Il caffè torna al banco
Da oggi si torna a mangiare al chiuso e al bar si consuma anche in piedi. Storica sentenza per "disastro ambientale" all'Ilva. Relazione di Visco Bankitalia. Asse Salvini-Landini sui licenziamenti?
Pronti via, al primo giugno si torna a pranzare, e a cenare, anche al chiuso nei locali. E gli italiani quasi si commuovono al pensiero che da oggi si possa tornare a prendere il caffè e il cappuccino al banco del bar (all’estero, si sa, non è possibile ma non per la pandemia). Tornano gli assembramenti di una volta… Lo permettono i dati epidemiologici con i decessi intorno alle 80 unità, dopo il record minimo domenicale. La campagna vaccinale va avanti, dalle 6 di ieri mattina alle 6 di questa mattina sono state fatte 480 mila 513 somministrazioni. Da oggi molte Regioni aprono le prenotazioni per tutte le fasce d’età. Sui brevetti dei vaccini, interessante intervista del premio Nobel Stiglitz su Repubblica.
I fatti di ieri spingono i giornali ad occuparsi soprattutto di giustizia ed economia. Ieri a Taranto storica sentenza per il “disastro ambientale”, che conclude il primo grado del processo sull’ex Ilva. Giudizio che ha visto la condanna degli ex proprietari Riva e dell’ex Governatore della Puglia Nichi Vendola. Vendola, ritiratosi da tempo dalla politica, non ha remore nel sostenere che la condanna nei suoi confronti è una “barbarie”. Sempre di ieri è la notizia che i Benetton escono dalle Autostrade spa. L’ultimo giorno di maggio ha sancito, almeno nei casi di acciaio e autostrade, il fallimento delle privatizzazioni.
La relazione del Governatore di Bankitalia Visco ha confermato le speranze di ripresa, pur sottolineando che sussidi ed ammortizzatori finiranno. Nel mondo politico, dopo l’uscita di Salvini sullo stop ai licenziamenti, qualcosa si muove. Giuliano Ferrara, incredibile a dirsi, apprezza questa volta il Capitano. Il Fatto confida che Conte, questa volta davvero, diventi capo dei 5 Stelle e porti il Movimento all’opposizione. Il centro destra, questa volta davvero, potrebbe trovare la quadra per i candidati alle amministrative.
Oltre all’Ilva, altri casi giudiziari: dalla liberazione di Giovanni Brusca alla strage del Mottarone, alla vicenda della giovane pachistana Saman, lasciano l’amaro in bocca. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Molti giornali scelgono la sentenza storica sul disastro ambientale dell’Ilva a Taranto. Il Corriere della Sera è didascalico: Ex Ilva, la maxi condanna. Per la Repubblica conta la motivazione della condanna: Ilva, disastro ambientale. Il Manifesto propone un gioco di parole col nome del quartiere di Taranto più colpito: Tamburi d’aria. Il Mattino si concentra su che cosa accade adesso: Maxi-condanne, Ilva a rischio. Il Domani sottolinea la portata storica della sentenza: Le condanne per l’Ilva cambiano la storia dell’industria italiana. Il Fatto: Ilva, stangati i Riva e 4 governi complici. Ma a dire il vero, l’unico politico condannato è Nichi Vendola. Si occupano della Relazione annuale del governatore della Banca d’Italia Il Sole 24 Ore: Visco: «Crescita del Pil oltre il 4%, Pnrr sfida formidabile per l’Italia» e Il Messaggero: «Debito comune per la ripresa». La Stampa resta su un tema economico, ma è quello dello stop ai licenziamenti: Landini avverte Draghi: «Ascolti o è rottura sociale». Come Il Giornale che fa sapere: Spunta il patto contro le tasse. Il Quotidiano Nazionale affronta il tema del certificato vaccinale: Green pass, Europa più severa dell’Italia. Avvenire commenta positivamente la visita del premier libico a Roma: Libia, l’Italia s’è desta. Mentre La Verità ricorda che Autostrade torna pubblica: Regalo miliardario ai Benetton. Libero dà la notizia della scarcerazione del capo mafioso per fine pena: Libero Brusca, l’assassino di Falcone.
ILVA, CONDANNA PER DISASTRO AMBIENTALE
Un’ora di lettura della sentenza ieri della Corte d’Assiste di Taranto. La cronaca del Manifesto, di Gianmario Leone.
«È una sentenza che resterà nella storia della città di Taranto. E che diventerà un punto di riferimento per le future controversie legali in materia di inquinamento ambientale in Italia. Ieri mattina, la Corte d'Assise di Taranto, dopo undici giorni di camera di consiglio, ha letto il dispositivo della sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto sulla gestione dell'ex Ilva negli anni 1995-2013. La sentenza è arrivata dopo 5 anni di dibattimento, quasi 400 udienze fiume che hanno visto sfilare decine di imputati e centinaia di testi: accusa e difesa si sono date battaglia su ogni singolo aspetto di una vicenda infinita e lungi dall'essersi risolta definitivamente. La Corte ha di fatto ritenuto in gran parte corretto l'impianto accusatorio (l'accusa era rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dai sostituti Buccoliero, Epifani, Graziano e Cannalire), condannando a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell'ex Ilva, per i reati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all'avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. L'accusa aveva chiesto 28 e 25 anni. I Riva in fabbrica potevano contare sul cosiddetto «governo ombra», di cui facevano parte i «fiduciari»: 18 gli anni di condanna per cinque imputati (Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino e Enrico Bessone) che secondo l'accusa formavano un gruppo di persone non alle dipendenze dirette dell'Ilva che prendeva ordini dalla famiglia Riva. Condannato a 21 anni e 6 mesi l'ex responsabile delle relazioni istituzionali Girolamo Archinà (erano stati chiesti 28 anni) (…) Piena assoluzione invece per l'ex prefetto Bruno Ferrante, presidente dell'Ilva dall'estate 2012 a quella del 2013 quando l'azienda venne commissariata: per lui erano stati chiesti 17 anni. Ma l'inchiesta sull'ex Ilva ha coinvolto anche personaggi politici che ricoprivano ruoli primari durante la gestione Riva. La Corte d'Assise ha infatti condannato a 3 anni l'ex presidente della Provincia Gianni Florido, che risponde di una tentata concussione e di una concussione consumata, reati che avrebbe commesso in concorso con l'ex assessore provinciale all'ambiente Michele Conserva condannato a 3 anni. Tre anni e mezzo sono stati inflitti all'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola (i pm ne chiedevano 5): l'ex governatore è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull'allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. Quest' ultimo, accusato di favoreggiamento nei confronti dell'ex presidente, è stato condannato a 2 anni. Assennato, che ha sempre negato di aver ricevuto pressioni da Vendola, aveva rinunciato alla prescrizione. Prescritto invece il reato di abuso d'ufficio per l'ex sindaco Ippazio Stefàno».
Avvenire ha raccolto il commento alla sentenza dell’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro.
