La Versione di Banfi

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Il Cav a ruota libera

alessandrobanfi.substack.com

Il Cav a ruota libera

Berlusconi parla a lungo e rimette in discussione l'accordo sul governo. Cita anche Putin ("lettera dolcissima") e allude al compagno di Meloni lavoratore in Mediaset. Buone notizie sul gas

Alessandro Banfi
Oct 19, 2022
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Il Cav a ruota libera

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Vista in soggettiva, mettendosi nei panni di Giorgia Meloni, la giornata di ieri è stata un incubo. I due ministri più importanti e fino a ieri ben definiti, in una lista di governo che ha ancora margini di correzione, Antonio Tajani agli Esteri e Giancarlo Giorgetti al Ministero dell’Economia e Finanze, sono stati investiti da due cicloni. In più l’assegnazione del Ministero della Giustizia è tornata sul tavolo come questione decisiva e divisiva. La stessa vicenda dei rapporti con Mediaset si è complicata. Le lunghe esternazioni di Silvio Berlusconi all’uscita del Senato, soddisfatto che Licia Ronzulli sia diventato capogruppo del partito, hanno infatti provocato un piccolo terremoto. Il Cav è andato a ruota libera, dentro e fuori il Palazzo, e questo è il ciclone che ha investito anzitutto Tajani. Potrà andare ancora alla Farnesina un esponente di Forza Italia, dopo quello che ha detto Berlusconi sulle “lettere dolcissime” scambiate con Vladimir Putin? La polemica che ha messo in difficoltà Giorgetti riguarda invece una foto di Benito Mussolini comparsa nelle celebrazioni del centenario del palazzo del Ministero dello sviluppo economico, il Palazzo Piacentini, inaugurato il 30 novembre del 1932. Pierluigi Bersani, altro ex ministro, ha chiesto di essere tolto dalla galleria di ritratti dei predecessori di Giorgetti. Il leghista ha acconsentito ma ha ricordato che c’è un altro ritratto del Duce fra gli ex anche a Palazzo Chigi. Al di là degli scontri verbali e delle incontinenze del Cav, la sostanza è che il governo, ancora prima di partire, subisce grandi scossoni di immagine e di affidabilità, a cominciare dai Ministri che sembravano, sulla carta, i più tranquillamente forti.

Di fatto l’accordo siglato lunedì pomeriggio in via della Scrofa, la “Canossa” di Berlusconi, è stato già messo in discussione. Il fondatore di Forza Italia ha picconato l’accordo raggiunto, sostiene il Corriere riprendendo un’immagine di Francesco Cossiga. E lo ha fatto, per rimanere al vocabolario dell’ex Presidente, “esternando”. La domanda di queste ore sul Cav è: le parole di ieri sono “voci dal sen fuggite” o si tratta di punti toccati apposta perché in grado di rimettere tutto in gioco? Fra l’altro ora che Licia Ronzulli ha un suo ruolo distinto (raccontano che ieri è stata molto sorpresa dell’uscita a ruota libera del Cav) non appare più sempre accanto al leader, un passo a lato. Ne rimpiangeremo l’assistenza quotidiana? Non è che le opposizioni siano messe molto meglio. Come nota Maria Teresa Meli in quella che appare come una filastrocca: “Enrico Letta non parla con Calenda, Renzi e Conte. Conte non parla con Letta, Calenda e Renzi. Gli ultimi due si guardano bene dal voler parlare con Conte. E qualcuno insinua che anche tra il capo di Azione e quello di Iv ci sia qualche dissidio, visto che Renzi non parteciperà alle consultazioni”. 

Le notizie dal campo bellico ci raccontano di un cambio di strategia dei nuovi generali russi. Vogliono ritirarsi da Kherson ma intanto bombardano capillarmente l’Ucraina con i droni e i missili iraniani, colpendo le linee di luce e gas. In poche ore il 30 per cento di tutto il Paese è stato ridotto al buio (per ammissione dello stesso Volodymyr Zelensky) e l’inverno è alle porte. Avvenire dà molto spazio alle iniziative di pace, con la raccolta di firme sotto l’appello lanciato da diversi intellettuali. Sul Fatto ne parla il sociologo cattolico Mauro Magatti.

Buone notizie sul fronte dell’emergenza energetica. La commissaria Von der Leyen tira dritto sulla linea della proposta di Draghi per un “tetto dinamico” al prezzo del gas. Ci sono ancora resistenze di Germania, Paesi Bassi e Austria. Ora toccherà ai capi di Stato e governo, riuniti da domani, prendere una decisione sempre più necessaria. Intanto, anche grazie alle previsioni sul Consiglio d’Europa, i prezzi del gas stanno crollando. Il solitamente pessimista Davide Tabarelli, esperto energia di Nomisma, dice al Sole 24 Ore: “Siamo tornati ai livelli di giugno perciò a 4 mesi fa”.

Per le altre notizie dall’estero, segnaliamo ancora le proteste in Iran che si allargano, nonostante le continue violenze degli Ayatollah e l’arresto di un Vescovo cattolico in Eritrea. A proposito di presuli e Chiesa cattolica, Guido Santevecchi sul Corriere della Sera annuncia che il Vaticano ufficializzerà a fine settimana la proroga dell’accordo con la Cina.

L’educazione è una questione aperta nel nostro Paese, di cui non ci si occupa abbastanza. È nata così l’idea di Riccardo Bonacina e della redazione di Vita.it, di realizzare un nuovo podcast sul tema con Chora media e con la collaborazione della Fondazione Cariplo, che è da sempre impegnata sul fronte del contrasto alla povertà educativa. È da ieri disponibile il nuovo e terzo episodio della serie Maestre e maestri d’Italia, intitolato L’ESPERIENZA, I SENSI E L’ALFABETO DELLA PACE, ed è dedicato alla grande esperienza di Maria Montessori, dalla quale è scaturita una vera epopea nel mondo dell’educazione che ha influenzato molte generazioni ai quattro angoli della terra. La Montessori, intervistata in francese alla radio nel 1936, dice: “Il mondo intero deve alzarsi in difesa dei bambini perché il bene o il male della società di domani dipende da loro. Già in diversi Paesi, ad esempio, esiste un Ministero dell'infanzia e trovo che se esiste un Ministero delle poste e dei telegrafi, delle comunicazioni e così via, è molto necessario avere anche un ministero dedicato alla difesa e alla protezione della specie umana”. Cercate questa cover…

… e troverete Maestre e maestri d’Italia su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate qui sul link di Spreaker e ascoltate il terzo episodio. Da far girare anche in whatsapp!

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae Silvio Berlusconi durante le sue dichiarazioni ieri con la stampa, dopo la designazione dei capigruppo di Forza Italia per Camera e Senato.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera riesuma un’immagine cossighiana: Berlusconi piccona l’accordo. Il Domani attacca: Ecco in che mani è finita l’Italia. Il Cav porta il caos in maggioranza. Il Fatto cita Calvino: Berluscomiche. Il Giornale, preso dal pudore, titola timidamente: Rebus giustizia. Il Quotidiano Nazionale punta sull’immagine internazionale: Il Cavaliere su Putin spiazza Meloni. Il Manifesto rimette in prima una vecchia foto di Berlusconi con Putin: L’amico ritrovato. Per Il Mattino il guaio sono le frasi su Mosca: Berlusconi, ora il caso Putin. Il Messaggero la vede più ampia: Da Casellati al caso Putin, il Cav agita la maggioranza. La Repubblica non cita neanche il Cav e lancia l’allarme: Meloni ostaggio dei filorussi. La Stampa mette in primo piano Mr. B: Berlusconi straparla, Meloni furiosa. La Verità è perentoria: Il Cav ributta tutto all’aria. Libero lancia un accorato appello: Silvio, fermati! Avvenire tematizza le manifestazioni in piazza contro la guerra: Tutte le voci della pace. Il Sole 24 Ore fa sperare i morosi: Tasse e multe, il nuovo Governo prepara un’altra rottamazione delle cartelle.

LE ESTERNAZIONI DI BERLUSCONI SCUOTONO IL GOVERNO

Silvio Berlusconi parla a ruota libera dopo la designazione dei capigruppo di Camera e Senato. La cronaca è quella di Antonio Bravetti sulla Stampa.

«Senza più freni. Silvio Berlusconi a ruota libera lancia il centrodestra a cento all'ora verso il caos. Come in un "best of", il cavaliere attinge a tutto il repertorio: dichiarazioni bomba su Putin poi ritrattate («Ho riallacciato i rapporti»), richieste iperboliche di ministeri, barzellette, allusioni, ammiccamenti. «Non ho chiesto nessun perdono» a Giorgia Meloni, giura. Al termine di una giornata passata tra i palazzi della politica, se ne va dopo aver appiccato l'incendio e nel tardo pomeriggio si fa fotografare assieme alla quasi moglie Marta Fascina in gelateria, sereno e sorridente: «Marta ha optato per un buon gelato, mentre io non ho resistito ad una crêpes». Una scena degna del Caimano. Che dall'Europa guardano con crescente disagio: «Quella su Putin è una deriva senza precedenti», dice la presidente del gruppo Socialisti & democratici Iratxe Garcia Perez. In mattinata Berlusconi incassa l'elezione dei nuovi capigruppo di Fi, come da lui indicati: Licia Ronzulli al Senato e Alessandro Cattaneo alla Camera. A metà pomeriggio la bomba, lanciata dall'agenzia LaPresse. Incontrando i deputati, Berlusconi confessa di aver «riallacciato i rapporti con Putin» che gli avrebbe regalato «20 bottiglie di vodka per il compleanno», accompagnate da «una lettera dolcissima», da lui ricambiate con del «Lambrusco e una lettera altrettanto dolce». Si dice «molto, molto, molto preoccupato» per il conflitto: «Se Kiev entra nella Nato sarà la terza guerra mondiale. Io non posso personalmente fornire il mio parere perché se viene raccontato alla stampa viene fuori un disastro, ma sono preoccupato». Detto, fatto: il «disastro» è servito. Siccome le frasi arrivano da una riunione a porte chiuse con i deputati di Forza Italia, lo stato maggiore del partito prova a smentire. «La vodka? È una storiella del 2008», precisa Antonio Tajani che sogna da ministro degli Esteri. In serata escono gli audio di Berlusconi che confermano tutto. «La nostra posizione - ribadisce il partito messo alle strette - è in linea con quella dell'Europa e degli Stati Uniti. Non esistono margini di ambiguità». Le opposizioni insorgono. Enrico Letta attacca: «Non è folklore, non sono battute. La maggioranza è sempre più ambigua nei confronti della Russia». Berlusconi è «in luna di miele con Putin - rincara Giuseppe Conte - se vogliono guidare l'Italia in questa direzione andranno a sbattere contro un muro». Per Benedetto Della Vedova (+Europa) «le parole di Berlusconi sono inumane». Osvaldo Napoli (ex Fi ora in Azione) lo definisce «una mina vagante». Anche Fabio Rampelli (Fdi) gli tira le orecchie: «Ormai il solco con Putin è incolmabile».
Arginare il cavaliere in libera uscita è impossibile. Per una toppa messa (male) su Putin, l'acqua zampilla da altri buchi. In mattinata Berlusconi rivela che Meloni gli ha chiesto «di essere suo consigliere». Lui accetta e dispensa, da subito: «Da capo di un governo deve imparare a usare il condizionale. Quando parli dei tuoi alleati dovresti dire "il Senato mi piacerebbe tenerlo per Fdi" e non "il Senato è mio", perché così non si fa». Rimasto a digiuno dall'elezione dei presidente delle Camere, Berlusconi pretende un risarcimento: «Gli abbiamo chiesto tre ministeri - rivela - mi ha riso in faccia, ne ho chiesti due, ha riso ancora, ne ho chiesto uno, ha detto ok. Questa è la situazione che ho trovato». I consigli non finiscono qui. Anche se assomigliano ad altro: «Ho un rapporto di amicizia con lei, mio figlio ha un rapporto di amicizia, il suo uomo lavora a Mediaset...». Una frase gettata lì, sul compagno di Giorgia Meloni, che lei avrebbe preso molto male. Tra una dichiarazione e l'altra Berlusconi trova il tempo per una barzelletta (questa sì, vecchia) su di lui, Biden, Putin e il papa. Poi, prova ad azzoppare il già delicato accordo sulla squadra di governo, rilanciando Elisabetta Casellati come «soluzione giusta» per la Giustizia. Opzione «infondata», dicono da Fdi, dove restano fermi su Carlo Nordio. Una fuga in avanti sulla lista quella di Berlusconi che Maurizio Lupi, capo politico di Noi Moderati, giudica «inopportuna». Ma il Cavaliere non molla nulla. Incassa, rincula, barcolla, ma poi contrattacca. Una specie di vendetta».

