La Versione di Banfi

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Il disagio dei Sì vax

alessandrobanfi.substack.com

Il disagio dei Sì vax

Cresce il malumore della maggioranza silenziosa contro le proteste. Da Milano a Trieste. Le nuove misure per la quarta ondata. Corsa al Quirinale: largo ai giovani? Libia in campagna elettorale

Alessandro Banfi
Nov 8, 2021
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Il disagio dei Sì vax

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È il momento della maggioranza silenziosa. Da Milano a Trieste c’è un profondo disagio dopo quattro mesi di manifestazioni e cortei contro il Green pass. Il Giornale di oggi dedica al tema il titolo d’apertura, e anche il Corriere della Sera ospita un approfondimento sui Sì vax di Trieste. Insiste sull’argomento anche Libero, che nei giorni scorsi aveva dato risalto alle migliaia di messaggi di protesta raccolti nel capoluogo lombardo. Dove porteranno questi umori? Difficile dirlo. Alessandra Ghisleri, esperta sondaggista, dice al Fatto che la società italiana sta andando verso forme di rivolte violente e settoriali. Che si catalizzano su questo o quell’argomento, in una convivenza poco organizzata ma spaccata in divisioni sempre più manichee. È una conseguenza della democrazia digitale?

Certo è che la lotta alla pandemia continua. Tutta l’Europa si sta attrezzando per la quarta ondata e da noi il governo studia di aggiornare le misure da qui a Natale, quando è previsto il picco. Secondo i sondaggi il 65% degli italiani (quasi il 90 ha fatto il vaccino) si farà somministrare la terza dose nelle prossime settimane. Vedremo come si articolerà la campagna vaccinale sui minori, fascia sociale su cui oggi corre il contagio.

La politica è già tutta presa dalla corsa al Quirinale. Ezio Mauro e l’ex ministro Rino Formica su Repubblica ragionano di crisi di sistema. In comune hanno il sogno che i partiti ritrovino una loro funzione equilibrata di rappresentanza della società. In questa chiave una presidenza “a tempo” come quelle di Mattarella o Berlusconi non riscuotono grandi consensi. Formica poi sostiene che Draghi non voglia andare al Quirinale ma pensi alla Banca mondiale. L’ex ministro socialista spera in un giovane o in una giovane, nel senso di qualcuno più vicino ai 50 che ai 90. Chi ha in mente?

Nel centro destra il dibattito continua: Matteo Salvini, reso oltremodo nervoso dalle osservazioni di Giancarlo Giorgetti, oggi viene incalzato, per così dire alla sua destra, da Giorgia Meloni. La leader di FdI lo accusa di non volere più le elezioni anticipate. Nei 5 Stelle si attende una nuova discesa di Beppe Grillo a Roma. L’ultima volta, qualche mese fa, si era scontrato coi gruppi parlamentari, ma ora tutti aspettano le sue mosse su governo e Quirinale.

Segnalo l’approfondimento della Gabanelli nel suo “Data Room” sul Corriere (è nei pdf) a proposito del Monte dei Paschi di Siena. In 14 anni sono stati bruciati 22 miliardi, di cui 4,8 a carico dello Stato. E sono 45 i miliardi di crediti deteriorati. Nuovo sbarco dalla Libia ieri, 800 persone di cui 170 minori, in Sicilia. Nel Paese nordafricano si vota a Natale e l’instabilità è aumentata.

Dall’estero segnalo ancora Obama di scena a Glasgow, mentre si apre la settimana decisiva per le conclusioni concrete della Cop26. E un’intervista della Verità al prof Sapelli, che sembra dar ragione a D’Alema su Cina e Russia costrette all’aggressività da Biden.

La Versione si chiude con il recupero di una bella lettera al direttore di Avvenire di ieri (oggi non è in edicola) scritta dal fondatore di Vita Riccardo Bonacina. Tema: il 2022 come anno del Volontariato.

A proposito di iniziativa sociale, potete ancora ascoltare un vero esempio di economia circolare e solidale, una storia davvero positiva. La racconto nel quarto episodio della serie Podcast originale realizzata da me con Chora Media per Vita.it. e con il sostegno di Fondazione Cariplo, intitolata Le Vite degli altri e che racconta vicende di chi dedica il proprio impegno e il proprio tempo agli altri. Il titolo di questo quarto episodio è “Un Quid della moda”. Protagonista è la trentenne veronese Anna Fiscale che ha realizzato un’impresa sociale di successo, che ha il marchio “Progetto Quid”, riutilizzando materiale avanzato da grande aziende della moda, come Calzedonia. Dando anche lavoro a persone abitualmente tagliate fuori dal sistema produttivo, compresi disabili e detenuti. Si può creare qualcosa di diverso e responsabile, scommettendo su ciò che la società consumistica lascerebbe ai margini. La storia di Anna lo dimostra. Questa l’immagine della “cover”.

Troverete Le vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-anna-fiscale-v2

Ascoltate e inoltrate questo episodio, ne vale la pena! FINO A VENERDÌ ASPETTATEMI NELLA VOSTRA CASELLA DI POSTA PRIMA DELLE 8 CON LA RASSEGNA. Vi rammento anche che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine della Versione. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

È ancora la lotta alla pandemia in primo piano. Il Corriere della Sera annuncia: Quarta ondata, nuove misure. La Repubblica sottolinea la creazione di una nuova indennità per i sanitari: Covid, il governo premia i medici in prima linea. La Stampa invece punta sui piccoli: Vaccini, il piano del Cts “Immunizzare i bambini”. Lo fa anche La Verità ma in chiave negativa: Speranza vuole un bambino su due. Libero torna a spiegare bene i vantaggi della campagna di Figliuolo: La verità sui vaccini. Mentre il Quotidiano Nazionale offre un vademecum sui minori: Vaccini ai bimbi, cosa c’è da sapere. Il Mattino prevede lo sviluppo della quarta ondata: «Contagi, il picco a Natale ma è il Nord più a rischio». Così come il Messaggero: «Contagi, il picco sarà a Natale». Il Giornale registra gli umori di una maggioranza silenziosa che si sta mobilitando da Milano a Trieste: La rivolta dei Sì Pass. Altri temi per il Domani che mette nel mirino John Elkan: Ecco chi è il manager più pagato d’Italia. Il Fatto continua la campagna contro il leader di Italia viva: Renzi difendeva autostrade e riceveva soldi da Benetton. Il Sole 24 Ore dettaglia i nuovi stipendi pubblici voluti dal governo: Sindaci e assessori: ecco i nuovi compensi.

LA RIVOLTA DEI SÌ PASS

Scatta la rivolta dei sì pass: la maggioranza silenziosa ora vuole riprendersi le città. Locatelli  del Cts dice: «Proteste ai limiti dell'ingiustificabile» e Sangalli della Confcommercio aggiunge: «Danni inaccettabili per imprese e cittadini». Antonio Ruzzo sul Giornale. 

«Il popolo non sono loro, nonostante nei cortei con gli slogan ripetuti alla noia sostengano il contrario. È un fatto di numeri, di proporzioni: due giorni fa i No Pass che hanno sfilato a Milano bloccando il centro fino a notte erano quattromila secondo la questura. Quindi non c'è bisogno di far troppi conti per capire che il popolo era da qualche altra parte. Sono sedici sabati che va così. Sedici weekend che le città vengono prese in ostaggio da cortei che bloccano un po' tutto, dal lavoro al traffico, alla libertà di farsi una passeggiata faticosamente riconquistata dopo quasi due anni di lockdown grazie anche alla campagna vaccinale, la stessa che i No Vax contestano, ma anche la stessa che permette loro di protestare in strada e non affacciandosi ai balconi. Ma dai commercianti, alla politica, ai tanti che in piazza non scendono perché da sempre nel nostro Paese la maggioranza è «silenziosa», ormai la misura è colma. «Le manifestazioni No Pass a cui abbiamo assistito nelle ultime ore sono difficilmente comprensibili, per non dire al limite dell'ingiustificabile - ha spiegato il coordinatore del Cts, Franco Locatelli, intervistato su Rai3 a Mezz' ora in più- Tutto quello che è stato fatto con la strategia legata a vaccini e green pass è cercare di offrire le migliori condizioni di protezione e per questo abbiamo la miglior condizione epidemica in Europa». Situazione che vede il nostro Paese «resistere» al cospetto di una quarta ondata che ormai sta facendo risalire contagi e ricoveri un po' ovunque e che in alcuni Stati ha già riportato misure restrittive alla mobilità e alla socialità. C'è quindi la paura, dopo sacrifici e rinunce, di ripiombare in un incubo e in un film già visto. Non solo. C'è la preoccupazione di chi lavora di tornare nuovamente al punto di partenza. «Manifestare per le proprie idee è sacrosanto, ma va fatto nel perimetro della legalità e nel rispetto della libertà di tutti - ha puntualizzato ieri Carlo Sangalli, presidente Camera di Commercio di Milano Monza Brianza Lodi, intervenendo alla cerimonia Impresa e lavoro - I cortei non autorizzati che si ripetono da 16 sabati consecutivi non rientrano in questo perimetro. Se dovessero continuare anche nel periodo natalizio il danno per le imprese, per i cittadini e per l'attrattività di Milano sarebbe inaccettabile». Ed è questo un sentimento comune. Che porta al rispetto di in un «patto» da parte di commercianti, ristoratori, imprenditori, operatori sanitari e più o meno da parte di tutti coloro che si sono «arresi» al green pass magari non tanto sulle evidenze scientifiche ma più sul calcolo razionale e di buonsenso, accettandolo come strumento necessario per riprendere una vita più o meno normale. Libertà è scendere in piazza, protestare ma è anche il rispetto delle regole che, nell'emergenza della pandemia, sono diventate protocolli da condividere anche in disaccordo. Quattromila in piazza a Milano, ottomila a Trieste per denunciare la violenza dello Stato che, dietro il green pass nasconderebbe solo l'obbligo della vaccinazione ma che, piaccia o no, è una strategia per frenare un virus che in due anni ci ha cambiato l'esistenza. È il muro contro muro tra «lo Stato di violenza» e il diritto (o la speranza) alla salute e al lavoro che, sempre a Trieste, vede i promotori di una petizione raccogliere in pochi giorni 60mila firme contro i cortei che stanno spegnendo la città. Numeri. Numeri e percentuali, che comunque qualcosa sempre valgono, qualcosa dicono e in questo caso che la maggior parte degli italiani sul vaccino ci ha scommesso. Se ne facciano una ragione i No Pass: il popolo non sono loro...».

