La Versione di Banfi

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I partiti sono in stallo

alessandrobanfi.substack.com

I partiti sono in stallo

Bloccati da divisioni, i due schieramenti appaiono incerti. Berlusconi resta ad Arcore. Conte ha dubbi su Draghi al Colle e Salvini li condivide. Ucraina: in 3 settimane i russi pronti alla guerra

Alessandro Banfi
Jan 20, 2022
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I partiti sono in stallo

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Da oggi Green pass obbligatorio per entrare nei negozi di parrucchiere, barbiere ed estetista. Mentre i numeri della pandemia in Italia confermano la sensazione che siamo nei pressi del picco: contagi sotto i 200 mila, 380 i decessi ieri, ma calano ancora i ricoveri in terapia intensiva. Le Regioni tornano a chiedere l’abolizione del sistema dei colori, è in pressing soprattutto la Val d’Aosta. Intanto uno studio europeo condotto da un gruppo di economisti e matematici di Bruegel e del Conseil d'Analyse economique sostiene che il Green pass sta funzionando, e bene, in Francia, Germania e Italia. Il premier Boris Johnson fa cadere da domani tutte le restrizioni anti Covid in Gran Bretagna ma la lettura quasi unanime dei giornali inglesi, ed italiani, è che si tratti di un gesto disperato per recuperare popolarità ed evitare le dimissioni dopo lo scandalo del party a Downing Street durante il lockdown.

Nella corsa al Quirinale la parola chiave dei giornali di oggi è “stallo”. Tutti fermi e un po’ bloccati a quattro giorni dal primo voto, dopo che sia dal centro sinistra (vertice a casa Conte) che dal centro destra arrivano segnali di divisioni ed incertezze. Giuseppe Conte ha dubbi su Draghi al Colle, ma non esprime “veti” dopo un colloquio con Di Maio. I dubbi grillini su Draghi nuovo presidente della Repubblica sarebbero condivisi anche da Matteo Salvini, nell’altro schieramento. Silvio Berlusconi intanto non vuole rinunciare alla sua candidatura e per ora non si muove da Arcore.

Il governo ha comunque problemi urgenti da affrontare. A cominciare dall’emergenza energia. Forse domani il Consiglio dei Ministri varerà nuove misure su questa materia, anche se appare poco praticabile la super tassa sui grandi produttori. Draghi continua ad avere molti contatti, in una specie di consultazione parallela sulle mosse di palazzo Chigi.

Dall’estero: in primo piano c’è ancora l’Ucraina e anzi gli osservatori militari formulano una previsione su una possibile guerra. In tre settimane le truppe russe avranno completato un accerchiamento completo del Paese. Oggi il segretario di Stato Usa Blinken è a Berlino e domani a Ginevra incontra il ministro degli Esteri russo Lavrov. Avvenire dà grande risalto al rapporto di una Ong sulla persecuzione dei cristiani nel mondo presentato ieri alla Camera. Mai così tanti da 29 anni. Gli esperti della Nasa hanno calcolato la potenza esplosiva dell’eruzione alle isole Tonga: pari a 500 volte la bomba di Hiroshima.

È disponibile il primo episodio di un nuovo Podcast con la mia voce narrante. Si chiama Le Figlie della Repubblica. È stato realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo primo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Maria Romana De Gasperi, figlia di Alcide. Il racconto riporta tutta la forza di una vita ricca di grandi ideali e povera di risorse, centrata sulla responsabilità di credente e di cittadino italiano. Alcide De Gasperi è stato un patriota, per usare un termine oggi tornato di moda, che ha lottato tutta la vita per il bene del suo Paese. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco la prima puntata.

https://www.corriere.it/podcast/figlie-della-repubblica/22_gennaio_12/maria-romana-de-gasperi-racconta-padre-alcide-7d88a738-6e45-11ec-b03a-4a0e157e4787.shtml

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta domani mattina. L’appuntamento orario resta intorno alle 8. Alla fine della rassegna trovate tutti gli articoli citati in pdf. Vi consiglio di scaricarli se siete interessati perché restano disponibili in memoria solo 24 ore.

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Si vota fra quattro giorni e per il Corriere della Sera è tutto fermo: Quirinale, trattative in stallo. Per La Repubblica la questione è l’opposizione giallo verde al premier: Draghi, i no di Lega e 5S. La Stampa vede una divisione soprattutto fra i grillini: Draghi al Colle divide i 5S. Di Maio, pressing su Conte. Quotidiano Nazionale riporta le divergenze nel centro sinistra: Pd e Cinque stelle divisi su Draghi. Così come il Manifesto: Il tridente duole. Domani torna sulla candidatura Berlusconi: Quirinal Papi. Mentre il Fatto attacca il premier: Missione incompiuta. Draghi resti a bordo. Per Il Mattino, Conte è amletico: Draghi al Colle, dubbi M5S. Mentre per il Messaggero sia centro destra che centro sinistra sono divisi: Draghi al Colle divide i poli. Sui guai giudiziari del fondatore dei 5 Stelle vanno Il Giornale: Le bugie di Grillo e Libero: Dai soldi alla violenza Grillo ancora indagato. Il Sole 24 Ore sottolinea lo sforzo del governo: Ai settori in crisi 1,5 miliardi di aiuti. Mentre La Verità è ancora contro i virologi: Selezione dei No Vax, Pregliasco insiste. «Hanno male ai piedi? Sopporteranno». Avvenire apre sul rapporto mondiale sui cristiani nel mondo mai così perseguitati negli ultimi 29 anni: Messi in Croce.

DA OGGI SOLO COL GREEN PASS DAL BARBIERE

Nei negozi di parrucchiere, barbiere ed estetista da oggi c’è l’obbligo di Green pass. Le Regioni tornano a chiedere di abolire i colori. Adriana Logroscino per il Corriere.

«Debutta oggi l'obbligo di green pass base per andare dal parrucchiere, dal barbiere o dall'estetista. Dal primo febbraio, poi, sarà richiesto da quasi tutti i negozi, tranne quelli che forniscono beni essenziali: farmacie, alimentari, edicole, distributori di carburante, ottici, mercati, negozi di prodotti per animali. Il Dpcm che elenca le deroghe sarà firmato oggi. Ma già si ipotizzano nuovi interventi, questa volta di allentamento, chiesti con forza dai governatori: ieri è cominciato il confronto tra ministero della Salute e dirigenti delle Regioni per rivedere il sistema dei colori. A patto, però, che il rallentamento in atto della curva dei contagi continui e si assesti verso un appiattimento. Ieri sono stati registrati 192.320 nuovi contagi e ancora tanti decessi: 380, dei quali 70 solo in Lombardia. In calo, però, i ricoveri in rianimazione. I primi a partire L'obbligo di green pass base - che si ottiene con un tampone molecolare o antigenico negativo - per i clienti di centri estetici, parrucchieri e barbieri, da oggi e fino al 31 marzo, è stato disposto con il decreto legge del 7 gennaio, lo stesso che ha imposto l'obbligo vaccinale a tutti gli over 50. Ma si inserisce nel solco degli interventi tesi a evitare chiusure e divieti: da dopo l'estate infatti si è progressivamente ristretto il campo delle attività che si possono svolgere senza certificato verde. Prima, il 10 gennaio, è toccato a teatri, stadi, cinema, palestre, ristoranti, aperti solo per possessori di super green pass (guariti o vaccinati). Oggi il nuovo step. Il prossimo passo Dal primo febbraio scatterà poi l'obbligo di esibire almeno un tampone negativo per entrare in qualsiasi negozio e negli uffici pubblici, in banca e in posta. Per le attività commerciali i clienti vengono così equiparati ai lavoratori che avevano già l'obbligo di green pass base da metà ottobre. La trattativa, all'interno del governo, su quali categorie commerciali escludere da quest' obbligo è stata lunga. Alla fine, però, sembra essere prevalsa la linea del rigore affinché lo spirito della norma, cioè una sorta di lockdown per i non vaccinati, sia mantenuto. Nessuna deroga per tabaccherie e librerie. Gli allentamenti In ragione di queste scelte, i presidenti delle Regioni da giorni insistono perché si riveda il sistema delle fasce di colore. Inaugurato poco più di un anno fa, prevede il passaggio a misure via via più rigide, in base al quadro epidemiologico misurato dall'incidenza di positivi per numero di abitanti e dalle percentuali di occupazione dei posti letto in intensiva e nei reparti ordinari. Le Regioni chiedono che si considerino solo i positivi sintomatici, sia rispetto al contagio sia ai ricoveri. La Valle d'Aosta è in prima linea: unica regione già in arancione, rischia di passare a breve in rosso. Significherebbe archiviare la stagione turistica invernale. Il presidente Erik Lavévaz, ha inviato al ministro della Salute, Roberto Speranza, una lettera per chiedere «un margine di tolleranza nei calcoli». Ma molti suoi colleghi vanno oltre. «I colori delle regioni vanno eliminati, non hanno più senso», hanno dichiarato i presidenti di Toscana, Eugenio Giani, ed Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Durante la riunione, il direttore Prevenzione del ministero della Salute, Giovanni Rezza, e il presidente del Comitato tecnico-scientifico, Franco Locatelli, hanno aperto a una revisione che scorpori il dato degli asintomatici. Decisivo sarà a giorni il tavolo politico con il ministro. La sentenza Per ora il bollettino conferma il gran numero di contagiati. Segno di quell'assunto degli scienziati per i quali Omicron circola tanto ma provoca conseguenze meno gravi in larghissima parte gestite a casa, grazie anche ai vaccini. E sul fronte delle terapie domiciliari, il Consiglio di Stato ha sospeso la sentenza del Tar Lazio: ribaltata, quindi, la cancellazione della circolare del ministero della Salute che disponeva «vigile attesa» e nessuna prescrizione farmacologica, salvo paracetamolo e antinfiammatori».