«La sentenza stabilisce quello che i tarantini sapevano da tempo. Che era stato certificato dalle evidenze scientifiche: quello che è avvenuto a causa dell'Ilva è un vero e proprio disastro ambientale». Parole 'di amarezza' quelle dell'arcivescovo di Taranto, monsignor Filippo Santoro, commentando la sentenza sull'Ilva. Però guarda già al dopo. «Ora si impone un cambiamento di rotta profondo», perché «dobbiamo restituire speranza a una città sfiancata dall'incertezza e dall'immobilismo». Monsignor Santoro da dove nasce l'amarezza? «Eravamo nella certezza che le cose erano andate in questo modo. Ora, a prescindere da quello che deriverà dai successivi gradi di giudizio, in merito alle responsabilità individuali, la magistratura stabilisce che le cose sarebbero potute andare diversamente, se la politica si fosse preoccupata realmente della salute dei tarantini. Questo è il giudizio che voglio mettere in evidenza, Quindi non c'è solo una responsabilità dell'impresa. Ma anche della politica. Che ha scaricato sui cittadini il danno». E ora? «Ora è il momento di attuare quella transizione ecologica di cui sentiamo tanto parlare, e che auspichiamo che trovi applicazione proprio qui a Taranto, la città che più di ogni altra paga il prezzo al profitto messo come punto di riferimento più alto della vita». Una sentenza però non ripara i guasti di decenni. «No, non li ripara. Per questo invoco che finalmente adesso si metta mano alla transizione ecologica. Ora c'è anche un Ministero con questo incarico e quindi è il momento giusto. Dobbiamo ripartire con le bonifiche attese da anni, rivedere il processo di produzione dell'acciaio, e questo è molto importante, utilizzando le migliori tecnologie possibili. È un cambiamento di rotta profondo che ora si impone». Lei ha sempre sottolineato che però a pagare non devono essere ancora i cittadini con la perdita dei posti di lavoro. «Lo abbiamo sempre detto. Ed è proprio così. Dobbiamo restituire speranza a una città sfiancata dall'incertezza e dall'immobilismo. Ora abbiamo un'ultima opportunità con i fondi del Next generation Eu, col Recovery Plan. E quindi è il momento di restare uniti, di far fronte perché il territorio si possa finalmente risollevare. È un punto d'arrivo o di partenza? «È un cambiamento di rotta per un nuovo punto di partenza. Ma servono finalmente fatti concreti. La Chiesa tarantina è sempre stata in prima fila nella denuncia e anche nella proposta».
L’auto difesa di Nichi Vendola arriva dalle colonne di Repubblica, raccolta da Giovanna Casadio.
«Subisco una condanna assurda, che avalla un'accusa grottesca. E io che ai Riva non ho mai fatto sconti e dai Riva (a differenza di tanti) non ho preso neppure un euro, a questa sentenza mi ribello». Ha detto che la sentenza è una vergogna e un delitto contro la verità, però i veleni dell'ex Ilva sono un fatto: non si riconosce alcuna responsabilità? «Un secolo di inquinamento industriale, oltre mezzo secolo di siderurgia a Taranto sono finite addosso alle mie spalle, cioè della prima classe dirigente che non ha fatto finta di niente, che ha agito contro i veleni. Le uniche leggi regionali in Italia contro la diossina e il benzopirene le abbiamo fatte in Puglia. Noi abbiamo scoperchiato la pentola. Prima di noi, l'Ilva si autocertificava i dati sulle emissioni. I 200 camini dell'Ilva non erano mai stati monitorati da un'agenzia indipendente. Prima del mio governo non esisteva la parola diossina. Sono atti pubblici, ha parlato con onestà anche il capo dell'opposizione nel decennio del mio governo della Puglia, Rocco Palese. Il paradosso è che se io non avessi sfidato i Riva, se avessi fatto finta di niente dinanzi al dolore di Taranto, non sarei finito dentro questa tagliola giudiziaria». Forse è una assoluzione facile quella che si dà. La storia del disastro dell'acciaieria significa sversamenti nel mare, nell'aria, nella città. Davanti al tribunale che l'ha condannata, c'erano i familiari dei bambini morti di cancro, dei cittadini dei quartieri soffocati dai fumi. Per loro lei è stato una speranza, ma ha dato risposte a quella piazza? «Il punto è che da soli abbiamo cercato di affrontare una questione che aveva un rilievo nazionale e europeo: i veleni industriali non sono un pezzo del folclore pugliese, sono ovunque in Italia, eppure noi abbiamo operato, legiferato, le nostre sono le uniche leggi sulle diossine o sul danno sanitario. E abbiamo rischiato, perché quella ambientale è una esclusiva competenza dello Stato. Noi abbiamo rinforzato presidi che non c'erano, investito in competenze e mezzi, e appena abbiamo avuto le evidenze scientifiche - anche per non essere bocciati dal Tar che dava spesso ragione all'Ilva - abbiamo messo in campo norme all'avanguardia. Noi abbiamo sfidato il gigante Ilva. E Arpanon ha mai, mai, mai ammorbidito la sua linea di condotta». Ha detto spesso che le sentenze si rispettano: ora per lei non è più così? «Le sentenze ingiuste si appellano. Questa non è solo ingiusta, è una barbarie». La ritiene una sentenza politica? «La ritengo una sentenza che calpesta la verità per me e per chi ha lavorato con me».
Maurizio Belpietro dedica parte del commento in prima pagina de La Verità.
«L'Italia non è un Paese per persone normali. (…) Comincio dalla sentenza Ilva, quella con cui sono stati condannati gli ex azionisti dell'acciaieria di Taranto. Sul capo della famiglia Riva sono fioccate condanne per 42 anni, mentre un'altra trentina da trascorrere nelle patrie galere è stata comminata a ex manager del gruppo. A sommare le pene inferte a imprenditori e politici, con accuse che vanno dall'associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale all'omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, si sfiora il secolo. Fin qui però siamo ancora nell'alveo della normalità, sebbene qualcuno avrebbe motivo di interrogarsi se sia giusto condannare i nuovi padroni, che hanno comprato gli altiforni anni fa, e non i vecchi, che quegli impianti li hanno costruiti e che, come è noto, non sono privati, ma pubblici. Già, perché l'Ilva un tempo si chiamava Italsider e dietro questa sigla c'era l'Iri, ovvero l'Istituto per la ricostruzione industriale, vale a dire il braccio statale nel mondo dell'impresa. È normale mandare in galera chi è accusato di aver inquinato per vent' anni e non chi lo ha fatto per quasi cento? Se le ciminiere emettevano fumi avvelenati e le polveri d'acciaio intossicavano i polmoni, si può credere che sia accaduto solo quando la fabbrica è stata privatizzata e che prima le emissioni fossero al profumo di violetta? Ma anche lasciando perdere questa piccola contraddizione, a cui la sentenza della Corte d'assise di Taranto non ha posto rimedio, i giudici, oltre a infliggere condanne esemplari, hanno disposto la confisca degli impianti. Cioè la magistratura, che è un ordine dello Stato, sequestra una fabbrica dello Stato (perché nel frattempo, grazie all'inchiesta, i legittimi proprietari sono stati espropriati delle loro azioni e dopo vari tentativi per trovare un compratore la proprietà dell'azienda è tornata nelle mani pubbliche). Tutto normale? A me pare di no».