La leader «sì vax» di Trieste, l'avvocata Tiziana Benussi, racconta al Corriere della Sera di avere già raccolto 60mila firme: salute e lavoro vanno rispettati. Andrea Pasqualetto.

«Passi per qualche manifestazione, passi per il sit-in di piazza Unità, passi anche per gli attacchi al sistema. Ma quando ha visto la sua Trieste bloccata dalla rivolta e poi le disdette degli alberghi e l'aumento dei contagi, Tiziana Benussi ha detto no, qui bisogna fare qualcosa. Ci ha lavorato un po' e alla fine ha raccolto 60 mila firme per dire «ci siamo anche noi, i favorevoli al vaccino». Con Mitja Gialuz, presidente della Barcolana, ha messo in piedi una petizione online sulla piattaforma change.org per ricordare all'Italia che la grande e silenziosa maggioranza dei triestini non scende in piazza in questi giorni. È il popolo dei Sì vax, rimasto finora dietro le quinte di una città che infiamma. «Siamo già 60 mila su 200 mila abitanti, mentre i manifestanti dell'ultimo corteo erano 8 mila. Non voglio essere divisiva ma i numeri parlano da soli. Vogliamo togliere alla nostra città la nomea di capitale no vax per restituirgli quella che si è meritata come eccellenza della scienza...». Avvocata da 45 anni, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste, Benussi ci accoglie nella sua casa ottocentesca alla Barcola. «Premessa, qui la banca non c'entra, parlo da cittadina ferita da quel che sta succedendo. Ieri ho visto una città deserta, serrande abbassate, un muro inquietante...». Hanno risposto all'appello nomi illustri del capoluogo giuliano ma anche persone semplici, pensionati, professionisti, operai, dipendenti della sanità, giornalisti. «C'è il ministro Patuanelli, gli onorevoli Serracchiani e Rosato, c'è il professor Sinagra del centro cardiologico, il professor Confalonieri della pneumologia, Lucangelo della rianimazione, c'è il rettore dell'università Di Lenarda, D'Agostino del porto, Riccardo Illy e tanti altri anche l'attrice Ariella Reggio». Dipiazza? Fedriga? «Sì, anche loro e anche Russo che ha corso da sindaco». Mentre accarezza Tea, una pelosissima scottish terrier che sembra un cuscino, l'avvocata ricorda le radici di Trieste. «Austrungariche, rispettose delle regole: c'è un limite al diritto di manifestare, quello del rispetto della salute, del lavoro e dell'iniziativa economica degli altri, tutti diritti costituzionalmente riconosciuti». Punta l'indice sul focolaio triestino del virus che gli esperti hanno individuato nelle manifestazioni contro il green pass. «Questa è una balla istituzionale - urlava sabato il leader del corteo chiuso poi con gli scontri in piazza Unità (18 denunciati e 6 figli di via) - E le migliaia di persone che si sono accalcate il mese scorso per la Barcolana? I ricchi difendono sé stessi e vogliono la guerra fra poveri». L'avvocata stringe la bocca: «Uno: sono gli scienziati a parlare del focolaio. Due: non sono ricca. Tre: esclusa una quota di no vax, che comunque rispetto nella scelta, a me sembra che queste manifestazioni siano state il pretesto per molti di cavalcare l'onda antisistema che nulla c'entra con motivi di ordine sanitario». Cosa farete? Una contromanifestazione di piazza? «Macché, non vogliamo cortei e assembramenti che peggiorino la situazione. Cercheremo di portare il nostro appello all'attenzione del governo perché ristabilisca l'ordine costituzionale». Benussi dubita che qualcosa possa accadere. Scuote la testa, sospira, arde. Fuori Trieste è tornata come sempre alla normalità del giorno dopo. In attesa dei prossimi fuochi».

I PIANI PER LA QUARTA ONDATA

Il Ministro Speranza ha destinato novanta milioni per incentivare il personale sanitario nei reparti sotto stress, non solo per il Covid. Lo rivela Michele Bocci su Repubblica.

«Oggi presidiare la prima linea è molto stressante. Non solo per il Covid ma anche per la richiesta di aiuto di chi ha interrotto o rinviato le cure a causa della pandemia. Così medici e infermieri stanno fuggendo dai pronto soccorso. Contro la grave crisi di vocazioni il ministero alla Salute ha deciso di creare una nuova indennità. Dal primo gennaio 2022 verranno messi a disposizione 90 milioni di euro per coloro che permettono di tenere aperta 24 ore su 24 quella che viene definita la porta dell'ospedale. Si tratta di un incentivo col quale si vuole fermare l'emorragia dai pronto soccorso. I tecnici di Roberto Speranza hanno preparato un articolo da inserire nella manovra per riconoscere «le particolari condizioni di lavoro» di questo personale «dipendente delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale». A suo modo si tratta di una rivoluzione, visto che viene introdotta una nuova indennità accessoria in sanità. Sempre nella norma è previsto che gli importi annui siano di 27 milioni per i medici, che sono circa 10mila, e di 63 milioni per gli infermieri, che sono circa 25 mila. Si tratta di soldi in più che entrano in busta paga solo se la presenza in servizio è "effettiva". Probabilmente quindi l'indennità sarà calcolata su base oraria. Ovviamente chi si sposterà a lavorare in un altro settore la perderà. La novità partirà dal primo gennaio dell'anno prossimo, visto che appunto è ancorata alla manovra. Il denaro necessario arriverà attraverso il fondo sanitario nazionale, che è stato incrementato di 2 miliardi all'anno per i prossimi tre anni. Le Regioni quindi saranno tenute a spendere quella quota del fondo per la nuova indennità, che diventerà parte del rapporto contrattuale e probabilmente verrà poi inserito negli accordi collettivi. È stato Speranza a spingere perché nascesse l'indennità e nella scelta hanno pesato molti fattori, che in questo momento rendono durissimo il lavoro nell'emergenza. Ad esempio questo è il settore nel quale si registrano più aggressioni ai professionisti da parte di pazienti o familiari e conoscenti. Spesso c'è tensione nelle sale dell'emergenza. A non mancare mai comunque è la stanchezza, come denunciano ormai da tempo sindacati e società scientifiche che hanno organizzato per il 17 novembre una manifestazione nazionale a Roma. Da Simeu, che è la società della medicina di emergenza e urgenza spiegano in modo molto eloquente: «Oggi ci ritroviamo prostrati ed esausti a continuare a combattere su due fronti mentre affrontiamo una crisi strutturale mai vissuta prima. Le problematiche che ci affliggono sono numerose e non hanno ancora ricevuto costruttive attenzioni». Il personale nei pronto soccorso è carente, mancherebbero infatti 4mila medici e addirittura 10mila infermieri, tanti scelgono di lasciare, appena si apre un concorso per medicina interna sono molti quelli che si iscrivono per spostarsi in un reparto giudicato meno pesante. In più il 40% dei posti nelle scuole di specializzazione quest' anno sono rimasti vuoti, perché evidentemente il lavoro in prima linea non attrae i giovani. Troppi turni di notte nei quali il lavoro non diminuisce mai, troppi weekend impegnati e appunto, almeno fino ad ora, nessun incentivo economico. Addirittura quello al pronto soccorso, protestano da Simeu, non ha avuto il riconoscimento di lavoro usurante come invece sono quelli in terapia intensiva e radiologia. Il ministero quindi cerca intanto di frenare la crisi con un'indennità specifica, mentre già si è annunciato, riguardo al problema generale di carenze in sanità, che sempre nella manovra verranno messi in regola i contratti a termine avviati con l'emergenza Covid. Sarebbero circa 50mila. E a proposito di questo, sempre in manovra c'è un articolo con il quale vengono confermate le Usca, "unità speciali di continuità assistenziale", che sono state create dopo l'inizio della pandemia per dare tra l'altro assistenza domiciliare ai sospetti casi di Covid e a quelli conclamati, dai quali i medici di famiglia non andavano. Le Usca si sono rivelate molto utili non solo per l'assistenza a domicilio e continueranno a lavorare fino a giugno del 2022, quando partirà tutta la riorganizzazione dell'assistenza territoriale con la quale potrebbero essere inserite stabilmente nel sistema sanitario nazionale».

