiurare i rischi di frammentazione». Accompagnato da «meccanismi che diano più voce ai cittadini nella selezione degli eletti », incalza Dario Parrini, presidente della commissione Affari istituzionali del Senato. È il modello che piace pure a Matteo Renzi e alla galassia centrista, convinti che con questa formula potrebbero diventare l'ago della bilancia in qualsiasi esecutivo futuro. Mentre consentirebbe ai partiti più grandi di correre ciascun per sé - Salvini senza Meloni, Letta senza Conte - per poi assemblarsi in un secondo momento. «Serve a tutti, inclusa alla leader di Fdi», rilancia Gaetano Quagliariello, vicepresidente di Coraggio Italia: «Sia se si vogliono ricostruire le coalizioni, sia se si pensa ad aggregarle dopo il voto, è fondamentale ricreare le identità dei partiti. Si tratta di salvare il sistema dalle sue macerie». E se ieri Antonio Tajani ha escluso l'interessamento di Forza Italia - «Non è una priorità» - voci insistenti parlano di contatti fra azzurri e Pd per accelerare sulla modifica della legge elettorale. Che però «deve partire subito», avverte il capogruppo di Leu Federico Fornaro: «Da due anni un testo giace in commissione Affari costituzionali, lo si riprenda e si sciolgano i nodi ancora aperti, a cominciare dalle soglie di sbarramento e dalle modalità di scelta degli eletti: se con liste bloccate, preferenze, collegi uninominali di partito». Perché una cosa è certa: «Il Rosatellum non ha funzionato e va cambiato », incalza il dem Lele Fiano, relatore del testo. «È risultato evidente durante la partita quirinalizia che mettersi insieme per vincere le elezioni non corrisponde alla unità di intenti necessaria per affrontare i momenti più complessi della nostra vita democratica».
Antonello Caporale intervista Guido Bodrato per il Fatto. Bodrato spiega il bis dalla prospettiva di un democristiano, amico e collega di Mattarella.
«“Sono un bisnonno e vivo immerso quotidianamente nel futuro anche se i miei anni mi obbligano a guardare il mondo dalla poltrona”. Il suo amico Sergio Mattarella è di poco più giovane, eppure ha accettato di avanzare verso l'incognita della vita con il grande peso del Quirinale. “Io mi chiamo Guido Bodrato, conosco Sergio da decenni, sono suo amico ed estimatore e mia è la seconda firma alla legge elettorale nota come Mattarellum. Lui ha fatto un gesto da patriota.
Ha accettato di essere il protagonista di una rilevante sgrammaticatura costituzionale, ha fatto ciò che egli stesso diceva non potersi fare.
Ha compiuto una scelta pesante sia dal punto di vista costituzionale che personale. Ma era di fronte alla disfatta dei partiti, all'infragilimento pericoloso della democrazia.
I partiti sono irredimibili. Hanno chiesto a lui di sopperire alle proprie incapacità.
Ho ancora nelle orecchie gli applausi tributati a Giorgio Napolitano al momento della rielezione. Dovevano riformarsi, avevano preso l'impegno di aprirsi alla società, invece sono rimasti ciò che erano: élite autoreferenziale, senza alcuna passione e radice, senza connessione sociale, senza identità”.
Il secondo bis al Quirinale aprirà le porte all'elezione diretta del presidente?
Elezione diretta senza popolo? Sarebbe la più funesta e per me indigeribile riforma che condurrebbe al Quirinale un uomo di parte. È questa romantica, assurda malinconia dell'uomo forte.
È però vero che così non si va avanti.
Il Costituente aveva disegnato bene la strada per salire al Colle. Nelle prime votazioni gli schieramenti indicano liberamente i propri candidati e dalla quarta in poi ricercano la convergenza sul più unitario tra i nomi avanzati. È perfetta come costruzione dell'itinerario. Invece cosa si vorrebbe fare? Replicare in grande quel che abbiamo combinato con l'elezione diretta dei presidenti delle Regioni, divenuti tanti piccoli podestà.
Lei non ha una fiducia sconfinata nei partiti.
Davanti al gesto patriottico di Mattarella di accettare un incarico che non voleva assumere, per salvare l'Italia da una crisi ingestibile, dolorosa e pericolosa, i partiti cosa fanno, cosa dicono?
I partiti sembrano del tutto inconsapevoli della debolezza espressa con questa scelta.
Ecco, inconsapevoli. Scolari senza memoria della storia. Anche Enrico Letta, mi lasci dire, più che leader si sente professore. Invece mi permetto di suggerirgli ciò che ha detto papa Francesco: la realtà è più importante delle idee.
Comunque è un bisnonno felice e in campo!
Con una passione indomita per il futuro. Non sono il vegliardo che si lagna e si autocompiace di quel che fu. Tre volte ministro, piemontese, dc di sinistra, acerrimo antiberlusconiano. Mi spiace che abbia perduto un suo biglietto che accompagnava un omaggio: al più leale dei miei avversari, scrisse. Vero, l'ho combattuto come nessuno.
Democristiano un po' bacchettone.
Ci vuole testa, un minimo di logica e un po' di integrità per non cadere in situazioni che producono caos. Quando per esempio si decise di dar vita al Partito democratico, a unire l'anima democristiana e comunista, io dissi: prego, partite voi io resto qui. Voto Pd ma non mi sono mai iscritto.
La Balena bianca era un altro mondo.
Guardi quanta devozione verso la democrazia ha il presidente Mattarella. Analizzi il suo sacrificio personale, non solo quello intimo e privato, e poi lo raffronti con la superficialità, la leggerezza con la quale i partiti accompagnano questo sacrificio. Battono le mani, ma per chi? Per se stessi? Per averla scampata bella?
L'applauso è stato scrosciante anche perché il bis di Mattarella chiude definitivamente le porte alle elezioni anticipate.
E le sembra un motivo degno questo?».
DOPO IL BIS. C’È UNO SPAZIO AL CENTRO
Antonio Polito ragiona per il Corriere sulle conseguenze del bis nel sistema politico italiano. C’è davvero uno spazio per un Grande Centro?