IL PONTE DELLE RIAPERTURE
C’è una certa euforia sui giornali per la “ripartenza” di questo ponte, che vede in giro nove milioni di italiani. Da oggi i ristoranti servono anche al chiuso. La cronaca del Corriere a cura di Mariolina Iossa:
«Da ieri Sardegna, Molise e Friuli Venezia Giulia sperimentano il ritorno a una libertà quasi piena. E fanno da apripista a tutte le altre regioni che pian piano passeranno in zona bianca: dal 7 giugno Abruzzo, Veneto, Liguria e Umbria e dal 14 Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Puglia e provincia di Trento. Nelle tre regioni bianche valgono solo le regole di comportamento: mascherina obbligatoria e distanziamenti. Non c'è coprifuoco e riapre tutto, a eccezione delle discoteche. Per le altre regioni, anche quelle che probabilmente resteranno in giallo ancora per una, due o anche più settimane, il primo giugno è comunque una giornata di esultanza perché da oggi si potrà tornare a mangiare nelle sale interne dei ristoranti, e si potrà finalmente consumare al bancone del bar. Stessa cosa per quanto riguarda pub e gelaterie. Gli esercizi di ristorazione più piccoli, che non avevano dehors per i tavoli ed erano quindi costretti a praticare soltanto l'asporto, potranno tornare a ricevere i clienti nei loro locali. Bar e ristoranti potranno restare aperti tutto il giorno, l'unico limite che rimane è quello del coprifuoco notturno - non in vigore in zona bianca - che è stato fissato attualmente alle ore 23, e che sarà portato alla mezzanotte già il prossimo 7 giugno, e poi completamente abolito il 21 giugno. Riaprono gli stadi e gli impianti sportivi all'aperto da oggi (per quelli al chiuso occorrerà attendere luglio): la massima capienza consentita è del 25 per cento di quella reale, e comunque mai sopra i 1.000 spettatori (per le strutture al chiuso il limite massimo consentito sarà di 500 persone). Da oggi le feste di matrimonio sono permesse in zona bianca (in zona gialla dal 15 giugno) ma si dovrà essere in possesso del «Covid pass» o del «Green pass» per parteciparvi. Si dovrà quindi ottenere una certificazione per chi è guarito dalla malattia, per chi è stato vaccinato, o presentare l'esito di un test se ci si è sottoposti a tampone entro 48 ore prima dell'evento. Dal 15 giugno, quando più della metà delle regioni italiane sarà bianca, con questi valori della curva epidemica e della pressione su ospedali e terapie intensive, sarà sancito il via libera anche in zona gialla alle riaperture di parchi tematici agli eventi, ai congressi, fatte salve tutte le procedure di sicurezza sanitaria necessarie».
STIGLITZ: SOSPENDIAMO I BREVETTI
Eugenio Occorsio intervista per Repubblica il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz che parte da un dato di fatto: il Covid19 ha aumentato le diseguaglianze nei Paesi più sviluppati. I brevetti vanno sospesi. Cento Paesi, Italia compresa, sono con Biden.
«È ormai accertato a ogni livello che il Covid ha esacerbato le diseguaglianze in tutto l'occidente a partire dall'America. Ora dobbiamo evitare che la fame di profitti delle aziende non prolunghi ancora la pandemia». Joseph Stiglitz, classe 1943, professore alla Columbia University, premio Nobel 2001, già capo del consiglio economico di Clinton, è uomo dalle mille battaglie contro gli eccessi del capitalismo, da Occupy Wall Street al climate change. Ora scende ancora una volta in trincea per rivendicare il ruolo dei governi nella soluzione della crisi pandemica, sanitaria prima ed economica subito dopo. La sua tribuna sarà come tante volte in passato, il Festival dell'Economia di Trento, anche se stavolta i suoi strali - che travolgevano di entusiasmo la platea di giovani appassionati - dovrà lanciarli via Zoom dal suo ufficio di New York. Lo stesso dal quale ci risponde al primo squillo di cellulare, e diventa un fiume in piena: «Cos' altro deve accadere per convincerci che il sistema di welfare americano è un disastro e porta la colpa di tanti morti, che l'egoismo dei ricchi va contenuto con una più giusta tassazione, che lo Stato deve tutelare la collettività?». Con Biden non c'è stato un cambio di passo? «Certo, il cambiamento è sostanziale rispetto a Trump, che ha picconato per tutti i suoi anni la riforma sanitaria di Obama laddove cercava di allargare un po' l'assistenza pubblica, ha abbassato le tasse sui ricchi e alzato di fatto quelle sui poveri, è arrivato perfino a coalizzarsi con i Paesi a lui affini politicamente per bloccare sul nascere qualunque negoziato sulla sospensione del brevetto per i vaccini. Ora su tutti questi problemi, che il nuovo presidente sta affrontando con il taglio giusto, si deve cambiare fino in fondo». Quello dei vaccini è il problema più urgente. Biden sembra aver frenato rispetto al proclama per la sospensione dei brevetti. Perché? «Spero che non sia una vera retromarcia. Il presidente sa perfettamente, senza che glielo debbano spiegare gli amministratori delegati delle aziende, che produrre i vaccini non è semplice, che servono mezzi, investimenti e competenze. È indispensabile - come dimostrano scienziati, demografi, economisti sotto ogni latitudine - che si sospendano i brevetti. Se restiamo nelle mani di un pugno di aziende, che hanno una ovviamente limitata capacità di espandere la produzione, non ce la faremo mai ad avere i 10-15 miliardi di dosi che servono per vaccinare il pianeta e chiudere così questa drammatica partita. Biden aveva cominciato bene, annunciando di avere già il consenso di cento Paesi (fra cui l'Italia, ndr) per svolgere presso la World Trade Organization le necessarie pratiche. Non deve perdere questo slancio». Cos' è che genera cautela? «Legioni di lobbisti di Big Pharma stanno intasando i corridoi del Congresso per bloccare l'iniziativa. Se solo l'industria avesse messo tanto impegno nell'incrementare la produzione di vaccini quanto quello che sta mettendo nell'inventarsi argomentazioni speciose a sostegno del proprio oligopolio, saremmo un bel passo avanti. Gli interessi in gioco sono spaventosi. C'è una controprova: quando Biden ha annunciato di voler chiedere la sospensione, i titoli in Borsa delle aziende interessate sono crollati». Ma il governo americano aveva finanziato la ricerca oppure no, come sostiene il Ceo di Pfizer? «L'aveva finanziata, e continua a farlo, se non altro indirettamente: garantendo cioè in partenza l'acquisto di enormi quantitativi di fiale con i relativi profitti. Ma è giusto che siano coinvolti, quello americano come gli altri governi. Non devono però perdere di vista l'obiettivo: produrre tutti i vaccini che servono in tempi strettissimi». L'America ha riscoperto l'intervento pubblico anche dal punto di vista dei sussidi d'emergenza. È stato risolutivo per la ripresa economica? «Sicuramente. Altrimenti non ci saremmo rialzati da una crisi così profonda e repentina. Non era mai successo nella storia che la produzione industriale perdesse il 13 per cento in un solo mese, come è accaduto nell'aprile 2020. Ma non era neanche mai successo che il governo federale iniettasse tanta liquidità per sussidi e contributi alla rinascita». Ma è vero che tanta gente rifiuta un lavoro perché guadagna di più con i sussidi? «Un lavoro è sempre un lavoro, i sussidi non dureranno a lungo».
BANKITALIA VEDE LA RIPRESA
Ieri c’è stata la tradizionale relazione del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. La cronaca di Fabrizio Massaro sul Corriere.