MELONI NON L’HA PRESA BENE

Giorgia Meloni reagisce con grande freddezza: perché queste uscite? Si chiede, e risponde: per rendermi la vita difficile. Il retroscena di Paola Di Caro per il Corriere.

«Ufficialmente è «no comment», seguito da una eloquente postilla: «Freddo silenzio». Ma la verità è che il ciclone Berlusconi che si è abbattuto ieri sulla maggioranza ha fatto infuriare Giorgia Meloni. «Siamo tutti senza parole...», allargano le braccia i fedelissimi: «Giorgia deve lottare contro tutto». Divisi tra chi pensa che ci sia qualcosa sotto nel dipanarsi impazzito della giornata di ieri e chi invece che il Cavaliere parli ormai «in libertà», abbia come «perso i freni inibitori» e dica «tutto quello che gli passa per la testa». Lei, che già aveva faticato a chiudere l'incidente del non voto a La Russa e il foglietto del Cavaliere, è sicuramente tra i sospettosi: in Forza Italia, è il suo timore, c'è chi vuole «rendermi la vita difficile». Magari non con un sabotaggio studiato nei particolari, ma con un clima fatto di parole e azioni per rendere il cammino del suo governo più accidentato. O almeno per limitarne una leadership che Berlusconi continua a far fatica a riconoscerle. Troppi i segnali lasciati sul campo in una giornata infinita, è stato il ragionamento fatto con i suoi. Le pretese di Berlusconi sul ministero della Giustizia, che ha detto di considerare certo per la sua Casellati, quando «avevo detto chiaramente che non c'era nessuna decisione e che prima era bene che andasse a parlare con Nordio, che è la persona giusta»; lo snocciolare da parte dell'ex premier la lista della delegazione azzurra senza alcun rispetto per il ruolo di Mattarella; l'accenno al suo «uomo che lavora a Mediaset», che «cosa mai c'entrava? - si è sfogata -. Che intendeva? Io ho conosciuto Andrea che già lavorava a Mediaset, e non mi pare che grazie a me abbia avuto alcun favore. È un'uscita incredibile...». E poi, la clamorosa dichiarazione sulla Russia.
«Possibile che abbiano permesso che quelle parole uscissero fuori dalla riunione? Nessuno controlla? Perché lo lasciano libero di parlare a ruota libera, sapendo come è fatto Berlusconi? E soprattutto, perché lo fanno dopo averlo montato, eccitato, alimentato di rabbia?», la domanda che ieri pomeriggio si facevano tutti nella riunione. Perché come ha ripetuto Meloni che scherzando già nei giorni scorsi aveva usato l'immagine, è vero che «Berlusconi è come lo scorpione con la rana: punge anche se sa che morirà anche lui, come lo scorpione è "fatto così", è più forte di lui». Ma «quando ha parlato con me sembrava molto più ragionevole. Poi torna dai suoi fedelissimi ed ecco qui...». Nel partito quindi si punta il dito sul suo entourage , da Ronzulli a Miccichè a Gasparri, anche se la neo capogruppo a chi era con lei quando sono state diffuse le dichiarazioni bomba del Cavaliere era sembrata «sorpresa davvero».
In ogni caso, adesso bisogna pensare alle contromisure.  Meloni è convinta che ancor più tocchi a lei comporre la lista dei ministri come le parrà opportuno. Non ci sarà vendetta però: Casellati - è la convinzione - non farà problemi sul ministero che le verrà destinato, che per Meloni non potrà essere la Giustizia.
Sugli altri nomi, deciderà lei chi andrà dove. Dovrebbe essere confermato Tajani, nonostante qualcuno abbia dubbi sull'opportunità di nominarlo agli Esteri dopo l'uscita pro Putin di Berlusconi. Comunque, dicono da FdI «Giorgia è la migliore garanzia possibile, per la sua posizione cristallina sulla guerra, sul sostegno all'Ucraina e il rispetto dei patti degli alleati». Insomma, si garantisce da sola. Potrebbero cambiare alcune caselle che vengono date per attribuite (anche lo Sviluppo economico, dove Crosetto sembrava sicuro), ed è possibile che ci siano sorprese quindi che coinvolgono i candidati ministri di FdI: lei avrebbe qualche nome tecnico ancora coperto. Certo bisogna accelerare per evitare altri incidenti: Meloni conta sull'incarico venerdì sera, per presentare la lista già sabato o domenica (qualcuno mette in dubbio pure la delegazione che si presenterà al Quirinale, anche se ieri sera resisteva l'idea di andare tutti assieme). Per poi nominare i ministri, senza sfiancanti trattative ma solo contatti (oggi potrebbe vedere Salvini). Una volta indicati i nomi, pensano in FdI, nessuno potrà andare oltre il malumore. Il manico del coltello è ancora nelle sue mani».

IL CALENDARIO DELLA CRISI

Ecco il cronoprogramma del Quirinale, condiviso dalla premier in pectore. Corsa contro il tempo per giurare già domenica. Angelo Picariello per Avvenire.

«Incarico venerdì alla fine del Consiglio Ue. L'obiettivo: premier in carica per l'arrivo del presidente francese Roma Tutti gli indizi portano a ritenere che entro il fine settimana avremo in carica il nuovo governo e la prima presidente del Consiglio donna. Al Quirinale si lavora perché nessun ritardo possa essere addebitabile agli adempimenti di propria competenza. Tutti i passaggi costituzionali, naturalmente, andranno esperiti, ma si lavora per arrivare al giuramento dei ministri entro domenica, che è poi l'obiettivo anche di Giorgia Meloni. A portarlo alla luce è una nota dell'Eliseo che «non esclude» un incontro di Emmanuel Macron con lei nell'ambito della visita che il presidente francese ha in programma per domenica e lunedì a Roma, mentre sin qui di una tale eventualità non si era ancora parlato. Il tema della visita è l'attuazione del "Trattato del Quirinale" firmato da Italia e Francia nel novembre dello scorso anno, che prevede un'intesa più stretta e una sorta di patto di consultazione fra Roma e Parigi. Mattarella, come si ricorderà, era dovuto intervenire in difesa delle istituzioni italiane a replicare alle parole della ministra francese per gli Affari europei Laurence Boone, che aveva annunciato una «vigilanza» sulle mosse del nascituro governo italiano. Volendo escludere che Macron possa incontrare una presidente del Consiglio non ancora in carica ma solo "incaricata", è chiaro che l'obiettivo di tutti è ora poter partire con il piede giusto, con un incontro chiarificatore anche con la neo-premier italiana, oltre che con Mattarella. Per arrivarci il cronoprogramma prevede che le consultazioni, completate le procedure delle nomine dei capigruppo e delle elezioni di tutti gli organismi di vertice delle Camere, si tengano da giovedì mattina per tutta la giornata, lasciando a venerdì mattina solo l'incontro con la delegazione congiunta della maggioranza, per spianare la strada al nuovo governo. Al che, nel tardo pomeriggio di venerdì, Meloni verrà chiamata al Colle per ricevere l'incarico. Non prima, perché Sergio Mattarella avrà cura di aspettare che Mario Draghi concluda il suo ultimo importante impegno, ossia il Consiglio europeo in programma giovedì e venerdì, per una questione di garbo istituzionale e rispetto per il presidente uscente. Resta solo da capire quanto tempo vorrà dedicare la presidente incaricata nel sentire le delegazioni, prima di presentarsi di nuovo al Quirinale con la lista pronta. L'obiettivo è quello di arrivarci entro sabato, in modo, come detto, da arrivare al giuramento per domenica. Nella fretta non si arriverà, però, a ripetere il precedente del 1994 in cui Silvio Berlusconi si presentò da Oscar Luigi Scalfaro con un foglietto già pronto con la lista dei ministri ma poi ci fu il famoso "sbianchettamento" della casella di Cesare Previti, passato dalla Giustizia alla Difesa. Nessuna lista già fatta, quindi, ma a quanto risulta sui ministri in pectore di cui si parla non dovrebbero esserci problemi particolari nell'interagire (alla luce della Costituzione) col capo dello Stato, soprattutto sulle caselle che maggiormente toccano le prerogative del capo dello Stato che è presidente del Csm, del Consiglio supremo di Difesa e garante dei Trattati internazionali. Alla Giustizia non dovrebbero esserci problemi per Carlo Nordio, un tecnico di grande esperienza, o in alternativa su una ex presidente del Senato come Elisabetta Alberti Casellati. Alla Difesa un nome con il profilo e l'esperienza di Adolfo Urso non dovrebbe incontrare obiezioni e - per quanto riguarda i rapporti internazionali e con la Ue - la figura di Giancarlo Giorgetti offre le necessarie garanzie, altrettanto dicasi agli Esteri per un ex presidente del Parlamento europeo come Antonio Tajani, che - come ragionava lui stesso ieri in Transatlantico - sarà anche impegnato, da vice presidente del Ppe, a garantire i buoni uffici con la Ue, in una linea di continuità tendenziale sul Pnrr, al netto dell'impulso e delle correzioni di rotta che Meloni intende certamente dare. Anche l'Interno ha, è chiaro, le sue implicazioni internazionali sul tema dei migranti, per il rispetto di Trattati, accordi e diritti e in questo senso una figura come il prefetto di Roma Matteo Piantedosi offrirebbe e, anche per il Quirinale, le giuste garanzie».

“NON POSSIAMO AVERE UN GOVERNO DOLCISSIMO CON PUTIN”

La Versione oggi sceglie due commenti sull’uscita del Cav. Il primo è di un avversario dichiarato, Stefano Feltri, direttore del Domani.  