«Ora il Grande Centro non è più un progetto; è un obbligo, una garanzia di sopravvivenza». Dopo la notte in cui la «manovra sulla Belloni dei populisti» (Salvini, Meloni, Conte) è stata battuta dalla convergenza di Forza Italia, moderati di centrodestra, Italia viva e moderati del Pd, il dado è tratto. Per ora l'unica cosa che manca al Grande Centro sono i voti. Pesa l'assenza del «volto» di un leader per questo nuovo rassemblement politico. Renzi è chiaramente il migliore, ma ancora troppo antipatico; una giovane potenziale frontwoman, come la Carfagna, non ne ha finora mostrato il coraggio; di un possibile campione più stagionato come Casini non si sa ancora che vuol fare, se lanciarsi per un'ultima battaglia nell'agone politico o tenersi in disparte come uomo delle istituzioni. Però intanto il lavoro è cominciato. Renzi e Toti si sono dati appuntamento alla cerimonia di insediamento di Mattarella per cominciare a discutere di legge elettorale, che del resto è stato il tema sottotraccia in tutte le intricatissime trattative sul Quirinale. Il punto è questo: le coalizioni sono considerate finite perché nessuno si fida più degli alleati di prima. Chi si consegnerebbe oggi legato mani e piedi a Salvini? Nemmeno la Meloni. Infatti perfino lei comincia a contemplare l'idea di una riforma elettorale. Si è sentita così personalmente tradita dal leader della Lega e dalla nomenklatura di Forza Italia (entrambi le hanno giurato fino all'ultimo che non avrebbero votato mai per un bis di Mattarella), che nello sfogo con un amico ha detto: «Io con questi alla fine preferisco non andarci». E il proporzionale se lo potrebbe permettere, visto che col monopolio dell'opposizione al venti per cento ci può arrivare. Ma se il discorso vale per Fratelli d'Italia, figurarsi per il Centro. La convinzione che una nuova legge elettorale sia diventata una necessità per tutti (compreso Letta, che in coalizione con Conte di certo non ci guadagna) ha galvanizzato i centristi. Il trio di esperti composto da Quagliariello, Rosato e Romani, riflette già sulle soluzioni. La più facile sarebbe emendare in soli tre punti il Rosatellum per trasformarlo in un sistema alla tedesca, con sbarramento al cinque per cento. La soglia non deve essere troppo bassa, se si vuole usarla come incentivo a unirsi in un mondo di egolatri e prime donne. Il proporzionale consentirebbe d'altronde a un partito senza leader di superare anche il problema del candidato-premier: basterebbe indicare un bis di Draghi come programma politico. D'altra parte non è che la legge attuale sia così maggioritaria da garantire un governo la sera stessa delle elezioni, come si dice, visto che in questa legislatura le alleanze pre-elettorali si erano sciolte già il mattino dopo. Renzi ovviamente è della partita. Ha giocato bene le sue carte nella battaglia del Quirinale, smentendo chi lo descriveva pronto a vendere i suoi voti al miglior offerente. Sul sistema elettorale però ha ancora dubbi: non è sicuro che il proporzionale sia la soluzione ideale. In fin dei conti la legge attuale è già proporzionale per due terzi, cioè quattrocento seggi sui futuri seicento. Se si lasciassero in piedi i collegi, sia il Pd sia la Lega sarebbero costretti ad allearsi con le rispettive estreme, schiacciando i due poli in coalizioni non appetibili per gli elettori moderati. Prendere il dieci per cento su quattrocento seggi, pur perdendo cioè in tutti i collegi, darebbe al Centro quaranta seggi. Prendere il cinque per cento al proporzionale su tutti e seicento, ma con la concorrenza al centro di Pd e Lega, darebbe soltanto trenta seggi. Forse conviene tenersi il Rosatellum? Ma se davvero nascerà, il Grande Centro non può essere solo una somma di convenienze. Un partito, anche plurale, ha bisogno di identità. Il problema dunque, secondo Quagliariello, non è tanto il proporzionale, ma fare tesoro del fatto che le coalizioni non ci sono più. In fin dei conti anche nel maggioritario francese i partiti al primo turno vanno da soli. Il bisogno di tutte le forze politiche di un «bagno di identità» sarebbe dunque la chiave che può dare dignità di progetto politico al lavorìo di un mondo che ha dimostrato di esistere ancora, di avere il know how parlamentare, e convinto di poter ereditare una parte cospicua dell'elettorato berlusconiano: gente che, se ha resistito finora in Forza Italia nonostante il declino del leader carismatico, difficilmente finirà con Salvini o con Meloni».
Per un bilancio sulla rielezione di Mattarella, Maria Teresa Meli intervista Matteo Renzi.
«Senatore Renzi, chiedere a Mattarella di ripensarci non è una sconfitta della politica? «È la sconfitta di alcuni politici, non della politica. Apprezzo il salutare ripensamento di alcuni colleghi. Pensi a Salvini che nel 2015 twittava "Mattarella non è il mio presidente" e ora si intesta la rielezione. Oppure ai Cinque Stelle che volevano l'impeachment del presidente e adesso esultano come allo stadio. Il Parlamento di sovranisti e populisti elegge il presidente scelto da noi nel 2015: hanno perso loro, noi brindiamo». Il bis di Mattarella, però, non era la sua prima opzione. «Non lo era. Mattarella aveva chiesto di evitare il secondo mandato adducendo motivazioni serie. Aveva spiegato che la seconda rielezione consecutiva trasformava il precedente di Napolitano in una sorta di modifica alla costituzione sostanziale. Questa raffinata sensibilità istituzionale, propria di un galantuomo, è destinata a passare in secondo piano davanti allo show indecoroso di chi ha trasformato l'elezione del capo dello Stato in una sorta di X Factor. Quando ho visto leader politici cercare candidati a caso, passando dal diplomatico al professore senza alcuna logica istituzionale mi sono preoccupato. E mi sono detto: meglio costringere Mattarella al bis che rimpiangere per sette anni le soluzioni strampalate last minute di qualche presunto leader». Si riferisce a Salvini? «In primis a lui, ma non solo a lui. Salvini ha scambiato la ricerca del presidente della Repubblica con la ricerca del super ospite a Sanremo: cercava il nome a effetto. Quando un pomeriggio il leader della Lega è sparito tre ore per andare a casa di Cassese, ho sperato che almeno gli tornasse utile la lezione di diritto che il professore avrà provato a dargli. Anche perché per me Cassese è in assoluto il migliore. E invece nulla, Salvini si è mosso senza logica. Una volta voleva l'accordo con Letta, poi con Conte, poi con Meloni, poi con noi. Alla fine è riuscito nel risultato di scontentare tutti, a cominciare dai suoi». Salvini dice che su Elisabetta Belloni c'era l'accordo di Conte e di Letta. «Di Letta non so. L'accordo di Conte invece c'era. La vera novità politica della settimana presidenziale è stata proprio il ritorno dei due compagni di viaggio del governo gialloverde. Salvini e Conte si sono spalleggiati. Io ho cercato di far saltare il loro patto non per antipatia personale, ma per una considerazione politica. I gialloverdi infatti hanno individuato due nomi su cui costruire una maggioranza assieme alla Meloni: il presidente del Consiglio di Stato Frattini prima e il direttore del Dis Belloni poi. Volevano un presidente espressione della coalizione giallo-verde-nera». E perché non vi siete uniti anche voi? «Per ragioni istituzionali: le tensioni geopolitiche tra Russia e Occidente non facevano di Frattini il miglior candidato, specie in un periodo come questo, visto la sua relazione con Mosca. E perché in una democrazia evoluta il capo dei servizi segreti non diventa presidente della Repubblica. Quando ho sceso le scale di Montecitorio e ho criticato in diretta tv la proposta di Salvini e Conte ero convinto che la Belloni sarebbe stata eletta, perché avevano i numeri per farcela. E parte del Pd stava sposando quella scelta. Ma sarebbe stato uno sfregio alle istituzioni di questo Paese. Non ho paura di dirlo a voce alta, senza timori, con la serietà di chi è stato presidente del Consiglio e ricorda che prima delle amicizie bisogna rispettare le istituzioni. Ci ho messo la faccia, ma chi ha cultura istituzionale sa che era doveroso da parte mia farlo». Secondo lei il governo esce indebolito? La legislatura arriverà fino al termine? «Spero che Draghi riprenda il timone del governo con più forza. Che non significa ignorare il Parlamento ma sfidare la politica in positivo. Draghi non è indebolito. Ma il suo governo oggi può fare di più e meglio: sbloccare le infrastrutture, semplificare le regole della dad a scuola, mettere a terra i progetti del Pnrr, combattere in Europa la battaglia sul debito. Tutte cose che il premier farà, ne sono certo. E noi saremo al suo fianco. La legislatura durerà fino al 2023: mai avuto dubbi a tal proposito anche se Conte ha sognato di interromperla prima». Ha ritrovato sintonia con Enrico Letta? «Sui temi di fondo siamo sempre dalla stessa parte. Enrico si è tranquillizzato quando ha capito che non avrei mai fatto asse sulla Casellati. In tanti pensavano che avrei votato Casellati pur di diventare presidente del Senato. Ma io mi chiamo Matteo Renzi: combatto contro tutti per le mie idee, non per un tornaconto personale. Quando davanti a un caffè ho chiarito a Letta che non avrei mai accettato lo scambio di poltrone è cambiato il clima. E abbiamo lavorato meglio». Forza Italia si è dissociata dal centrodestra, questo passaggio può essere foriero di novità? «Sì. Il centrodestra non c'è più, ha detto Meloni. E non è che i Cinque Stelle siano messi meglio. Saranno mesi di cantieri all'interno dei vari schieramenti politici. Ma è prematuro immaginare che cosa accadrà. La conferma di Mattarella e di Draghi portano stabilità al Paese e questo paradossalmente consentirà l'evoluzione del quadro partitico». Lei propone il presidenzialismo, che però mal si accorda con il proporzionale, verso cui invece sembra si vada. «Dopo il 2016 non dovrei parlare più di riforme costituzionali e di legge elettorale: ogni giorno è sempre più chiaro che quella riforma unita alla legge elettorale con ballottaggio avrebbe dato stabilità al sistema e più forza al Paese. Tuttavia andare all'elezione diretta del presidente mi sembra una necessità rafforzata dallo show triste di questi giorni: che poi sia presidenzialismo all'americano o semipresidenzialismo alla francese, vedremo. Ma questo tema sarà oggetto della legislatura 2023-2028. Sulla legge elettorale, invece, si potrebbe fare nei prossimi mesi ma inciderà la volontà dei gruppi maggiori come Cinque Stelle e Lega che ad oggi sono dilaniati».