STUDIO TEDESCO: IL GREEN PASS AIUTA L’ECONOMIA

Lo studio europeo di un gruppo di economisti e matematici di Bruegel e del Conseil d'Analyse economique ha valutato l'impatto sull'economia del Green pass in Francia, Germania e Italia. Il certificato verde funziona, ha un "robusto effetto" sui tassi di vaccinazione, sui dati sanitari e sull'economia. La notizia su Libero di oggi.

«Secondo uno studio del think tank Bruegel, in Italia, Francia e Germania, nei tre principali Paesi che hanno introdotto il green pass a partire dalla scorsa estate, oltre a un incremento delle vaccinazioni c'è stata una riduzione dei morti e un miglioramento dell'economia. Gli effetti dell'esibizione obbligatoria del certificato vaccinale odi un test negativo o di guarigione sono «considerevoli», concludono gli economisti. In Francia, per esempio, il green pass ha fatto aumentare le vaccinazioni del 13%, in Germania del 6,2% e in Italia del 9,7%, tra l'estate e la fine del 2021. Bruegel ha voluto fare anche una stima delle conseguenze sul Pil dei certificati "verdi", che hanno consentito una ripresa dell'attività economica e del lavoro in ufficio evitando nuovi lockdown. E anche qui il risultato è netto. In Francia, senza green pass il Pil avrebbe perso sei miliardi di euro, in Italia 2,1 miliardi, in Germania 1,4 miliardi. Nonostante gli effetti positivi «robusti» dei certificati, tuttavia, gli economisti sconsigliano un obbligo vaccinale generalizzato. Il green pass «sembra un'alternativa più inclusiva rispetto alle immunizzazioni obbligatorie che rischiano di minacciare la coesione sociale».

BIANCHI RIVELA LE CIFRE SULLA SCUOLA

Secondo i dati del Ministero fa lezione in aula l’88 per cento degli alunni. Il Ministro Bianchi va contro corrente e dà i numeri del Covid nelle scuole, anche se ammette che fra studenti e insegnanti c’è un’impennata di malati. Orsola Riva per il Corriere.

«Eccoli i dati del ministero sui contagi a scuola dopo la riapertura a gennaio. La buona notizia è che, nonostante Omicron, il 93,4 per cento delle classi funziona ancora in presenza. Quella cattiva è che i contagi fra i più giovani sono letteralmente esplosi nelle ultime settimane. Dati alla mano, gli alunni positivi, che prima della chiusura natalizia erano lo 0,63 per cento del totale, la settimana scorsa erano schizzati al 4,32 per cento: un aumento quasi del 700 per cento. Colpa delle scuole? La risposta suggerita dal monitoraggio è no. Nel senso che semmai la curva dei positivi si è impennata proprio durante il periodo in cui le scuole erano chiuse. Vale per gli studenti, soprattutto per i più grandi, ma anche per i docenti e per i bidelli. Questa, almeno, è la lettura dei dati che ha dato ieri pomeriggio il ministro Patrizio Bianchi, rivendicando davanti ai membri della Commissione cultura della Camera la bontà della scelta di riaprire le scuole nonostante la corsa dei contagi. Scelta portata avanti dal governo Draghi contro le resistenze non solo di alcune regioni ma anche di una parte del mondo della scuola. Che Bianchi, comunque, ha doverosamente ringraziato per lo straordinario sforzo profuso in questi giorni difficili e confusi, in cui erano circolate anche «stime che non avevano alcuna base numerica». Un riferimento per nulla velato al presidente dell'Associazione nazionale presidi Antonello Giannelli, secondo il quale le classi in Dad sarebbero state il 50 per cento: una su due. Giannelli ha incassato il colpo - «i nostri dati erano diversi in quanto si basavano sulle continue comunicazioni dei nostri iscritti» - ma ha rilanciato la palla chiedendo che «d'ora in poi» il ministero comunichi i dati «con cadenza settimanale». In base a quelli forniti dal ministero, riferiti a sabato scorso, le classi che sono state costrette a chiudere e a mandare tutti in Dad sono solo il 6,6 per cento, con punte sopra l'8 in Lombardia, Veneto e Liguria, mentre Emilia-Romagna, Toscana e Lazio oscillano fra il 7 e il 7,4 per cento e la Campania di De Luca è al 4,9. In numeri assoluti parliamo di 20.185 classi su 374.740, di cui però solo 307.690 hanno partecipato alla rilevazione, il che vuol dire che una su cinque non è stata censita. Alle classi in quarantena (che scatta al primo contagio negli asili, al secondo alle elementari e al terzo per gli studenti delle medie e superiori che sono vaccinati o si sono contagiati da meno di 120 giorni) va aggiunto un altro 13,1 per cento di classi che, pur restando aperte, hanno dovuto attivare la didattica a distanza per gli studenti costretti a casa dal Covid. Sicché complessivamente si può dire che in una classe su cinque i docenti devono fare lezione con il monitor del pc acceso. Ma quanti sono in questo momento gli alunni positivi o in quarantena? Sempre secondo i dati parziali del rapporto, sono 699.167 su poco più di 6 milioni di bambini e ragazzi censiti (purtroppo però c'è un altro milione e passa di studenti che è sfuggito al radar del ministero). In termini percentuali si tratta dell'11,6 per cento degli alunni, così ripartiti: 9 per cento nelle scuole dell'infanzia, 10,9 alle elementari, 12,5 per cento alle medie e alle superiori».

GOVERNO. LE CONSULTAZIONI DI DRAGHI

I problemi sono tanti. C’è un Consiglio dei Ministri in vista domani ma soprattutto ci sono gli impegni istituzionali, primo fra tutti l’elezione per il Quirinale. L’attivismo di Mario Draghi si manifesta in colloqui e riunioni. Il retroscena di Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Alle 20 gli stanzoni di Palazzo Chigi brillano ancora di luce. Nella sede del governo tutti, nessuno escluso, continuano a lavorare a due obiettivi: portare a casa un decreto sulle bollette e favorire l'ascesa di Mario Draghi al Quirinale. Il premier, che non ha mai negato le proprie ambizioni presidenziali, si mantiene ufficialmente fuori dai radar. Eviterà quasi certamente la conferenza stampa per le misure sul caro-energia. Da giorni, però, si muove. Riceve con discrezione ministri o personalità fondamentali per gli equilibri parlamentari. Non solo Lorenzo Guerini e Roberto Fico. Il dialogo con Giancarlo Giorgetti, ad esempio, è diventato nelle ultime ore ancora più intenso. Quello con Luigi Di Maio si è consolidato in un recentissimo faccia a faccia. Ieri è stata la volta di Daniele Franco. Come se non bastasse, il capo dell'esecutivo si prepara a ricevere i leader. A sera, la sensazione è agrodolce: certo, il Movimento frena e il centrodestra chissà cosa combinerà, ma i profili alternativi si consumano come torce, spiccano per debolezza o peggio ancora si scontrano con i veti invalicabili dei partiti. Lavorare all'ascesa di Draghi al Quirinale significa prima di tutto spendersi per organizzare un governo che eviti il voto anticipato. L'opzione di un tecnico sarebbe la preferita dal capo dell'esecutivo. Più che un nome, esiste una rosa composta: in cima c'è un suo ministro, Vittorio Colao. Più in giù, altri due che siedono in Cdm: Daniele Franco e Marta Cartabia. Nelle ultime ore è stata ipotizzata anche una soluzione completamente diversa: un esecutivo guidato dall'attuale capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) Elisabetta Belloni. Da registrare, inoltre, l'incontro avuto ieri dal premier con Filippo Patroni Griffi, presidente uscente del Consiglio di Stato, già ministro con Monti e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Enrico Letta. Sono tutte soluzioni che mandano in agitazione i partiti. Non solo perché le segreterie si esercitano in identikit politici alternativi - tra i quali spiccano sempre e comunque Paolo Gentiloni e Lorenzo Guerini - ma soprattutto perché si valuta la potenziale tenuta di un quadro politico già logorato. Senza dimenticare i tormenti del centrosinistra, che si dilania attorno a un dilemma: con Draghi al Colle non si corre il rischio di inaugurare un lungo anno di campagna elettorale, in cui i sovranisti resterebbero fuori dall'esecutivo (Giorgia Meloni) o bombarderebbero da dentro la casa comune un secondo dopo averla inaugurata (Matteo Salvini)? Non sono ostacoli di poco conto, ma Draghi cerca di creare le condizioni politiche per superare queste perplessità. Serve un premier, allora, e c'è bisogno di concordare uno scheletro di esecutivo prima di sottoporre al Parlamento la candidatura di Draghi al Colle. Per questo, è fondamentale comprare tempo: se l'ex banchiere deve essere, che sia possibilmente dalla quarta votazione. Per guadagnare qualche giorno potrebbe bastare lo psicodramma interno al centrodestra, utile a bruciare le prime tre votazioni con battaglie di bandiera. Poi, dal quarto scrutinio, basteranno 505 grandi elettori e a quel punto servirebbero oltre 300 franchi tiratori - questo è il calcolo - per sconfessare l'accordo tra i due poli e affossare Draghi nelle urne. Ma il vero rebus resta, come detto, il nuovo governo. Nelle ultime ore, le forze più piccole rappresentate in Parlamento - da Coraggio Italia a Cambiamo - sono state contattate da ambasciatori dell'attuale esecutivo. Hanno ragionato della continuità della legislatura e addirittura dell'opzione di essere rappresentati nella nuova squadra di governo. Alle 21, le luci di Palazzo Chigi restano ancora accese. Un politico navigato come Maurizio Lupi attraversa piazza Montecitorio. Si ferma e prevede: «Siamo sicuri che Berlusconi sosterrà un altro nome di centrodestra? Io ho dei forti dubbi e penso che si finirà su Draghi al Quirinale». Per lui, come per tutti, l'alternativa è soltanto una: il bis di Sergio Mattarella. Ma per quella servirebbe un'unanimità che, al momento, il fronte sovranista non garantisce».

