Il giudizio su Gaza
La Corte internazionale di giustizia esamina l'accusa di genocidio da parte del Sudafrica contro Israele, che oggi si difende. Speranze a Gaza. Scontro nel governo Meloni. Nordio copre Delmastro
La parola genocidio contiene un’accusa gravissima. Soprattutto se formulata nei confronti di Israele, uno Stato formatosi nel 1948 proprio dai reduci dello spaventoso genocidio nazista della Shoah. Eppure il Sudafrica, da sempre sensibile a tutte le questioni che riguardano forme di apartheid di popoli e minoranze, ha argomentato ieri la sua denuncia davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. A Tel Aviv hanno preso la cosa sul serio e hanno deciso di difendersi nel processo e accettare la giustizia internazionale. Oggi sarà il giorno della difesa, che sarà portata da Aharon Barak, 87 anni, trasferito nell’allora Palestina britannica nel 1947, dopo essere sfuggito ai nazisti (da leggere i ritratti dei due giudici di parte offerti da Repubblica). Barak è il più autorevole tra i giuristi israeliani ed è stato in passato molto critico nei confronti del governo di Benjamin Netanyahu. Difficile che l’eventuale verdetto possa incidere davvero sullo svolgimento della guerra in Medio Oriente ma certo può avere un peso sulla reputazione internazionale di Israele. A Gaza i palestinesi della Striscia, come racconta Sami al-Ajrami stamattina su Repubblica, sperano nella Corte dell’Aja, perché possa almeno favorire una tregua se non una soluzione al dramma quotidiano che vivono ormai da 100 giorni.
Ieri sul giornale progressista Haaretz è stata pubblicata un’intervista, la prima dal 7 ottobre, con l'ex capo dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano, Ami Ayalon. Nell’interessante dialogo Ayalon sostiene che Israele deve mettere a tema che cosa avverrà ora e che cosa fare per riportare a casa gli ostaggi. Dice: «Come parte di un accordo globale che includa la restituzione di tutti gli ostaggi, dobbiamo rilasciare Marwan Barghouti». Barghouti, oggi detenuto nelle carceri israeliane, è un leader palestinese che potrebbe battere Hamas nel suo campo e rappresentare un interlocutore valido per una futura convivenza. Dice ancora Ayalon con grande lucidità: «La decisione del governo di non discutere del 'giorno dopo' trasforma la guerra in un conflitto militare senza alcun obiettivo diplomatico. Questa è una situazione in cui è impossibile definire la "vittoria", che viene sempre descritta in termini diplomatici, e il rischio enorme è che la guerra diventi il fine e non il mezzo».
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