DOPO IL BIS. LE PREGHIERE PER MATTARELLA
Fabrizio D’Esposito sul Fatto nella sua rubrica “Il chierico vagante” si occupa del Bis al Quirinale. Lo “spirito di sacrificio” di Sergio Mattarella, cattolico e laico.
«Ieri a Testaccio, popolare quartiere di Roma, alla messa di mezzogiorno, la stessa frequentata da Enrico Letta, è stata aggiunta in extremis un'intenzione alla preghiera dei fedeli: "Preghiamo per il nostro presidente Mattarella". E così in varie chiese italiane. La rielezione di Sergio Mattarella è soprattutto il bis al Colle di un cattolico proveniente dalla migliore tradizione scudocrociata, quella della sinistra dc. Un cattolico adulto quindi, per il quale la dimensione intima della fede non ha riflessi clericali nella sfera pubblica e in questo caso istituzionale. Lo ha spiegato molto bene il direttore di Avvenire Marco Tarquinio nel suo editoriale di ieri: "Sanamente laico (Mattarella, ndr) perché di profonda radice cristiana. E chi conosce sul serio la storia della nostra democrazia sa che questo non è un gioco di parole, ma una cultura preziosa e una costante qualità politica, che Sergio Mattarella ha interpretato con appassionata coerenza per tutta la sua vita". Nei messaggi di auguri arrivati dal mondo cattolico si mette in rilievo lo spirito di sacrificio del presidente rieletto, il quale ha subordinato le sue "prospettive personali differenti" alla decisione del Parlamento di sabato scorso. Ecco il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani: "Il Suo esempio di uomo e di statista, lo spirito di servizio e di sacrificio manifestato anche nella presente circostanza, costituiscono un punto di riferimento per tutti i cittadini al di là delle appartenenze politiche e degli schieramenti". Del resto, per un cattolico, lo spirito di sacrificio è un pilastro della fede. Il concetto lo rende bene padre Antonio Spadaro, gesuita come papa Francesco e direttore della Civiltà Cattolica, in un'intervista ad Askanews: "La sua disponibiltà è certamente un sacrificio personale per il bene del Paese: gliene va dato atto con gratitudine sincera". E ancora: "Mattarella è una figura molto gradita al mondo cattolico, ed ha sempre mantenuto nella giusta maniera i rapporti di rispetto con l'Oltretelevere. Credo che il mondo cattolico abbia percepito la sua volontà di concludere il suo mandato come assolutamente sincera. Certo, la situazione che si è venuta a creare è inedita e un po' di emergenza, e in questo senso si accoglie la sua disponibilità come segno di piena continuità rispetto a come si è comportato fino a adesso, mantenendo cioè al primo posto il bene del Paese". Il Mattarella presidente e cattolico ha poi un tratto ecumenico, se così possiamo dire. Nei giorni scorsi ha fatto notizia lo striscione esposto dagli studenti delle scuole ebraiche di Roma: "Grazie presidente Mattarella". Con questa motivazione: "Da giovani ebrei non possiamo dimenticare il suo impegno contro ogni forma di antisemitismo, anche mascherato da antisionismo". E sabato, nel giorno della sua rielezione, c'è stato finanche l'entusiasmo dell'Unione Buddhista Italiana che fa perno, ovviamente, sulla saggezza: "In questo particolare contesto storico poter contare nuovamente sulla sua saggezza è garanzia per tutte e tutti per il progresso civile e sociale del Paese"».
DOPO IL BIS. CHE COSA CAPITA AL GOVERNO
Il retroscena sul futuro del governo guidato da Mario Draghi: né veti né rimpasti. Per Repubblica Tommaso Ciriaco.
«Il primo passo è stato quello di resettare gli ultimi tre mesi, consumati nel progetto sfumato del Quirinale. Il secondo passo sarà compiuto da Mario Draghi per mostrare plasticamente cosa intende quando progetta il rilancio del suo governo. Non sarà facile, pesano le scorie della battaglia. Ma il presidente del Consiglio vuole giocare una nuova partita, libero dallo schema quirinalizio. Non accetterà di fallire, né di mediare. Vuole riprendere in mano l'agenda, forte di una convinzione: in tutti i partiti della maggioranza esiste un'anima governista - grande o piccola che sia - su cui di certo fare affidamento. E l'ombrello di Sergio Mattarella sembra garantire che quello in carica sarà l'ultimo premier della legislatura. Cosa fare, come farlo, con chi farlo? Dopo il week end trascorso a Città della Pieve, il presidente del Consiglio costruirà un percorso per rispondere ai tre interrogativi. Il "cosa", in realtà, è già chiaro. Sono le tre emergenze indicate l'altro ieri dal Capo dello Stato al momento della rielezione: economica, sociale e sanitaria. Il "come" è invece passaggio più complesso, perché incrocia il caos politico sotto cui rischiano di finire sepolte alcune leadership. Nulla è sereno, in queste ore. Non lo è - e non potrebbe essere altrimenti - il rapporto tra la galassia draghiana e quella che ha boicottato la sua scalata al Colle. I primi potrebbero sottoscrivere il punto di vista riassunto ieri dal Financial Times - «una classe politica egoista che ha evitato il disastro all'ultimo momento» - mentre i secondi ripetono gli argomenti contro i tecnici elencati ieri da Pier Ferdinando Casini su Repubblica . Non è serena, soprattutto, la dinamica tra i ministri schierati con Draghi e quelli che l'hanno sgambettato. La Lega sembra culla di disgregazione imminente. Matteo Salvini ha già chiesto un rimpasto, ed è probabile che lo ripeta al premier, se verrà ricevuto nei prossimi giorni. Aveva ad esempio in mente di sostituire Luciana Lamorgese con il prefetto Matteo Piantedosi. Non lo otterrà, perché il presidente del Consiglio non intende concedere staffette tra ministri. Ma il problema è, se possibile, ancora più profondo. E riguarda la battaglia tra il segretario e i suoi ministri, con potenziali ripercussioni sul governo. Il premier non può entrare direttamente nella contesa, anche se gode di un rapporto privilegiato con Giancarlo Giorgetti. Di certo, il responsabile dello Sviluppo - che ha perso la battaglia per Draghi al Colle - non si è dimesso anche per non indebolire il governo. Resta il fatto che è stanco di essere puntualmente smentito dal suo leader e di dover sostenere in Consiglio dei ministri tesi che non condivide soltanto allo scopo di non spaccare il Carroccio. Resterà soltanto se gli sarà garantito un margine di azione da via Bellerio. Ma è chiaro che quella mossa nasconde una dinamica che va preparandosi: Salvini che alza il prezzo con l'esecutivo, Salvini che tira la corda fino a provare a spezzarla, Salvini isolato nel partito (i governatori gli sono compattamente ostili) che prepara una campagna elettorale con almeno un piede fuori dalla maggioranza. Giorgetti non intende restare in mezzo al fuoco incrociato, perché già sa che Draghi non arretrerà e non subirà ultimatum. Se la Lega traballa, Pd e Forza Italia non allarmano e semmai promettono sponda a Draghi. Sul fronte giallorosso preoccupa piuttosto la battaglia interna al Movimento. Giuseppe Conte ha dimostrato, come e quanto Salvini, di non voler concedere al premier il Colle. Difficile che scelga la strada dello scontro in campo aperto, ma la sfida interna con Luigi Di Maio potrebbe concretizzarsi in duelli sui nodi dell'agenda e aprire crepe nell'esecutivo. I temi, allora. L'attenzione di queste ore è dedicata soprattutto al Pnrr. L'ex banchiere fa della realizzazione dei piani italiani una questione quasi personale: non accetta l'idea che si possano perdere risorse. Al Piano lavora il sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli. Sarà Draghi a convocare nei prossimi giorni i ministri che detengono i dossier per chiedere conto di eventuali ritardi nei progetti, precondizione per ottenere tutti i fondi della tranche di fine giugno 2022. Rispettare le promesse assunte sul Pnrr significa anche rassicurare Bruxelles. Per l'ex banchiere è una priorità anche per un'altra ragione: si sta per aprire la grande sfida della riforma del Patto di stabilità. Il prossimo Consiglio europeo è fissato a marzo e la presidenza francese vuole avviare il confronto. L'altro nodo di politica economica è quello della riforma delle pensioni. Dopo la soluzione tampone di fine anno, sarà presentato un testo che superi il sistema delle quote - con correttivi per al cune categorie - e rivoluzioni anche il meccanismo previdenziale per i più giovani. Se necessario, si rimetterà mano anche al superbonus, nonostante i 5S. La pandemia, naturalmente, è la grande incognita del 2022. La curva sembra addolcirsi. Una volta scavallato il picco di Omicron e accertata la tenuta del sistema sanitario, si procederà a una progressiva riduzione delle misure più drastiche. C'è da capire il destino del Green Pass e da rivedere le regole della quarantena dei positivi».