Stato di emergenza fino a marzo, Green pass valido un anno. Ecco le nuove misure per fronteggiare la quarta ondata. Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.

«Green pass valido 12 mesi in vigore fino all'estate, riapertura di tutti gli hub regionali per la terza dose e completamento dei cicli, chiusure in base al cambio di fascia delle regioni: mentre il numero dei contagi continua a salire il governo mette a punto la strategia per evitare misure restrittive confortati dal fatto che quasi 2 milioni di cittadini hanno già ricevuto la terza dose. Il sistema ospedaliero regge, anche se in alcune città si stanno aumentando i posti disponibili in area medica e terapia intensiva in modo da rimanere sotto la soglia critica. Ma con l'arrivo del freddo e delle festività di dicembre bisogna avere pronto il piano per fronteggiare la "quarta ondata" ormai partita in tutta Europa. Ecco perché sembra ormai scontato che lo stato di emergenza venga prorogato fino al 31 marzo. Stessa sorte toccherà all'intera impalcatura messa su dal governo per fronteggiare il Covid, dal Cts alla struttura guidata dal generale Francesco Paolo Figliuolo. E di certo resterà l'obbligo di mantenere la mascherina al chiuso. «Non si tocca», ha avvertito il ministro della Salute Roberto Speranza che continua a chiedere il rispetto del distanziamento pur sapendo che non è più obbligatorio al cinema, al teatro o nelle sale da concerto. L'ultima proroga scade il 31 dicembre. La cabina di regia politica non deciderà prima di metà dicembre, ma è ormai chiaro che lo stato di emergenza dovrà continuare. È possibile che già prima di Natale si decida di varare un provvedimento, o comunque di inserire un emendamento in uno dei testi in discussione in Parlamento. L'obbligo di green pass per i lavoratori e per entrare in tutti i luoghi pubblici dovrebbe essere rinnovato almeno fino all'estate. Nelle ultime settimane si è discusso della possibilità di far durare il green pass soltanto sei mesi, ma il governo - come ribadito dal ministro Speranza - non sembra intenzionato a cambiare. Confortato anche dal parere degli scienziati. Su questo punto il Cts si era espresso il 27 agosto scorso, quando si era deciso di ampliare il periodo di validità da nove mesi a un anno per chi si è sottoposto alla seconda dose: «Sebbene alcuni studi scientifici mostrino, nel tempo, un calo del titolo anticorpale nei soggetti vaccinati e una riduzione dell'immunità sterilizzante offerta dai vaccini, le evidenze a oggi disponibili indicano che i soggetti compiutamente vaccinati mantengono, rispetto ai soggetti non vaccinati, elevata protezione rispetto al rischio di essere contagiati e, ancor più marcatamente, rispetto al rischio di sviluppare patologia grave (con un'efficacia, secondo i più recenti dati dell'Istituto Superiore di Sanità, quantificabile nell'ordine del 97%) grazie alla generazione e persistenza nel tempo di linfociti B e T di memoria che, in caso di contatto a Sars-CoV-2, sono in grado di attivare una risposta immunologica adattiva protettiva rispetto allo sviluppo e progressione di forme gravi di patologia Covid-19». È stato il commissario Figliuolo a sottolineare «visto quanto sta avvenendo in altri Paesi europei con la "pandemia dei non vaccinati"», la necessità di «incrementare il ritmo di somministrazione delle terze dosi, nonché di proseguire con il completamento dei cicli vaccinali primari». Ai governatori è già stato chiesto di riaprire gli hub che erano stati chiusi e a coinvolgere i medici di base. Una sollecitazione già recepita dal presidente della conferenza delle Regioni e del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, che certamente riunirà i colleghi appena arriverà il via libera alla terza dose per chi ha meno di 60 anni. Figliuolo ha chiesto di «garantire la possibilità aggiuntiva di accedere alla vaccinazione direttamente presso gli hub vaccinali senza prenotazione», mentre medici e pediatri dovranno «ricorrere in modo sistematico alla "chiamata attiva", procedendo alla prenotazione dei soggetti interessati alla dose "booster"» occupandosi anche degli under 12 quando l'Ema dirà che si può fare. Speranza ha ribadito al Corriere la validità del sistema dei colori che consente di mantenere aperte le attività imponendo misure drastiche solo in quelle aree dove la situazione peggiora, anche potendo ricorrere alle "zone rosse" in caso di eventuali cluster. Al momento l'Italia rimane bianca ma non è escluso che nel giro di qualche settimana alcune Regioni - Friuli-Venezia Giulia in testa e poi Marche, Calabria e provincia di Bolzano - possano cambiare colore e diventare gialle».

CORSA AL QUIRINALE, CRISI DI SISTEMA?

Nelle discussioni politiche tiene banco il tema del Quirinale. Oggi il Quotidiano Nazionale torna sull’idea del presidente a termine (Mattarella? Berlusconi?) ma per bocciarla. Pierfrancesco De Robertis.

«Presagendo un conclave incerto, il cardinale Felice Peretti entrò nella Sistina mostrandosi curvo e gravemente malato, prossimo alla morte. «Se pensano che abbia poco da vivere, mi eleggeranno papa e salirò al Quirinale». Lo stratagemma funzionò e il cardinale uscì dalla cappella come Sisto V, in perfetta salute. Era il 1585, ma da allora gli psico-meccanismi del potere sono rimasti gli stessi e così molti di coloro che adesso ambiscono a salire su quello stesso Colle annusano la medesima aria di stallo, comprendono la generale voglia di un mandato «breve» e confidano che la loro età avanzata invogli i grandi elettori. La disponibilità a un mandato accorciato non dalla Costituzione ma dal Padreterno che le numerose candidature e autocandidature di ultraoctuagenari lasciano sottindendere si configurano però come una scorciatoia che aggiunge precarietà a una politica italiana tristemente precaria di suo. Ma è di precarietà trasferita ai massimi vertici istituzionali che il Paese ha bisogno? Il problema di questa elezione 2022 è che nessuno dei due blocchi ha la forza di vincere contando ognuno circa 450 grandi elettori (una cinquantina in meno del necessario), senza considerare che i partiti controllano poco i propri gruppi. In qualche modo ne usciremo, perché ne siamo sempre usciti, ma non tutti i modi sono neutri. Alcuni sono utili al Paese, alla difficile fase che stiamo vivendo, altri molto meno. Il peggiore è, appunto un mandato a tempo, contrario non tanto allo spirito della Costituzione quanto alla Politica. E' una misura eccezionale, che per questo non può diventare l'abitudine. Il secondo è lo scontro frontale dei due quasi-blocchi, che viste le impotenze reciproche trasformerebbe in una corrida prima il parlamento poi il resto delle istituzioni. Il modo migliore, forse l'unico, è quindi un grande accordo che identifichi una personalità di garanzia per tutti, e quella strada persegua. Chiunque sia. Non un'elezione a maggioranza, ma un'elezione della maggioranza che conseguentemente conferisca all'eletto (o alla eletta) un preciso mandato di unità. Ultimamente purtroppo non è accaduto così. Non lo ha fatto la sinistra che quando ha potuto ha piazzato al Quirinale uomini suoi (Napolitano, Mattarella), non lo ha fatto il centrodestra che inaugurò nel 1994 l'infausta pratica di assegnare le più alte cariche dello Stato (Camera e Senato) a chi vinceva le elezioni. Forse il Quirinale 2022 e la debolezza della politica con la quale ci arriviamo potrebbero essere l'occasione per riscoprire un principio una volta mai messo in discussione: le istituzioni non sono dei partiti ma di tutti i cittadini. E loro chiedono unità».