QUIRINALE 1. IL VERTICE DEL CENTRO SINISTRA

Un tweet comune tra Letta, Conte e Speranza ma nessun nome condiviso dopo il vertice di ieri mattina. Sulla prospettiva di Draghi al Colle, dubbi dei 5 Stelle. Ma non c’è un “veto”. La cronaca di Buzzi e Meli per il Corriere.

«Aspettiamo le loro mosse e non dividiamoci», con questa raccomandazione Enrico Letta lascia casa Conte, dopo un vertice che ha visto i tre leader della fu maggioranza giallorossa uniti sul no a Berlusconi. Un nome comune ancora non c'è e non viene fatto nell'incontro voluto dall'ex premier e che è servito al segretario del Pd per capire i possibili spazi di manovra su Mario Draghi: «Ce ne sono». Il leader dem ha già avviato un sondaggio presso i suoi grandi elettori sul nome del premier, conscio che alcuni tra i big non sono a favore. E ha registrato con una certa soddisfazione che chi aveva molte perplessità nei confronti del presidente del Consiglio si sta ammorbidendo, anche con dichiarazioni pubbliche. «Se il nome di Mario Draghi diventa un nome su cui il Parlamento può accordarsi, il Pd non può spaccarsi», dice Stefano Bonaccini. «Se la soluzione possibile è Draghi è chiaro che noi ci siamo». Quando Letta ne parla con Conte non si sente rispondere di no: «Io non ho preclusioni, ma non so se riesco a farlo votare a tutti i miei. C'è chi teme che senza di lui la maggioranza non reggerebbe». A Conte, nel vertice, Letta la mette così: «Paradossalmente con Draghi al Quirinale la legislatura prosegue senza intoppi, mentre se si spacca l'attuale maggioranza sull'elezione del presidente il governo rischia e c'è il pericolo che salti tutto». Dunque, Letta ha raggiunto un primo indubitabile successo nella sua missione diplomatica per portare Draghi al Colle e quando il segretario incontra Simona Malpezzi e Debora Serracchiani, che insieme a lui formano la delegazione pd a cui è affidata la trattativa sul Quirinale, dice: «È un passo avanti, Conte non ha detto di no a Draghi, certo ora bisogna vedere se riesce a governare i suoi gruppi...». È un interrogativo che si pone anche il leader del M5S che, non a caso, dopo l'incontro con Letta e Speranza, vede Luigi Di Maio. «Dobbiamo siglare un patto di legislatura tra i partiti di maggioranza per uscire dallo stallo attuale, per dare un segnale di stabilità fuori dai nostri confini e tranquillizzare tutti i gruppi parlamentari», spiega a Conte il ministro degli Esteri, che è d'accordo sull'operazione Draghi. Certo, la maggioranza potrebbe avere dei contraccolpi anche nel caso in cui Berlusconi decida finalmente di fare un passo indietro. Molto, a giudizio di Letta, dipenderà dall'atteggiamento che assumerà a quel punto lo schieramento composto da FI, Lega e FdI. «Noi - dice ai suoi interlocutori il segretario del Pd - non possiamo votare candidati della destra, e questo non vale solo per Berlusconi Insomma, si deve decidere insieme, non è che loro fanno un altro nome e a noi sta bene». Speranza e Conte annuiscono: «Hai ragione». L'unica decisione, provvisoria, che i tre riescono a prendere dopo caffè e cornetti è quella di votare scheda bianca ai primi tre scrutini, nel caso in cui Berlusconi restasse in campo. Ma un risultato importante Letta lo ha portato a casa: il veto di Conte su Draghi è caduto. E già impazza il toto-premier: sarà Franceschini? Guerini? Di Maio? Oppure un tecnico come Colao?».

QUIRINALE 2. CENTRO DESTRA PER ORA SENZA VERTICE

Dall’altra parte dello schieramento, congelato il vertice di centro destra. Berlusconi si tiene strette tutte le sue carte. Le incertezze sul voto lo inducono a non esporsi e a restare ad Arcore. La cronaca sul Corriere è di Paola Di Caro.

«Il refrain di tutti nella coalizione è «il centrodestra è e resterà unito e farà una proposta compatta». Ma a cinque giorni dal voto per il Quirinale, non si capisce molto bene su cosa. Anzi, non si capisce per niente, e non si chiarirà nelle prossime ore, visto che il vertice che era stato annunciato per oggi o al massimo domani non si terrà sicuramente in giornata e forse nemmeno in settimana, nonostante Matteo Salvini giuri di sì. Silvio Berlusconi infatti, dato da molti per pronto a gettare la spugna ancora 24 ore fa, resta in sella e non scioglie la riserva per dire se si candiderà o no al Colle, come gli hanno chiesto per iscritto i suoi alleati, sempre in più nervosa attesa. Non ha deciso il da farsi, ribadiscono i suoi, ma anche se lo avesse fatto, ritiene che non sia suo interesse muoversi troppo presto: se annuncio che mi candido, è la sostanza del suo ragionamento, do agli avversari troppo tempo per organizzare una controffensiva e li compatto. Se invece spiego ora che preferisco non scendere in campo, permetto che siano gli altri a condurre il gioco, marginalizzandomi. Sospetto realistico, se in effetti già adesso Salvini e Meloni fanno sapere in pubblico di avere pronte alternative al suo nome, anche di «larga condivisione». Tutto è in movimento e può cambiare da un momento all'altro, ma allo stato il Cavaliere continua a tessere la sua tela. Va detto che Vittorio Sgarbi, che da FI considerano uno che parla per conto proprio, sembra farlo con cognizione di causa visto che già in mattinata aveva annunciato che Berlusconi non si sarebbe presentato a Roma e che il vertice era in forte dubbio. E aveva aggiunto che, comunque, la caccia è ancora aperta. Così sembra essere. Berlusconi non ha deciso ma nemmeno ha mollato, anche perché non tutti i pezzi del puzzle sono al loro posto. Sul piatto vanno messi vari elementi. Uno, per lui positivo, è che come da richiesta della sua difesa ha ottenuto il rinvio del processo Ruby Ter, dal 26 gennaio al 16 febbraio, proprio per permettere un sereno svolgimento delle votazioni per il Quirinale. Un tema che invece è ancora aperto è quello di come sarà composta la platea dei grandi elettori: è stato accolto alla Camera l'ordine del giorno di Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI, che chiede al governo di attivarsi per permettere il voto ai parlamentari positivi per Covid. Ma ancora il nodo tecnico è da sciogliere: sarà possibile o no? Ballano decine di voti, e in un'elezione da muro contro muro come sarebbe la sua, ogni voto conta per raggiungere quota 505. Poi c'è l'oggettiva difficoltà del fronte avversario, emersa in maniera evidente ieri con la frenata sulla candidatura che - nonostante le difficoltà - continua a sembrare la più forte in campo, quella di Draghi. Se non ci sono avversari al mio livello, ragiona il Cavaliere, perché mai arrendersi? Insomma, serve ancora tempo e serve lavorare ai fianchi tutti i possibili elettori del grande magma centrista o senza più riferimenti di partito che si muovono sempre più spaesati in Parlamento. Ma quanto ancora potranno gli alleati, che scalpitano, aspettare il Cavaliere? Sia Salvini che Meloni non intendono delegare a Berlusconi l'indicazione finale di un altro candidato, l'uno per non concedergli (e perdere) il ruolo di king-maker, l'altra perché teme giochi a trazione centrista, con in palio la legge elettorale proporzionale, che frantumerebbero il centrodestra e ogni speranza di vincere (e governare) alle prossime elezioni. Ma Berlusconi non ci sente. Anzi, la sensazione fra i suoi è che davvero voglia giocarsi la partita alla quarta votazione, la prima con maggioranza assoluta. Dove, assicura Antonio Tajani, il centrodestra avrà «assolutamente» il controllo dei rispettivi gruppi, lo avranno «sia Salvini che Meloni», mentre «non so se a sinistra ci sia la stessa soluzione». Insomma, la pesca potrebbe avvenire anche all'ultimo momento, quindi non c'è motivo di accelerare i tempi. Quanto la posizione potrà reggere alla spinta degli alleati è da vedere, ma al momento Berlusconi si tiene strette tutte le sue carte. E resta centrale, qualunque sarà alla fine la sua decisione».

QUIRINALE 3. LO STALLO

È nel titolo di apertura del Corriere ma anche nel commento di Stefano Folli su Repubblica: la parola di oggi sui giornali è “stallo”. A pochissimi giorni dal primo voto, i due poli sembrano incastrati in problemi interni e non comunicanti tra di loro.