DOPO IL BIS. LUCIANI: “HA VINTO IL PARLAMENTO”
“Se si vuole introdurre l'elezione diretta del Presidente serve una revisione complessiva dell'assetto dei poteri”. Dice alla Stampa Massimo Luciani professore di Diritto alla Sapienza di Roma: “La politica è incapace di decidere ma il presidenzialismo è azzardato”.
«Il caos che ha portato il Parlamento a chiedere il bis a Sergio Mattarella non è conseguenza di un sistema istituzionale obsoleto ma di una «grave crisi di capacità decisionale della politica». Massimo Luciani non condivide le spinte verso il presidenzialismo. L'elezione di Mattarella è una sconfitta della politica o è il sistema che non funziona più? «È senz' altro l'indice di una grave crisi di capacità decisionale della politica, che dipende soprattutto da due fattori: la mancata ricomposizione definitiva del sistema dei partiti e la debolezza delle leadership. Nondimeno, il sistema istituzionale ha tenuto bene. Anzi, se si è riusciti a trovare una soluzione lo si deve proprio al buon funzionamento delle istituzioni repubblicane. In particolare alla capacità del Parlamento di suggerire un accordo che la politica non aveva saputo costruire». Eppure in tanti dicono che sarebbe ora di passare all'elezione diretta del presidente. «Il presidente della Repubblica è punto di equilibrio (a me piace parlare di un "giroscopio") nel nostro sistema istituzionale. E la forma di governo disegnata dai costituenti è particolarmente adatta a un assetto delle forze politiche e sociali così diviso come è il nostro. Non credo che altre soluzioni istituzionali importate dall'estero avrebbero avuto, nel corso della storia repubblicana, la stessa capacità di tenuta». Il presidenzialismo non sarebbe la risposta giusta? «La considero una soluzione azzardata. Ha detto molto bene il presidente Amato: se si volesse introdurre l'elezione diretta del capo dello Stato si dovrebbe operare una revisione complessiva dell'assetto dei poteri. Se questo è vero - ed è vero! - va ricordato che abbiamo esperienze non confortanti di tentativi di grande riforma costituzionale. C'è da chiedersi se non sia più opportuno invece, per un verso, lavorare su questioni più circoscritte, ma importantissime (penso a quella del sistema elettorale o a quella della composizione del collegio chiamato a eleggere il capo dello Stato, da ripensare dopo la riduzione del numero dei parlamentari). E per altro verso ristabilire l'educazione istituzionale delle forze politiche, che da questa vicenda - se stessero attente - dovrebbero trarre un grande insegnamento, cioè che le istituzioni sono una straordinaria risorsa per la tenuta del paese. Peraltro il problema di certo non riguarda solo la cultura istituzionale delle forze politiche, ma anche quella dei cittadini». Però il Parlamento ingovernabile dipende anche dai regolamenti parlamentari. Adesso è quasi conveniente lasciare il partito con il quale si è stati eletti e creare un proprio gruppetto per contare di più. «Non c'è dubbio che debbano cambiare, anche perché con la riduzione del numero dei parlamentari molte delle regole vecchie non saranno più utilizzabili. La questione del cambiamento di gruppo, poi, è estremamente delicata, però ci sono soluzioni capaci di mettere insieme il divieto di mandato imperativo previsto all'art. 67 della Costituzione e la necessaria fedeltà alla propria base elettorale. In Germania, ad esempio, questa possibilità è molto più ridotta». E come si fa a ricostruire quella cultura politica e istituzionale di cui parlava prima? «Semplice a dirsi, difficile a farsi. Si comincia dalle scuole e dai soggetti della mediazione - partiti, sindacati, associazioni - e si comincia cercando di spiegare che i problemi che i cittadini hanno di fronte sono complessi e che non ci sono donne o uomini della provvidenza che possano risolverli. Servono fatica, confronto politico e anche tempo. E servono amore e rispetto per le istituzioni, che devono restare in piedi anche quando la politica vacilla».
PANDEMIA, OGGI NUOVO CONSIGLIO DEI MINISTRI
È la pandemia sul tavolo della prima riunione del governo dopo la rielezione di Mattarella. Mentre i numeri del contagio registrano ancora un calo delle percentuali e dei decessi. Ma risentono del giorno festivo. Il punto della situazione di Gianna Fregonara per il Corriere della Sera.
«Oltre a decidere di prolungare la chiusura delle discoteche e l'obbligo di portare la mascherina all'aperto, il governo comincerà oggi a discutere del dossier scuola, anche se il nuovo decreto potrebbe arrivare non prima di mercoledì o giovedì: ci sono ancora alcuni nodi da sciogliere. L'idea alla base della revisione delle regole su contagi e quarantene per gli studenti è quella di «allineare tutti i gradi scolastici», applicando le regole che attualmente si usano nelle scuole medie e superiori anche alle elementari. Non cambierà probabilmente nulla per le scuole dell'infanzia dove i bambini non sono vaccinati e non portano le mascherine. La proposta dei ministri dell'Istruzione Patrizio Bianchi e della Salute Roberto Speranza mira ad arrivare ad avere meno dad, meno tamponi e un rientro in classe più facile. Sono del resto le richieste che arrivano da presidi e famiglie, anche se i contagi specie tra i più piccoli (fascia 0-9) erano in aumento consistente nell'ultimo rapporto dell'Iss venerdì scorso. Per approfondire l'impatto di questa tendenza e per limare i dettagli sono previste una riunione tecnica e anche un confronto con Iss e Cts. Le misure potrebbero entrare in vigore dalla prossima settimana. Per quanto riguarda le scuole elementari, i bambini vaccinati o guariti non andranno in quarantena ma in autosorveglianza (come avviene per le medie e superiori) e in dad al terzo contagio in classe. Resta il tampone di controllo: ma non sarà più un doppio tampone. L'ormai ben noto sistema T0-T5 verrà sostituito da un solo test probabilmente al terzo giorno, il nuovo T3. Anche per i bambini delle elementari che sono in autosorveglianza o, se non vaccinati, in quarantena i tamponi saranno gratis in farmacia con la ricetta del medico, come già avviene per gli studenti più grandi. I giorni di dad per le classi per cui la Asl predispone l'autosorveglianza diminuiranno: si lavora per un dimezzamento, passando da dieci a cinque giorni a casa. Per tornare a scuola invece basterà il tampone (senza certificato del pediatra) per chi è in quarantena. Mentre per gli studenti in autosorveglianza con super green pass (medie e superiori) non servirà neppure il tampone, purché durante il periodo della dad non abbiano avuto sintomi Covid che invece prevedono un controllo con testa antigenico o molecolare comunque. Le nuove misure hanno lo scopo di alleggerire il lavoro di presidi e Asl e l'organizzazione delle famiglie. Nel governo c'è chi preme per aumentare il numero di casi che porta alla chiusura della classe (che ora sono tre) e anche chi pensa che vaccinati e guariti debbano poter restare a scuola sempre, anche nel caso di più positivi nella classe: «La dad deve davvero diventare una misura solo per l'emergenza - spiega il sottosegratario alla Salute Andrea Costa - chi è vaccinato o guarito dovrebbe poter restare sempre in classe: è anche un modo per spingere ulteriormente sulle vaccinazioni». I numeri della dad nella settimana fino al 22 gennaio - che il ministero ha diffuso venerdì scorso - avevano mostrato un boom di classi chiuse, che erano passate dal 6,6 della settimana prima al 15,5, con oltre un milione di studenti costretti a casa. Ma i dati generali sui contagi continuano ad essere in miglioramento e autorizzano a puntare su una «normalizzazione» più rapida anche per le scuole. Ieri il bollettino giornaliero dei contagi Covid ha fatto segnare una tendenza lentamente in discesa. Con 104.065 nuovi casi e 235 morti, il tasso di positività scende al 12,7% (sono stati effettuati 818.169 tamponi). Non si aveva una percentuale così da un mese: i ricoveri sono scesi (-19) anche se i ricoveri nelle terapie intensive sono aumentati (+5)».