«E così cade anche l'ultima ipocrisia del nascente governo Meloni: la garanzia di un saldo ancoraggio alla linea occidentale di fronte all'aggressione russa all'Ucraina. L'esecutivo ancora non è nato e già ha perso ogni credibilità, in via definitiva dopo che tutti abbiamo potuto sentire l'audio diffuso dall'agenzia LaPresse. Silvio Berlusconi non è mai cambiato, è sempre lo stesso, l'uomo che ha portato l'Italia sul baratro finanziario, morale e giudiziario. Berlusconi che si lancia in un comizietto sull'amico Vladimir Putin con cui si scambia bottiglie e «lettere dolcissime». Berlusconi che ammette di mentire alla stampa sulle sue vere opinioni sulla guerra, e che si vanta di aver riallacciato i rapporti con un leader che il resto dell'Occidente vuole processare per crimini di guerra. Un governo di centrodestra che si professa alleato leale degli Stati Uniti e membro attivo dell'Unione europea può forse (forse) rendere innocuo il putiniano Matteo Salvini. Ma due leader su tre dei partiti principali della coalizione che intrattengono rapporti personali e occulti con Mosca sono un problema di sicurezza nazionale. E lo sanno anche gli esponenti anonimi di buon senso di Forza Italia che hanno prima registrato e poi diffuso l'audio, per mettere anche Meloni di fronte al delirio senile di un ricco signore che continua a usare la politica a scopi esclusivamente privati: ieri per difendere l'impero mediatico, oggi per preservarne l'eredità da lasciare ai figli, regolare antichi debiti con l'organizzatrice delle serate di Arcore Licia Ronzulli e per sentirsi ancora un protagonista degli affari internazionali, una favola alla quale non crede più neppure il barboncino Dudù. Che fosse soltanto un sopravvissuto a sé stesso lo avevamo capito a gennaio quando reclamava la presidenza della Repubblica ma non poteva neppure apparire perché era ricoverato in ospedale. L'Italia di Meloni pare uscita da 1984 di George Orwell: un partito che non è postfascista ed elegge Ignazio Benito La Russa alla presidenza del Senato; un pregiudicato che torna in parlamento e invece di ringraziare i medici che gli anno permesso di vivere abbastanza da espiare la pena reclama il ministero della Giustizia; un partito gemellato con Russia Unita di Putin che indica il ministro dell'Economia che dovrà discutere le sanzioni contro Mosca. Silvio Berlusconi è sempre stato un pericolo per il paese, adesso è un buco nero di nichilismo esistenziale e politico che può assorbire e distruggere anche il centrodestra che ha contribuito a creare. Giorgia Meloni può solo scegliere se lasciarsi fagocitare o tentare di emanciparsi davvero, finché è ancora in tempo».

“NON AFFOSSI IL SOGNO DI MELONI”

Rispettoso e quasi affettuoso Alessandro Sallusti scrive dalle colonne di Libero una “lettera dolcissima” a Berlusconi, in cui gli chiede di smettere.

«Caro presidente Berlusconi, ieri ci ha informato, tra l'altro, di uno scambio di "dolcissime lettere" tra lei e Vladimir Putin in occasione del suo compleanno. Dal basso dell'affetto e della riconoscenza che nutro nei suoi confronti mi permetto, nel mio piccolissimo, anche io di inviarle una letterina, spero altrettanto dolce. Per dirle una cosa molto semplice: non la capisco più, e non essendo l'unico penso che il problema non sia mio. Lei, presidente, poche settimane fa ha compiuto l'ennesimo miracolo della sua vita tenendo - i voti raccolti sono tutti suoi personali - Forza Italia in vita e al centro dell'arena politica. Chapeau, e se la pattuglia parlamentare non è risultata all'altezza del consenso raccolto lo si deve immagino esclusivamente a errori da voi fatti al tavolo dovevi eravate spartiti i seggi con gli alleati. Lei ora dice, uso parole mie: Giorgia Meloni non ci rispetta. Non entro nel merito, ma certo svelare a due giorni dalla nascita di un governo già nel mirino di suo l'affettuoso carteggio tra lei e Putin non agevola certo il compito che aspetta la futura premier, e quindi l'Italia, nei consessi internazionali occidentali, né il lavoro del suo Antonio Tajani nel caso, come probabile, andasse a ricoprire il ruolo di ministro degli Esteri. So bene poi che quando lei dice che "l'uomo della Meloni" è un suo dipendente a Mediaset non intende offendere nessuno, né si può leggere come una malignità di cui so non esserne capace. Ma sta di fatto che, al netto che quell'uomo era suo dipendente ben prima di conoscere Giorgia, più d'uno userà quelle parole per costruire castelli di sabbia che rischiano solo di mettere in imbarazzo la famiglia Meloni. Ovvio infine che lei è Silvio Berlusconi, che lei può fare e dire ciò che crede come del resto ha sempre fatto. Ma chi non la conosce come ho avuto io l'onore e il privilegio di conoscerla potrebbe equivocare ogni sua parola e pensare che davvero lei in questo momento voglia affossare il sogno non di Giorgia Meloni ma di una buona parte di italiani. Ecco, caro Presidente, questo sarebbe troppo anche per Silvio Berlusconi. Se a lei fosse concesso di incontrare la sua gente, i suoi imprenditori che ancora la seguono, lo verificherebbe di persona. Tanto le dovevo, con affetto».

LA GUERRA DEI DRONI IRANIANI

A proposito di Putin, ecco le notizie dal fronte bellico. Raid russi senza tregua, un terzo dell'Ucraina al buio, blackout in mille città. Stormi di droni su Kiev ma Mosca si prepara a ritirarsi da Kherson. Giuseppe Agliastro per La Stampa.

«I missili e i droni del Cremlino si abbattono senza tregua sull'Ucraina. Una nuova pioggia di razzi secondo le autorità di Kiev ha lasciato senza acqua ed energia elettrica paesi e intere città prendendo di mira ancora una volta infrastrutture di fondamentale importanza per la popolazione civile. I danni sarebbero enormi, soprattutto con l'inverno ormai alle porte. «Dal 10 ottobre, il 30% delle centrali elettriche è stato distrutto, causando massicci blackout in tutta l'Ucraina», ha denunciato il presidente Zelensky. Mentre i servizi di emergenza hanno annunciato che «al momento 1.162 centri abitati restano senza elettricità». Una situazione drammatica, e ancora più terribile se si pensa ai civili uccisi dai bombardamenti di questi ultimi giorni: più di 70 in una settimana e mezzo, sottolineano le autorità ucraine, a cui si aggiungono quasi 300 feriti. «È necessario che l'intero Paese si prepari a interruzioni di elettricità, acqua e riscaldamento», avvertono dall'amministrazione presidenziale, mentre la popolazione viene esortata a limitare al massimo l'uso dell'energia elettrica dalle 7 alle 9 del mattino e dalle 5 del pomeriggio alle 10 di sera. Anche a Kiev ci sono quartieri rimasti senza elettricità o acqua dopo i bombardamenti, e il governo ucraino accusa il Cremlino di voler «terrorizzare e uccidere i civili». Secondo il sindaco della capitale, Vitaly Klitschko, ieri a Kiev sono state colpite due "infrastrutture critiche" e sono state uccise almeno tre persone. Ma bombe e missili si sono abbattuti anche sulle regioni di Kharkiv, Zaporizhzhia e Dnipro, dove è stata colpita un'infrastruttura elettrica e l'amministrazione locale ha detto che potrebbe essere spenta l'illuminazione stradale. Ma pure a Zhytomir, dove secondo il sindaco gli ospedali sono passati «all'alimentazione di riserva». Nell'atroce guerra ordinata da Putin sono morte decine di migliaia di persone, tra cui moltissimi civili. Lunedì le città ucraine sono state colpite dai droni, che hanno ucciso almeno nove persone tra Kiev e Sumy. Secondo il governo ucraino a mietere vittime tra i civili sono stati droni kamikaze di fabbricazione iraniana, gli Shahed-136. Russia e Iran negano, ma la Bbc riporta che, stando a «funzionari occidentali in Ucraina», non c'è dubbio sul fatto che i droni provenissero dall'Iran, e il ministro degli Esteri ucraino Kuleba ventila la possibilità di un'interruzione dei rapporti diplomatici con Teheran e chiede all'Ue altre sanzioni. Di fronte ai nuovi bombardamenti, Kiev intanto ha incassato la promessa della Nato che «a giorni» riceverà moderni sistemi di difesa aerea per proteggersi dai droni. Pare invece proseguire la controffensiva ucraina a Sud, dove il nuovo comandante russo Serghei Surovikin ha annunciato che, di fronte alla situazione «complicata», si prepara l'evacuazione dei civili da Kherson, città occupata dai militari all'inizio dell'invasione: «Il nemico continua ad attaccare le posizioni delle forze russe. Ulteriori azioni a Kherson dipenderanno dagli sviluppi tattici e militari della situazione, che non è facile. Non possono essere escluse decisioni difficili». Le forze di occupazione dell'oblast meridionale accusano la Nato di spingere Kiev a «operazioni offensive nella direzione di Kherson»: «Disponiamo di informazioni sulla possibilità che Kiev utilizzi metodi di guerra proibiti - ha aggiunto Surovikin - e sulla preparazione di un massiccio attacco missilistico alla diga della centrale idroelettrica di Kakhovskaya». È intanto salito a 15 morti e 19 feriti il drammatico bilancio delle vittime dello schianto di un jet militare russo su un palazzo a a Yeysk, in Russia Sud-occidentale. Gli investigatori russi sostengono che la tragedia potrebbe essere stata causata da un «malfunzionamento tecnico». 

MOSCA CAMBIA TARGET: COLPISCE L’ENERGIA

Sconfitta sul campo, la Russia prende di mira le reti idriche ed elettriche degli ucraini. Mosca cambia target e mette centinaia di migliaia di persone al buio e al freddo. Sabato Angieri per il Manifesto.