«L'Italia è in ripresa, con una «domanda robusta» attesa nella seconda metà dell'anno e un Pil in crescita di oltre il 4%, man mano che la pandemia arretra, le vaccinazioni aumentano e le imprese tornano rapidamente a investire, a differenza di quanto avvenuto nelle due passate recessioni. Lo dice il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, che di recessioni è ormai un veterano, essendo al decimo anno di guida a Via Nazionale. È di fatto un'anticipazione del dato che verrà comunicato l'11 giugno ma dà già un'idea del rimbalzo che l'Italia si appresta a vivere post-Covid. «In Italia, ad attese più prudenti da parte delle famiglie» - la cui propensione al risparmio è salita a oltre il 15% per prudenza e mancanza di opportunità di spesa - si associano piani di investimento delle imprese in sostanziale recupero. Una ripresa robusta della domanda nella seconda metà di quest' anno è quindi possibile». In questo contesto - sottolinea Visco - è fondamentale il ruolo degli aiuti europei (il Next Generation EU) e l'applicazione puntuale del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che, stima la Banca d'Italia, può creare un punto percentuale in più ogni anno sul Pil nei prossimi dieci anni grazie ai 235 miliardi in arrivo dall'Europa. «Si tratta di una formidabile sfida», dice Visco, perché «non è pensabile un futuro costruito sulla base di sussidi e incentivi pubblici. Siamo tutti chiamati a far si che cresca e sia diffuso il benessere, siano adeguatamente protetti coloro che più saranno colpiti, chiari i costi da sopportare e progressivamente ridurre». Ma non sono soldi facili: il Pnrr è «un piano imponente, da tradurre rapidamente in progetti esecutivi, gare di appalto e opere pubbliche». Gli sprechi non sono ammessi, dato che quest' anno il debito salirà vicino al 160% del pil, «di quasi 60 punti superiore a quello medio dell'area dell'euro. L'alto debito costituisce un'intrinseca fragilità» e quindi «le risorse europee dovranno dare frutti importanti e duraturi».
Fabio Tamburini sul Sole 24 Ore commenta positivamente, in prima pagina, la relazione di Visco:
«C'è un passaggio della relazione che rappresenta la sintesi perfetta della situazione. È quello in cui nelle considerazioni finali il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, definisce come «formidabile sfida» la partita in corso per l'Italia ma anche per l'intera Europa, di cui rappresentiamo uno dei Paesi fondatori e un ingrediente indispensabile. La sfida è imboccare con determinazione la strada di «una ripresa robusta della domanda», di «uno sforzo collettivo volto a superare le nostre debolezze strutturali» per guarire «un'anemia della crescita economica che dura da oltre due decenni». L'aggettivo formidabile è giustificato dal fatto che serve «dare massima concretezza al programma di riforme» per ridare slancio all'economia e creare le condizioni per ridurre «gradualmente ma con continuità il fardello del debito pubblico». Il timoniere è il presidente del consiglio, Mario Draghi. Alla scadenza dei primi 100 giorni, trascorsi da poco, ha centrato le due priorità d'inizio mandato: il piano vaccini e la presentazione in Europa di un Recovery plan credibile. Su entrambi i fronti il ritardo era clamoroso e abbiamo rischiato di non farcela. Le conseguenze sarebbero state devastanti. Va dato atto che la scelta di affidarsi al generale dell'Esercito Francesco Paolo Figliolo, che ha saputo accantonare improvvisazione e folclore, è stata quanto mai opportuna e le vaccinazioni hanno marciato nel modo migliore. Non era scontato. Ugualmente, nonostante il poco tempo disponibile, ha funzionato il recupero di credibilità in Europa. Certo l'intera architettura del piano ha punti deboli non banali, dai contenuti delle riforme alla governance. Ma le telefonate di Draghi a Bruxelles hanno permesso di superare incertezze e diffidenze. Così abbiamo portato a casa la prima parte dei finanziamenti europei. Ora però arriva il difficile, cioè quella «formidabile sfida» citata da Visco. Sempre il governatore ha utilizzato un'altra immagine programmatica: «Dopo la pandemia - ha detto in chiusura dell'intervento - deve aprirsi un'epoca nuova». Qual è la condizione definita «essenziale»? «Spendere bene le risorse straordinarie che il programma europeo ci offre e tutte le altre che saranno disponibili per ridare all'economia una prospettiva stabile di sviluppo». Il compito di passare dalle parole ai fatti cade sulle spalle di Draghi ed è necessario assicurargli due condizioni fondamentali: il tempo a disposizione e il potere necessario per spazzare via le resistenze che da tempo immemore intralciano la strada delle riforme. Il fattore tempo è cruciale perché nessuno, neppure Draghi, ha la bacchetta magica».
PROROGA DEI LICENZIAMENTI, SALVINI FA RIMA CON LANDINI
Una delle preoccupazioni di Tamburini, espressa sul giornale della Confindustria, è che venga ancora rimandato il ritorno alla normalità della vita delle aziende. In altre parole che venga varata un’altra proroga allo stop dei licenziamenti. Ma su questo terreno le cose in politica si muovono. Emanuele Lauria su Repubblica.
«C’è uno strano filo, negato da chi lo regge, che potrebbe far saltare lo stop al blocco dei licenziamenti. Lo tirano Enrico Letta da un lato e Matteo Salvini dall'altro, i nemici giurati che in questo fine settimana si sono lanciati controversi segnali di dialogo. E che sono uniti da un unico obiettivo: non farsi travolgere dal decisionismo di Draghi che non ha il problema del consenso. Così, negli ambienti dei due partiti, si spiega la mossa del leader della Lega che a sorpresa riapre sulla possibilità di spostare in avanti di qualche mese il divieto di licenziare da parte delle aziende colpite dal Covid: Salvini, dalle colonne del Corriere, dice che su questo tema con il Pd ci può essere confronto. Non pochi collegano quest' apertura alle parole di pace pronunciate da Letta qualche ora prima, quelle che riconoscevano nel capo del Carroccio «una persona vera». Sullo sfondo altre convergenze meno evidenti, fra il Capitano e l'ex premier: come la riflessione sul "duro mestiere dei sindaci", che Letta ha consegnato all'Espresso, e che l'altro ha posto alla base della richiesta di compensi più idonei ai rischi e ai sacrifici degli amministratori. Però non sono tutte rose e fiori: il nuovo feeling, anzi, nasce fra diffidenze interne ed esterne ai due partiti. Dentro la Lega, ad esempio, la posizione di Salvini crea giocoforza qualche imbarazzo a chi, nel governo, aveva bocciato la proposta di Andrea Orlando che puntava proprio alla proroga del blocco dei licenziamenti: dal sottosegretario al Lavoro Tiziana Misini al ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti. L'argomento è ancora oggetto di dibattito, fra gli ex lumbard, che ieri sera hanno tenuto un vertice: con il segretario c'erano ministri, vice e sottosegretari. Ciò che emerge, da fonti vicine alla sottosegretaria Misini, è una nuova proposta della Lega «che metta insieme le esigenze delle imprese e quelle dei sindacati». Comunque una correzione di rotta, rispetto ai giorni scorsi, in cui il Carroccio si era mostrato particolarmente sensibile alle sollecitazioni di Confindustria, che aveva scagliato i suoi strali contro la proroga del divieto di licenziare. «Una misura che, a livello planetario, resiste solo in Italia», ha ribadito ieri Carlo Bonomi. In controluce le divergenze fra la linea di Giorgetti, garante delle istanze delle categorie produttive del Nord, e quella di Salvini, che punta a rafforzare il partito nell'intero territorio, anche oltre lo zoccolo duro costituito dai piccoli imprenditori, e che non è disponibile a passare per chi mette la firma a un provvedimento che manda a casa migliaia di lavoratori. Di qui l'ultima evoluzione del pensiero salviniano, che fa riaffiorare peraltro le divisioni nel centrodestra: «Il blocco dei licenziamenti - dice Giorgia Meloni - è un problema secondario: rischiamo infatti che chiuda direttamente il 40 per cento delle aziende». In questo panorama, il Pd addita anzitutto le contraddizioni leghiste: «Da Salvini siamo abituati a cambiamenti repentini, giravolte e voltafaccia. Per me è fondamentale la nostra linearità e la missione di servire gli interessi degli italiani», dice Enrico Letta che per un attimo mette da parte il ramoscello d'ulivo. Salvo poi lasciare la porta aperta: «L'appello che faccio a Salvini e a tutti gli alleati di governo è lo stesso: cerchiamo di essere seri e non alimentiamo aspettative che rischiano di rimanere frustrate. La nostra disponibilità a discutere sul tema dei licenziamenti c'è, ma va fatto con serietà». Ancora più esplicito il vicesegretario dem Giuseppe Provenzano: «Il gioco delle due Leghe non va bene più, se in mezzo ci sono gli interessi degli italiani. Convochiamo un tavolo con imprese e sindacati, e con il ministro Giorgetti che a questo punto deve dirci qual è la linea della Lega dentro il governo. Ricordo - dice Provenzano - che Salvini applaudiva alla proposta del ministro Andrea Orlando ma che poi la Lega, dopo le dichiarazioni di Confindustria, ha fatto marcia indietro. Siamo contenti che il leader abbia capito l'errore commesso, però adesso servono fatti concreti. Noi ci siamo».