UCRAINA, LA PARTITA ALL’ONU
Il governo di Kiev lancia un appello: via le truppe russe dai confini. Il capo della Nato Stoltenberg prova a placare la tensione, assicurando che non invierà truppe. Trump intanto accusa Biden: «Ci sta facendo rischiare il terzo conflitto mondiale». Oggi Consiglio di sicurezza all’Onu. Giampaolo Pioli da New York per il Quotidiano Nazionale.
«Questa mattina con la convocazione d'emergenza del Consiglio di sicurezza Onu, l'America di Joe Biden cercherà di inchiodare Putin con un muro diplomatico, bloccando l'eventuale tentativo d'invasione dell'Ucraina. Ma c'è anche chi ci vede una sorta di exit strategy per il capo del Cremlino, che pretende garanzie scritte dalla Nato per bloccarne l'espansione a Est e il tentativo di far entrare prima o poi anche Kiev nell'Alleanza Atlantica. Nel frattempo il senato Usa, sempre incalzato da Biden, sta mettendo a punto un piano bipartisan di sanzioni pesantissime contro Mosca e i suoi oligarchi, così come dichiara di voler fare l'Inghilterra. E l'ex presidente Donald Trump, in un comizio, non perde tempo ad attaccare il suo successore: «Con la debolezza e l'incompetenza di Biden, il rischio è quello di una terza guerra mondiale». L'atteggiamento di Biden verso Mosca si è tradotto finora nell'invio di sofisticati armamenti militari difensivi a Kiev, e con l'annuncio di mobilitazione di 8.500 marines negli ex paesi dell'Est entrati nell'Alleanza. Biden però non fissa scadenze per l'invio delle truppe e soprattutto si affretta a dire, come fa il segretario della Nato, Stoltenberg, che nessun soldato Usa o dell'Alleanza andrà mai a combattere in difesa dell'Ucraina «che rimane un Paese amico, ma non un partner della struttura difensiva occidentale». Queste dichiarazioni «preventive» potrebbero non bastare a Putin che, attraverso il suo ministro degli Esteri Lavrov, continua a chiedere «garanzie vincolanti sulla sicurezza dei confini russi». Il Cremlino vuole che sia la Nato stessa a chiarire per iscritto i suoi propositi di rafforzamento dell'Alleanza. Il Pentagono dichiara che la Russia, mentre afferma di non volere la guerra, ha ulteriormente potenziato durante il fine settimana le sue truppe e i mezzi militari sul confine ucraino. «La Russia deve continuare con l'impegno diplomatico e ritirare le forze militari che ha accumulato lungo i confini dell'Ucraina», è il grido del ministro degli Esteri di Kiev, Dmytro Kuleba. Ma in campo, adesso, non c'è più solo Biden che minaccia sanzioni personali anche a Putin, ma pure Macron, il premier britannico Johnson, il cancelliere tedesco Scholz e forse nei prossimi giorni anche il presidente del Consiglio Draghi. Stanno tentando quello che viene definito «l'approccio europeo» per disinnescare il rischio invasione, perché la sola ipotesi di bloccare il gasdotto Nord Stream 2 come ritorsione allarma molti paesi Ue, in primis la Germania. Tra pochi giorni Putin vedrà Xi Jinping per le olimpiadi invernali e il loro summit a Pechino sarà strategico anche per consolidare alleanze economiche e politico-militari. Per Biden un nuovo faccia a faccia col capo del Cremlino sembra prematuro, ma l'incontro in programma a Ginevra fra i ministri degli esteri russo e americano a metà febbraio quando sarà arrivata a Mosca anche la risposta della Nato sui «rischi per la sicurezza russa», farà capire se i carri armati di Putin sul confine ucraino e i 130mila soldati di Mosca sono pronti ad un arretramento strategico oppure no».
Data room, oggi del Corriere della Sera, che torna a offrire materiali di documentazione sulla crisi dell’Ucraina. (Facciamo ammenda delle imprecisioni presenti in alcune schede citate ieri sull’aggressione militare). I russi rivendicano un accordo non scritto post guerra fredda per tenere fuori dalla Nato le ex repubbliche socialiste sovietiche, gli americani negano. Gabanelli e Battistini.
«Il destino dell'Ucraina è contenuto già nel suo nome: in slavo l'espressione «u-craina» significa «al confine», e nel linguaggio geopolitico è lo spazio-cuscinetto fra due superpotenze che non deve appartenere a nessuno per garantire gli equilibri strategici. Quando l'Urss collassò, nel 1991, l'Ucraina fu la prima delle Repubbliche sovietiche ad andarsene da Mosca. Zbigniew Brzezinski, il consigliere per la sicurezza della Casa Bianca ai tempi di Carter, avvertì come la nascita dell'Ucraina si sarebbe rivelata «una delle grandi svolte del '900, dopo la dissoluzione della Cortina di ferro». La tensione di queste settimane tra Russia e Occidente viene da quegli avvenimenti lontani. Ma perché questo Paese - il più grande d'Europa dopo la Russia, esteso quanto Germania e Gran Bretagna messe insieme, con gli stessi abitanti della Spagna - è conteso al punto da riportarci a scenari da Guerra fredda? «La vera linea Est-Ovest passa per l'Ucraina e, più in là, per le riserve energetiche del Caspio», scrisse qualche anno fa il New York Times : «A Putin interessa possederla, agli Usa controllarla». Il patto non scritto Bush Gorbaciov Torniamo al 1989. I russi sostengono che dopo la caduta del Muro di Berlino ci fu un accordo non scritto fra il leader sovietico, Mikhail Gorbaciov, e l'allora presidente americano George Bush: in cambio della riunificazione della Germania e del ritiro delle forze armate di Mosca, la Nato non si sarebbe mai allargata sui Paesi del Patto di Varsavia, e men che meno alle Repubbliche ex sovietiche. È un accordo che gli americani ufficialmente hanno sempre negato. E che durò comunque poco. L'indipendenza dell'Ucraina venne sancita il primo dicembre del 1991: esattamente cinque mesi dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia. Nel 1993, con la nascita dell'Ue e le prime richieste d'adesione dai Paesi dell'Est, gli Stati Uniti s' inventano il «Partenariato per la Pace», un programma che aggiri i veti russi e avvicini alla Nato non solo i Paesi dell'ex Patto di Varsavia, ma anche pezzi della vecchia Urss come l'Estonia, la Lettonia e la Lituania. Di più: il presidente americano Bill Clinton chiede a tutti gli europei che i negoziati per