«Non è la bonaccia delle Antille, bensì quella del Parlamento e della politica. Una bonaccia paralizzante di cui non s’intravede la prospettiva. Può durare due giorni, una settimana o chissà. Di fatto ogni schieramento ha fatto la sua mossa, tra incertezze e sottintesi. Il centrodestra, con Salvini, ha tentato di aggirare la testardaggine berlusconiana mettendo in circolo alcuni nomi, nessuno dei quali accettabile a sinistra. Sull’altro versante il piccolo vertice dei tre alleati - Enrico Letta, Conte e Speranza - ha offerto una generica disponibilità a trattare su un nome condiviso, ma ha avanzato di fatto due veti: uno, scontato, verso la candidatura di Berlusconi; l’altro, verso i nomi fin qui adombrati, appunto, dalla controparte, a cominciare da quello di Pera. È ciò che significa la frase “nessuno ha un diritto di prelazione”: ossia la destra, secondo Letta e gli altri, non può sentirsi legittimata a imporre l’ipotetico profilo del presidente in base a un presunto e contestato vantaggio nel numero dei grandi elettori. In sostanza, siamo fermi in alto mare. Il centrodestra (FI, Lega, FdI e gruppi minori) in teoria potrebbe forzare la situazione per imporre un nome. Ma fin qui è bloccato dall’equivoco Berlusconi e quando esso sarà superato - perché lo sarà - c’è da dubitare che il contraddittorio schieramento abbia la determinazione e la coesione necessarie per vincere una battaglia frontale. Il centrosinistra, a sua volta, è fermo a una proposta di metodo: la ricerca di un nome “condiviso” - ma i veti non aiutano di certo - e un vago “patto di legislatura” per stendere una rete a protezione del tratto di strada fino al 2023. Si potrebbe pensare che la stasi favorisca Draghi, come molti dicono. In effetti sembra lo scenario perfetto: da un lato un sistema politico imballato, dall’altro una figura autorevole che si staglia su tutti e non nasconde la propria disponibilità. «Non possiamo perdere Draghi...» è la frase che si sente più spesso in questi giorni. Eppure nessuno finora ha avanzato il nome del presidente del Consiglio in modo netto e convinto. Si dirà che non è opportuno dare un colore politico al premier, nemmeno in forma indiretta. Ma la verità è forse un’altra: nessuno, né a sinistra né a destra, è pronto a prendere una posizione chiara. I dubbi sull’ipotesi Draghi attraversano entrambi gli schieramenti. In parte nascono da genuini timori circa il destino del governo, che sarebbe decapitato proprio nel momento in cui serve una figura autorevole per la gestione dei fondi, della crisi energetica, ovviamente della pandemia. Tuttavia questi stessi dubbi hanno a che fare con rivalità e tatticismi tipici di forze in crisi di leadership e identità. Sta di fatto che a cinque giorni dalla riunione del Parlamento i capi partito non sono ancora riusciti, o non hanno voluto, sedersi insieme intorno a un tavolo. Forse lì potrebbe emergere in modo più trasparente il nome di Draghi. Di certo verrebbero a galla le vere riserve. La principale delle quali, oltre alle due già citate, riguarda la difficoltà di ricostruire un governo capace di arrivare al termine della legislatura senza perdere colpi rispetto all’Europa. Draghi dal Quirinale può offrire all’Unione un certo tipo di garanzie; ma l’esecutivo si dirige da Palazzo Chigi ed è in quella sede che si possono fare errori dalle conseguenze imprevedibili. Il nodo quindi rimane lo stesso: prima l’intesa sul governo, poi il presidente della Repubblica».

QUIRINALE 4. TRONTI: “DRAGHI METTE I PARTITI IN SOGGEZIONE”

Interessante lettura antropologica della classe dirigente italiana nell’intervista di Carmelo Caruso sul Foglio a Mario Tronti, filosofo marxista e teorico dell’operaismo.

«Il filosofo marxista Mario Tronti, l'antico bastone del Pci, il padre dell'operaismo, "opererebbe" per eleggere Mario Draghi al Quirinale? "Assolutamente sì. Deve essere eletto al Colle". Perché? "Perché bisogna cambiare schema. Perché il clima si è deteriorato. Perché il suo governo entrerà in sofferenza. La sua maggioranza di governo è anomala. E' già divisa da litigi, è formata da inaffidabili. Sono preoccupato. Per tutte queste ragioni ho maturato la convinzione che debba essere eletto presidente". Cosa teme? "Temo che il peggiore ceto politico di questo tempo possa bruciare l'uomo migliore che ci ha consegnato questo tempo disgraziato". E con la sua voce che è gagliarda, quella di chi è allenata al combattimento delle idee, da 90 anni, quella di chi fa pugilato con la ragione e l'appartenenza, aggiunge che il nome di Draghi lo avrebbe dovuto pronunciare la "sua" sinistra, il Pd, l'ultimo partito che lo ha eletto, "un partito che non ha preso l'iniziativa". Cosa sarebbe accaduto? "Se il Pd avesse avuto la forza di fare il nome di Draghi, la candidatura di Silvio Berlusconi non sarebbe arrivata. Avrebbe disinnescato, sfidato la destra e infine l'avrebbe smascherata. Per qualsiasi leader è pesante dire "no" a Draghi". Perché il Pd non l'ha fatto? "Preferisce la subalternità al M5s, un movimento senza prospettiva, senza spessore, di cui non mi fido. Quando penso a Draghi penso all'aforisma di Nietzsche. ' Più voli in alto tanto apparirai lontano a chi non può volare'. La politica lo sopporta ma in realtà non lo ama. Quanto più avanza Draghi tanto più in basso scendono i partiti". Rivela che pure lui, Tronti, il filosofo dell'acciaio e della rivoluzione, ha cambiato ' schema': "Il ceto politico che circonda Draghi non è un ceto alla sua altezza, è il peggiore del Novecento. Anche io ero tra quelli che volevano che Draghi restasse premier. Oggi no. Nell'eventualità di una vittoria del centrodestra alle prossime elezioni, vittoria che non escludo, solo Draghi ci garantirebbe in Europa. Impedirebbe che il paese scivoli verso tentazioni sovraniste, avrebbe la capacità di ' trattenere' l'esito del voto". E come tutti i pensatori che lavorano sulle ' obiezioni', pure Tronti ragiona su quelle ' finali'. Si ripete infatti che senza Draghi sarebbe impossibile formare un altro governo e che nessuno sarebbe capace di spendere le risorse del Pnrr, fronteggiare la pandemia. E Tronti risponde che è probabile e lo dice con la serenità di chi non trova più un collegamento tra "l'essere e l'apparire". Non sarebbe una catastrofe? "Draghi assicura che quelle risorse possano essere spese bene, ma lo può garantire meglio da presidente della Repubblica. La partita si gioca in Europa e non all'interno della nazione. E' quasi certo che ci sarà l'ingovernabilità, ma non è impossibile formare un governo tecnico per poi andare a elezioni". Le elezioni? "Non ho il terrore del voto. L'attuale Parlamento non rispecchia più gli attuali rapporti di forza. Cosa si dice sempre? Che è delegittimato. Bene. Prima si scioglie e meglio è". Profetizza dunque "un governo tecnico, per un tempo breve, che possa varare una nuova legge proporzionale con uno sbarramento". E poi dice una cosa che somiglia molto a un pensiero di Leonardo Sciascia a proposito della colpevolezza, di un altro genere di colpevolezza, un pensiero che Sciascia dicono raccontasse agli amici: "Non era colpevole, ma risultava difficile. Era troppo colto. Era più che colpevole". Vuole spiegare, e lo spiega, che il pericolo di Draghi è Draghi stesso. "L'ostilità nei suoi confronti deriva dal fatto che è un uomo di rigore, di spicco, di competenza. Quando si scrive di politica occorrerebbe maneggiare l'antropologia e la psicologia. Giuseppe Conte diffida ad esempio di Draghi non tanto perché Draghi ha preso il suo posto ma perché con Draghi sa di non potere competere". Chi sono quindi oggi i nemici del premier? "Questo ceto politico scadente. C'è un crollo della qualità. Si parla tanto di Covid ma c'è un altro virus, quello dell'anti politica che da trent' anni contagia senza sosta. E' un virus per cui non esiste vaccino. Il Parlamento chiamato a eleggere il prossimo presidente della Repubblica è il risultato di un grande rutto. Le ultime elezioni sono state questo. Una devastazione. Un rutto". Il taglio dei parlamentari non è stata una battaglia del M5s? "All'inizio ero contrario mentre oggi sono a favore ma non per le ragioni del M5s. Lo sono perché prima di qualsiasi riforma serve una selezione più rigorosa dei parlamentari. Con Draghi al Quirinale, i partiti hanno la grande occasione per ripartire. Il Pd ne ha una in più. La bandiera di questo partito dovrebbe essere la riqualificazione della rappresentanza". Che idea ha del grande elettore? "E' come nel libro del Manzoni. Alla fine si ergeva la figura di don Abbondio. Oggi, a pensarci, il vero protagonista non è neppure Draghi". Chi è? "E' l'onorevole Ciampolillo"».

OGGI CDM SULL’EMERGENZA ENERGIA

Salta l'ipotesi di una extra-tassa sui colossi dell'energia, vertice a Palazzo Chigi. Il governo è a caccia di risorse. Alessandro Barbera per La Stampa.