Su La Stampa, nell’occasione di un lungo forum con il direttore Massimo Giannini, si parla di proroga dello stop ai licenziamenti con Maurizio Landini, segretario della Cgil.
«Non si cambia il Paese senza il mondo del lavoro». Maurizio Landini lo ripete più volte, quasi a voler rendere più forte il messaggio da recapitare a Mario Draghi. «Il governo accetti di confrontarsi con noi su tutte le riforme - dice il segretario della Cgil - il coinvolgimento preventivo delle parti sociali deve diventare un vincolo, il lavoro delle persone deve essere una priorità della politica o sarà rottura sociale». Dal fisco alle pensioni, dagli ammortizzatori sociali alla pubblica amministrazione, «abbiamo le nostre proposte e devono tenerne conto», avverte Landini durante l'intervista con il direttore de La Stampa, Massimo Giannini (…) Il governatore di Bankitalia Visco ha elogiato i governi che hanno sostenuto imprese, lavoratori e famiglie, ma ha spiegato che non si può continuare con un'economia assistita. Condivide? «Nessuno pensa di restare a regime con un'economia assistita, ma non possiamo tornare semplicemente a come stavamo prima della pandemia. Bisogna usare i quasi 300 miliardi che arriveranno per produrre cambiamenti, fare le riforme, ma anche scelte di politica industriale. Visco si è posto il problema del ruolo dello Stato: io penso che in questa fase il mercato da solo non sia in grado di affrontare i problemi e creare lavoro». Da Confindustria motivano la necessità di sbloccare i licenziamenti con il fatto che molte aziende non sono più in grado di stare sul mercato e possono liberare figure qualificate per altre imprese. Far licenziare per far assumere? «Io dico che lo sblocco dei licenziamenti deve essere parte di un processo complessivo: va anche bene l'idea di riconvertire i lavoratori, ma non bisogna lasciare sole le persone. Se, in un momento come quello che stiamo vivendo, si mandano via i lavoratori dalla sera alla mattina, c'è il rischio di generare rabbia sociale. Prima discutiamo bene le scelte, diamoci gli strumenti per affrontare la situazione, definiamo percorsi di politiche attive: con quali forme assumiamo questi lavoratori?». Ha visto che, paradossalmente, Salvini si è detto disponibile a considerare la vostra richiesta di prolungare il blocco dei licenziamenti? La Lega più vicina del Pd: la mette in imbarazzo? «Non mi imbarazza niente. Noi abbiamo chiesto al governo di riaprire il confronto e abbiamo chiesto incontri a tutte le forze politiche, visto che il Parlamento deve discutere il provvedimento. Con il Pd abbiamo già fissato un incontro per affrontare la questione. Non faccio distinzioni e non metto bandierine, ognuno deve dire cosa vuole fare. Noi diciamo: allunghiamo il blocco dei licenziamenti e avviamo la riforma degli ammortizzatori sociali». Il compromesso trovato nella maggioranza di governo sembra ormai definito: se il confronto non si riapre? «Non escludiamo nulla, faremo assemblee con i lavoratori e decideremo insieme con Cisl e Uil. Di certo, non è un problema economico, visto che le risorse per la cassa integrazione Covid sono state usate solo per il 50%. Se aprono come hanno fatto sul tema degli appalti bene, altrimenti valuteremo le iniziative più opportune».
Giuliano Ferrara sul Foglio apprezza la “svolta” di Salvini sulla proroga dei licenziamenti. Per l’Elefantino è il ritorno alla politica, giusta scelta per un leader.
«Alle scuse di Di Maio per la gogna di un tempo corrisponde perfettamente la trasfigurazione di Salvini, e parliamo dei dioscuri del populismo all'italiana. Cacciato in condizioni di minorità politica dai suoi impetuosi e ridicoli errori, sostanzialmente emarginato come il comiziante velleitario che evocava i "pieni poteri", ora il capo della Lega, dopo un esordio da Infiltrato nel governo di unità nazionale, dopo un'acrobatica conversione europeista, si comporta secondo le regole chiave della politica: affetta ragionamenti, non tutti e solo demagogici, promuove o non scoraggia il dialogo con gli avversari, che ricambiano, coltiva con minore rozzezza il giardino incantato delle destre estreme europee in competizione con Meloni, stabilizza al governo la leadership del suo braccio realistico e competente nella figura del ministro Giorgetti, che a sua volta si porge come un pilastro dell'anomala maggioranza che sostiene Draghi. La questione della sincerità in queste faccende semplicemente non esiste. Il bello della politica è che è poco dignitosa, nel senso che non richiede protocolli etici belli compiuti, non sopporta oltre misura un metro di giudizio che sia estraneo al suo funzionamento. Una svolta può ben nascere dai fatti piuttosto che dalle intenzioni. (…) Il problema vero è nella domanda su che cosa convenga all'Italia. Su un uomo nero minaccioso e inaffidabile, con uno scarto fatto di anomalie, si è costruita in parte la ricostruzione della governabilità di questo paese in Europa; con un altro scarto, portando nel governo di unità tutti coloro che ci volevano stare, si è passati alla seconda fase con un'ennesima scommessa. In mezzo c'è stata la pandemia, che obbiettivamente ha riclassificato i ruoli di ciascun attore e il soggetto della recita. Un uomo nero che indossa la grisaglia e si porta verso l'area centrale dello scacchiere, dove contano le cose da fare e non i comizi paesani, è una buona notizia in sé e per sé. La dignità è un'estranea, ma la credibilità in politica non lo è. Alla normalizzazione tendenziale del suo modo di essere corrisponde un prezzo che Salvini paga, nel fare e eventualmente nel disdire la svolta, e un vantaggio per tutti gli altri. E alla fine che ci sia un alleato di governo e un competitore anche elettorale il quale non cavalca più la gogna giudiziaria, un fisco assurdo, una politica di risonanza xenofoba contro gli immigrati, una giustizia sommaria, una battaglia frenetica e sbalestrata contro la moneta unica e i percorsi dell'Europa sovranazionale, bè, sarebbe un buon risultato anche per le cose importanti da fare con i soldi nostri e degli altri europei».