l'ingresso nella Ue, da quel momento, siano preceduti anche da una sostanziale adesione ai principi della Nato. La regola non è codificata, ma diventa una prassi, anche perché sono i Paesi stessi a chiedere di far parte dell'Alleanza. È andata così per Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca, le tre Repubbliche baltiche, e sta andando allo stesso modo nei Balcani: dall'Albania al Montenegro alla Macedonia. Putin: l'Ucraina no! La Russia post-sovietica e indebolita di Boris Eltsin, subisce negli anni 90 questo allargamento occidentale. Si negozia su tutto. Si cominciano a progettare le due linee del gasdotto Nord Stream, che dovranno trasportare direttamente il gas russo in Europa, bypassando gli ex alleati della Polonia, dei Paesi baltici e dell'Ucraina, ma pure i fedelissimi bielorussi. Perché a Mosca, in quel momento, è più urgente incassare dollari che credito politico. Con l'arrivo di Vladimir Putin, cambia tutto. E il primo, deciso «niet» è proprio sull'Ucraina. La linea rossa invalicabile. Kiev era la capitale della terza più grande Repubblica dell'Unione Sovietica. Il granaio e l'arsenale dell'impero: dava a Mosca un quarto dei cereali, del latte, un terzo del ferro, del carbone e del manganese, ospitava le centrali e le testate nucleari. La popolazione dell'Ucraina Orientale e della Crimea è sempre rimasta in gran parte russa per lingua, mentalità e cultura. Lo scorso luglio Putin ha detto chiaro come la pensa: ucraini, russi e bielorussi nascono dalla stessa radice e devono restare insieme. L'Ucraina, dunque, no. Un suo ingresso nella Nato, al pari di quello della Georgia, diminuirebbe la credibilità strategica e politica della Russia. Nel 2004 a Kiev scoppia la Rivoluzione arancione sostenuta dall'Occidente, ed è lì che il Cremlino riesce a far eleggere un suo uomo, Viktor Yanukovich, con un voto che verrà dichiarato truccato: il suo avversario, Viktor Yuschchenko, viene misteriosamente avvelenato con una dose di diossina. E alla fine d'una disputa sul gas, con Mosca che accusa Kiev di fare la cresta sulle forniture all'Europa che passano per i gasdotti ucraini, è sempre Yanukovich a farsi rieleggere e a spostare il Paese sulle posizioni di Mosca. 2008: no di Roma, Parigi e Berlino Il 4 aprile 2008 durante il vertice Nato convocato a Bucarest, gli Usa fanno pressioni per l'ingresso di Ucraina e Georgia nell'Alleanza, ma non se ne fa nulla a causa dell'opposizione di Italia, Francia e Germania. Romano Prodi, che era presente a quel vertice, ricorda «abbiamo detto no, "per ora", perché avrebbe creato tensioni». E infatti, la Georgia, per aver provato ad uscire dall'influenza di Mosca, nell'agosto del 2008 assaggiò la prima guerra europea del XXI secolo. La Moldova si trovò bloccate le esportazioni in Russia, non appena firmò un accordo d'avvicinamento all'Europa. Nel 2014, in Ucraina, sarà una nuova sanguinosa sollevazione della capitale a cacciare Yanukovich definitivamente, svelare i piani americani e spingere Putin ad una duplice, risposta: l'invasione della Crimea e l'annessione della penisola attraverso un referendum presidiato dalle forze d'occupazione; la secessione della regione del Donbass filorusso, sul confine dell'Est, che porterà all'autoproclamazione delle Repubbliche di Donetsk e di Lugansk e farà cominciare otto anni d'una lunga guerra civile ancora in corso, con 14 mila morti. Chi sta inviando armi Per bloccare le aspirazioni dell'Ucraina a mettersi sotto la protezione Nato, la Russia ha ammassato truppe e mezzi corazzati: 130.000 uomini ai confini del Donbass, più 40 mila dislocati in Bielorussia, oltre che in Moldova e in Transnistria. L'Ucraina chiede aiuto, e la risposta arriva con una massiccia fornitura di armi. Una norma Nato vieta l'esportazione in Paesi terzi senza l'ok del produttore: prima di vendere armi tedesche agli ucraini, per dire, l'Estonia deve avere il permesso della Germania (che ha deciso di non darlo). In questo caso gli Usa hanno autorizzato Paesi Nato a esportare armi d'ogni tipo. Dagli Usa sono arrivati missili anticarro portatili Javelin a guida infrarossi autonoma, e missili antiaerei. Dalla Gran Bretagna armi leggere, anticarro e personale di addestramento. Dagli Stati baltici missili anticarro e antiaerei. Dalla Repubblica Ceca armi leggere. Dal Canada un contingente di forze speciali. Dalla Danimarca una fregata nel Baltico, più 4 caccia F-16 in Lituania. Olanda e Spagna sono pronte a fare la loro parte. La Turchia ha inviato i droni Bayraktar. Il rifiuto della Germania è il primo in 70 anni, ed ha incrinato il fronte Nato, con Francia e Italia che allo stesso modo non vogliono immischiarsi in una crisi dov' è in ballo la sicurezza energetica europea e importanti rapporti commerciali con la Russia. Nato: natura e obiettivi Per fermare l'escalation Putin chiede a Washington un impegno scritto: l'Ucraina non entrerà mai nella Nato, nessuna esercitazione Nato lungo i confini russi, niente truppe americane nei Paesi Baltici. La risposta di Biden: discutiamo, ma è l'Ucraina a decidere di quale sistema di sicurezza far parte. E in caso d'invasione, ci saranno pesanti sanzioni e le banche russe fuori dal circuito bancario internazionale. L'Ucraina è spaccata in due: l'Ovest che guarda all'Europa e l'Est filorusso. Non può reggere a lungo con una guerra civile che sta coinvolgendo tre regioni del Paese, le miniere di carbone in mano a Mosca, e gli investitori che fuggono. Una crisi che mostra l'interesse americano di arrivare sul confine russo, e quello di Putin a preservare la sua autorità politica. Ma rivela anche come la Nato sia un'alleanza da ridefinire, nella natura e negli obiettivi, perché la Guerra fredda è finita, e dall'altra parte non c'è più un nemico, ma un competitor».
PUTIN E XI, ALLEANZA SUL GAS
Venerdì vertice fra il presidente cinese Xi Jinping e quello russo Vladimir Putin, prima dell'inaugurazione dei Giochi Olimpici invernali di Pechino. La Cina avrà un nuovo gasdotto da 50 miliardi di metri cubi annui, gemello del Nord Stream 2. Lorenzo Lamperti per La Stampa da Taipei.