Proprio sul Colle e la crisi del nostro sistema politico ragiona Ezio Mauro su Repubblica, che non vede scorciatoie possibili:

«Come un plotone di ciclisti all'ultima curva, ottenuto il via libera al Recovery Fund e varate le prime riforme imposte come condizione dall'Europa, la società politica si prepara alla volata decisiva per il vero traguardo finale, l'elezione del Presidente della Repubblica che per sette anni guiderà un Paese stremato. Si arriva infatti a questo appuntamento con il rinnovo del vertice istituzionale dopo due anni di pandemia, lutti, angoscia, lockdown e sacrifici, che hanno lasciato uno strascico di precarietà e d'incertezza. Per tutta la lunga fase acuta della paura la politica disciplinare del governo ha trovato nei cittadini una risposta positiva, nella subordinazione condivisa a uno stato di necessità. Con la fine dell'emergenza più drammatica e l'arrivo del vaccino è cominciata l'era della ribellione spacciata per libertà, come se il percorso ciclico del virus non fosse più un problema e comunque le ragioni economiche dovessero prevalere comunque sul dovere di tutela della salute. La situazione è quella che vediamo ogni giorno. Il meccanismo produttivo rivela ancora una volta un'elasticità che gli consente di ripartire e scalare le previsioni di crescita del Pil, ma il meccanismo politico è imballato e arrugginito, incapace di trovare un vero punto d'incontro in una lettura comune della crisi e di recuperare una sua presenza incisiva e autonoma rispetto al governo, l'unico soggetto forte in campo. Ma fino a quando si può vivere senza politica? Non tutto infatti è tecnico, o risolvibile tecnicamente. L'arrivo di Draghi a Palazzo Chigi è frutto di due circostanze particolari, l'avvio di un ciclo straordinario di aiuti per l'emergenza Covid da parte della Ue e la fine di un ciclo politico che aveva consumato le carte in mano ai partiti e le opzioni di governo disponibili. Per forza di cose Draghi a quel punto suonava come scelta estrema e come soluzione di garanzia dell'Italia all'Europa, nel momento in cui il nostro Paese doveva impegnarsi a creare e rispettare le condizioni per rientrare nel piano del Recovery. Ma anche un governo che nasce su questa base tecnica d'emergenza, in democrazia ha bisogno della politica e non soltanto dei suoi voti in parlamento, perché necessita comunque di valori di riferimento, oltre gli obiettivi immediati, e di una rappresentanza costante degli interessi legittimi, per sentire il polso della società e decidere la rotta. Tutto questo è assente. La prassi sta ingoiando ogni teoria, manca nel parlamento e nel Paese la tensione e lo sforzo culturale che annunciano le stagioni del cambiamento, ogni cosa è provvisoria o estemporanea, la fase non ha neppure un nome che la caratterizzi per portarla nei libri di storia. I partiti non hanno capitalizzato questi mesi di delega tecnica per ritrovare un'autorità e riprendere un ruolo, guidando il sistema mentre Draghi guida il governo. Anzi, la vera scoperta è proprio questa: per la prima volta non c'è più un sistema. Gli elementi che caratterizzano un sistema politico-istituzionale sembrano infatti entrati in crisi tutti, e contemporaneamente: il territorio come base della sovranità esercitata ai vari livelli, l'articolazione tra i poteri dello Stato, la cultura costituzionale, la relazione tra società politica e società civile, la coscienza dei diritti e delle libertà come patrimonio comune da custodire e da sviluppare. Oggi i diritti legati alla persona sono elemento di divisione, lo scambio tra i cittadini e i partiti è atrofizzato, il concerto tra i poteri è stonato nel rapporto Stato-Regioni - come ha dimostrato la pandemia - e nel confronto tra politica e magistratura, come conferma la cronaca quotidiana. In più lo spazio europeo non è vissuto come casa comune e cornice collettiva, ma è denunciato come usurpazione della sovranità nazionale. E anche se nessuno attacca frontalmente la Costituzione cresce un sentimento politico favorevole alla concezione illiberale della democrazia, che nega all'origine l'ispirazione della Carta, senza neppure la necessità di contestarla. Ecco perché diventa difficile capire cosa tiene insieme i soggetti politici, gli organi istituzionali, i poteri dello Stato. È un passaggio da anno zero, forse il vero avvio della Terza Repubblica dopo la prima, dei partiti, e la seconda dei leader, all'insegna del maggioritario. Ora siamo davanti alla Repubblica dei supplenti, in attesa che la politica ritrovi le ragioni per riprendere lo scettro. Il risultato è un'altra fase dell'eterna transizione italiana, ma questa volta senza un approdo definito e soprattutto senza una cultura politica come guida, capace di indirizzare i fenomeni verso un orizzonte riconoscibile dentro un disegno definito, com'è avvenuto nelle stagioni del centrismo, del centrosinistra, dell'alternanza tra il berlusconismo e l'Ulivo prodiano, per finire con il populismo: che non era una cultura e neanche una politica, ma la ribellione ad entrambe, nel magico fuoco iconoclasta che ha bruciato ogni autorità e ogni legittimità repubblicana, preparando le ceneri di oggi. Senza un sistema, senza una cultura politico-istituzionale di riferimento comune, arriviamo senza mappa all'appuntamento solenne del Quirinale, che può dunque riservare sorprese: come la proposta del ministro leghista Giorgetti di insediare al vertice della Repubblica insieme con Mario Draghi - candidato naturale e certamente di equilibrio e di garanzia democratica - anche un semipresidenzialismo "di fatto" che trasferisca al Quirinale il comando esecutivo, ridimensionando il premier. Ovviamente il semipresidenzialismo, come dimostra la Francia, non è un tabù, ma la Costituzione va rispettata e se è il caso riformata, non aggirata strada facendo. E in ogni caso tutto deve avvenire alla luce del sole, con una discussione aperta e con il controllo della pubblica opinione, non come risultato estemporaneo di circostanze casuali, incrociate con una presunzione dello spirito del tempo, spacciato per moderna volontà generale. Lo spirito del tempo può avere torto, soprattutto quando è sedotto da scorciatoie e semplificazioni, blindato dall'emergenza permanente. Di tutto abbiamo bisogno, in questo paesaggio che non è un insieme, meno che di una democrazia "di fatto". I partiti, mentre Draghi governa, pensino a ricostruire il sistema preparando il ritorno della politica: senza, è comunque vuoto il Palazzo del potere».

CENTRO DESTRA, MELONI CONTRO SALVINI

Già innervosito dalle critiche di Giorgetti, Matteo Salvini deve subire anche quelle di Giorgia Meloni. Paola Di Caro per il Corriere:

«La nuova linea sarà messa a punto in un esecutivo del partito che si terrà in settimana. E non prevede di continuare quella sorta di guerriglia interna al centrodestra che ha portato a una sconfitta quasi ovunque alle Amministrative, nonostante il buon risultato del partito. Perché Giorgia Meloni ha almeno tre obiettivi in questo momento. E il quasi silenzio di queste ultime settimane fa capire come non voglia sbagliare le prossime mosse. Però l'inciampo arriva subito, ed è una nuova polemica proprio con la Lega. In un'intervista a Retequattro infatti, parlando dell'ipotesi che non si vada a votare anticipatamente anche se Draghi fosse eletto capo dello Stato, la leader di FdI - che sarebbe disposta a discutere dell'elezione del premier al Colle proprio per andare al voto subito - sbotta: «Se Draghi va al Quirinale il governo resta in carica? Mi sembra folle. I cittadini possono dire la loro o no? Ci interessa cosa hanno da dire o non ci frega più niente? Se è così allora abbiamo un problema». E il problema è anche che Salvini sembra disposto ad arrivare a fine legislatura: «Lui sa benissimo come la penso, quindi non è che glielo devo dire e non so perché abbia cambiato idea rispetto a quello che diceva prima. Ma a me sembra abbastanza folle e continuo a ritenere che prima i cittadini scelgono di farsi rappresentare e meglio è». Ma dalla Lega arriva immediatamente la precisazione: «Siamo pronti - dicono fonti ufficiali del partito - ad andare al voto per le Politiche in qualsiasi momento. Il timore del segretario Matteo Salvini è che molti parlamentari, a partire dai 5 Stelle, faranno di tutto per evitare le elezioni anticipate». Sembra quasi un'autodifesa, ma Salvini, per tenere ben stretto lo scettro di chi dà le carte, rilancia sul tema delle candidature per le Amministrative del 2022 e propone che «dove ci potrebbero essere difficoltà per scegliere un candidato sindaco condiviso da tutto il centrodestra - per esempio a Como, Lucca o Palermo - si potranno tenere primarie di coalizione». La leader di FdI non replica per ora, anche se è noto che è sempre stata favorevole alle primarie, alle quali finora si è invece sempre detta indisponibile Forza Italia. Si vedrà quali saranno gli sviluppi, intanto la Meloni si concentra appunto sui suoi tre obiettivi. Il primo è rispondere, senza «falli di reazione», a quelli che ritiene siano stati colpi bassi, ovvero le accuse di nostalgie fasciste dopo l'inchiesta di Fanpage e l'assalto di Forza nuova alla Cgil e di flirtare con i no vax visto che «noi siamo favorevoli ai vaccini, anche se abbiamo dubbi sulla gestione del green pass». Ed è possibile che il partito, attraverso la sua fondazione, possa fare un'iniziativa a favore dei vaccini, mettendo a disposizione spazio e medici per gli ultrasessantenni che avessero problemi ad accedere all'immunizzazione. Il secondo è dimostrare che si può fare «l'interesse dei cittadini» portando avanti una opposizione dura soprattutto sulla manovra ma «con proposte concrete», incalzante ma «responsabile» come dimostra l'incontro con Mario Draghi, ancora una volta «molto cordiale». Il terzo, è che FdI mantenga la prima posizione nei sondaggi senza dover per forza sgomitare con gli alleati della Lega: «Il nostro competitor - dice ai suoi - non è lui, ma il Pd. Noi non abbiamo nessun progetto alternativo al centrodestra, vogliamo essere la forza conservatrice della coalizione». Tutto molto fedele a quanto detto dalla stessa Meloni nell'ultimo vertice a Villa Grande con Berlusconi e Salvini, quello che doveva suggellare anche la nascita di una sorta di coordinamento della coalizione e che invece, finora, non ha avuto seguito, mentre si è tenuto l'incontro tra Berlusconi, Salvini e i ministri. Non ci sono appuntamenti in settimana tra i leader e nemmeno tra i capigruppo di Lega, FI e FdI. Secondo alcuni Meloni non avrebbe gradito, ma Ignazio La Russa vuole evitare polemiche. Per ora: «Tutto previsto,così come sono previsti prossimi vertici tra i leader. Non c'è da litigare».