MELONI GIOVEDÌ INCONTRA DRAGHI
La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni vedrà Mario Draghi giovedì prossimo. Lo dice a Paola Di Caro che la intervista per il Corriere:
«Essere unica opposizione sta pagando, ma cosa andrà a dire a Draghi per portare a casa un risultato? «Il risultato non lo cerco per me, ma per gli italiani. Ho detto che avremmo fatto un'opposizione patriottica e responsabile, non cambio idea. Quindi solleverò il tema delle limitazioni della libertà personale che non può più essere sottaciuto, insisterò perché si acceleri quanto più possibile sulle riaperture interrompendo la continuità di azione - su questo piano - con il governo Conte». Come Salvini e Letta, chiederà garanzie sul blocco dei licenziamenti? «Purtroppo non basta bloccare i licenziamenti per salvare posti di lavoro, bastasse un editto del governo sarebbe tutto più facile. Il vero problema da affrontare è che il 40% delle aziende rischia la chiusura, con il risultato che milioni di italiani finirebbero per strada in ogni caso». L'alternativa quale è? «Bisogna concentrarsi sula tenuta delle imprese, sulla loro continuità. Per paradosso, imponendo il blocco dei licenziamenti si favoriscono i più spregiudicati, quelli che non si fanno scrupolo a chiudere l'attività, licenziando tutti e magari non pagando tasse e fornitori, per poi riaprire una nuova attività con una diversa ragione sociale. Dovremmo invece aiutare gli imprenditori che assicurano la continuità di impresa. Noi abbiamo proposto per esempio l'unificazione degli anni fiscali 2020-21 per pagare le tasse giuste nel 2022, e un regime fiscale di favore per chi resiste e mantiene i livelli occupazionali. E poi porteremo a Draghi temi trascurati».
5 STELLE. STAVOLTA CONTE DIVENTA LEADER
Ci siamo, questa volta è diverso. Giuseppe Conte sta davvero per prendere in mano il Movimento 5 Stelle. Lo scrivono sul Fatto Luca De Carolis e Lorenzo Giarrelli:
«Stavolta ci siamo, forse. Stavolta l'avvento di Giuseppe Conte a capo del Movimento potrebbe davvero essere vicino. Perché a breve, forse già oggi, il Garante per la privacy dovrebbe esprimersi sull'esposto-segnalazione con cui il M5S gli ha chiesto di obbligare la piattaforma Rousseau, cioè Davide Casaleggio, a consegnare gli elenchi degli iscritti al Movimento. Cioè quei dati che sono necessari per l'elezione di Conte a guida politica dei Cinque Stelle, nonché per votare anche il nuovo Statuto e la nuova Carta dei valori. E sarebbe la rifondazione. Urgente, perché il M5S esplode di malessere, come dimostra il dato diffuso dall'AdnKronos, secondo cui solo il 33 per cento dei parlamentari ha versato al partito i mille euro chiesti per avviare il nuovo corso. Soprattutto, una fetta sempre più ampia di eletti se lo chiede nelle chat e nelle conversazioni: "Perché restare nel governo Draghi se non tocchiamo palla?". Una domanda arrivata anche alle orecchie di Conte, che non a caso domenica ha ridato la linea, ribadendo che sulla prescrizione il M5S non può ammainare la bandiera, e chiedendo poi la rimozione del sottosegretario leghista Durigon ("Intollerabile che sia ancora al suo posto nonostante le gravi affermazioni"). Ma ora l'avvocato ha bisogno dell'investitura formale. Impossibile però, senza quei dati che da mesi Casaleggio si ostina a non consegnare, sostenendo che il reggente Vito Crimi non sia più il capo, quindi neppure il rappresentante legale del M5S . Così ora dipende tutto dal Garante, da cui già ieri ai piani alti dei 5Stelle si aspettavano comunicazioni. "Ma ci vorrà ancora qualche giorno" spiegano fonti qualificate al Fatto. Le stesse che la scorsa settimana avevano raccontato di una richiesta di documentazione inoltrata dall'Autorità a Rousseau, a conferma che l'istruttoria non era semplicissima. Conte e Crimi però restano convinti che il Garante darà loro ragione. Possibile: con un "ma", sussurrano un paio di 5Stelle: "Casaleggio potrebbe comunque fare ricorso al tribunale civile". Ma di tempo prezioso Conte ne ha già perso troppo. Il patron di Rousseau lo sa bene. Per questo, nelle ultime ore ha rilanciato. Perché una sorta di trattativa con il M5S è comunque rimasta in piedi. Non con Crimi e Conte, con cui ormai è rottura totale. Ma ad altri esponenti dei 5Stelle Casaleggio ha formulato due proposte. Con la prima, il figlio di Gianroberto si offre di consegnare i dati e di chiudere ogni contenzioso in cambio del pagamento 250mila euro da parte del M5S, a fronte dell'iniziale richiesta di 450mila, l'ammontare dei mancati versamenti degli eletti alla piattaforma. La seconda opzione sarebbe la disponibilità a concedere Rousseau per la votazione di Conte come capo politico e del nuovo Statuto, in cambio di una cifra che dal Movimento definiscono "rilevante": cioè nell'ordine di alcune decine di migliaia di euro. Difficile, quasi impossibile che i 5Stelle accettino. "Ma non possiamo andare avanti così ancora a lungo" ribatte un big, che spinge per un accordo. Nell'attesa, l'abiura di Luigi Di Maio sulla "gogna" per i politici arrestati o sotto inchiesta ha riproposto il tema dei rapporti di forza tra il ministro e l'avvocato. "Ma io mi sono mosso in pieno accordo con Giuseppe", ha spiegato in vari colloqui Di Maio. Di sicuro l'ex capo politico è preoccupato dalle difficoltà del Movimento, ma non ritiene affatto che la soluzione sia l'uscita dal governo Draghi».
IL CENTRO DESTRA ALLE AMMINISTRATIVE
Ci siamo, questa volta è diverso. Il centro destra troverà l’intesa per i candidati sindaco alle prossime amministrative. Fabrizio de Feo sul Giornale:
«Il traguardo è vicino. Non tutti sono convinti che si riesca davvero a chiudere in via definitiva la trattativa per Roma e Milano, ma di certo oggi alle 18, nel vertice a cui parteciperanno Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani oltre ai rappresentanti di Cambiamo, Ncl e Udc, si farà sul serio e ci si confronterà, sondaggi alla mano, su una rosa ristretta di nomi. «Per Roma la scelta non è impossibile, più difficile che avvenga per Milano, visto che Matteo Salvini ci ha chiesto tempo per valutare l'eventuale disponibilità di un altro nome, in aggiunta alla rosa che già abbiamo» dice Ignazio La Russa. «Per Roma avevamo già sondato l'ipotesi di Simonetta Matone, ma abbiamo approfittato di questo tempo per raccogliere valutazioni molto incoraggianti su Enrico Michetti». Alle obiezioni sulla poca notorietà dell'avvocato amministrativista, La Russa taglia corto: «Una volta che uno si candida, la notorietà si conquista in due mesi». Un affondo a cui contribuisce in maniera ancora più decisa Giorgia Meloni. «Ci sono dei profili che non sottovaluterei. E direi che anche un certo accanimento della sinistra sul professor Michetti, tradisce un nervosismo. Forse anche loro si rendono conto che la partita non è così facile, soprattutto se metti in campo qualcuno che ne sa più di loro su come si risolvono i problemi della Capitale. Michetti è un avvocato amministrativista: è quello che i sindaci chiamano per risolvere i problemi dei Comuni. Chi è che mi può salvare? Michetti...» dice ospite di Quarta Repubblica. «Lei si ricorda di Pulp fiction il film di Tarantino? Si ricorda di Io sono Wolf, risolvo i problemi?. Ecco, Michetti risolve i problemi dei sindaci». Partita aperta anche per Milano. Si attende la proposta di Matteo Salvini, ma restano in corsa la presidente di Ferderfarma Lombardia Annarosa Racca, il professore della Bocconi, Maurizio Dallocchio, il presidente dell'American Chamber Simone Crolla, il presidente dell'Ordine dei Giornalisti lombardo Alessandro Galimberti. Nelle ultime ore è stato fatto un nuovo tentativo con Guido Bertolaso per convincerlo questa volta a scendere in campo a Milano, ma ancora una volta senza esito».