«I bombardamenti massicci effettuati dalle forze russe nell'ultima settimana sono quasi certamente il segno di un cambio di strategia dello Stato maggiore del Cremlino. Una virata tanto obbligata quanto potenzialmente efficace che potrebbe, anche nel breve termine, modificare in modo tangibile la situazione sul campo. Dall'inizio della guerra, si è spesso parlato della strategia russa come di un retaggio del mondo sovietico inadatto alla contemporaneità. Ma forse sono proprio gli insuccessi sul campo di battaglia ad aver convinto Mosca che mandare al macello altri soldati fosse inutile. Non perché Putin, Shoigu o i generali si siano resi conto del valore della vita umana, ma perché lo stallo estivo si è trasformato in cocente sconfitta all'inizio dell'autunno. Molto più efficace, in termini bellici, privare il nemico del sostegno della sua gente e delle infrastrutture logistiche. Gli attacchi aerei di ieri hanno interrotto nuovamente le forniture elettriche e idriche a centinaia di migliaia di ucraini, allargando le aree nelle quali l'imminente arrivo del freddo è un serio problema. L'ultima città privata dell'energia elettrica è stata Zhytomyr, che ospita diverse basi militari e impianti industriali a due ore dalla capitale. Il sindaco, Sergiy Sukhomlyn, ha dichiarato che l'intera città, quasi 250mila abitanti, è rimasta senz' acqua e corrente elettrica nelle prime ore dopo l'attacco. In serata, i tecnici locali sono riusciti a ricollegare parte dell'abitato ma al momento si parla di almeno 150mila persone senza servizi primari. Gli ospedali della città sono stati costretti a ricorrere all'alimentazione d'emergenza e non è chiaro quando (e se) si riuscirà a riconnetterli tutti alla rete elettrica. A Kiev, secondo le autorità locali, i missili del mattino hanno danneggiato due stazioni energetiche e ucciso due persone, lasciandone almeno altre 50mila al buio per alcune ore. Stessa sorte per Dnipro, dove però i dati sul numero di residenti rimasti senza luce sono ancora sconosciuti. I cosiddetti «droni kamikaze» hanno anche colpito un'infrastruttura nella regione di Zaporizhzhia alimentando le preoccupazioni per il sistema di raffreddamento dei reattori della centrale nucleare di Energodar. L'operatore nazionale dell'energia atomica (Energoatom) ieri ha anche dichiarato che le forze russe avrebbero arrestato altri due responsabili ucraini dell'impianto ricordando che un altro dirigente, arrestato a inizio ottobre, è ancora disperso. Mykolayiv, invece, è stata colpita con i missili «S-300», concepiti per la difesa aerea ma impiegati dai russi anche per attacchi terra-terra da diverse settimane, probabilmente per l'esaurirsi delle riserve nei depositi. Qui almeno un civile sarebbe morto per un ordigno caduto su una zona residenziale. Nell'est, a Kharkiv, otto razzi sparati dal vicino confine con la Russia hanno colpito un'area industriale. In virtù dei danni (si parla di 408 siti colpiti solo dal 10 ottobre), ieri il ministro degli esteri ucraino Kuleba ha proposto al suo presidente di interrompere le relazioni diplomatiche con l'Iran. «Teheran ha la piena responsabilità della distruzione delle relazioni con l'Ucraina», ha spiegato Kuleba, citando le infrastrutture distrutte dai droni Shaded-136 di fabbricazione iraniana che i russi avrebbero ribattezzato «Geran-2». Sia Teheran sia Mosca continuano a negare. In una teleconferenza, il portavoce del Cremlino Peskov ha dichiarato che stando alle informazioni in suo possesso non risulta che il suo esercito usi droni iraniani, anzi usa solo «attrezzature russe con nomi russi». Di sicuro la conseguenza principale di questi attacchi è che anche lontano dal fronte i servizi primari non sono più una certezza. A tale proposito il presidente ucraino Zelensky, ha dichiarato che quasi un terzo delle centrali elettriche ucraine sono state distrutte nell'ultima settimana «causando massicci blackout in tutto il Paese». «Non c'è più spazio per i negoziati con il regime di Putin», ha poi aggiunto su Twitter. Dall'altro lato del confine, a Yeysk, fonti russe hanno dichiarato che il bilancio delle vittime dell'incidente aereo di lunedì è salito a 13».

L’ALLEANZA PERICOLOSA FRA TEHERAN E MOSCA

Con i droni e i missili forniti a Mosca, Teheran mette a rischio i negoziati sul nucleare. Così pensano gli americani. Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«Oltre ai droni Shahed 136, usati da Putin per uccidere i civili a Kiev, l'Iran si prepara a consegnare alla Russia nel giro di una decina di giorni i missili a corto raggio Fateh 110 e Zolfaghar. Con questa netta scelta di campo nella guerra ucraina, Teheran si espone ad almeno tre conseguenze: primo, nuove sanzioni da parte di Usa e Ue; secondo, fine di ogni speranza di resuscitare l'accordo nucleare Jcpoa; terzo, un coinvolgimento più diretto di Israele in aiuto di Zelensky. Per non parlare poi del dilemma dell'Arabia Saudita, che a questo punto dovrà decidere se continuare a stare dalla parte di Mosca, mentre Putin consolida la sua alleanza geopolitica e militare con i nemici ayatollah. L'Iran nega di aver fornito droni, ma è smentito dall'evidenza degli apparecchi abbattuti su Kiev. Quindi, se davvero intendesse restare neutrale nel conflitto, dovrebbe prendere atto della realtà sull'uso che la Russia fa delle sue armi contro i civili e interrompere le forniture. Invece, secondo la Reuters, il 6 ottobre una delegazione guidata dal primo vicepresidente Mohammad Mokhber ha visitato Mosca, promettendo la consegna di altri droni, più i missili Fateh e Zolfaghar. Finora avrebbero rifiutato gli Arash 2, più sofisticati e a lungo raggio. La Casa Bianca ha accusato il Cremlino di commettere «crimini di guerra», nel momento in cui prende di mira i civili, e quindi la Repubblica islamica si rende complice dei reati. Una fonte del Consiglio per la sicurezza nazionale ha detto ad Al Arabiya che «ci sono ampie prove dell'uso dei droni iraniani per colpire obiettivi militari e civili. Eppure Teheran continua a mentire e negare».
Tenendo ieri un briefing con i giornalisti, l'assistente segretaria di Stato per l'Europa e l'Eurasia Karen Donfried ha detto che la prima conseguenza sarà un inasprimento delle sanzioni contro gli ayatollah, e chiunque li aiuti a vendere le loro armi. La seconda sarà probabilmente la fine di ogni speranza di resuscitare l'accordo nucleare. Anche gli alleati europei hanno sottolineato che le forniture militari iraniane alla Russia violano la risoluzione Onu 2231, che regola il Jcpoa in mancanza delle ratifiche parlamentari. Ciò allontana il rinnovo dell'intesa, anche in considerazione del fatto che non si capisce perché sarebbe utile fare un favore a un regime che combatte con Putin, mentre è indebolito dalle proteste interne. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha poi chiesto ad Israele di fornire le difese anti-aeree dell'Iron Dome. Finora lo Stato ebraico ha sostenuto Kiev senza dare armi, ma conservare questa posizione diventa più difficile se gli ayatollah combattono al fianco di Putin. Il discorso è simile per l'Arabia, che appoggiando Mosca si mette a braccetto con Teheran. E se Biden rispondesse al taglio della produzione di petrolio fermando le forniture militari a Riad, i sauditi si ritroverebbero complici indifesi dell'Iran».

LA PACE IN PIAZZA IL 5 NOVEMBRE

Presentata ieri la grande manifestazione romana per la pace del 5 novembre. Dicono gli organizzatori: saremo “equivicini” a tutte le vittime. Luca Liverani per Avvenire.

«Cessate il fuoco subito, negoziato per la pace». Eccoli i cardini che sorreggono la piattaforma della manifestazione nazionale contro la guerra in Ucraina, sabato 5 novembre a Roma. In piazza San Giovanni in Laterano dalle 15 convergeranno le tante anime del movimento per la pace italiano. Due richieste chiare, seguite da quelle della «messa al bando di tutte le armi nucleari» e della «solidarietà con il popolo ucraino e con le vittime di tutte le guerre» (la piattaforma completa è su Avvenire.it). Una grande mobilitazione apartitica della società civile, presentata ieri nella sala della Protomoteca in Campidoglio. La scritta Europe for peace, coalizione di 400 sigle che dal 5 marzo promuove le manifestazioni per la pace, campeggia sul manifesto anche in russo e ucraino. «Sarà una manifestazione di popolo», dice Sergio Bassoli, coordinatore dell'esecutivo della Ripd, la Rete italiana pace e disarmo che sta organizzando la mobilitazione: «Cittadini che chiedono alle istituzioni di intervenire per fermare le armi e avviare il negoziato. Abbiamo già oltre 500 adesioni e continuano ad arrivarne». Già nel fine settimana, dal 21 al 23 ottobre, la Ripd ha promosso manifestazioni locali in almeno 100 piazze d'Italia. Una mobilitazione diffusa e programmata da tempo cui ora si aggiunge, a grande richiesta di tante organizzazioni, l'appuntamento unitario nazionale. «L'auspicio è che anche la rete delle Autonomie locali e i comuni si mobilitino - dice Bassoli - e sarebbe un segnale importante per le istituzioni centrali». Gli organizzatori ribadiscono che «la manifestazione del 5 novembre non è promossa da nessun partito. Sono i benvenuti in piazza, se aderiscono alla nostra piattaforma, ma sarà una manifestazione della società civile, nella sua autonomia e con le sue responsabilità. Sul palco nessun politico ». A San Giovanni convergerà anche la manifestazione organizzata da tempo a piazza Vittorio alle 10 dalla Rete dei Numeri Pari per lanciare la sua agenda sociale contro le diseguaglianze. «Ma la pace è la priorità per tutte e tutti - dice il coordinatore Giuseppe De Marzo - e ci uniremo alla manifestazione nazionale. Poi dobbiamo costruire un'economia di pace». «Sarà una manifestazione che viene dal basso - dice il presidente delle Acli Emiliano Manfredonia per chiedere all'Europa e soprattutto al nostro governo di farsi carico della richiesta del cessate il fuoco e del negoziato. Laici e cattolici insieme senza divisioni».
Andrea Mone assicura che «la Cisl ci sarà, perché l'Italia chieda alle Nazioni Unite una conferenza di pace». Paolo Impagliazzo esprime «la soddisfazione della Comunità di Sant' Egidio nel promuovere e partecipare a un momento che per la Siria purtroppo è mancato. Basta alla narrazione dell'ineluttabilità della guerra». Concorda Flavio Lotti, coordinatore della Marcia Perugia-Assisi: «La guerra è la strada sbagliata, non ha mai risolto i problemi. Diamo ascolto alle parole del Papa che il 2 ottobre ha chiesto di cercare la via del negoziato. È difficilissimo, ma il pericolo è enorme». «Noi di Emergency la guerra la conosciamo bene - dice la presidente Rossella Miccio - e ancora nel 2022 non la si può più usare per dirimere le controversie internazionali. Voliamo su Marte ma non abbiamo trovato un'alternativa alla guerra. È un crimine, va eliminata dalla storia ». «Come Europe for peace abbiamo lavorato per l'unità e la condivisione - spiega Giulio Marcon di Sbilanciamoci - e oggi siamo in Campidoglio, da dove venerdì 21 partirà la fiaccolata, una delle manifestazioni delle 100 piazze d'Italia. Non dobbiamo vincere la guerra, ma la pace. Noi equidistanti? No, "equivicini" a tutte le vittime.
Abbiamo portato aiuti in Ucraina con le carovane della pace, sosteniamo i russi che manifestano contro la guerra e gli obiettori di coscienza. Nel mondo ci sono troppe armi, si spendono 2.000 miliardi di dolari l'anno, solo l'incremento di 5 miliardi è stato dieci volte i fondi per Covax », il programma per i vaccini anti-Covid ai paesi poveri.
Daniele Lorenzi, presidente Arci, anticipa lo slogan dello striscione che porterà in piazza: «Pace, pane e pianeta». Monica Usai per Libera assicura che «Don Luigi Ciotti ci sarà» e che «a essere foraggiati nella guerra saranno i gruppi criminali ». Silvia Stilli di Aoi ricorda i tanti aiuti portati nelle città ucraine dalle associazioni per la cooperazione allo sviluppo. Fabrizio De Sanctis per l'Anpi condanna «lo sperpero di risorse per gli armamenti sottratte a contrastare la povertà». Per Cristian Ferrari della Cgil «il prezzo delle guerre lo pagano soprattutto i lavoratori». Sono alcune delle voci del movimento per la pace. I tanti colori della bandiera arcobaleno».