«La città è la stessa: Pechino. Il luogo anche: il «nido d'uccello». Anche il direttore della cerimonia d'inaugurazione del 4 febbraio è sempre Zhang Yimou, regista di un film in uscita domani nelle sale in cui l'eroe è un cecchino che uccide soldati americani durante la guerra di Corea. Tutto il resto è cambiato. Se i Giochi Olimpici del 2008 erano quelli in cui la Cina si ripresentava sul palcoscenico mondiale, i Giochi Invernali del 2022 sono quelli della celebrazione del suo modello. Quattordici anni fa il motto era «un mondo, un sogno». Quel sogno, con Xi Jinping, è diventato sempre più cinese. E il mondo sembra essersi fatto più lontano. La Cina, da tempo in rotta di collisione con gli Stati Uniti, non vuole dimostrare più nulla se non la presunta superiorità del suo modello. Non a caso Xi ha scelto tre aggettivi per descrivere i Giochi: semplici, sicuri e splendidi. Rimandando alla presunta superiorità della strategia di gestione della pandemia e del suo sistema politico. D'altronde, l'evento arriva in una congiuntura temporale a dir poco cruciale per il Partito comunista: pochi mesi dopo il suo centenario e pochi mesi prima il conferimento del terzo mandato a Xi. Il nuovo motto è «insieme per un futuro condiviso», altra formula chiave utilizzata dal nuovo timoniere. La condivisione non sarà con tutti, visto che i leader stranieri annunciati a Pechino sono circa venti. Xi dedicherà a ognuno di loro brevi incontri individuali. Ma a Vladimir Putin, descritto come un "caro amico", verrà riservato un "occhio di riguardo". Secondo le anticipazioni delle rispettive agenzie di stampa statali, quello di venerdì sarà un incontro «a tutto campo» durante il quale «sincronizzeranno i loro orologi sui settori principali di cooperazione». Si discuterà «con grande attenzione» di Ucraina, con Putin che ha già fatto sapere che informerà il collega dello stato dell'arte sui negoziati con Usa, Nato e Unione europea. Il governo cinese ha negato le ricostruzioni secondo le quali avrebbe chiesto al Cremlino di non invadere fino alla fine dei Giochi e ha più volte chiesto una risoluzione attraverso il dialogo. Non è nemmeno escluso il colpo di teatro, visto che il portavoce Dmitrij Peskov non ha escluso che Putin possa incontrare il presidente ucraino Zelensky proprio a Pechino, in quello che sarebbe un grande successo diplomatico per Xi che potrebbe ergersi a mediatore della crisi. Ci sarà anche un evento per rimarcare la solidità dei legami, durante il quale secondo la Tass verrà dato un annuncio «importante» con la firma di «un documento politico cruciale». Secondo diversi analisti si dovrebbe trattare di un accordo sul fronte energetico o su quello militare. O magari entrambi. La guerra in Crimea aveva portato in dotazione alla Cina il gasdotto Power of Siberia. La nuova crisi potrebbe invece "regalare" il Power of Siberia 2, che dovrebbe avere una capacità massima di 50 miliardi di metri cubi. Con riflessi anche per l'Europa, visto che il nuovo gasdotto attingerà alle stesse riserve che la riforniscono. Sul fronte militare, negli ultimi mesi l'allineamento è stato evidente. Dal passaggio congiunto delle due flotte nello stretto di Tsugaru (a pochi chilometri dall'isola principale dell'arcipelago giapponese) alle esercitazioni con l'Iran e a quelle della scorsa settimana nel mare arabico. Non solo. Cina e Russia si stanno muovendo verso una maggiore integrazione finanziaria, con la spinta a Cips, rivale di Swift in rapida ascesa. Pechino e Mosca lavorano per integrare i propri ecosistemi digitali e di recente è stato annunciato un nuovo programma di cooperazione spaziale che prevede la creazione di una base lunare entro il 2035. Il tutto mentre l'interscambio commerciale è aumentato del 35,9% nel 2021, superando per la prima volta la soglia dei 140 miliardi di dollari. Il futuro non sarà condiviso con tutti, ma quello di Cina e Russia sembra percorrere sempre più un sentiero comune».
PORTOGALLO, VINCONO I SOCIALISTI
In Portogallo, il premier Antonio Costa vince la scommessa, il Partito socialista è infatti vicino alla maggioranza assoluta. Ma l'estrema destra diventa la terza forza del Paese. Andrea Nicastro per il Corriere.
«Antonio Costa ha vinto la sua scommessa. Il premier socialista ha abbandonato la comfort zone di una coalizione che durava da 6 anni e ha chiamato il Portogallo alle elezioni anticipate. Tutto o niente. I sondaggi lo davano testa a testa con il partito conservatore, incapace di riproporre la stessa alleanza, addirittura scalzato da una maggioranza di destra. Invece Costa ce l'ha fatta. Il suo Ps è primo partito in tutte le circoscrizioni, strappa ai conservatori quasi tutti i tradizionali feudi del Nord. Dal 2015, Costa ha aumentato i consensi ad ogni elezione e ora può diventare il primo ministro più longevo della democrazia lusitana. Con il 90% delle urne scrutinate il Partito socialista (Ps) di Costa si attesta al 41%. È a un nulla dalla maggioranza assoluta dei seggi. Gli basterà un resto favorevole e avrà il controllo del Parlamento in solitaria, altrimenti potrà accontentarsi dell'aiuto dei deputati affini di un partito animalista. Dietro ai socialisti, si fermano, al 27%, i conservatori che in Portogallo si chiamano socialdemocratici (Psd). La sconfitta ha portato il leader Rui Rio alle dimissioni. Terza forza, al 7%, la destra populista di André Ventura, ex commentatore sportivo. Quarti i liberali al 5%. Precipitano il Partito comunista/Verdi e il Blocco di sinistra, entrambi appena sopra il 4%. Secondo il vincitore, queste erano le elezioni «più importanti della storia portoghese». Costa pensava ai soldi del Next Generation Eu che stanno per arrivare. Saranno tra i 4 e 6 mila euro per ciascun cittadino. Bruxelles li sta offrendo per modernizzare le infrastrutture (circa trenta miliardi) e per aumentare la competitività delle imprese private (circa 15 miliardi). Una pioggia da far gola a qualunque governo. Costa li ha richiesti e immaginati per far cambiare mestiere al Paese: non più solo turismo, ma creatività digitale. Così, quando gli alleati della sinistra radicale hanno contestato la sua Finanziaria 2022, troppo timida e poco redistributiva a loro dire, Costa ha rovesciato il tavolo e scommesso sul voto. Dopo sei anni di convivenza in una coalizione geringonça (tradurre come sgarruppata forse rende l'idea) Costa voleva mano libera, sognava la maggioranza assoluta, ma poteva anche accettare soci più consapevoli dell'opportunità che stava arrivando. Ha avuto ragione. «I portoghesi - ha detto ai primi exit poll - hanno fatto chiarezza». Anche l'affluenza gli ha dato ragione. Smentendo le previsioni che parlavano di astensionismo record, i portoghesi hanno sfiorato il 60% di affluenza invertendo la tendenza al disimpegno che durava da quasi 20 anni. Ha aiutato anche l'organizzazione del voto. Il 10% di elettori positivi o i quarantenati per Covid ha potuto votare in seggi e orari riservati. Il sistema maggioritario portoghese regala la parte del leone ai due partiti maggiori. I socialisti puntano alla maggioranza assoluta di 116 seggi, i socialdemocratici si fermeranno ben sotto i 90, i populisti di Chega! appena sopra i 10. A tutti gli altri poche unità. Negli ultimi sei anni Costa ha saputo rimettere in piedi il welfare azzoppato dalla crisi finanziaria Lehman Brothers e dal rigorismo dell'Europa pre-Draghi, si è inventato circa 1 punto di Pil accogliendo ricchi pensionati esentasse, altri 10 punti cedendo il centro di Lisbona ai Fondi Immobiliari e al turismo. Ha portato la disoccupazione dal 18 al 6/8 per cento e ha raggiunto tassi di crescita stabilmente superiori alla media continentale, ma il suo Portogallo resta comunque in coda al treno del benessere europeo. I 45 miliardi del Recovery Plan europeo sono necessari al salto decisivo. L'idea è di investire in 5G, digitalizzazione, semplificazione, per attirare in Portogallo start up alla ricerca di un costo della vita più basso e un clima più gradevole di quello irlandese o baltico. Da ieri notte, un Portogallo protagonista del mondo virtuale è più vicino».
PAKISTAN, SACERDOTE UCCISO
Un sacerdote è stato ucciso in Pakistan, mentre tornava dalla Messa. La notizia di Lorenzo Cremonesi per il Corriere:
«Un sacerdote pachistano è stato ucciso e un altro ferito mentre tornavano a casa in auto, dopo aver celebrato la messa in una chiesa di Peshawar. Padre William Siraj, 75 anni, è stato colpito da diversi proiettili di pistola. Il commando in motocicletta ha ferito a una mano padre Naeem Patrick, che sedeva al suo fianco. Un terzo sacerdote risulta illeso. Ancora nessuna rivendicazione. Ma tutto lascia credere si tratti di estremisti islamici, che già più volte hanno commesso gravi violenze contro i non musulmani e in particolare contro la piccola comunità cristiana (poco più di due milioni e mezzo di persone, l'1,27% della popolazione totale). Le minacce sono cresciute dopo la vittoria talebana in Afghanistan: dallo scorso agosto, i gruppi armati dei talebani in Pakistan hanno intensificato le attività assieme a quelle dell'Isis. Il funerale di padre Siraj sarà celebrato oggi nella parrocchia di «Tutti i Santi» a Peshawar, la stessa chiesa attaccata con mitra e bombe nel 2013: allora i morti furono oltre 70 e i feriti un centinaio».