5 STELLE, GRILLO ARRIVA A ROMA

Beppe Grillo verrà a Roma. Manca da diversi mesi ed è importante capire che cosa pensi della corsa al Quirinale, visto il malumore dei gruppi parlamentari. Federico Capurso sulla Stampa.

«Beppe Grillo dovrebbe tornare a Roma questa settimana, al più tardi la prossima. Condizionale d'obbligo, perché anche a fine ottobre era atteso nella Capitale e invece poi, irritato dalla fuga di notizie, si era impuntato: «Lo avete detto ai giornalisti, non vengo più!». Ma è da luglio che manca e adesso vorrebbe far sentire di nuovo la sua presenza, incontrare faccia a faccia i maggiorenti del partito e parlare poi a deputati e senatori in assemblea. L'ultima volta li aveva arringati cannoneggiando contro Conte; adesso sembra che con l'ex premier il rapporto sia meno burrascoso, i due si sentono frequentemente - assicurano dal M5S - e se Grillo davvero arriverà, «si incontreranno». Chi ha sentito il fondatore del M5S nelle ultime settimane sa che vorrà discutere delle battaglie politiche da portare avanti, che devono andare «oltre il cashback» e mirare a «qualcosa di più ambizioso», come l'introduzione del «reddito universale». Ma è interessato anche a tastare il polso dei gruppi parlamentari, perché i malumori sono rimasti vivi in questi mesi, tanto da portare l'ex ministro Vincenzo Spadafora - da tempo in aperto contrasto con Conte - a parlare di «rischio scissione». E in vista dell'elezione del Capo dello Stato sarebbe preferibile avere un Movimento granitico. L'opposto, insomma, di quello di oggi. La partita del Quirinale non è mai stato argomento capace di appassionare davvero Grillo, ma ai piani alti del M5S temono che anche lui voglia offrire il suo punto di vista e, magari, provare a farlo pesare. C'è il terrore, quindi, che alla posizione di Conte e a quella di Luigi Di Maio se ne possa aggiungere una terza. A Conte - come anticipato da questo giornale - non dispiacerebbe avere Mario Draghi al Colle, portando il ministro dell'Economia Daniele Franco a palazzo Chigi attraverso un accordo che salvi la legislatura. Una soluzione a doppio incastro che per Di Maio è troppo rischiosa. Il ministro degli Esteri non vuole in alcun modo mettere in pericolo il governo e preferirebbe una convergenza ampia intorno al nome di Giuliano Amato. Grillo, invece, «chissà», fanno spallucce i contiani. E il tono è quello della preoccupazione, «ma questa volta non verrà per spaccare il gruppo. Al contrario, cercherà di ricompattarci», si dicono sicuri. Motivo per cui lo stesso Conte avrebbe benedetto una sua visita a Roma. I segnali che arrivano da Roma però preoccupano Grillo. Vuole capire il motivo della frattura che si è creata in Senato intorno all'elezione del nuovo capogruppo e se c'è il rischio che il problema si ripresenti quando toccherà alla Camera scegliere il successore di Davide Crippa, che non è mai stato in sintonia con Conte e che invece aveva trovato in Grillo un appoggio, nei mesi del grande gelo tra i due leader. Ieri, poi, nel gruppo parlamentare si sono sollevate altre polemiche per il pranzo di compleanno di Goffredo Bettini a cui Conte ha preso parte. Alla Camera mal digeriscono la presenza dell'ideologo Dem e la notizia che a quel pranzo si sia stretto un patto per il Quirinale a loro insaputa ha fatto esplodere le chat interne: «Conte non può farsi dettare la linea da Bettini senza chiederci nulla», protestano. «Siamo passati da Dario Fo a Bettini», commenta amaro un altro deputato. I malpancisti, anche se non sono la maggioranza, soffiano sul fuoco. E in effetti, a quel pranzo, di Quirinale si è parlato a lungo. Il ticket Draghi-Franco poi è l'opzione di Bettini, così com' è quella di Conte. Si è persino affrontato il problema Berlusconi - «Come reagirà, se non salirà al Colle?» - individuando in Gianni Letta l'uomo adatto a convincerlo che Forza Italia deve restare in maggioranza qualunque cosa accada. Conte, però, vorrebbe superare le polemiche interne. Anche per questo mercoledì vedrà deputati e senatori in un'assemblea congiunta. Non entrerà nel vivo della questione quirinalizia, ma chiederà unità e lo farà affrontando il suo progetto di rilancio del partito. Offrendo una sua visione del futuro M5S. Proprio come faceva Grillo». 

MIGRANTI, SBARCO CON 170 MINORI

Nuovo sbarco di migranti in Sicilia. A bordo della nave attraccata ieri a Trapani c'erano 847 persone: 53 donne, di cui due in gravidanza, e 170 minori, molti sotto i dieci anni. La cronaca di Francesco Grignetti e  Alessandro Barbera per La Stampa.

«Lo sbarco di 850 migranti, recuperati in mare dalla nave umanitaria tedesca Sea Eye 4, i 67 approdati a tarda a Lampedusa e la notizia di altri 300 a bordo di una seconda nave di Ong che attendono di toccare terra al più presto, riporta in primo piano un problema che apparentemente era stato accantonato: la Libia. Al ministero dell'Interno sono più che consapevoli del fatto che non appena si chiude un rubinetto, se ne apre subito un altro. Perciò se la Tunisia preoccupa meno di qualche mese fa, perché sta funzionando il meccanismo dei rimpatri con 3 voli charter a settimana, ecco che dalla Libia riprendono massicciamente le partenze. E la ministra Luciana Lamorgese si trova suo malgrado in una morsa soffocante: da una parte gli scafisti approfittano di questi scampoli di bel tempo per far partire più persone possibile; dall'altra, complici il Covid-19 e il periodo pre e post elettorale in Francia e Germania, manca ogni barlume di solidarietà europea. La sua delusione è palpabile. La Lamorgese, solitamente molto cauta, si è sfogata qualche giorno fa: «È giusto che si salvino vite, ma è ingiusto che siamo solo noi a farlo. Non può essere un carico che deve avere soltanto il Paese di primo approdo». Di fatto però è così. Raccontano le fonti del Viminale che la trattativa di questi mesi sul nuovo Patto europeo per l'asilo e le migrazioni, bloccato da un muro contro muro tra europei del Mediterraneo e europei del Centro-Nord, ha lasciato molte scorie tossiche. Così anche i piccoli segni di solidarietà si sono ridotti progressivamente. Intanto la ministra dell'interno viene martellata dal solito Matteo Salvini. «Una nave tedesca - dice il leader del Carroccio - sta per lasciare in Sicilia più di 800 clandestini. Domanda: i ministri dell'Interno e degli Esteri hanno chiesto a Berlino e Bruxelles di farsi carico di questi immigrati o per loro va bene così?». Contro gli sbarchi tuona anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. In verità, il Viminale fa sapere che anche stavolta, come sempre, ci si è rivolti tanto alla Commissione quanto ai partner. Solo che nessuno risponde. Salvini lascia fuori Draghi dalla polemica, ma il problema è palesemente di tutto il governo e si chiama Libia, dove la situazione politico-istituzionale non sta andando affatto bene. Anzi. Siamo alla vigilia di una nuova Conferenza internazionale, che si terrà venerdì 12 novembre a Parigi. Sarà il tentativo in extremis della comunità internazionale, ma innanzitutto del duo Macron&Draghi, di rimettere in carreggiata il processo politico di pacificazione nazionale a Tripoli. Ormai però, nelle stanze del governo italiano si ritiene pressoché defunta la possibilità di chiamare il popolo libico a votare per il presidente il 24 dicembre. Giusto ieri c'è stata l'ennesima spaccatura, pro o contro la ministra degli Esteri, la signora Najla Mangoush, ritenuta troppo filo-occidentale. Addirittura c'è un presidente che l'ha bandita dal Paese e un premier che invece la difende. In questo contesto, gli europei ripongono le ultime speranze della Conferenza di Parigi che avrà una presidenza franco-italo-tedesca. Ma i segnali sono avversi. Non ultimo, l'annunciata assenza di Recep Tayyip Erdogan, che in Libia ha sistemato le sue truppe e ha disatteso ogni invito delle Nazioni Unite a ritirarle. C'è poi il solito generale Haftar che non ha rinunciato alle sue ambizioni e cerca nuovi sponsor internazionali. Se questo è il quadro, con una Libia fuori controllo, e totale libertà di azione per gli scafisti, è chiaro che il Viminale si prepari al peggio. Ogni schiarita meteo significherà nuove partenze».