Intervista a Mauro Magatti di Alessia Grossi sul Fatto.

«Mauro Magatti è sociologo ed economista, all'Università Cattolica di Milano insegna Sociologia e Analisi e Istituzioni del capitalismo contemporaneo. È uno dei firmatari dell'appello per la pace "Un negoziato credibile per fermare la guerra", pubblicato anche dal Fatto. Non vuole rispondere a chi critica il piano per mancanza di realismo, "perché ovviamente la soluzione alla crisi non ce l'ha nessuno". Ci tiene a "evidenziare senza mezzi termini che in questa storia ci sono un aggressore e un aggredito; che è stato opportuno sostenere la difesa ucraina; che le forze russe si sono macchiate di crimini di guerra che scavano dei solchi profondi che vanno rimarginati". Ma - continua - "è importante, necessario e indispensabile aprire spiragli per immaginare un percorso che porti dal cessate il fuoco a una soluzione. Come sempre ha fatto la diplomazia, anche se Kiev è contraria per via dell'aggressione subita. Noi non siamo l'Ucraina e dobbiamo evitare che il conflitto deflagri su larga scala".

Professor Magatti, i detrattori del piano di pace sottoscritto da lei e altri intellettuali italiani pensano che sarebbe una vittoria per Vladimir Putin.
Non capisco cosa voglia dire vittoria e quindi ritengo questa critica ridicola. Il nostro è uno spunto per il dibattito. Perché non si smetta di cercare strade che possano aiutarci a trovare la pace, che è l'obiettivo di tutti, ma che noi sottolineiamo debba essere cercata attivamente.

Vi accusano di voler concedere a Mosca la Crimea che ritenete sia 'tradizionalmente russa e illegalmente donata da Krusciov alla Repubblica sovietica ucraina'.
La storia europea insegna che quando si creano questi grovigli sono insolubili. Il compito della diplomazia deve essere appunto quello di costruire dei delicati equilibri - tanto più in conflitti attivi come questo - che permettano di evitare l'ulteriore peggio. La nostra proposta non sta nei dettagli. Nessuno di noi fa il diplomatico, ma ci si può sforzare di dare un'ipotesi di pacificazione attiva che raccolga gli sforzi di tutti.

Il vostro piano prevede il cessate il fuoco. Chi garantirebbe per Putin?
Nessuno può garantire per Putin. Ma lui si trova in una condizione difficile, perché ha sbagliato i suoi calcoli mettendo in atto un'operazione fallimentare per se stesso e per il mondo. Si trova ora in una situazione nuova che può spingerlo all'escalation o anche a cambiare la sua linea.

Perché Kiev perché dovrebbe accettare di sedersi a negoziare con Mosca?
L'Ucraina è un paese aggredito che ha subito morti, stupri, sparizioni di bambini ed è comprensibile che rifiuti il dialogo con l'aggressore, ma noi che la sosteniamo dobbiamo evitare che il confitto si estenda.

Quindi credete che parlare con l'aggressore sia un metodo valido?
Quando si innescano questi meccanismi sapere cosa è buono o cattivo non è facile. Non abbiamo la pretesa di avere la soluzione, come le dicevo, ma l'ha detto anche il buon Kissinger: la pace va cercata. Non significa essere arrendevoli: ma evitare il 1939.

Perché il Papa trova difficoltà ad aprire uno spiraglio di dialogo, secondo lei?
Perché è una voce fuori dal coro, non è un politico e il suo compito non è trovare la mediazione politica immediatamente, ma ricordare a tutti ciò che è in gioco e spingere a cercare strade coraggiose e rischiose per tentare una soluzione. Dico sempre che quando qualcuno aggredisce, come Putin, in fondo la sua speranza è costringere l'altro al suo gioco: la guerra. Bisogna opporsi all'aggressore non sottostando al suo gioco, ma ribaltandolo».

GAS. IN EUROPA VA AVANTI IL TETTO DINAMICO

Buone notizie dall’Europa sul fronte della crisi energetica. Von der Leyen tira dritto sulla linea della proposta di Draghi, resiste il no di Germania, Paesi Bassi e Austria. Ora tocca ai capi di Stato e governo, riuniti da domani. Marco Bresolin per La Stampa.

«Ursula von der Leyen è ottimista. La presidente della Commissione conta di incassare dai governi il sostegno necessario per adottare il nuovo pacchetto di misure contro il caro-energia. Incluso il tetto "dinamico" al prezzo del gas, certamente il provvedimento più controverso tra quelli messi sul tavolo dal collegio dei commissari che ieri si è riunito a Strasburgo. «I tempi sono maturi», ha detto con convinzione Von der Leyen, che domani chiederà al Consiglio europeo un mandato per andare avanti in questa direzione e definire così i dettagli tecnici. La bozza di conclusioni del vertice contiene un'indicazione in tal senso, ma dovrà ottenere il via libera finale dai capi di Stato e di governo. «Il nostro incontro sarà l'occasione per valutare ulteriori misure in grado di ridurre i prezzi», ha scritto Charles Michel nella lettera d'invito ai leader. Tra queste il presidente del Consiglio europeo ha indicato quelli che sono i punti-chiave della proposta della Commissione, ossia: gli acquisti congiunti di gas, lo sviluppo di un nuovo indice di riferimento «che rifletta più accuratamente le condizioni del mercato del gas» e l'esame del «tetto dinamico dei prezzi temporaneo». Ieri c'è stato un primo confronto a livello di ministri al Consiglio Affari generali a Lussemburgo, durante il quale è emersa la freddezza dei governi di Austria, Germania e Paesi Bassi, mentre la Finlandia si è sganciata dal gruppo dei frugali e ha aperto al "price cap" purché sia «temporaneo». Il sottosegretario Vincenzo Amendola ha fatto presente che il piano della Commissione «è in linea con le proposte che avanziamo da mesi» e dunque «va nella giusta direzione». Anche fonti Ue hanno fatto filtrare che il piano «risponde molto da vicino a ciò che è stato richiesto dall'Italia e dagli altri Paesi che avevano firmato la lettera sul price cap». Spetterà a Mario Draghi difendere la proposta di Ursula von der Leyen al vertice di domani, lasciando in eredità al prossimo governo la finalizzazione dei dettagli al tavolo negoziale di Bruxelles. I due si erano lasciati 15 giorni fa a Praga dopo che il premier aveva criticato duramente la presidente della Commissione durante il summit informale, accusandola di aver tentennato troppo sul "price cap" e di aver dunque perso tempo prezioso, creando così i presupposti per una probabile recessione. Lei ieri ha risposto indirettamente alle critiche, sostenendo di aver proposto il tetto al prezzo «già a marzo», solo che all'epoca «c'era molto scetticismo da parte degli Stati». Oggi, invece, si è decisa a fare questo passo perché «c'è una maggiore comprensione» e dunque è «fiduciosa di poter progredire» verso questa soluzione: «Ai mercati mandiamo il segnale che siamo un partner affidabile, ma non più a qualsiasi prezzo». Per questo «non appena il Consiglio concorderà sui princìpi che abbiamo stabilito, presenteremo la misura dettagliata per renderlo operativo». L'appuntamento successivo sarà dunque martedì 25 ottobre, quando è in agenda una riunione dei ministri dell'Energia per esaminare l'insieme delle proposte da un punto di vista tecnico. Il calendario potrebbe configgere con l'insediamento del nuovo esecutivo e quindi l'Italia rischia di ritrovarsi senza un ministro al tavolo. Il meccanismo per limitare i prezzi del gas riguarderà gli scambi effettuati al Ttf di Amsterdam, che ha registrato un'altra seduta al ribasso: dopo aver perso il 13% lunedì, ieri la quotazione è scesa ulteriormente del 12% a 112 euro per Megawattora. Von der Leyen ha riconosciuto che «il Ttf non riflette più realmente la vera situazione del mercato, per questo dobbiamo sviluppare un indice complementare». La Commissione ha anche incaricato l'Esma e l'Acer di indagare sulle manovre speculative relative al mercato del gas. Tra le altre misure del pacchetto, Von der Leyen ha messo l'accento sulla necessità di utilizzare la piattaforma per gli acquisti congiunti di metano («Anziché farsi concorrenza tra di loro, gli Stati membri e le società energetiche devono sfruttare il loro potere d'acquisto comune») e ha spronato i governi a stipulare accordi di solidarietà per aiutarsi in caso di necessità. Per velocizzare l'iter, i vari provvedimenti verranno adottati tramite l'articolo 122, vale a dire a maggioranza qualificata e senza passare dal Parlamento europeo».

DIMEZZATO IL PREZZO DEL GAS

Cala la tensione su gas e luce, prima schiarita sulle bollette. Dopo i prezzi feroci dell'estate per gli utenti del mercato libero arrivano i primi ribassi di costo mentre per i consumatori con contratti a maggior tutela la fine degli aumenti è imminente. Il punto del Sole 24 Ore.