«Il governo di Mario Draghi è vicino alla paralisi. A quattro giorni dall'inizio del voto sul Quirinale, il Consiglio dei ministri promesso per oggi e dedicato all'emergenza energia è ancora in forse. Solo stamattina si deciderà il da farsi. Una cosa è certa: la tassa sugli extraprofitti delle aziende energetiche non ci sarà. Ufficialmente per ragioni di tempo e opportunità: i tecnici non hanno trovato una soluzione tecnica che eviti la pronuncia di incostituzionalità, come avvenne con la Robin Tax. La sostanza è altra: la maggioranza non è in grado di prendere una decisione in merito. Per venire incontro alle richieste delle imprese, colpite duramente da aumenti delle bollette elettriche a tre cifre, i partiti avevano chiesto di aumentare il deficit. Ma in questo momento Draghi non può permettersi nemmeno questo: ha appena varato una costosissima manovra da trenta miliardi e a Bruxelles non vedono di buon occhio un ulteriore aumento della spesa. Non solo: una scelta simile indebolirebbe la battaglia dell'asse franco-italiano per ottenere una riforma coraggiosa del patto di stabilità. Di qui la necessità di fare il minimo indispensabile. Al momento sul tavolo del premier c'è un intervento che oscilla attorno ai tre miliardi di euro. Poco meno della metà serviranno a nuovi ristori per le aziende colpite dall'ultima emergenza (discoteche, settore degli eventi, turismo), il resto per nuovi interventi sui prezzi dell'energia. Per finanziare il pacchetto si utilizzeranno voci inutilizzate del bilancio e i proventi delle aste per l'uso dell'anidride carbonica. Quest' ultima voce - su base annua - dovrebbe valere almeno 1,5 miliardi. Ma anche in questo caso si tratta di una partita di giro: finora quelle risorse venivano destinate alla riduzione del debito pubblico. Per trovare qualcosa di più si stanno ipotizzando soluzioni fra il fastidioso e il creativo. La prima: l'aumento delle accise sulla benzina. Se il governo dovesse decidere per questa impopolarissima misura, l'intervento potrebbe salire fino a quattro miliardi. La seconda: un complicato sistema di cartolarizzazioni di alcune delle voci che compongono gli oneri delle bollette elettriche. Ancora: si sta studiando la possibilità di trasferire in via preferenziale alle aziende energivore - quelle più in difficoltà - parte della produzione dell'energia rinnovabile. Il passaggio avverrebbe a un prezzo fissato attraverso Gse, il gestore della rete elettrica. Quest' ultima misura è stata suggerita da Confindustria, e va nella direzione di interventi simili fatti in questi mesi da Francia e Germania. Ieri pomeriggio Draghi ha discusso di tutto questo in una lunga riunione con il ministro del Tesoro Daniele Franco, quello della Transizione energetica Roberto Cingolani e dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti. In tempi normali un simile intervento avrebbe dovuto essere accompagnato da un vertice di maggioranza, ma le condizioni per farlo non ci sono. A nulla al momento sono valse le richieste di Matteo Salvini, che ormai tutti i giorni si fa portavoce delle richieste delle imprese e chiede di investire almeno trenta miliardi, né di Confindustria, la quale sin da prima di Natale aveva avvertito il governo del fatto che alcuni settori industriali avrebbero pagato un prezzo altissimo alla fiammata del prezzo del gas. Vero è che risolvere il problema energetico dell'Italia non è semplicissimo. Ieri in audizione Cingolani ha ricordato che l'Italia, dipendente più di ogni altro Paese europeo dal gas importato, ne produce dentro i suoi confini meno di quattro miliardi di metri cubi l'anno su settanta. Vent' anni fa ne consumavano settantuno, ma la produzione nazionale era quattro volte quella di oggi: per l'esattezza 16,8 miliardi di metri cubi. Quella differenza oggi la paghiamo in importazioni da altri Paesi produttori e in particolare dalla Russia. Secondo le stime di Confindustria solo l'anno scorso l'aumento della domanda, la crisi ucraina e la minore offerta di quel gas hanno fatto schizzare i prezzi del 368 per cento».

ORA ANCHE PER GRILLO LA GIUSTIZIA È A OROLOGERIA

Beppe Grillo dice ora dei suoi guai giudiziari: "Mi accusano alla vigilia del voto per il Colle". Lo fa sapere perché ha scelto di non fare post pubblici per evitare un nuovo autogol dopo la clip che difendeva il figlio Ciro. Matteo Pucciarelli per Repubblica.

«Il grosso dell'amarezza di Beppe Grillo, racconta chi ci ha parlato in questi ultimi due giorni di bufera, sta nella tempistica con la quale si è mossa la procura di Milano: la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati arrivata cioè proprio a ridosso dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica, in un momento già delicato di per sé per il Movimento 5 Stelle. Sul resto però, sulla vicenda che lo coinvolge direttamente, il comico si professa «assolutamente sereno ». La coscienza pulita sta nel fatto che l'accordo pattuito con Vincenzo Onorato, 120 mila euro per due anni, il 2018 e il 2019, è stato pienamente rispettato; perlomeno è questa la posizione di Grillo. Gli articoli sul suo blog per portare avanti i temi richiesti dall'armatore ci sono effettivamente stati; uno di questi, l'8 agosto 2018, ospitante addirittura una foto-card di Onorato in primo piano e la scritta "non vi tradirò mai" e il rimando su Change.org alla petizione online promossa dallo stesso imprenditore, dal titolo "Aiutaci a salvare i 50 mila marittimi italiani disoccupati". Il banner pubblicitario ospitato che rimandava direttamente alle prenotazioni sul sito di Moby, anche quello sempre presente: tutto fatto, come da contratto, si assicura da Genova. Del resto, è l'altra constatazione che fa il fondatore del Movimento, beppegrillo.it era uno dei siti più visitati d'Italia e quindi la somma concordata «era in linea con il mercato». Anche sulle chat che invece dimostrerebbero il tentativo di Grillo di influenzare le scelte di parlamentari e membri del governo dei 5 Stelle, il garante fa mostra di tranquillità con i suoi (pochi) interlocutori: non ci furono, o non ci sarebbero stati, particolari favori a Onorato da parte del Movimento. A dimostrazione insomma che si trattò al massimo di consigli o segnalazioni, come avvenuto in passato su altre questioni. Il tutto ovviamente sarà oggetto di una linea difensiva, non però pubblica: Grillo per il momento non ritiene opportuno uscire con post pubblici, video o altro. Memore forse di quanto avvenne con la faccenda che riguarda il figlio Ciro, con quella sua clip indignata che la trasformò in un caso di dominio pubblico. Fu un autogol, e così negli ultimi tempi il fondatore dei 5 Stelle ha sempre tenuto un basso profilo, un passo indietro rispetto ai temi più di attualità. «Basso profilo resterà», assicura una fonte. Due giorni fa tra l'altro è intercorsa una telefonata tra lui e Giuseppe Conte, con l'ex presidente del Consiglio che gli ha manifestato la convinzione personale e del partito che tutto si risolverà per il meglio. «Le verifiche in corso dimostreranno la piena legittimità del suo operato», ha detto Conte ieri mattina dopo l'incontro con Enrico Letta e Roberto Speranza sul Quirinale. Ma al netto delle rassicurazioni di rito e della solidarietà generale a Grillo, qualche preoccupazione nel Movimento c'è. Il reato di traffico di influenze illecite sarà pure non semplicissimo da dimostrare, ma se oltre al comico mediaticamente finissero di mezzo altri pezzi da 90 le ripercussioni sarebbero disastrose per un partito che, sondaggi alla mano, è in costante flessione dallo scorso 2018, dopo l'exploit alle Politiche (32%). È l'anno di inizio delle consulenze incriminate, prestate come minimo per leggerezza, oggi una zavorra che può portare a picco le 5 Stelle».

I MILIARDARI DI DAVOS: TASSATECI DI PIÙ

La Stampa pubblica una lettera aperta di Abigail Disney, erede del mitico Walt, che si rivolge agli uomini più ricchi del mondo chiedendo a governi e responsabili economici l’impegno ad aumentare le tasse a milionari (e miliardari) per contribuire a ridurre la disuguaglianza e aumentare i servizi pubblici come la sanità. La lettera è stata sottoscritta da 102 super-ricchi di nove Paesi del mondo in occasione del World economic forum di Davos.