LIBIA, VERSO IL VOTO DI NATALE

Barbera e Grignetti citano alla fine del loro articolo l’instabilità della Libia. Vincenzo Nigro per Repubblica spiega la posta in gioco. Da oggi si aprono le candidature a presidenziali e parlamentari e crescono le tensioni tra i rivali.

«Lo scontro politico in Libia sta entrando in una fase di fibrillazione generalizzata. E questo per un solo motivo: si avvicina la data delle presidenziali fissate al 24 dicembre e, fra mille contraddizioni, tutti si preparano a una battaglia inedita e decisiva per il Paese. È in questo contesto che va letta l'ultima "fiammata" nel confronto che da settimane va avanti fra governo e Consiglio presidenziale. Il Consiglio presidenziale, ossia la presidenza della Repubblica condivisa tra un presidente e due vice, ha sospeso dal suo incarico la ministra degli Esteri Najla al-Mangoush, vietandole di lasciare la Libia. La mossa ieri mattina è stata contrastata dal capo del governo, il primo ministro Abdelhamid Dbeibah. Dopo aver lasciato la Libia per lavorare come docente universitaria negli Stati Uniti, Mangoush aveva preso posizione a favore del generale Khalifa Haftar quando aveva iniziato a combattere nell'Est del Paese contro i militanti islamici responsabili di decine di assassinii. Era poi stata attaccata dalle milizie filo-turche dopo aver chiesto il «ritiro di tutti i mercenari». Di recente sui media libici erano apparsi suoi interventi video passati diffusi con l'intento di screditarla e di farla apparire troppo allineata ad Haftar. Non solo. Aveva fatto discutere un'intervista a Bbc dove si esprimeva a favore dell'estradizione dell'attentatore di Lockerbie. Il Consiglio l'aveva perciò accusata di avere una linea politica contraria agli interessi del Paese. L'attacco aveva però un altro obiettivo: indebolire il ruolo di Dbeibah che proprio oggi potrebbe annunciare la sua candidatura alla presidenza. Il premier deve il suo incarico a un accordo raggiunto in febbraio durante una conferenza Onu a Ginevra che prevedeva che nessuno degli attuali ministri libici (e quindi neppure il premier) potesse candidarsi. Ma la confusa legge elettorale ancora in fase di elaborazione tra il Parlamento di Tobruk e l'Alto Consiglio di Stato di Tripoli potrebbe lasciar spazio alla candidatura di Dbeibah. Che infatti ha utilizzato questi mesi alla guida del governo per lanciare una campagna "populista", rivolta proprio ad acquisire consenso fra una popolazione libica stremata da 10 anni di caos e guerra civile. Oggi la Commissione elettorale, organismo indipendente sostenuto dall'Onu, aprirà i termini per le candidature alle presidenziali e successive parlamentari. Le prime verranno accettate fino al 22 novembre, mentre le seconde fino al 7 dicembre. Tra i candidati alla presidenza della Libia, oltre a Dbeibah se confermerà la sua candidatura, ci dovrebbe essere il generale Khalifa Haftar che nei giorni scorsi ha mandato suo figlio Saddam in Israele. Secondo i giornali israeliani, il figlio del generale avrebbe proposto a Israele il riconoscimento una volta che il padre venisse eletto in cambio di appoggio politico. Altro candidato di livello, che in questi mesi ha girato Paesi europei e arabi per raccogliere sostegno, è l'ex ministro dell'Interno Fathi Bashaga. Si candiderà anche Ahmed Maitig, ex vicepresidente con Fayez Al-Serraj, apprezzato dagli americani ma anche dall'Italia. La candidatura più "misteriosa" rimane quella di Saif el -Islam, il figlio di Muhammar Gheddafi, il colonnello che guidò la Libia per 41 anni e venne ucciso dai ribelli il 20 ottobre del 2011 a Sirte. In agosto in un'intervista al New York Times, Saif aveva lanciato vari segnali politici, fra cui quello che potrebbe vederlo come candidato. Il sostegno degli ex gheddafiani, ma soprattutto di molte tribù fedeli agli Qaddadfa, non rende irrealistico un suo ruolo politico. Da oggi la ruota della giostra politica in Libia riprenderà a girare ancora più veloce».

GLASGOW 1. RISCHIO FALLIMENTO

Si apre la settimana in cui la Cop26 arriva ad una conclusione anche formale. Il presidente Sharma dice di capire «la frustrazione» dei manifestanti ma il successo della Convenzione sul clima si misurerà dalle intese dei negoziatori su risorse e regole. Sara Gandolfi per il Corriere. 

«Tempo di bilanci all'inizio della seconda settimana di Cop26. Travolto dall'onda dei manifestanti, il presidente Alok Sharma ha ammesso: «Capisco la loro frustrazione». Non tutto è perduto, però. Ci sono sempre due vertici che viaggiano paralleli: quello dei leader, con dichiarazioni altisonanti ma non vincolanti, e quello dei negoziatori, che lavorano nell'ombra. Una Cop dentro la Cop, che entra oggi nel vivo e da cui dipenderà il successo o il fallimento finale. Settimana scorsa hanno parlato 120 capi di Stato e di governo, e anche se l'assenza di Xi Jinping si è fatta sentire, Sharma è andato avanti con la strategia dei «pledges» o impegni: mini-intese che dovrebbero fare da apripista su questioni chiave. «Se tutti gli impegni presi saranno pienamente raggiunti», ha detto il direttore dell'International Energy Agency (Iea), Fatih Birol, «metteranno il mondo sulla buona strada per limitare il riscaldamento globale a 1,8 °C». Siamo 0,3° sopra l'obiettivo invocato dagli scienziati ma è un grosso salto rispetto al +2,7° prospettato all'apertura di Cop26. Gli impegni, però, non sono vincolanti e solo tra qualche anno sapremo se le promesse saranno state mantenute. Oltre 100 Paesi si impegnano a «fermare e invertire» la deforestazione a livello globale entro il 2030, una dichiarazione supportata da investimenti pubblici e privati, che aiuterà principalmente a proteggere l'Amazzonia e le foreste tropicali in Indonesia e nel bacino del Congo. «Ci aspettavamo più dettagli - commenta Jo Blackman, esperto forestale di Global Witness -. I governi hanno già fatto in passato dichiarazioni simili che non sono state rispettate». Sono 103 i Paesi che hanno firmato l'accordo per ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030. Se pienamente attuato, l'impegno potrebbe ridurre di 0,2°C il riscaldamento globale entro il 2050, ma tre dei maggiori emettitori - Cina, India e Russia - non hanno firmato. Oltre 20 Paesi, tra cui l'Italia, si impegnano a terminare i finanziamenti all'estero per tutti i combustibili fossili per il 2022. Altri 40 Paesi ad abbandonare il carbone (tra le decadi 2030 e 2040), ma Cina, Russia e Usa hanno rifiutato. «Joe Biden si è affrettato a criticare l'assenza di Xi Jinping, ma la sua decisione di non firmare il patto sul carbone ha dato un duro colpo a quella che doveva essere una politica di punta della Cop», commenta il Financial Times. Il 90 % dell'economia globale è «impegnata» a raggiungere le emissioni zero verso metà secolo. «Ma se i piani nazionali per i tagli alle emissioni di CO2, di più breve periodo, non ci mettono subito sulla traiettoria verso il Net Zero, i modelli su cui si basano le proiezioni dell'Iea cadranno a pezzi molto rapidamente», avverte Jennifer Allan dell'Earth Negotiations Bulletin. L'india ha promesso di raggiungere il Net Zero nel 2070, 20 anni dopo Usa e Ue e dieci anni dopo Cina, Russia e Arabia Saudita. L'India si è impegnata anche ad ottenere metà dell'energia da fonti rinnovabili entro il 2030. John Kerry, inviato speciale Usa sul clima, avverte: «Le parole non significano nulla se non sono seguite dai fatti». Survival International denuncia che «nelle foreste dell'India centrale sono state pianificate 55 nuove miniere di carbone e l'ampiamento di 193 esistenti». I piani nazionali (o Ndc) aggiornati sono stati presentati dalla maggioranza dei 190 Paesi ed è improbabile che cambino, anche se «non sono sufficienti per raggiungere l'obiettivo di 1,5°», ha ricordato la presidente dell'Unfccc (la Convenzione Onu sul clima) Patricia Espinosa. I negoziatori ora si concentrano su tre temi chiave. 1) Trasparenza: al momento non esiste un format comune per gli Ndc o per verificare che i Paesi mantengano gli impegni. 2) Finanza: l'obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all'anno entro il 2020 non è stato ancora raggiunto e alcuni Paesi in via di sviluppo rifiutano che siano sotto forma di prestiti. 3) Definire le regole di un mercato globale della CO2 per sostenere la compensazione delle emissioni e raggiungere l'obbiettivo Net Zero. Sul tavolo il delicatissimo tema dell'adattamento, ovvero come fornire le soluzioni pratiche ed economiche necessarie per adattarsi agli impatti climatici e affrontare perdite e danni, soprattutto quelli subiti dai Paesi più vulnerabili (e meno inquinanti). La premier di Barbados, Mia Amor Mottley, è stata dura: «L'incapacità di fornire le finanze critiche per le perdite e i danni ricade, amici miei, sulle vite e sui mezzi di sussistenza delle nostre comunità. Questo è immorale ed è ingiusto».