«Con ogni probabilità le bollette del gas saranno sì acide, ma meno acide del previsto. La corsa ai rincari pazzi pare finita, almeno per ora. Le famiglie e le piccole imprese con contratto di "maggior tutela", cioè con le tariffe regolate dell'autorità dell'energia Arera, potranno subire ancora un piccolo rincaro - ben lontano da quel raddoppio di cui si parlava nelle settimane scorse - mentre i consumatori sul mercato libero con prezzo variabile potrebbero godere addirittura di ribassi dopo i prezzi feroci dell'estate. È accaduto che dopo la fiammata di prezzo di agosto, quando il metano sul mercato olandese Ttf era arrivato sopra i 350 euro per mille chilowattora (il mercato Ttf detta il ritmo a tutti i mercati europei), i prezzi del gas si sono più che dimezzati e in questi giorni si aggirano sui 110-130 euro per mille chilowattora. Un nuovo metodo di calcolo L'aggiornamento delle tariffe che l'autorità dell'energia stabilirà nei primi giorni di novembre terrà conto del ribasso. È presto per sapere come si concluderà il mese di ottobre. Però in questo caso il nuovo meccanismo di calcolo delle tariffe del gas adottato dal 1° ottobre aiuta un poco i consumatori in regime di "tutela". Fra il 30 settembre e il 1° ottobre è cambiato il modo con cui l'Arera calcola le bollette del metano. In precedenza, l'autorità dell'energia aggiornava le tariffe ogni tre mesi; confrontava i future sul mercato Ttf e cercava di capire in anticipo quando sarebbe costato il gas. Così a fine giugno, ultimo aggiornamento trimestrale del gas, l'autorità dell'energia ha guardato i future del gas e ha fissato a partire dal 1° luglio al 30 settembre le tariffe attorno a una previsione di 95 euro per mille chilowattora. Dal 1° ottobre invece l'autorità aggiorna le tariffe del gas in modo diverso. In primo luogo, l'aggiornamento avviene con ritmo mensile; inoltre, si basa non più sull'intuire i prezzi futuri bensì sul consuntivare le quotazioni realmente rilevate durante il mese precedente sulla borsa italiana Psv. Nessun cambiamento invece per le bollette elettriche, che per la maggior tutela verranno aggiornate, come ogni tre mesi, il 1° gennaio in base alle previsioni delle quotazioni. Così, dopo le bollette di settembre ancora fissate sulle quotazioni olandesi di tre mesi fa, a partire dai 95 euro per mille chilowattora, l'aggiornamento del gas per il mese di ottobre sarà fatto ai primi di novembre e guarderà all'indietro le quotazioni italiane, che sono orientate attorno ai 120 euro. Quindi sul metano ci sarà un aumento, ma con ogni probabilità sarà un rincaro molto contenuto e assai lontano dai timori di raddoppio. Diverso è l'andamento del mercato libero del gas. Non ci sono tariffe regolate dall'autorità Arera; ogni azienda del gas propone le diverse soluzioni contrattuali. Gran parte dei contratti di fornitura sono a prezzo variabile sulla base degli andamenti della borsa italiana del gas Psv. Così il mercato libero ha sentito in modo drammatico i rincari estivi, ma adesso comincerà a vedere una discesa dei prezzi che, a parere di Davide Tabarelli, potrebbe aggirarsi sul 15-20% in meno. Tabarelli ha parlato ieri a 24 Mattino, il programma di Radio 24 condotto da Simone Spetia, e ha detto che «i prezzi del gas stanno crollando, siamo tornati ai livelli di giugno perciò a 4 mesi fa». La quotazione ora si aggira su 110-120, «il massimo è stato a 353; oggi è quindi ad un terzo di quello che è stato a fine agosto di quando c'era il panico». Di conseguenza anche «sull'elettricità gli effetti si vedranno dal primo gennaio e possiamo sbilanciarci parecchio nel senso che con estrema probabilità, altissima probabilità, non ci saranno più aumenti e probabilmente ci sarà un calo dell'ordine del 15-20%».

NUOVO CASO MUSSOLINI

La foto del Duce appesa al Mise tra gli ex ministri per le celebrazioni del palazzo Piacentini. Allora Bersani twitta: "Togliete la mia". Giorgetti la fa rimuovere ma replica: "C'è anche a Palazzo Chigi". Niccolò Carratelli per La Stampa.

«Una foto di Benito Mussolini incorniciata e appesa al muro, nell'anticamera dell'ufficio del ministro dello Sviluppo economico. Per celebrare i 90 anni di Palazzo Piacentini, costruito in epoca fascista e inaugurato proprio dal duce il 30 novembre 1932, Giancarlo Giorgetti aveva ritenuto opportuno mettere il volto del fondatore del fascismo ad aprire la galleria di foto dedicata a tutti i ministri che hanno lavorato in quelle stanze fino a oggi. Mussolini, infatti, da capo del governo, dal 1932 al 1936 gestì anche la delega alle Corporazioni, come venivano chiamate le organizzazioni sindacali e imprenditoriali durante il Ventennio. Dunque, la scorsa settimana, approfittando di alcuni lavori per rifare la tappezzeria, è stata realizzata la parete di ritratti. «Ci siamo posti il problema se partire dal dopoguerra ed evitare polemiche - spiegano dallo staff di Giorgetti - ma, dal punto di vista storico, ci sembrava sbagliato escludere colui che ha inaugurato il palazzo e per primo qui ha svolto l'incarico da ministro». La notizia della galleria fotografica esce quasi subito, «ci avrà pensato qualche dirigente rimasto dai tempi di Bersani», sospettano dal Mise, e inizia a girare sui social. Prima insorge la Cgil Funzione pubblica, che parla di «un fatto inquietante e deplorevole. A un anno dall'assalto neofascista alla sede della Cgil - dice il sindacato - non saremo disposti a tollerare fenomeni di apologia fascista». Poi interviene proprio Pierluigi Bersani, che dagli uffici di via Veneto stese le lenzuolate di liberalizzazioni, ai tempi del secondo governo Prodi: a fianco a Mussolini non ci vuole stare, «chiedo cortesemente di essere esentato e che la mia foto sia rimossa», scrive su Twitter. Esplode la polemica e dal ministero sono costretti a correre ai ripari, spiegando che l'allestimento con le foto dei predecessori di Giorgetti si inserisce nelle varie «iniziative per celebrare l'edificio, in ottica culturale e storica». Poi annunciano che «per evitare polemiche e strumentalizzazioni, la foto di Mussolini sarà rimossa». Via la faccia del duce, quindi, può restare quella di Bersani. Ma lo stesso Giorgetti, interpellato sulla questione, non manca di sottolineare che «nessuno si è accorto che un foto di Mussolini c'è anche a Palazzo Chigi». Vero, è appesa nell'anticamera della Sala Verde, con quelle degli altri ex presidenti del Consiglio, ed è lì da molti anni, senza che nessuno abbia mai protestato. Poi arriva Ignazio La Russa, che sulla questione si sente evidentemente chiamato in causa: «Una foto di Mussolini c'è anche al ministero della Difesa, il nome è scritto pure sull'obelisco al Foro Italico - ricorda il neopresidente del Senato - facciamo cancel culture anche da noi?». Poi, dal salotto di Porta a Porta, argomenta che «se per 76 anni c'è stata una foto in un posto, non capisco cosa sia cambiato rispetto a un anno fa». Al di là delle critiche di vari esponenti del Pd, per un'uscita irrituale da parte della seconda carica dello Stato, la presenza di diverse foto del duce nei ministeri romani è un dato di fatto. Una è effettivamente esposta nella sala dei quadri, al piano nobile del ministero della Difesa, vicino all'ufficio del ministro, dove sono raccolte le immagini di tutti i responsabili del dicastero. Un ex come Arturo Parisi conferma che si trova «non lontano dalla mia», pur precisando che Mussolini è stato ad interim ministro della Guerra, che «non è la stessa cosa». Un altro ritratto del capo fascista si trova al ministero delle Infrastrutture, nel corridoio adiacente la sala delle riunioni del palazzone di Porta Pia. Un tempo lì venivano gestiti i Lavori pubblici, di cui Mussolini si incaricò per quattro mesi nel 1929. Al Viminale non c'è una galleria con le foto dei ministri, ma un album celebrativo, cartaceo e anche online, sul sito del ministero dell'Interno: in entrambi compare la faccia del duce, in carica dal 1926 fino alla fine, il 25 luglio 1943. Alla Farnesina, invece, c'è una parete dedicata agli ex ministri, ma si parte dal 1948, solo quelli della storia repubblicana. In compenso, al circolo degli Esteri, è esposto un bel ritratto di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, ministro degli Esteri e primo presidente del circolo. «Il problema è aver messo questa foto ex-novo - osserva ancora Parisi - in un momento delicato come pochi altri, dove ogni azione alimenta reazioni delle quali non abbiamo proprio bisogno». A dieci giorni dal centenario della marcia su Roma, a meno di una settimana dall'ingresso a Palazzo Chigi della premier più a destra che l'Italia repubblicana abbia mai avuto. Chissà se sarà proprio lei a far rimuovere la foto di Mussolini dall'anticamera della Sala Verde».

CANCEL CULTURE ALL’ITALIANA?

Mattia Feltri interviene sulla polemica con la sua rubrica in prima pagina della Stampa.

«Allora, come siamo messi col fascismo? Siamo messi che al Mise, il ministero dello Sviluppo economico, hanno organizzato una mostra per celebrare i novant' anni della sede, Palazzo Piacentini in via Veneto a Roma (si chiama così per il nome del progettista, Marcello Piacentini, l'architetto più celebre del Ventennio). Su una parete sono state affisse le foto dei ministri insediati in quello splendore di palazzo, e siccome è stato inaugurato nel 1932, e ospitò il ministero delle Corporazioni, il primo titolare è stato Benito Mussolini, e c'è anche la sua foto. Uno dei successori, Pierluigi Bersani, se n'è indignato: o lui o io, ha detto. E probabilmente la spunterà. Fossi in voi, se non ci siete mai stati dentro, andrei su Google a vedermi la meraviglia degli spazi e delle prospettive interne di Palazzo Piacentini, e le magnifiche opere d'arte, le sculture di bronzo di Carlo Pini, le vetrate di Mario Sironi, i dipinti di Fortunato Depero. Tutta una grande bellezza, qui e là magniloquente, pensata a maggior gloria del dittatore e, come è giusto che sia, Bersani la sopportò, o più probabilmente ne ricavò godimento. Ma ora, all'idea che la sua foto condivida una parete con la foto di Mussolini, gli si rivoltano le viscere. Va bene, leveranno la foto, ma non basterà levare una foto del duce per levarlo da quel palazzo, dagli altri palazzi in cui ha dominato e dalla nostra storia. Come ha detto Gianni Oliva domenica in un'intervista al Giornale, «il fascismo ha fatto tanti danni, ma il fascismo erano gli italiani». L'autobiografia della nazione: lo diceva già Piero Gobetti. Possiamo giusto nascondere le foto».

IL DDL GASPARRI SUL NASCITURO

Maurizio Gasparri presenta un disegno di legge sui diritti del nascituro. Adriana Logroscino sul Corriere della Sera.

«Nella delicatissima fase della composizione del governo, irrompe il disegno di legge del senatore Maurizio Gasparri, di Forza Italia, per il «riconoscimento giuridico del concepito». Insorge il Pd: «Questa è la destra che ha a cuore la libertà delle donne, la destra di Meloni che diceva che non toccherà la 194. Inaudito», commenta la capogruppo a Palazzo Madama, Simona Malpezzi. Gasparri, che nella legislatura appena iniziata ha già depositato 17 disegni di legge tra i quali anche quello per l'«istituzione della giornata del nascituro», sostiene di «non voler abolire la 194», ma «applicarla integralmente come hanno detto più volte Meloni, Tajani e Salvini». E si dice soddisfatto dell'«attenzione» che la sua mossa ha attirato sul tema. «Alle polemiche non rispondo - spiega all'Agi - dico solo che ci sono molti punti di vista, tutti legittimi, io per esempio non condivido quello della Malpezzi. Confrontiamoci in Parlamento». Il ddl di Gasparri ripropone un testo del fondatore del Movimento per la vita, Carlo Casini, scomparso nel 2020. «Casini me l'affidò - spiega l'azzurro - e a ogni inizio legislatura l'ho sempre ripresentato. È la terza volta. Solo che finora era passato inosservato. Nessuna fuga in avanti, ho gettato un sasso nello stagno. Il mio obiettivo è che si apra una discussione sul tema dell'aborto, della maternità, della vita, come nel resto d'Europa. Non l'abolizione della legge 194, ma la sua integrale applicazione affinché la scelta non sia obbligata». Dubita delle intenzioni di Gasparri la senatrice dem Valeria Valente: «Il ddl ha un solo scopo: minare alla radice la legge sull'interruzione volontaria di gravidanza. Basta approvarlo per vietare nei fatti la possibilità di abortire, senza abrogare la 194. Si svelano dunque le promesse da mercante di Meloni». Per Laura Boldrini «quella proposta non solo compromette l'autodeterminazione delle donne, ma consentirebbe di perseguirle per omicidio». Dal M5S arriva uno stop: «Gasparri troverà un muro: noi», dice Giuseppe Conte. Reagisce anche Riccardo Magi di +Europa: «La prima mossa della destra è mettere i diritti delle donne nel mirino». Schierati in difesa del diritto di aborto Chiara Appendino del M5S e Marilena Grassadonia di Si. Resta in silenzio il resto della maggioranza: il «sasso» gettato da Gasparri increspa acque già sufficientemente agitate».