«Ai nostri amici milionari e miliardari. Se partecipate alla "Davos online" del World Economic Forum che si tiene a gennaio, significa che fate parte di un gruppo esclusivo di persone che stanno cercando una risposta alla domanda che si cela dietro al tema del forum di quest' anno, «come possiamo lavorare insieme e ripristinare la fiducia?». Non riuscirete mai a trovare la risposta in un consesso per pochi intimi, circondati da altri milionari e miliardari, e dagli uomini più potenti del mondo. Anzi, se vi soffermerete a pensarci, scoprirete che voi stessi siete parte del problema. La fiducia - nella politica, nella società, nel prossimo - non si costruisce nei salottini accessibili soltanto ai molto ricchi e ai più potenti. Non si costruisce con le mani di miliardari che viaggiano nello spazio e che accumulano fortune grazie alla pandemia, senza pagare praticamente tasse e pagando salari da miseria ai proprio operai. La fiducia si costruisce attraverso la trasparenza, in democrazie rodate, eque e aperte che offrono servizi e sostegno di qualità a tutti i loro cittadini. Il pilastro di una democrazia forte è un sistema fiscale giusto. Un sistema fiscale equo. Essendo dei milionari, sappiamo che il sistema fiscale esistente non è giusto. Quasi tutti noi possiamo dire che, mentre il mondo negli ultimi due anni ha affrontato una quantità di sofferenze immensa, noi in realtà abbiamo visto la nostra ricchezza crescere durante la pandemia. Eppure, solo pochi tra noi possono dire con onestà di pagare una quota fiscale giusta. Questa ingiustizia, incorporata nelle fondamenta del sistema fiscale internazionale, ha creato una carenza di fiducia colossale tra i popoli del mondo e le élite che hanno costruito l'architettura di questo sistema. Per gettare un ponte attraverso questo abisso ci vuole qualcosa di più dei progetti per soddisfare la vanità di un miliardario, o di that divide is going to take more than billionaire vanity projects or sporadici gesti filantropici. Serve un ribaltamento completo del sistema che finora è stato progettato appositamente per rendere i ricchi più ricchi. Per dirla in termini semplici, la fiducia si ripristina tassando i ricchi. Il mondo, ogni Paese del mondo, deve chiedere ai ricchi di pagare la loro quota giusta. Noi ricchi chiediamo: tassateci, e tassateci adesso. La verità è che questa Davos non merita oggi la fiducia del mondo. Con una quantità incalcolabile di ore passate a discutere di come fare del mondo un posto migliore, la conferenza ha prodotto ben pochi risultati tangibili, sepolti sotto un torrente autocelebrativo. Fino a che i partecipanti alla conferenza non ammetteranno la necessità della semplice ed efficace soluzione che gli si para davanti - tassare i ricchi - i popoli del mondo continueranno a considerare la loro cosiddetta dedizione a risolvere i problemi del pianeta come poco più di uno spettacolo. La storia ci racconta il finale delle società estremamente diseguali in tinte molto fosche. Per il bene di tutti noi, ricchi e poveri, è arrivato il momento di affrontare la diseguaglianza, e di tassare i ricchi. Mostrate ai popoli del mondo di meritare la loro fiducia. Se non lo fate, tutti i vostri colloqui privati non cambieranno quello che sta per arrivare: o le tasse, o i forconi. Ascoltate la storia, e fate un scelta saggia».

CRISTIANI PERSEGUITATI, MAI COSÌ TANTI DA 29 ANNI

Presentato ieri alla Camera il rapporto sui cristiani perseguitati nel mondo. L’Ong Porte Aperte/Open Doors pone tra i primi cinque Paesi persecutori ben quattro islamici: Afghanistan, Somalia, Libia e Yemen. Luca Liverani per Avvenire.

«La riconquista taleban dell'Afghanistan è benzina per il jihadismo globale anticristiano. E nel mondo sono oltre 360 milioni i cristiani che sperimentano un livello alto di persecuzione e discriminazione a causa della loro fede. Uno ogni sette. Ed è proprio l'Afghanistan oggi il Paese più pericoloso al mondo per i cristiani, seguito da Corea del Nord Somalia, Libia, Yemen, Eritrea, Nigeria, Pakistan Iran, India e Arabia Saudita, solo per citare i primi dieci Paesi. È l'analisi della " World Watch List" 2022, rapporto sui 50 Stati dove i cristiani subiscono persecuzioni, curato dall'organizzazione Porte Aperte/Open Doors per il periodo primo ottobre 2020 - 30 settembre 2021, presentata ieri alla Camera dei deputati. Quest' anno si registra il più alto livello di persecuzione da quando la Lista è stata pubblicata per la prima volta, 29 anni fa. Le dinamiche persecutorie evidenziano la crescita del fenomeno di una chiesa "profuga", di cristiani in fuga dalla persecuzione; poi c'è il modello cinese di controllo centralizzato della religione, emulato da altri Paesi; infine la strumentalizzazione delle restrizioni applicate per la pandemia di Covid ma usate per indebolire le comunità cristiane. Va dunque all'Afghanistan la maglia nera della classifica. Porte Aperte dipinge un quadro scioccante della vita della piccola e nascosta comunità cristiana in Afghanistan: gli uomini rischiano la morte se la loro fede viene scoperta; donne e ragazze possono sopravvivere se date in moglie come "bottino di guerra" a giovani combattenti taleban, o violentate e sottoposte alla tratta; il governo taleban lavora all'identificazione dei cristiani, arrestati e poi uccisi; gran parte della popolazione cristiana è scappata nelle regioni rurali o nei campi profughi delle nazioni vicine, comunque ostili ai cristiani. Ma tra i primi cinque Paesi persecutori, quattro sono islamici: oltre al regime taleban, ci sono Somalia, Libia e Yemen. Il Rapporto 2022 evidenzia dunque che pur aumentando la persecuzione, la Corea del Nord scende al secondo posto, dopo 20 anni al vertice, perché superata in orrori dall'Afghanistan. Una nuova legge contro il «pensiero reazionario» ha aumentato il numero di cristiani arrestati e le chiusure di chiese allestite clandestinamente in case. Imprigionati nei brutali "campi di rieducazione", in pochi ne escono vivi. Preoccupante anche la situazione in India, Paese democratico, ma sempre più influenzato dall'ideologia nazionalista induista, secondo la quale essere indiano significa essere indù. Le violenze contro cristiani e altre minoranze è ignorata o incoraggiata da leader politici indiani, e accompagnata da un'impennata di disinformazione sui media. Porte Aperte tra i circa 100 Paesi monitorati rileva un aumento della persecuzione. Salgono da 74 a 76 quelli che mostrano un livello definibile «alto, molto alto o estremo». Crescono a 360 milioni (340 nel 2021) i cristiani perseguitati, 5.898 quelli uccisi (da 4.761), con la Nigeria sempre epicentro di massacri (4.650) assieme ad altre nazioni dell'Africa subsahariana. Sono state 5.110 le chiese attaccate (4.488 l'anno precedente), 6.175 i cristiani arrestati (da 4.277) e 3.829 i rapiti (da 1.710). Nella lista dei primi dieci Paesi (calcolata solo sugli atti di violenza contro i cristiani) ben 7 le nazioni africane: Nigeria, Centrafrica, Repubblica democratica del Congo, Mozambico, Camerun, Mali e Sud Sudan. La World Watch List considera 4 tipologie di comunità cristiane: le comunità di espatriati o immigrati, le chiese storiche (cattolici, ortodossi, chiese protestanti tradizionali), le comunità protestanti non tradizionali (evangelici, battisti, pentecostali), e le comunità di convertiti al cristianesimo (da islam e induismo, spesso i più colpiti dalla persecuzione). Ultime tra gli ultimi le donne. Resta difficile -spiegano gli estensori della ricerca - raccogliere dati certi sul numero di cristiane vittime di stupro e abusi a causa della loro fede: in molti Paesi le denunce sono rare, per ragioni culturali e sociali. Un dato minimo di partenza, secondo le stime del rapporto, incrociate con testimonianze raccolte, è oltre 3.100, a cui si sommano oltre 1.500 matrimoni forzati: in prevalenza in aree asiatiche, in Pakistan in particolare. Alla presentazione è intervenuto ieri anche Ibrahim, siriano: «Noi cristiani di Aleppo in 10 anni siamo scesi da 200mila a 20mila. La nostra presenza aiuta tutta la società siriana a progredire verso la tolleranza. Senza di noi crescerà il jihadismo». Per Cristian Nani, direttore di Porte Aperte, «il primo posto dell'Afghanistan ci preoccupa profondamente. Oltre all'incalcolabile sofferenza per la piccola comunità cristiana afgana, manda un messaggio chiaro agli estremisti nel mondo: "Continuate la vostra brutale lotta, la vittoria è possibile"». «Dove in Medio Oriente si riduce la presenza cristiana - concorda Vito Comencini (Lega) - arretra la civiltà». Per Andrea Delmastro Delle Vedove (Fdi) presidente dell'intergruppo libertà religiosa dei cristiani, «nei trattati bilaterali si deve inserire la clausola sulla libertà religiosa».

UCRAINA, RISCHIO GUERRA IN 3 SETTIMANE

Nelle previsioni strategiche dei militari, nelle prossime tre settimane l'Ucraina sarà accerchiata dalle truppe russe. Gianluca Di Feo per Repubblica.