BRUSCA TORNA LIBERO
Scontata la pena, Giovanni Brusca torna libero. Felice Cavallaro ha raccolto per il Corriere della Sera la reazione della vedova Schifani:
«Hanno veramente liberato quello che chiamavano "il maiale", "u verru" nel loro siciliano stretto? Brusca? L'assassino di Falcone e di mio marito Vito? Il boia di Francesca Morvillo e dei colleghi di Vito, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo?». Scatta una somma di interrogativi sul filo del telefono non appena Rosaria Schifani apprende la notizia della liberazione di Giovanni Brusca. È sconvolta la vedova di uno dei tre agenti dilaniati a Capaci dalla bomba azionata da Brusca. È accaduto in anticipo, ma si sapeva da un po' che sarebbe uscito... «Infatti, noi tutti che stiamo dalla parte opposta protestavamo da tempo. Ma che Stato è questo Stato che celebra con il presidente della Repubblica a Palermo il 23 maggio e, otto giorni dopo, manda a casa uno che fa saltare un'autostrada o fa sciogliere nell'acido un bambino per vendetta contro un pentito? È un regalo a Falcone? Il regalo di maggio?». Lei non c'era la settimana scorsa a Palermo davanti all'albero Falcone. «Ma c'era mio figlio Emanuele, capitano della Guardia della Finanza. È tornato nella città dove ha perduto il padre a 4 mesi. In divisa, nell'aula bunker, davanti al presidente della Repubblica, davanti alle autorità di uno Stato che in questo modo non rende onore ai suoi caduti». Dicono che in qualche modo Brusca ha collaborato con alcuni magistrati? «E se lo tengano stretto da qualche parte, ma non lo restituiscano alla comunità civile, come sto ripetendo stasera a mia figlia Erika, 21 anni, nata dopo che a fatica ho tentato di ricostruire la mia vita. Studia Giurisprudenza, mi guarda inorridita e non so che cosa dirle, come spiegarglielo. Lei s' addentra adesso fra le regole del diritto, ma che idea si dovrà fare di questo modo di amministrare il diritto?».
Francesco La Licata su La Stampa spiega però che anche questa liberazione è una vittoria dello Stato di diritto:
«Fa un certo effetto immaginare Giovanni Brusca che varca la soglia del carcere di Rebibbia da uomo libero, seppure sottoposto a qualche vincolo di controllo e, soprattutto, di protezione che lo terrà ancora per qualche anno sotto osservazione da parte di magistratura e investigatori. Già, Brusca "u verru" (il maiale), per dirla col terribile nomignolo riservatogli da qualcuno dei suoi detrattori dentro Cosa nostra, il killer di fiducia della "cupola" di Totò Riina, il mafioso mai completamente emendato, neppure dopo il clamoroso "pentimento", il figlio di don Bernardo torna uomo libero dopo 25 anni trascorsi in carcere. E la mente, quasi per riflesso condizionato, torna all'autostrada di Punta Raisi sventrata dal tritolo da lui innescato. Tornano quelle terribili immagini del 23 maggio 1992: Giovanni Falcone con le gambe tranciate, la moglie, Francesca, che chiede, prima di spirare, "dov' é Giovanni?". Le blindate accartocciate come scatolette e i resti di Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, la fedele scorta, sparsi per centinaia di metri. Può essere dimenticato tanto dolore? E può ancora soltanto impallidire il ricordo del piccolo Giuseppe Di Matteo?. Era un bambino quando Brusca lo prese in ostaggio per usarlo come "argomento convincente", nel tentativo di indurre Santino, padre del piccolo divenuto collaboratore dello Stato, a ritrattare le rivelazioni già verbalizzate sulla strategia stragista di Totò Riina. E non era ancora adolescente, Giuseppe, quando Brusca ordinò di strangolarlo (lo chiamavano "u canuzzu"). Fu Enzo Brusca, fratello di Giovanni, insieme con altri due animali, ad eseguire l'ordine e poi sciogliere nell'acido quel piccolo corpo denutrito. Ecco, tutto ciò basterebbe a classificare come "porcheria" la liberazione di Giovanni Brusca. Ma non è l'emotività, e non poteva esserlo, che ha guidato la mano dei giudici che hanno firmato la liberazione del mafioso divenuto collaboratore. Il dato certo, al di là del comprensibile smarrimento del cittadino spettatore, è che Giovanni Brusca esce dal carcere per fine pena. Cioè ha espiato le sue colpe, secondo un processo regolarmente celebrato e giunto a sentenza definitiva. Certo una pena non pesantissima (rispetto alle accuse provate e confessate), ma giustificate da una legge che offre sconti ai pentiti. Una legge, correttamente applicata dai giudici, che nel conteggio fra costi e ricavi ha portato vantaggi allo Stato. Basti pensare alle conoscenze, giudiziarie e non, acquisite da tante collaborazioni e a quante vite sono così state salvate».
SAMAN, LA RAGAZZA SCOMPARSA
C’è un fatto di cronaca che tende a essere ignorato dalla grande stampa. Michele Brambilla ne scrive in prima pagina del Quotidiano Nazionale. È la vicenda di Saman, la ragazza pachistana che aveva rifiutato il matrimonio combinato e che è sparita nel nulla. Secondo Brambilla, la sinistra è schiava del politicamente corretto e così non se ne parla.
«Questa ragazza il 27 ottobre dell'anno scorso si era rivolta ai servizi sociali del Comune chiedendo aiuto perché il padre le aveva combinato un matrimonio con un cugino che sta in Pakistan. Era finita in un centro di protezione del Bolognese. L'11 aprile è tornata a casa. Ma, dopo pochi giorni, è scomparsa, più o meno in contemporanea ad un'altra scomparsa: quella dei genitori, volati in Pakistan. La Procura della Repubblica ha aperto un'inchiesta per omicidio con cinque indagati: i genitori, due cugini e uno zio della ragazza. I carabinieri stanno cercando il cadavere in un campo dove si teme che Saman sia stata seppellita. Speriamo tutti in un lieto fine. Ma già così com' è, questa storia è molto, è incomparabilmente più grave di tanti altri casi che finiscono in prima pagina e ispirano battaglie politiche. Qui però tutti zitti. Dov' è la sinistra che parla tanto (senza poi tradurre in realtà) di quote rosa? Forse è nelle parole del deputato del Pd Andrea Rossi, secondo il quale chi parla del caso di Saman «strumentalizza politicamente». E chi tace cosa fa? Fa il suo dovere? Dell'assordante silenzio sulla vicenda di Novellara ha scritto ieri, su queste colonne, Beppe Boni. Il quale si è chiesto perché mai la società dei diritti non muova un dito. Azzardo una risposta. Forse, i professionisti del politicamente corretto temono che questa volta i diritti delle donne vadano a cozzare contro un altro totem del pensiero perbene. E cioè temono di sentirsi rivolgere l'accusa di razzismo. Temono di sentirsi dire una parola più grave di «maschilista». Temono insomma di sentirsi rivolgere l'epiteto di «islamofobo». Idiozie, perché non c'è nessuna fobia, non c'è nessuna guerra di religione nel dire che i matrimoni forzati sono una vergogna che si sperava superata da secoli, magari qualcosa di ben più grave di un sondaggio tv, specie se c'è di mezzo anche un'inchiesta per omicidio. La storia di Saman viene trattata dai giornali come un caso di cronaca nera. Speriamo che qualcuno si accorga che c'è molto di più».