YEMEN, LA GUERRA DEI BAMBINI
Guerra nello Yemen. I bambini combattono nelle file degli Houthi e dei governativi alleati dei sauditi: la tragedia nelle testimonianze raccolte da Medici senza frontiere. I più piccoli, denuncia l’Onu, hanno appena sette anni e maneggiano fucili. Francesco Semprini e Giordano Stabile per La Stampa.
«Gli occhi di Basam, neri e profondi, sono fissi verso il cielo, mentre la striscia di sangue dalla bocca scende velocemente sul collo. La polvere sollevata dagli anfibi dei compagni d'armi copre le lisce guance ocra, rimanendo attaccata al grasso del fucile che gli camuffa il volto. Lo stesso Ak-47 che, sino all'ultimo respiro, ha tenuto stretto tra le mani minute rispetto all'ingombrante fucile. La vita di Basam si è consumata con un colpo di mortaio, il boato, lo spostamento d'aria, le schegge, una delle quali si conficca nel ventre glabro del bambino soldato nascosto dalla lunga cartucciera. Il corpo viene trascinato in trincea, dove i combattenti ripiegano sotto il fuoco dell'offensiva saudita, posato accanto ad altri cadaveri, alcuni sono esili come il suo. Gli occhi rimangono aperti, ad invocare la protezione di Allah o l'ultimo abbraccio della mamma a centinaia di chilometri. Basam vuol dire sorriso, quello che gli è stato usurpato da fanciullo, quando i capi ribelli sono andati a bussare alla porta di casa. Basam è uno dei duemila minori reclutati dagli Houthi e morti in battaglia, nuove matricole da sommare al computo delle piccole vittime del conflitto che in sette anni ha causato 377 mila morti. Nel rapporto annuale diffuso dal Consiglio di sicurezza, gli esperti delle Nazioni Unite affermano di aver trovato prove che i ribelli sciiti utilizzano campi e una moschea per diffondere la loro ideologia e reclutare bimbi con cui combattere il governo yemenita appoggiato dalla coalizione guidata da Riad. «Ai bambini viene insegnato a gridare slogan come "morte all'America, morte a Israele, maledetto agli ebrei, vittoria all'Islam" - spiegano gli esperti. In un campo, ai bambini di appena sette anni è stato insegnato a pulire le armi e a difendersi dai razzi». L'Onu sostiene di aver ricevuto un elenco di 1.406 bambini reclutati dagli Houthi e morti sul campo di battaglia nel 2020 e 562 bambini uccisi tra gennaio e maggio 2021. «Avevano un'età compresa tra 10 e 17 anni», dicono gli esperti, e «un numero significativo» sono stati uccisi ad Amran, Dhamar, Hajjah, Hodeidah, Ibb, Saada e Sanaa. Ad alcuni di loro era stato detto che avrebbero frequentato corsi culturali, in altri casi le famiglie sono state minacciate di non ricevere più aiuti umanitari. E ci sarebbe stato un caso di stupro. Secondo la Wethaq Foundation sono 12.433 i bambini soldato registrati nello Yemen, il 75% nelle file degli Houthi, gli altri fra i governativi accanto a cui combattono mercenari da oltre una decina di Paesi, molti sudanesi. A Marib un centro finanziato dal King Salman Humanitarian Aid and Relief Centre ne ha curati oltre cinquecento. L'edificio a due piani assomiglia a un collegio, le stanze per dormire linde e ordinate, piene di giocattoli e disegni. Nel centro ci sono una trentina di bambini, magri, gli sguardi diffidenti, spaventati, alcuni consunti dallo stress e dalle anfetamine che davano loro per spingerli all'attacco. La riabilitazione di 45 giorni è condotta in primo luogo da uno psicologo. Alcuni hanno subito anche mutilazioni e sempre in città è stato istituito un centro per l'impianto di protesi. Le vittime innocenti del conflitto yemenita non sono però solo quelle costrette a imbracciare i Kalashnikov. Sono donne e bambini in fuga, tanti dei quali si rivolgono alle strutture di Medici senza Frontiere come quelle di Marib, attualmente la prima linea più calda in Yemen. «Il conflitto sta mettendo a dura prova la salute mentale delle persone, ma i servizi sanitari specializzati nel governatorato di Marib sono praticamente inesistenti», spiega l'organizzazione che ha condiviso le testimonianze in esclusiva con La Stampa. Come quella di Asifa, sette anni, rimasta intrappolata insieme ai fratelli e alla madre nel distretto di Medghal. La zona era assediata da uomini armati e tutta la famiglia era convinta che sarebbero morti. Fortunatamente, sono riusciti a fuggire attraverso il deserto fino alla città di Marib. Sebbene fisicamente illesa, l'esperienza ha colpito gravemente Asifa. Da allora ha avuto attacchi di panico. Abdul Haq, di Msf, la prende in cura e si rende conto che, anche Amara, la madre della bimba, è soggetta a forte ansia che contribuisce allo stress post traumatico dei bambini. Così entrambe vengono sottoposte a terapia per i disturbi del comportamento per renderle mentalmente forti e far fronte a ciò che hanno vissuto. Arkani, 20 anni, ha iniziato il viaggio assieme al marito otto mesi fa dall'Etiopia, il loro obiettivo era raggiungere l'Arabia Saudita per guadagnare e creare un futuro migliore. Dopo aver trascorso due mesi ad Aden, rimangono bloccati nel governatorato di Marib, nel Nord del Paese, in attesa con centinaia di altri migranti etiopi di attraversare il confine con l'Arabia Saudita. Lì iniziano i problemi di salute. Arkani si rivolge al centro di assistenza di Msf Al-Ramsa dove riceve le cure per lenire le forti emicranie e i dolori muscolari e ottiene consigli sulla pianificazione familiare per assicurarsi che non rimanga incinta durante il suo viaggio. Nella clinica mobile di Msf ad Al-Noor, arriva invece Aliya, bimba di otto mesi, assieme a sua madre Aafia. Soffre di dissenteria. Durante la visita medica, le viene diagnosticata una malnutrizione acuta, che temono possa trasformarsi in grave malnutrizione se non trattata. Ad Aliya vengono somministrati farmaci e una volta trattata la diarrea, inizierà il trattamento della malattia per alcune settimane. La sua è una delle tante emergenze quotidiane che cadenzano le giornate del nuovo fronte caldo, un tempo rifugio degli sfollati e oggi teatro di bombardamenti che causano danni e perdite da entrambe le parti. Le voci di denuncia su crimini contro l'umanità arrivano anche dal fronte opposto. Abdul Malek al Ajari, è il segretario dell'ufficio politico di Ansar Allah, l'organizzazione militare dei ribelli filoiraniani definita, appunto, «Partigiani di Dio». Il leader Houthi ha voluto parlare con La Stampa per fornire dettagli sull'attacco della coalizione di due settimane fa alla prigione di Saada che ha causato, secondo Msf, almeno 70 morti. «La struttura non era di Ansar Allah ma è un carcere amministrato dalle autorità locali - spiega -. Non è la prima volta che l'Arabia Saudita nega i suoi crimini, basti pensare al terribile massacro causato dal bombardato di un funerale o il raid contro un autobus pieno di bambini». Per quanto riguarda la fine dell'escalation, afferma il leader sciita, «prima dobbiamo raggiungere un'intesa sulle questioni umanitarie, e due accordi separati, uno sul porto di Hodeida e l'altro sull'aeroporto di Sanaa. Poi negoziamo il cessate il fuoco globale su tutto il territorio yemenita, la fine delle incursioni in cambio del lancio dei missili e i droni da parte nostra e il ritiro di tutte le truppe straniere dallo Yemen. Questa è l'unica roadmap verso la pace».
Leggi qui tutti gli articoli di lunedì 31 gennaio:
https://www.dropbox.com/s/l3r22gys1rn8vye/Articoli%20la%20Versione%20del%2031%20gennaio.pdf?dl=0
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.
Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.