GLASGOW 2. OGGI PARLA OBAMA

Oggi però a Glasgow sarà di scena l’ex presidente Usa Barack Obama. Ne scrive Paolo Mastrolilli su Repubblica.

«Barack Obama torna oggi sulla scena politica globale, alla Cop26 di Glasgow, ufficialmente per incontrare un gruppo di giovani attivisti, restituire credibilità agli Usa come leader della lotta ai cambiamenti climatici, e rinforzare il messaggio dell'ex vice Biden per spingere gli altri Paesi a seguirlo. Le voci di corridoio, però, sussurrano che in realtà si prepara a prendere il posto di John Kerry come inviato speciale della Casa Bianca per il clima. E questo non perché l'ex senatore del Massachusetts stia facendo male. Anzi, tutt' altro: perché il suo vecchio amico Joe, sempre secondo i "rumors", starebbe considerando di riportarlo al dipartimento di Stato. Il 29 ottobre i portavoce di Obama avevano annunciato così la sua missione: «La Fondazione Obama, in collaborazione con la Climate School della Columbia University, ospita una tavola rotonda per mettere in contatto il presidente Obama con i giovani leader che partecipano alla COP26 di Glasgow, per una discussione su come questa generazione sta guidando la lotta contro il cambiamento climatico. Il presidente Obama siederà con questo piccolo gruppo da tutto il mondo che sta lavorando con vari mezzi per combattere il cambiamento climatico, allo scopo di far avanzare la conversazione su come i giovani possono continuare a far sentire la loro voce e stimolare l'azione». Il ragionamento non fa una piega: lui era il capo della Casa Bianca che aveva negoziato e firmato l'accordo di Parigi; lui è la persona più adatta a convincere il mondo che gli Usa fanno di nuovo sul serio, dopo l'abbandono di Trump. È raro che gli ex presidenti tornino a svolgere ruoli operativi, ma capita che assumano missioni specifiche a cui tengono molto, come ad esempio aveva fatto Carter in Corea del Nord nel 2010, per convincere Kim Il Sung a negoziare con Clinton la fine del programma nucleare, oppure ad Haiti per evitare un bagno di sangue nel 1995, quando Raoul Cedras aveva restituito il potere a Jean-Bertrand Aristide. Clima e ambiente stanno molto a cuore ad Obama, che ha accettato di mobilitarsi. La Cnn ha scritto che a chiedergli di andare a Glasgow è stato proprio Kerry, naturalmente con il consenso di Biden, perché Obama ha la capacità di parlare alle generazioni giovani di Greta, per vincere la loro diffidenza e lavorare insieme al faticoso e lento raggiungimento degli obiettivi. Subito però sono iniziate a circolare voci, secondo cui Obama potrebbe assumere un ruolo di maggior durata. Magari non con le modalità di Kerry, che ha un ufficio al dipartimento di Stato e gira il mondo impegnandosi in negoziati estenuanti e minuziosi, ma per dare un'accelerazione. L'ex senatore del Massachusetts poi avrebbe scelto una strategia non sempre allineata con quella del dipartimento di Stato, perché è convinto che la collaborazione con la Cina sul clima potrebbe essere una chiave di volta per riavviare il dialogo generale. L'unico indizio che per il momento va oltre le voci è quello pubblicato dall'informato sito Axios : «Alla domanda per quanto tempo si aspetta di rimanere inviato speciale, Kerry ha detto: "Non l'ho davvero considerato, non ho preso l'incarico con un termine specifico in mente". Poi l'ex segretario di Stato ha aggiunto: "Non per sempre"». Era una cosa ovvia da dire, o un segnale? Durante le conversazioni informali al margine di Glasgow, un paio di stretti collaboratori di Kerry si sono lasciati sfuggire che secondo loro è in uscita. Non perché stia andando male, anzi. L'Associated Press ha appena pubblicato un elogio sperticato della sua azione, apprezzata anche dall'Osservatore Romano . È un vecchio amico di Biden, al punto che lo aveva accompagna nel giro in bus dell'Iowa, quando aveva cominciato la campagna presidenziale e pochi scommettevano che sarebbe arrivato fino in fondo. Le solite voci di corridoio, però, sibilano che a Biden non dispiacerebbe riportarlo al dipartimento di Stato nel resto del mandato, per rafforzare l'azione diplomatica con la sua esperienza, dopo i risultati non brillanti in Afghanistan. Se sono solo voci lo scopriremo in fretta, tra la fine dell'anno e l'inizio del prossimo».

IRAK, LA MINACCIA DELL’ISIS

L’Irak del dopo elezioni è minacciato dall’Isis. Ne scrive Lorenzo Bianchi per il Quotidiano Nazionale:

«Come nel 2003 il pilastro portante della politica irachena si chiama Muqtada al-Sadr. Allora era l'ispiratore delle rivolte sciite contro "l'invasione americana" che aveva defenestrato Saddam Hussein. Oggi il suo partito Al Sairoon è il più forte del nuovo Parlamento eletto il 10 ottobre. Controlla 73 seggi su 329 ed è in pole position per formare una coalizione di governo. Ali al-Nashmi, professore di relazioni internazionali all'Università Mustansiriyah di Baghdad, descrive l'esito del voto: «È come nel 2018. Non succederà nulla. Si profilano gli stessi leader, le stesse liste, gli stessi cronoprogrammi tutte le speranze, tutti i sogni del popolo sono svaniti». La piazza è in fermento. Si susseguono senza sosta manifestazioni degli sciiti radicali di Hashd al-Shaabi, che contestano il risultato della consultazione, solo 15 seggi alla coalizione Fateh vicina alle loro posizioni estremiste. Continua a salire il numero delle vittime fra i dimostranti. L'ultimo è stato ucciso venerdì scorso. Mustafa al-Kadhimi, il premier sfuggito all'attentato con i droni, aveva rapporti sempre più tesi con le milizie rappresentate da Fateh. Recentemente, alcuni membri degli estremisti sciiti in armi sono stati incriminati per aver ucciso alcuni manifestanti due anni fa. L'ultimo consigliere di al-Kadhimi, Hisham al-Hashemi, sarebbe stato assassinato da un commando di queste milizie. Perfino l'Iran è in allarme per la fragilità irachena. L'Isis non è stato sconfitto. Secondo il sito curdo Rudaw il 17 febbraio tre membri della Ventottesima Brigata delle Forze di mobilitazione popolare sciite sono stati uccisi dagli uomini in nero a un posto di blocco che si trovava 28 chilometri a nord di Khanakin, nella provincia di Diyala».

SAPELLI CONCORDA CON D’ALEMA: LA CINA È COLPA DI BIDEN

Fabio Dragoni sulla Verità intervista Giulio Sapelli. Che sembra concordare con il giudizio espresso due giorni fa da Massimo d’Alema sul Corriere. Dice infatti Sapelli: “Se Russia e Cina sono alleate è tutta colpa degli Usa di Biden”.  