STRAGE DELLA FUNIVIA, NUOVE INDAGINI
Dopo la sentenza del Giudice che ha scarcerato i tre indagati, la vicenda della strage della funivia sembra ricominciare dalle indagini. Luigi Guastella sul Corriere:
«Gli investigatori stanno cercando ulteriori conferme che corroborino i loro sospetti dopo le questioni giuridiche che hanno visto crollare di fronte al gip Donatella Banci Buonamici la tesi della Procura secondo la quale il titolare delle Ferrovie del Mottarone Luigi Nerini e il direttore d'esercizio Enrico Perocchio erano a conoscenza ed avallavano la «consuetudine scellerata» del capo servizio Gabriele Tadini di disinserire con i forchettoni il freno di emergenza nella cabina per evitare di fermare l'impianto e perdere gli incassi. I pm valutano se chiedere al Tribunale del riesame di annullare l'ordinanza del gip che ha scarcerato Nerini e Perocchio per mancanza di indizi sufficienti e ha messo ai domiciliari Tadini. Restano loro, al momento, gli unici indagati, accusati di concorso in omicidio colposo plurimo e lesioni gravissime e di rimozione di sistemi di sicurezza, Tadini anche di falso, ma è molto probabile che ai loro nomi presto si aggiungeranno quelli dell'addetto che domenica mattina ha eseguito l'ordine del capo servizio di lasciare inseriti i forchettoni che hanno impedito ai freni di emergenza di funzionare e di fermare la cabina evitando che precipitasse con il suo carico di vite umane. Ed è altrettanto scontato che anche i rappresentanti delle aziende che si sono occupate della manutenzione della funivia e hanno rilasciato le certificazioni che hanno permesso di proseguire il servizio di trasporto dei turisti finiranno nel registro degli indagati e riceveranno un avviso di garanzia per consentire loro, come agli altri, di nominare i propri consulenti che parteciperanno alle operazioni dei tecnici incaricati dalla procuratrice Olimpia Bossi e dal sostituto Laura Carrera».
LA LIBIA PER DRAGHI, IL LIBANO PER IL PAPA
Ieri la visita a Roma del premier libico ha dato l’occasione a Draghi di ribadire la posizione dell’Italia sulla Libia e sullo spinoso tema dei migranti. Paolo Brera su Repubblica:
«Assicurare il pieno rispetto dei diritti dei rifugiati e dei migranti è un dovere morale, ed è anche nell'interesse della Libia. L'Italia continuerà a fare la sua parte, ma serve un'azione della Ue rapida e concreta». Il presidente del Consiglio Mario Draghi stavolta usa parole molto chiare al termine del suo lungo incontro a Palazzo Chigi con il premier libico Abdulhamid Dbeibah. L'ultima volta che lo aveva visto, il 6 aprile a Tripoli, aveva ringraziato la Guardia costiera libica «per i salvataggi in mare», suscitando critiche feroci. Dbeibah è arrivato a Roma accompagnato da sette ministri di primo piano. Se n'è andato ieri sera più che soddisfatto di un'accoglienza dal forte impatto economico e politico: alla Farnesina, in mattinata, ha incontrato 32 grandi gruppi industriali italiani interessati alla ricostruzione libica. Energia, infrastrutture, telecomunicazioni: da Enel a Eni, da Snam a Retelit, da Italtel al gruppo Psc. Nel pomeriggio è arrivata la consacrazione politica: «Abbiamo toccato tantissimi temi - dice Draghi - tra cui due particolarmente importanti: la collaborazione in campo sanitario ed energetico. La Libia è già un grande partner per le energie tradizionali, ma oggi si è discusso di avviare una collaborazione nel capo delle energie rinnovabili: le nostre aziende sono pronte». In un Paese che cammina su riserve fossili immense con un deficit clamoroso nella capacità di trasformazione, e che ha una rete elettrica primordiale e devastata, i blackout continui sono uno dei principali problemi dei libici, e un gran motivo di scontento. Nelle priorità di Draghi e Dbeibah c'è subito «l'autostrada costiera», ma per poter «mettere a terra i progetti», come dice il presidente del Consiglio, «torniamo alla questione della riconciliazione nazionale e del cessate il fuoco». Il governo di unità e di transizione, che deve traghettare la Libia verso le prime elezioni democratiche di dicembre, è in difficoltà sul piano politico, con il Parlamento che non gli approva il bilancio necessario agli investimenti infrastrutturali e con la Cirenaica, controllata di fatto dai russi con finanziamento degli Emirati, ostile e riottosa. Per questo è fondamentale per Roma sostenere il governo Dbeibah. L'autostrada costiera, l'aeroporto internazionale di Tripoli; i campi solari nel Fezzan; le reti elettriche, idriche e delle telecomunicazioni digitali; la costruzione di scuole e ospedali sono terreno fertile per le nostre imprese, ma la precondizione resta la sicurezza e la stabilità. «Abbiamo preso in esame il controllo delle frontiere libiche anche meridionali - dice Draghi - il contrasto al traffico di esseri umani, i corridoi umanitari e lo sviluppo delle comunità rurali».
Nuova iniziativa di Papa Francesco sul Libano. Lo riporta Avvenire.
«L'annuncio, subito dopo l'Angelus di domenica, è stato la conferma di una preoccupazione ricorrente in questi mesi per papa Francesco. «Il prossimo 1° luglio - ha affermato il Pontefice - mi incontrerò in Vaticano con i principali responsabili delle comunità cristiane presenti in Libano». La riunione, ha specificato papa Bergoglio, prevede «una giornata di riflessione sulla preoccupante situazione del Paese» e servirà «per pregare insieme per il dono della pace e della stabilità». Francesco ha affidato la riflessione «all'intercessione della Madre Dio, tanto venerata al santuario di Harissa» dove è situata l'imponente statua di Nostra Signora del Libano che domina tutto il golfo di Beirut. «Fin da questo momento vi chiedo di accompagnare la preparazione di questo evento con la preghiera solidale, invocando per quell'amato Paese un futuro più sereno», ha concluso Bergoglio. Un appello che non ha sorpreso, dato che l'8 marzo scorso, sul volo di ritorno da Baghdad, Jorge Bergoglio rispondendo alla domanda di un giornalista libanese, aveva fatto sapere che il cardinale Bechara Boutros Rai gli aveva chiesto, di ritorno da Baghdad, di «fare una sosta a Beirut, ma mi è sembrato un po' poco. Una briciola davanti a un problema, a un Paese che soffre come il Libano», disse. E aveva rivelato di aver scritto una lettera al patriarca maronita in cui prometteva di fare un viaggio. «Ma il Libano - aveva affermato il Papa sul volo di rientro da Baghdad - in questo momento è in crisi, ma in crisi, non voglio offendere, in crisi di vita». Il Libano, aveva concluso «è tanto generoso, nell'accoglienza dei profughi», lasciando intendere che quello sarebbe stato un secondo viaggio, dopo quello in Iraq, nel Medio Oriente».
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.