«Il conto alla rovescia è cominciato, mettendo l'Europa davanti al più grave rischio di escalation bellica degli ultimi settant' anni. Fra tre settimane esatte lo schieramento russo sarà completato e pienamente operativo per scatenare un'offensiva: dal 10 febbraio l'Ucraina sarà circondata da un'armata di 150 mila soldati con ogni strumento per combattere. E da quel momento il Cremlino avrà - come si dice negli stati maggiori - "una finestra di opportunità" di un mese per chiudere la partita. Con la diplomazia o con la guerra. Quella che sta accadendo in queste ore è una manovra di accerchiamento da manuale. Da due giorni le truppe di Mosca stanno entrando in Bielorussia: non è il trasferimento dei reparti già posizionati sul fronte ucraino. Sono brigate nuove, fatte affluire dalla Siberia. Assieme a loro atterreranno negli aeroporti del fedele Lukashenko stormi di intercettori e cacciabombardieri, accompagnati da sistemi anti-aerei. Dovranno essere pronti entro il 9 febbraio e poi cominciare le esercitazioni con le forze bielorusse: il trampolino di lancio per prendere alle spalle tutto il dispositivo difensivo ucraino. Satelliti e velivoli americani spiano senza sosta i movimenti. Ma il Cremlino non fa nulla per nascondere i suoi muscoli d'acciaio: vuole che l'Occidente si renda conto della forza che sta accumulando. I social pullulano dei video di treni infiniti carichi di tank e autoblindo, di semoventi e razzi multicanna. Sono immagini inquietanti, che forniscono una prova della determinazione russa. I filmati ripresi con i cellulari mostrano gli Iskander, missili ipersonici capaci di far piovere mezza tonnellata di esplosivo a 500 chilometri di distanza. E i cingolati aerolanciabili della 76ma divisione della Guardia, i parà sempre all'avanguardia dalla Cecenia alla Georgia. Nei porti del Mar Nero sta approdando una flottiglia di navi da sbarco e dal Pacifico è in arrivo la 155ma brigata della fanteria di Marina. Il governo di Kiev sostiene che Mosca abbia già in teatro 127 mila militari, il segretario di Stato Blinken reputa che presto saranno 200 mila. Altre stime sostengono che il 10 febbraio intorno all'Ucraina 150 mila uomini e quasi 4.000 mezzi corazzati saranno pronti a scattare: non è deterrenza, ma un'azione di forza. Cosa farà a quel punto Putin? L'ex colonnello dei Marines Philip Wasielewski e l'analista Seth Jones del Csis hanno ipotizzato cinque possibili scenari, ognuno con un differente impatto politico. Tutti però devono fare i conti con il Generale Inverno. Le colonne russe hanno bisogno che la pianura sia ghiacciata: c'è tempo fino a metà marzo, poi la primavera trasformerà il suolo in una distesa di fango. Questo è l'unico vincolo. Per il resto, il Cremlino sa che l'esercito ucraino non è in grado di opporre una resistenza significativa: se la parola passerà alle armi, deve solo scegliere quanto vuole impegnarsi e rischiare. Può avanzare fino al fiume Dniper, ricongiungendo alla Russia le regioni orientali, aggirando le città e spingendosi alle porte di Kiev. Può conquistare l'intera fascia costiera, lasciando l'Ucraina senza sbocchi sul mare e unendo la Crimea all'enclave filorussa della Transnistria: la riedizione del "corridoio di Danzica" che giustificò l'invasione nazista della Polonia. O limitarsi ad entrare nel Donbass, già presidiato dalle milizie fedeli a Mosca. Qualsiasi sia il disegno di Putin, dal momento in cui un solo tank varcherà il confine la situazione diventerà incontrollabile. Come sosteneva von Moltke «nessun piano sopravvive al contatto con il nemico». E mai come ora l'Europa si è trovata sull'orlo di una vera guerra».

Parte da Kiev l’iniziativa diplomatica del segretario di Stato Usa Tony Blinken. Oggi sarà a Berlino, domani a Ginevra. Paolo Valentino per il Corriere.

«Non vi fate dividere da Mosca. Sono venuto qui a portarvi l'incrollabile sostegno degli Stati Uniti», dice Tony Blinken al presidente ucraino Volodymyr Zelenskij. Ricomincia da Kiev, passa oggi da Berlino e culmina domani a Ginevra, la nuova offensiva diplomatica del segretario di Stato americano, che sul Lemano vedrà il ministro degli Esteri russo Sergeij Lavrov. Ma proseguire il dialogo con la Russia, secondo Blinken, non significa abbassare la guardia, di fronte alla crisi e alla realtà del campo, che vede Putin «in grado di raddoppiare con breve preavviso» i 100 mila soldati già schierati al confine con l'Ucraina e quindi è in posizione di «lanciare nuove azioni aggressive» contro Kiev. Per questo il capo della diplomazia Usa ha fatto precedere dalla doppia visita l'incontro con Lavrov, il primo a questo livello dalla ripresa dei colloqui. Agli ucraini ha confermato nuovi aiuti militari per 200 milioni di dollari, destinati a rafforzarne le capacità difensive. Con gli alleati tedeschi, Blinken intende mostrare l'unità del fronte occidentale nel sostenere l'Ucraina e la sua sovranità. Il governo tedesco ha già segnalato una posizione più ferma verso Mosca. La ministra degli Esteri, Annalena Baerbock, nella sua visita a Mosca, e soprattutto il cancelliere Scholz, hanno parlato di «costi altissimi», che la Russia pagherebbe in caso di un attacco. Per la prima volta, Scholz non ha escluso che anche il blocco del gasdotto Nord Stream 2 possa far parte delle misure di ritorsione: «Spero - ha detto ieri il cancelliere al Forum di Davos - che i russi capiscano che i vantaggi della cooperazione superano il prezzo di una ulteriore confrontazione». La necessità di «sanzionare efficacemente ogni violazione di sovranità» è stata ribadita anche da Emmanuel Macron al Parlamento europeo, nelle dichiarazioni programmatiche della presidenza francese dell'Ue. Il capo dell'Eliseo ha confermato che Parigi e Berlino lavorano al rilancio del formato Normandia, i colloqui di pace con Kiev e Mosca, per far rispettare in pieno gli accordi di Minsk. Macron ha anche annunciato una imminente «proposta europea per un nuovo ordine di stabilità e sicurezza sul Continente», in coordinamento con la Nato, che poi dovrebbe diventare oggetto di negoziato con i russi. Blinken, che lunedì prossimo parteciperà in videoconferenza al Consiglio Esteri dell'Ue in programma a Bruxelles, si è mostrato piuttosto cauto sull'esito del vertice di domani a Ginevra. Il segretario di Stato ha detto chiaramente che la delegazione americana non porta alcuna risposta scritta alle richieste di Mosca, come invece vorrebbero i russi. Fra queste, l'impegno a non ammettere mai l'Ucraina nella Nato. «Dobbiamo vedere dove siamo e se ci sono ancora opportunità per una soluzione diplomatica e pacifica», ha spiegato Blinken. Anche i russi, che comunque insistono nel sollecitare una risposta formale, lanciano segnali in apparenza distensivi: «Quello di Ginevra è un incontro importante», ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov».

Ieri Alberto Negri sul Manifesto si chiedeva, a proposito dell’Ucraina, “chi assedia chi?”. Oggi Federico Rampini sul Corriere insiste nella lettura americana della pretesa neo “sovietica” di Vladimir Putin:

 «Abbiamo sbagliato a inimicarci Vladimir Putin? Mentre cresce la tensione attorno alla nuova crisi ucraina e il segretario di Stato americano è in missione in Europa, si riaffaccia un dibattito antico su «chi ha perso la Russia». Ai tempi di Gorbaciov, Eltsin, Medvedev, sembrò possibile un rapporto più amichevole e cooperativo tra l'Occidente e Mosca. È solo colpa dell'autocrate Putin e della sua nostalgia d'impero, se siamo precipitati in questo clima di ostilità, o abbiamo anche noi qualche responsabilità? A prescindere dalle affinità ideologiche e valoriali che attirano verso Putin alcune destre europee e Donald Trump, c'è una scuola del «realismo politico» che preme per una revisione della strategia verso Mosca. A Berlino e in altre capitali europee, l'argomento è questo: la Russia è un gigante di cui abbiamo bisogno sia come fornitore di energia (finché il gas sarà necessario, cioè a lungo) sia come sbocco per le nostre merci. L'escalation delle sanzioni ha inflitto forse più danni alle imprese dell'Europa occidentale che non allo stesso Putin. I regimi autoritari hanno una notevole capacità di resistenza alle sanzioni: basti vedere Cuba, la Corea del Nord, l'Iran. Infine la potenza militare russa impone delle concessioni, visto che le opinioni pubbliche dell'Europa occidentale sono pacifiste e restìe a forti aumenti di spese per la difesa. A questi argomenti del Vecchio Continente si affianca un pensiero che viene dalla tradizione della realpolitik americana, quella che ispirò Richard Nixon ed Henry Kissinger a compiere la svolta strategica del 1971-72: l'apertura alla Cina di Mao. Quella mossa geniale consentì all'America di legarsi all'avversario allora più debole (Pechino) per indebolire quello che all'apice della guerra fredda era il nemico più forte (Mosca). Oggi alcuni fautori della realpolitik rimproverano a Washington di aver spinto Putin nelle braccia di Xi Jinping, rendendo ancora più forte una Cina che è l'unica vera minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti nel lungo periodo. Infine c'è chi confessa qualche comprensione verso la tesi dell'accerchiamento tanto cara a Putin: è pur vero che rispetto agli scenari iniziali del 1989 (caduta del Muro di Berlino) e del 1991 (dissoluzione dell'Urss) l'Alleanza Atlantica si è allargata a dismisura fino a lambire i confini russi creando insicurezza a Mosca. Alcuni argomenti dei «revisionisti» sono validi, ma non tutti. Il paragone con la diplomazia di Kissinger trascura il fatto che Mao all'inizio degli anni Settanta temeva un'imminente aggressione militare sovietica; la sua Cina era stremata dalla miseria e da lotte politiche interne, isolata rispetto al blocco comunista. Putin invece ha costruito un rapporto proficuo con Xi Jinping. È ovvio che la Cina domina sul piano economico, finanziario, tecnologico. La Russia però ha materie prime preziose per la Repubblica Popolare. Inoltre Putin ha il coraggio di agire come security provider , a metà fra un mercenario e una polizia privata, è pronto a intervenire con le sue truppe per stabilizzare regimi amici in Asia centrale, Medio Oriente, Mediterraneo; mentre le forze armate cinesi finora sono più caute nella loro espansione all'estero. Il limite del realismo politico è che non fa i conti con gli obiettivi di Putin. Le richieste che avanza sono rivelatrici: vuole tornare allo status quo ante 1989, ricacciare la Nato entro i suoi confini della guerra fredda, ricostituire una sfera d'influenza russa che riproduca quella sovietica. In nome della sicurezza di Mosca, l'Occidente dovrebbe impegnarsi non solo a non allargare mai più la Nato, ma a ritirarne le forze effettive dai Paesi dell'Est che ne sono già membri, abbandonando a un'insicurezza permanente gli alleati baltici o polacchi. Putin non ha nostalgie di comunismo - si circonda di oligarchi miliardari ed è alleato con la Chiesa ortodossa - però la sua politica estera rivela una continuità geopolitica che va dagli Zar a Stalin: la coerenza ancestrale dell'imperialismo russo. Come i suoi predecessori, deve sfidare una delle leggi fondamentali delle relazioni internazionali: il principio affermato nel classico saggio di Paul Kennedy su «Ascesa e declino delle grandi potenze» (1988), per cui nel lungo periodo il peso militare e diplomatico dipende dalla forza economica. La Russia ha un Pil inferiore a quello italiano, soffre di una fuga dei cervelli più grave della nostra, è un petro-Stato cronicamente incapace di modernizzarsi (con l'eccezione delle forze armate). Finché Putin riesce a sottrarsi alle leggi di gravità, però, la Russia manterrà uno status internazionale molto superiore alla sua dimensione economica. E sarà vano illuderci di poterlo attirare verso di noi a poco prezzo. Come il suo alleato Xi, anche l'autocrate russo è convinto di avere di fronte un Occidente debole, diviso, indeciso a tutto. Agisce di conseguenza. La sensazione di padronanza del gioco geopolitico che Putin riesce a proiettare, non deve farci velo. È un maestro del bluff: per esempio la minaccia di accerchiare gli Stati Uniti dispiegando truppe e armi strategiche a Cuba e in Venezuela sembra irrealistica. Dietro la solidità apparente ci sono immensi interrogativi sulla successione degli Uomini Forti: né Putin né Xi hanno preparato un «dopo». La determinazione con cui le truppe russe intervengono in Bielorussia e in Kazakistan, tradisce anche la paura dell'instabilità nella cintura delle autocrazie di cui Putin si è circondato. Lo spettro delle «rivoluzioni arancioni» e del loro contagio tra i cittadini di Mosca e San Pietroburgo non si è mai dissolto. Tra quelle popolazioni si direbbe che abbiano ancora qualche fascino i valori dell'Occidente, nonostante la sfiducia sul modello occidentale che si respira in America e in Europa».