«Cina e Russia hanno molti punti di contrasto storicamente determinati. È solo l'unipolarismo Usa che le ha spinte e le spinge purtroppo l'una nelle braccia dell'altra. L'impegno dovrebbe, invece, essere quello di ricostruire un percorso di relazioni Usa-Russia in funzione anticinese. Gli Stati europei e l'Ue potrebbero svolgere un ruolo importante in questo campo, contestando la politica tedesca nelle relazioni commerciali». La geopolitica di queste ultime settimane è stata squassata da due eventi di importanza mondiale: il G20 di Roma e la Cop26 di Glasgow. In entrambi i casi Mosca e Pechino sembrano aver fatto fronte comune. Non partecipando in presenza coi loro leader Vladimir Putin e Xi Jinping. Una situazione anomala e per certi aspetti preoccupante. La Russia ricca di risorse naturali che va a braccetto con la superpotenza economica cinese. Entrambe hanno un apparato bellico di importanza planetaria. L'uomo giusto per parlarci di tutto quello che succede fra Mosca, Pechino e Washington è senza dubbio Giulio Sapelli. Professore ordinario di storia economica all'Università di Milano ed un'esperienza internazionale di straordinario livello in tutte le più importanti università del mondo: Parigi, Lisbona, Praga, Berlino, Buenos Aires, Santiago del Cile, Barcellona, Madrid, Vienna, South California, Sidney e New York. Ne tralascio altrettante per motivi di spazio. Accanto a ruoli di primo piano nei consigli di amministrazione di Eni, Ferrovie dello Stato e Fondazione Mps. Ma è la storia la sua vera passione. Ed è li che ho bisogno di capire. Devo richiamarlo più di una volta. Professore, perché Pechino e Mosca sarebbero così distanti? «Dai tempi dell'impero zarista la Russia non ha semplicemente cercato il mare caldo del Mediterraneo tentando di sottomettere l'impero ottomano. Ma anche il Pacifico. Quindi entrando in conflitto non solo con il Giappone ma anche con la Cina. Ma come lei sa Vladivostok è a 50 km da Pyongyang in Corea. La Russia ha sempre proteso ad essere una potenza talassocratica che domina i due mari. Anche perché controllare il Mediterraneo significa affacciarsi sull'Atlantico. Non poteva non entrare in conflitto con il dispotismo cinese. E non potrà non entrarci ancora in futuro». Perché? «La Russia più che una potenza eurasiatica rimane comunque una potenza europea. Putin è, a modo suo, europeo culturalmente. Ha lavorato nel Kgb a Berlino». Ma neppure il comunismo ha unito Pechino e Mosca? «Tra il partito comunista poi forgiato da Stalin e quello comunista di Mao Zedong c'era una frattura insanabile. Che inizia col fallimento dello sciopero di Shanghai del 1927 organizzato da trotskisti cinesi, se così si può dire. L'ala più a sinistra. Lenin e Trotsky avevano provato ad influenzare la nascita e la crescita del partito comunista cinese. Tutto doveva partire dagli operai della nascente industria. Ma a loro si oppose Mao. Anni di minoranza e sconfitte per lui prima di scatenare la rivoluzione culturale contro soprattutto l'ala filosovietica del partito comunista cinese. Mao non aveva quasi nulla in comune con il partito comunista cinese delle origini. Oggi lo definiremmo un populista. La sua rivoluzione mette al centro i contadini. Non gli operai. Invece che falce e martello solo la falce. Senza il martello. Ed avendo alla fine vinto Mao, la frattura fra Mosca e Pechino aumenta». Un errore clamoroso dell'amministrazione Biden aver permesso questo riavvicinamento? «Ben descritto dal grande studioso americano David Calleo. Cattolico. Ed ecco perché lo leggono poco in America. L'unipolarismo ha scatenato questo avvicinamento. Tutto comincia con l'amministrazione Clinton. Seguito da Bush, sia chiaro. L'ultimo Obama ebbe poi, anni dopo, un attimo di ripensamento, ma era troppo tardi. Biden si incastra perfettamente nell'unipolarismo clintoniano». Biden è in difficoltà come sembrano dimostrare le ultime elezioni in Virginia e New Jersey? Oppure no? «Certo che lo è: la situazione sociale si aggrava e il partito democratico dà segni di sgretolamento: la politica della "cancel culture" e del "me too" è un tritacarne che non risparmia nessuno». Esiste quindi una differenza nel modo di condurre la politica estera fra repubblicani e democratici? «Basta studiare la storia recente. Reagan ha stretto la mano a Gorbaciov e anche con la dissoluzione dell'Unione sovietica il patto d'onore era chiaro. Nessuno Stato della confederazione russa e nessuna nazione confinante (quindi i Paesi del Patto di Varsavia) sarebbero mai entrati nell'Ue e nella Nato. Non è andata così».

IL 2022 SIA L’ANNO DEL VOLONTARIATO

Oggi Avvenire non è in edicola ma ieri ci era rimasto nella penna un bello scambio fra Riccardo Bonacina, fondatore di Vita e il direttore di Avvenire Marco Tarquino. Bonacina, nella lettera al direttore, si rivolge a Draghi e all'intero Governo, rilanciando l’idea del 2022 come anno dei volontari, anche per affiancare la campagna per far proclamare dall'Unesco il Volontariato «patrimonio dell'umanità». Tarquinio risponde e concorda.

«Caro Direttore, voglio chiederti di rilanciare una mozione che abbiamo raccolto dal mondo del volontariato. Questo, l'anno del ricominciamento e della ripartenza, è il momento giusto per affermare come il Volontariato sia un bene comune, un patrimonio di tutte le comunità e per tutti, e in quanto tale va riconosciuto e valorizzato. Lo hanno reso evidente la pandemia e i lunghi mesi del distanziamento fisico e delle città e paesi vuoti e muti in cui solo grazie ai volontari si sono potuti tener vivi e tessere i fili di una relazione amicale e di aiuto verso i più fragili e soli. Fino a prima della pandemia si poteva ancora pensare che il volontariato fosse una dimensione del tempo del non-lavoro. Oggi ci siamo accorti di come la gratuità sia una qualità del gesto che può essere propria anche dell'attività professionale, del proprio ruolo ben esercitato con un'intenzione buona e una volontà di bene che va oltre il proprio dovere, si aiuti un anziano o si lavori in un ospedale, si faccia la cassiera al supermercato o si insegni in una scuola. Abbiamo scoperto una cosa formidabile, cioè che la cura di noi stessi è cura d'altri e la cura d'altri è cura di noi stessi. Ecco, tutto questo non solo non va disperso, ma va rilanciato all'attenzione della coscienza pubblica. Sono passati trent' anni dalla legge - la 266/91 - che per la prima volta riconosceva all'articolo 1 «Il valore sociale e la funzione dell'attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo e per questo lo Stato ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l'autonomia». Una legge che fu approvata all'unanimità tra gli applausi di tutto l'emiciclo in piedi. Il volontariato che è sempre stato all'origine di ogni legge innovativa deve oggi recuperare ancor più spazio nella sfera pubblica non solo come partecipazione al bene comune, ma anche come capacità di anticipare i problemi, non avendo paura di assumersi nuove sfide culturali e politiche. Il virus ha evidenziato le ingiustizie strutturali della nostra società, le diseguaglianze. Il volontariato ha oggi il compito, insieme alle istituzioni, di allestire spazi di responsabilità aperti a tutti perché i cittadini possano tornare a sentirsi parte attiva di una comunità coesa. Come ha ricordato nel 2020 a Padova, Capitale europea del Volontariato, il presidente Sergio Mattarella: «Il volontariato è una energia irrinunziabile della società. Un patrimonio generato dalla comunità, che si riverbera sulla qualità delle nostre vite, a partire da coloro che si trovano in condizioni di bisogno, o faticano a superare ostacoli che si frappongono all'esercizio dei loro diritti». È per queste ragioni che chiediamo al governo di dedicare il prossimo anno, il 2022, al Volontariato, come mossa prima di ogni connessione sociale e come valore indicato a tutti a partire dai decisori politici.

Riccardo Bonacina fondatore di “Vita”

Risponde il Direttore di Avvenire Marco Tarquinio:

Certo che condivido, caro Riccardo. Condivido, rilancio e ti ringrazio per la lucidità e per la passione con cui ti fai portavoce di questa iniziativa. Mi piace la proposta di dedicare il 2022 al Volontariato. E prima ancora mi piace l'idea di chiedere all'Unesco di proclamare il Volontariato «patrimonio immateriale dell'umanità », e questo anche se penso che sia piuttosto inadeguato definirlo «bene immateriale». La straordinaria rete del Volontariato è «materiale» tanto quanto un tessuto urbano vivo e accogliente o vestigia suggestive o angoli di natura splendidi e, magari, incontaminati. Ma va bene anche così, l'importante è che si riconosca solennemente il valore dello spirito di gratuità e di solidarietà - o, se vogliamo, la "fraternità in atto" - che anima il Volontariato. Che non ha bisogno di omaggi formali, ma di riconoscimento e rispetto concreti e non solo quando la sua azione suscita applausi. Tanto per esser chiaro: anche quando i volontari agiscono sulle frontiere e sui crinali più difficili della nostra umanità, ai margini di città e nazioni, là dove camminano e soffrono e muoiono gli "irregolari" e gli "scartati", là dove - troppo spesso - pietà l'è morta e Cristo è ancora crocifisso. Anch' io spero, dunque, che il presidente del Consiglio Mario Draghi e l'intero Governo italiano si dimostrino attenti e sensibili. E che, nella manciata di settimane che ci separa dalla fine del 2021, la proposta del 2022 come Anno del Volontariato si realizzi».

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