ASSE PD-5 STELLE, MA LE OPPOSIZIONI SONO DIVISE

Tiene l'asse tra Pd e 5 Stelle, che si spartiscono le vicepresidenze. Voci, smentite, su malumori nel Terzo Polo perché Renzi sarà all'estero durante le consultazioni. Maria Teresa Meli per il Corriere.

«Enrico Letta non parla con Calenda, Renzi e Conte. Conte non parla con Letta, Calenda e Renzi. Gli ultimi due si guardano bene dal voler parlare con Conte. E qualcuno insinua che anche tra il capo di Azione e quello di Iv ci sia qualche dissidio, visto che Renzi non parteciperà alle consultazioni. La «strana coppia» nega («Cavolate») e dal Terzo polo sostengono che è una polpetta avvelenata dem. Molto più banalmente Renzi sarà all'estero per un giro di incontri. Questa è la fotografia dell'opposizione alla vigilia del voto per i vicepresidenti e i questori di Camera e Senato. Ma il reciproco rifiuto dei leader di Pd e 5 Stelle di interloquire tra di loro non ha pesato sull'intesa parlamentare tra dem e grillini per escludere il Terzo polo dal giro degli incarichi di oggi. Per il Pd le candidate alle vicepresidenze sono Anna Ascani a Montecitorio e Anna Rossomando a palazzo Madama. E due donne anche alla presidenza dei gruppi: le «prorogate» Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, che poi rassegneranno le dimissioni nelle mani del nuovo segretario. Anche il M5S ha eletto i capigruppo: Francesco Silvestri alla Camera e Barbara Floridia al Senato. I candidati grillini alle vicepresidenze potrebbero essere Mariolina Castellone a palazzo Madama e Sergio Costa o Alessandra Todde a Montecitorio. Il Terzo polo sarà guidato da Raffaella Paita al Senato e da Matteo Richetti alla Camera. Calenda ha annunciato che oggi i suoi non parteciperanno al voto, ma non sembra prendersela troppo: «Le vicepresidenze non servono a niente». Dal Pd è partito anche un invito al Terzo Polo, per un incontro, oggi, su uffici di presidenza e altre nomine. Richetti racconta la telefonata con Marco Meloni: il braccio destro di Letta lo invita a vedersi premettendo però che i dem voteranno i candidati dei 5 Stelle alla vicepresidenza. «Ma possiamo parlare delle commissioni». Richetti risponde «no grazie». La capogruppo al Senato, Raffaella Paita, di Iv, invece ha fatto sapere di essere «pronta a un incontro». Nei palazzi della politica c'è chi sospetta che Renzi punti al Copasir o alla Vigilanza Rai (dove Conte vorrebbe invece Chiara Appendino). Letta non sembra intenzionato a concedere nessuno di questi due organismi al Terzo polo: «No a presidenti conniventi con la maggioranza», dice ai gruppi in cui l'hanno spuntata le correnti. Il segretario meditava infatti di mettere Anna Ascani al gruppo della Camera e Valeria Valente al Senato (due sue fedelissime) ma Base riformista, Giovani Turchi, e l'area Delrio erano per la proroga. E l'hanno avuta vinta, anche perché si sono poi convinti di questa opzione sia Franceschini che Orlando, benché il secondo apparisse riluttante sino alla fine: «Comprendo la scelta di oggi ma non può diventare un metodo, ci vuole radicalità». Alla fine, però, ogni capo corrente, incluso Letta, ha avuto o avrà il suo, anzi la sua, trattandosi di donne. Il Pd, però, con il congresso alle porte appare più che mai diviso. Corre voce che Orlando scenderà in pista l'11 novembre, alla presentazione del libro di Bettini, suo grande sponsor. E tutti attendono le mosse di Bonaccini, che dice: «Non ho ancora deciso se ci sono le condizioni per candidarmi». Eletti anche i capigruppo del centrodestra. Al Senato Ciriani per FdI, Ronzulli per FI e Romeo per la Lega. Alla Camera Lollobrigida per FdI, Cattaneo per FI (che candiderà l'«atlantista» Mulè alla vicepresidenza di Montecitorio) e Molinari per la Lega».

CINA, I NEMICI DI XI

Le élite di Pechino rappresentate dagli ex leader Jiang Zemin e Hu Jintao si oppongono al terzo mandato del presidente  Xi Jinping, ma ormai sono ai margini. Cecilia Attanasio Ghezzi per La Stampa.

«Potenti, ma disuniti e sempre più vecchi e ai margini del Partito. È questo l'identikit di chi si oppone al terzo mandato di Xi Jinping. Nei dieci anni in cui è stato al potere, il presidente cinese ha frantumato il cosiddetto «triangolo di ferro» (burocrazia, industria e accademia) che ha costituito la base del consenso della classe politica che lo ha preceduto. Ora non gli resta che sostituirlo, completamente. «Quando un uomo conquista il potere, i suoi polli e suoi cani arrivano in paradiso», recita un proverbio cinese. E questo è tanto più vero nella Repubblica popolare, dove le più alte gerarchie del partito coincidono con le più alte cariche dello Stato che a loro volta decidono gli organigrammi delle imprese pubbliche e gli appalti. Distinguere gli amici dai nemici è la prima regola di ogni rivoluzione. E Xi Jinping non è certo uno sprovveduto. Figlio di Xi Zhongxun, dirigente comunista dei tempi della Lunga marcia poi epurato da Mao Zedong e riabilitato da Deng Xiaoping, Xi conosce bene le feroci dinamiche di potere interne al Partito. Con i suoi natali, l'ascesa politica è stata facile e tranquilla. È passato da un incarico all'altro tenendo un profilo basso ed evitando gli scandali. Ma a ridosso del Congresso che nel 2012 lo avrebbe incoronato Segretario generale, ha mostrato il suo vero carattere. Improvvisamente scomparve dalla scena pubblica mancando diversi importanti appuntamenti e ricomparve solo quando, una settimana più tardi, ebbe la certezza che il suo più acerrimo rivale fosse stato messo fuori gioco.
Da allora Xi Jinping ha infranto ogni regola che ha sotteso l'avvicendarsi dei leader dalla morte di Mao per garantire una tranquilla transizione di potere. Dopo il personalismo del Timoniere e le purghe feroci che avevano caratterizzato il suo governo, infatti, la classe dirigente cinese aveva convenuto di affidarsi a un primus inter pares e di non indagare più nessuno al suo interno. Aveva anche deciso che chi aveva più di 68 anni doveva ritirarsi dall'organigramma. Questo fino all'arrivo di Xi, 69 anni compiuti, che da subito ha cominciato ad accentrare su di sé cariche e potere e ha fatto guerra alla corruzione senza risparmiare nessuno. Soprattutto non ha risparmiato chi poteva limitare la sua autorità. «Lasciate che alcuni si arricchiscano prima», era la formula con cui Deng Xiaoping negli anni Ottanta aveva inaugurato il periodo di Riforme e aperture che ha portato la Cina ad assurgere a seconda economia mondiale. E la corruzione, non è un segreto, ha oliato la strabiliante crescita cinese per oltre trent' anni. Nell'ultimo decennio, quello in cui Xi Jinping è stato al vertice, l'economia ha rallentato e sono stati indagati 4,65 milioni di funzionari. I suoi nemici, va da sé, sono proprio nelle élite intellettuali, finanziarie e politiche che si sono formate negli anni d'oro, a partire dai presidenti che lo hanno preceduto. Jiang Zemin (96 anni, presidente dal 1993 al 2003) e Hu Jintao (79 anni, presidente dal 2003 al 2013) sono per antonomasia i grandi vecchi a cui fanno capo le due macro fazioni del Pcc. Ma è soprattutto Jiang Zemin, colui che ha aperto il partito agli imprenditori e ha traghettato la Cina nel Wto, ad aver continuato ad avere un'immensa influenza nella scelta delle classi dirigenti dopo di lui. Si dice che sia stato lui a scegliere Xi Jinping nella convinzione di aver di fronte un uomo posato e facilmente controllabile. Se così fosse, mai fu fatto un errore di valutazione più grande. Seppure ancora in vita, era assente alla cerimonia che domenica scorsa ha aperto questo Congresso. Ai tempi di Deng Xiaoping, un segretario generale non allineato con le politiche e gli obiettivi dei leader anziani veniva sostituito, ma nell'era di Xi Jinping è vero il contrario. Inoltre, poiché la lotta alla corruzione è arrivata a colpire Zhou Yongkang, uno dei nove uomini più potenti della legislatura di Hu Jintao, nessuno può sentirsi al sicuro. I vertici dell'Esercito di liberazione, nonché quelli dei servizi di pubblica sicurezza sono caduti in processi a porte chiuse mentre chi era a capo di importanti aziende pubbliche o i tycoon di quelle private sono rimasti intrappolati nella stessa rete dei politici che gli consentivano di fare affari. Fuori dai palazzi, gli intellettuali e gli attivisti per i diritti umani che nel decennio di Hu Jintao si erano conquistati un largo consenso popolare sono stati silenziati con gli strumenti tipici delle dittature o sono fuggiti all'estero. Stesso destino di chiunque faceva gruppo sotto un ombrello diverso da quello del presidente, dai vetero maoisti a cui sono state chiuse le librerie ai cristiani a cui sono state distrutte le chiese. Dopo dieci anni di Xi Jinping, non c'è nessuno che abbia la forza di sfidare apertamente il presidente o di proporre un'alternativa. Anzi. Con ogni probabilità la nomenclatura che sarà svelata alla fine di questo Congresso dimostrerà che per far carriera bisogna piacere al presidente. Ai comunisti cinesi non resta che dire Xi».

IRAN, UCCISA PERCHÉ NON CANTA L’INNO

La situazione in Iran. Non canta l'inno dedicato a Khamenei e viene uccisa a 16 anni. Si chiama Asra Panahi ed è stata picchiata a scuola, nel Nord del Paese. Ai genitori viene imposto di dire «bugie» sulle violenze subite dalla figlia. Greta Privitera per il Corriere.