GLI ARRESTI PER ATTANASIO, IL PADRE: “UNA MESSINSCENA”

Le indagini in Congo sulla morte dell’ambasciatore Luca Attanasio con gli arresti annunciati ieri non convincono. Il padre dice: «È soltanto una messinscena, dall'Onu silenzio vergognoso». Francesco Battistini per il Corriere.

«Si chiamano Bahati Kibobo e Balume Bakulu. Sono molto giovani. Scalzi, ammanettati, martedì li hanno fatti sedere assieme ad altri quattro su un prato del comando di polizia di Goma, mostrati come un trofeo. «Eccoli, gli assassini dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio», ha proclamato sicuro il generale Aba Van Ang Xavier, il comandante provinciale del Nord Kivu. Kibobo e Bakulu non sarebbero due criminali qualsiasi. Secondo il generale, sono miliziani ribelli dell'M23: il Movimento 23 Marzo che dal 2009 combatte il governo e i caschi blu dell'Onu, «pagato dal Ruanda e dall'Uganda», terrorizzando il Nord Kivu con attentati e sequestri. In passato, raccontano, l'M23 avrebbe già rapito operatori di Medici senza Frontiere e della Croce Rossa internazionale. Nel parco di Virunga, avrebbe anche sequestrato e ucciso un turista inglese e una guardia forestale. «Kibobo e Bakulu rispondevano agli ordini d'un capo, soprannominato Aspirant, che è riuscito a fuggire e che stiamo ricercando». Il loro piano sarebbe stato di prendere vivi Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci che lo scortava, per chiedere un riscatto d'un milione di dollari: «Non sapevano che si trattasse d'un diplomatico, loro cercavano solo dei bianchi». Qualcosa però sarebbe andato storto, qualcuno del gruppo di Aspirant avrebbe sparato agli ostaggi, violando le consegne e «facendo arrabbiare gli altri». Il caso è risolto? «Kibobo e Bakulu hanno confessato dopo una serie d'interrogatori». Al momento, ci credono in pochi. Nessuno ha letto i verbali, non è stata presentata alcuna altra prova. Tace il presidente Felix Tshisekedi, ammutolito il governo. E di questa «svolta» nelle indagini sembra non fidarsi nemmeno il governatore militare della regione, Sylvain Ekenge, che ha chiesto ulteriori approfondimenti. Figurarsi gl'italiani: l'ambasciata a Kinshasa non ne sapeva niente, e meno ancora la Procura di Roma che da mesi trova un muro di silenzi e cerca (inutilmente) d'inviare in Congo i Ros. A Limbiate, hinterland monzese, davanti alla villetta di famiglia è scettico anche Salvatore Attanasio, il papà di Luca: «Ha i nomi degli arrestati? Me li risparmi, grazie. Non m' interessano. Io sono come San Tommaso, non credo a questa storia finché non la certificano le autorità italiane. Mi sembra una messinscena: io voglio i mandanti, non solo gli esecutori». Quali mandanti? «Se è stato un agguato pianificato e non una rapina, sono troppi i dubbi. Se cercavano i bianchi, nel convoglio ce n'erano tre: perché ne hanno presi solo due? Luca poi ha ricevuto tre proiettili in pancia: chi scappa viene colpito alle spalle, non davanti». Per gli Attanasio, la chiave è il silenzio del Pam, il Programma alimentare mondiale che aveva organizzato il convoglio: «Chi era coinvolto a qualche titolo, è stato mandato via dal Congo. Anche Rocco Leone, sopravvissuto alla sparatoria: sparito. Il Pam dovrebbe spiegare tante cose:doveva provvedere alla sicurezza, perché non lo fece? La sera prima, Luca era molto preoccupato e chiedeva della scorta: gli rispondevano di star tranquillo. Invece non avevano comunicato ai caschi blu nemmeno la sua presenza, se l'avessero fatto non avrebbero avuto l'ok per partire. Il Pam sta a Roma, i pm vorrebbe ascoltarli, ma i funzionari si sono appellati all'immunità e avvalsi della facoltà di non rispondere. Una vergogna». L'ingegner Salvatore vorrebbe un po' di schiena dritta: «Chi ammazza un ambasciatore, ammazza lo Stato italiano. E non si può andare cauti solo perché c'è di mezzo l'Onu. L'avessero fatto a un ambasciatore Usa o israeliano, in Congo non ci sarebbe più neanche un albero».

TONGA, UN’ESPLOSIONE 500 VOLTE HIROSHIMA

Secondo la Nasa, l'esplosione che ha colpito i circa 100 mila abitanti del regno delle isole di Tonga è stata potente come 500 bombe di Hiroshima. Timori per acqua e aria: inquinate dalle ceneri. Sara Gandolfi per il Corriere.

«La forza dell'eruzione del vulcano sottomarino di Tonga, nell'Oceano Pacifico, è stata superiore di 500 volte a quella della bomba atomica sganciata dagli Stati Uniti su Hiroshima. È la stima fatta da James Garvin, scienziato capo presso il Goddard Space Flight Center della Nasa, secondo cui «il numero a cui siamo arrivati è attorno ai 10 megaton, ovvero 10 milioni di tonnellate, di equivalente in tritolo. Non è l'unico record, secondo gli scienziati americani. L'esplosione è stata udita fino all'Alaska e, sostiene Michael Poland, geofisico dell'US Geological Survey, «è stato probabilmente uno degli eventi più rumorosi avvenuti sulla Terra, superiore anche all'eruzione del vulcano Krakatoa in Indonesia», che nel 1883 uccise migliaia di persone e rilasciò così tanta cenere da gettare nell'oscurità gran parte della regione. Le conseguenze pur tragiche dell'eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha' apai, per fortuna, non sono così estreme. Il bilancio dei danni e delle vittime (per ora 3 morti e alcuni feriti) è tutt' altro che definitivo, ma sembra evitata la catastrofe umanitaria, anche se almeno 80.000 dei circa 100.000 abitanti del regno di Tonga, di cui almeno 28.000 bambini, si troverebbero ora in condizioni di necessità. Peraltro, il ministero degli Esteri della Nuova Zelanda ha messo in guardia contro probabili nuove eruzioni del vulcano. Un rischio basato sui modelli di previsione dell'istituto di ricerca geologica GNS Science: «Lo scenario più probabile è che si verifichino eruzioni nei prossimi giorni o settimane, con rischio di tsunami a Tonga e Nuova Zelanda». L'eruzione di sabato ha generato onde alte fino a 15 metri che hanno causato estesi allagamenti. Sulle 170 isole dell'arcipelago polinesiano si è anche riversata una pioggia acida di cenere e gas. «Mentre i danni all'agricoltura sono inferiori rispetto a quanto si temeva, preoccupano l'approvvigionamento idrico, la qualità dell'aria e la disponibilità di carburante», riferisce l'Unicef. «Si teme anche l'insorgere di malattie legate all'acqua, dato che le ondate di marea hanno causato l'inondazione di 2-3 isolati nell'entroterra». La portavoce di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa ha specificato che «pozze stagnanti diffuse di acqua salata, assieme alla cenere vulcanica, stanno inquinando le fonti di acqua potabile ed esiste un alto rischio di malattie come il colera e la diarrea». Ieri è stata riaperta la pista principale dell'aeroporto della capitale di Tonga e oggi potranno finalmente atterrare i c-130 con gli aiuti inviati da Nuova Zelanda e Australia. Anche la Cina ha annunciato l'invio di beni di prima necessità».

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