«Asra Panahi, 16 anni, avrebbe dovuto intonare versi come: «Questo mondo non ha significato senza di te/Oh amore mio, quando sei presente tra noi il nostro mondo è come la primavera». Ma ha tenuto la bocca chiusa. Nonostante le forze di sicurezza intimassero lei e le sue compagne di classe del liceo femminile Shahed ad Ardabil, nell'Iran nord occidentale, di cantare Salam Farmandeh - in italiano «Salve Capitano» - un inno dedicato alla guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, Asra e alcune amiche hanno trovato il coraggio di opporsi. Sulla scia delle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, la ventiduenne uccisa dalla «polizia morale» per una ciocca di capelli che usciva dal velo, giovedì 13 ottobre le studentesse hanno detto «no». Un «no» che a Asra è costato la vita dopo un pestaggio così violento da mandarla in coma e poi farle smettere di battere il cuore in ospedale, proprio come è successo a Mahsa Amini, il 16 settembre scorso, a Teheran. Un mese dopo, stesso destino: si muore perché non si canta, perché non ci si mette il velo come pretendono le autorità. A raccontare il blitz delle forze di sicurezza nel liceo femminile di Ardabil è il Consiglio di coordinamento delle associazioni degli insegnanti iraniani, il sindacato di categoria. Come da copione, il presidente Raisi e i suoi hanno rimandato le accuse al mittente: «La ragazza non è morta a scuola». «No, certo. Mia nipote è morta a causa di un problema congenito al cuore, è stata male di notte ma non ce l'ha fatta», avrebbe giurato alla tv (di Stato) uno zio di Asra. Poi: Asra stava male, era depressa, le era appena morto il padre. Asra, forse, era matta. Proprio come si diceva che la morte di Mahsa Amini fosse dovuta a un tumore al cervello che avrebbe avuto da piccola, anche la morte della sedicenne di Ardabil è stata raccontata come una questione di salute. Nelle ultime settimane, gli attivisti hanno fatto sapere che la polizia costringerebbe i familiari delle vittime dei pestaggi a raccontare menzogne sulla morte dei loro figli e delle loro figlie. Ma a confermare che Asra non avesse nessun problema al cuore sono le sue medaglie di nuoto: era una piccola campionessa. Secondo il rapporto del sindacato degli insegnanti, anche un'altra compagna di classe è stata picchiata così violentemente da finire in coma, ma le notizie girano a fatica, perché Internet è così lento da rendere quasi impossibile l'accesso. E la verità ha tutto il tempo di essere mischiata con le menzogne di Stato. Nelle ultime settimane, prima le università, poi i licei e le scuole medie sono diventate tra i bersagli preferiti delle forze di sicurezza che fanno raid e incursioni punitive per i video che i giovani pubblicano online. Quando vedono circolare immagini di ragazze senza velo che cantano contro il regime, che mostrano il dito medio davanti alla foto della guida suprema, che si ribellano, loro fanno irruzione e ammazzano di botte. Intanto, il sindacato degli insegnanti combatte con le uniche armi che ha: chiedendo le dimissioni del ministro dell'Istruzione, Yousef Nouri. Un atto simbolico che, ovviamente, non avrà alcun risultato, ma è un altro modo per esprimere dissenso. La notizia della morte di Asra, che, come riporta Hrana, la Human rights activists news agency , fa salire il bilancio delle vittime delle proteste delle ultime quattro settimane a 240 persone di cui 32 minori, ha infuocato di nuovo le piazze. Ragazze con il capo scoperto accanto agli amici uomini, al grido di «Donne, vita, libertà», continuano a marciare, a tagliarsi i capelli, a chiedere diritti e la fine della dittatura teocratica. Pretendono libertà e lavorano nelle piazze, su Telegram , via WhatsApp , per mettere le basi di quella che in molti sperano si trasformi in rivoluzione. «Dì il suo nome», scrivono gli attivisti su Twitter: Mahsa Amini, Nika Shakerami, Sarina Esmaeilzadeh. E ora, in fila, anche quello di Asra Panahi, la giovane nuotatrice dagli occhi neri.»

ERITREA, ARRESTATO UN VESCOVO

Eritrea, il presule cattolico Abune Fikremariam Hagos è stato bloccato sabato all'aeroporto, di rientro dall'Europa. La scorsa settimana erano stati arrestati due sacerdoti cattolici. Tutti e tre sarebbero detenuti nella famigerata prigione di Adi Abieto. Paolo Lambruschi per Avvenire

«Il regime eritreo alza il tiro contro la chiesa cattolica. Agenti dei servizi di sicurezza hanno infatti arrestato e portato in cella senza un'accusa il vescovo di Segheneiti Abune Fikremariam Hagos. Il presule è stato fermato sabato 15 ottobre all'aeroporto internazionale della capitale eritrea Asmara. Abune Fikremariam stava rientrando nel Paese dopo un viaggio in Europa. La notizia, diffusa da agenzie internazionali e nazionali, è stata confermata indirettamente del governo che, in risposta alla richiesta di spiegazioni da parte delle autorità ecclesiastiche cattoliche eritree, ha ammesso di trattenere il vescovo senza spiegare le ragioni. La scorsa settimana erano stati arrestati altri due preti cattolici: Abba Mihretab Stefanos, parroco della chiesa di san Michele sempre a Segheneiti, e il padre cappuccino Abba Abraham, di stanza a Tessenei, città al confine con il Sudan. I tre sarebbero detenuti nella famigerata prigione di Adi Abieto, alla periferia di Asmara, nota per un massacro avvenuto all'inizio di novembre del 2005, quando le guardie aprirono il fuoco su migliaia di prigionieri, supposti renitenti al servizio nazionale obbligatorio rastrellati nelle strade della capitale. Una situazione simile a quella attuale. Forse proprio l'offensiva in Tigrai condotta dalle truppe eritree con le truppe federali etiopi, secondo voci raccolte nel paese più chiuso dell'Africa, sarebbe alla base dell'arresto. A causa dei rastrellamenti di ragazze e ragazzi in corso per mandare truppe fresche sul fronte tigrino, lo scontento popolare sarebbe infatti in crescita. E Abune Fikremariam si era espresso nelle omelie contro la guerra, ammonendo i fedeli a non avvantaggiarsi dei beni razziati dall'esercito alla popolazione del Tigrai e messi in vendita nei mercati eritrei. La Chiesa cattolica, che a differenza di quella ortodossa è autonoma dal regime, è una minoranza autorevole in Eritrea. Attraverso le lettere pastorali i quattro vescovi della conferenza episcopale hanno espresso ripetutamente e in modo chiaro le preoccupazioni per la situazione nel piccolo Stato del Corno e le sofferenze della popolazione. Il governo da alcuni anni ha risposto limitando progressivamente le attività sociali e caritative, nazionalizzando scuole e presidi sanitari cattolici in una lenta escalaton per intimidire vescovi e clero. Fino a raggiungere un livello mai visto finora con l'arresto di Abune Fikremariam Hagos Intanto in Tigrai dopo il rinvio a tempo indefinito dei colloqui di pace in Sudafrica, le forze etiopi e ed eritree stanno avanzando e, dopo averle bombardate, hanno conquistato le tre città di Scirè, Alamata e Korem. Scirè dotata di aeroporto. è uno strategico crocevia verso città importanti come Axum, Adua e il capoluogo Macallé. Il governo di Addis Abeba ha annunciato un'offensiva per riprendere il controllo degli aeroporti tigrini e ha promesso di lavorare con le agenzie umanitarie per fornire aiuti alle zone ora controllate dall'esercito. La situazione a quasi due anni del conflitto fra governo centrale etiopico e forze del Tplf, un tempo egemoni nel governo federale, sta provocando una grave crisi umanitaria. A Scirè erano accampati gli sfollati delle aree rurali colpite privi di cibo e medicinali. Ora sono in fuga dalle truppe eritree che in passato hanno compiuto stupri e crimini contro l'umanità Il segretario generaledell'Onu Antonio Guterres ha avvertito che il conflitto «sta andando fuori controllo. Violenza e distruzione stanno raggiungendo livelli allarmanti». Guterres ha chiesto la cessazione delle ostilità, il ritiro delle truppe asmarine dall'Etiopia e ha denunciato il prezzo terribile pagato dai civili che stanno vivendo un incubo».

PROROGATO L’ACCORDO CINA-VATICANO

Guido Santevecchi sul Corriere della Sera annuncia che il Vaticano ufficializzerà a fine settimana la proroga dell’accordo con la Cina.

«Ci siamo, l'intesa è raggiunta e sarà annunciata a fine settimana dalla Santa Sede e dalla Cina: l'accordo «provvisorio» per la nomina dei vescovi sarà prorogato per altri due anni, fino al 22 ottobre 2024. Ne sono passati quattro dal primo, faticoso passo preparato da decenni di relazioni diplomatiche sottotraccia. Il Vaticano e Pechino non hanno rapporti diplomatici da quando Mao prese il potere e il nunzio Antonio Riberi fu costretto a lasciare il Paese due anni più tardi, il 5 settembre 1951. Di qui l'importanza storica dell'intesa, seppure limitata al piano «ecclesiale e religioso», che le parti firmarono a Pechino il 22 settembre 2018: un accordo « ad experimentum» entrato in vigore un mese dopo per due anni, rinnovato il 22 ottobre 2020 per altri due e ormai consolidato, nonostante le difficoltà. La delegazione vaticana e i rappresentati del governo cinese si sono incontrati tra fine agosto e inizio settembre a Tianjin, nel Nord della Cina. Come ha spiegato papa Francesco, il dialogo con Pechino «è una cosa lenta, ma si fanno sempre passi avanti». I confini tra Chiesa «ufficiale» legata al governo e Chiesa «clandestina», del resto, sono sfumati da anni nella realtà quotidiana di milioni di cattolici. Ed è significativo che i rappresentanti della Santa Sede, a Tianjin, abbiano potuto incontrare il vescovo «clandestino» Melchiorre Shi Hongzhen, 92 anni. Il testo dell'accordo, tuttora riservato, prevede che la nomina papale di un vescovo sia comunicata alla parte cinese per l'assenso. In questi quattro anni non ci sono più state ordinazioni episcopali illegittime, quelle celebrate dalla Chiesa «patriottica» senza il consenso del Papa. Sono stati invece nominati sei vescovi decisi dal Pontefice con l'assenso delle autorità cinesi. Cosa altrettanto importante, altri sei vescovi «clandestini», scelti in passato dalla Santa Sede ma non considerati tali dalla Chiesa governativa, sono stati nel frattempo riconosciuti da Pechino. Certo si tratta di numeri ancora piccoli, considerata l'immensità del Paese. In base ai dati, riportati da Asianews , del «Consiglio dei vescovi cinesi» legato al governo, in Cina ci sono 98 diocesi, 4.202 chiese e altri 2.238 «siti attivi», con 66 vescovi e quindi un terzo delle diocesi scoperte. Ma intanto «tutti i vescovi cinesi cattolici oggi presenti in Cina sono in piena e pubblica comunione con il Vescovo di Roma», fa notare sull'agenzia vaticana Fides il direttore Gianni Valente. Il testo dell'accordo non ha subìto modifiche ma «si potrà migliorare, d'intesa con le autorità cinesi», spiegano in Vaticano. Ci sono resistenze, province nelle quali i funzionari contrastano il nuovo corso. C'è il caso del cardinale novantenne Joseph Zen - il più tenace oppositore al dialogo -, l'emerito di Hong Kong arrestato a maggio e ora sotto processo, con relativa «preoccupazione» del Vaticano. «Capire la Cina è una cosa gigante», faceva notare papa Francesco il mese scorso: «Non bisogna perdere la pazienza: ci vuole, eh, ci vuole tanto, ma dobbiamo andare avanti con il dialogo».

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