La Versione di Banfi

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Il governo è poco digitale

alessandrobanfi.substack.com

Il governo è poco digitale

Tira e molla sull'innovazione: il Pos, poi lo Spid. E ora le ricette via mail. Salta lo scudo fiscale, manovra in aula il 23. Putin in Bielorussia, Zelensky in Usa. Zuppi per la pace a San Nicola

Alessandro Banfi
Dec 21, 2022
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Il governo è poco digitale

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Non ci sarà il condono fiscale ipotizzato ieri dai giornali. Alla fine Giorgetti e Meloni hanno spiegato agli alleati di Forza Italia che si rischiava di mettere a rischio tutto l’impianto della legge di Bilancio, col rischio di non approvarla entro il 31 dicembre. Oggi Silvio Berlusconi parla comunque al Corriere della Sera per spiegare che fatta questa manovra in emergenza, le riforme arriveranno. Il che, visto il contesto, significa rinunciare per ora alle barricate sul tema fiscale. Bene. Dunque nelle prossime ore la legge di bilancio dovrebbe arrivare in aula ed essere approvata, forse anche nei giorni di Natale, sicuramente il 23 e forse anche il 24. Anche la fiammata sullo Spid (il governo pensa ad un suo superamento) si è per ora conclusa con un nulla di fatto. Anche questo è confortante, perché dopo la vicenda del Pos sembrava riproporre un certo sentimento contro la digitalizzazione che sembra anacronistico. Ottenere lo Spid non sarà stato semplice per tutti, ma oggi ci sono più di 33 milioni di italiani che lo usano e ai quali è permesso fare molte pratiche a distanza. Che senso ha ora abolirlo? Per non parlare delle ricette mediche via e-mail. Il governo non ha per ora presentato la proroga alla legge varata ai tempi della pandemia e che ha permesso negli ultimi mesi di evitare di dover andare all’ambulatorio del medico di famiglia per la ricetta. La ricetta cartacea è di destra e quella elettronica è di sinistra? Non scherziamo. Ci vorrebbe un Giorgio Gaber per riportare tutti coi piedi per terra.  

Vedremo nelle prossime ore il punto di caduta della nuova legge finanziaria. Il 29 dicembre Giorgia Meloni presenzierà la tradizionale conferenza stampa di fine d’anno e dunque si avrà modo e tempo di capire tutti i i dettagli e le novità, in queste ore sempre suscettibili di cambiamenti. Intanto registriamo che, nel disinteresse dei giornali, il prezzo del gas è andato giù del 30 per cento nell’ultima settimana e se il tempo meteorologico ci assisterà ancora, alla fine, il sollievo potrebbe sentirsi anche in bolletta.

Le ultime notizie dal campo bellico descrivono i continui bombardamenti russi della zona di Kherson. C’è chi ipotizza una controffensiva di terra. Ieri due giornalisti italiani free lance sono stati colpiti in questa zona, mentre viaggiavano su una vettura con vistose scritte “Press”. Volodymyr Zelensky vola a Washington dove incontrerà Joe Biden. Il presidente ucraino parlerà anche al Congresso, a cui chiederà nuovo sostegno economico e i famosi “patriot”, i missili che secondo Kiev potrebbero cambiare il corso della guerra. Sotto traccia si parlerà anche di possibili negoziati o trattative.

Stasera a Bari la Chiesa italiana pregherà per la pace nella Basilica di san Nicola, un santo caro a tutte le Chiese orientali ed ortodosse. Sarà il cardinale Matteo Zuppi a condurre il gesto, che dovrebbe coinvolgere esponenti di altre religioni e confessioni. Le altre notizie dall’estero riguardano l’Afghanistan: i talebani proibiscono alle giovani donne di frequentare l’università. Pochi oggi gli articoli da Teheran, dove le proteste continuano.

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine riprende un tweet di Elon Musk, diffuso poche ore fa. L’imprenditore annuncia che si dimetterà da Amministratore delegato di Twitter, appena troverà “qualcuno così sciocco da accettare il lavoro!” E aggiunge: “Dopodiché, gestirò solo i team che si occupano di software e di server”.

Fonte da Twitter: @elonmusk

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Per Avvenire siamo allo stallo: Manovra bloccata. Il Corriere della Sera vede soprattutto confusione: Manovra, volata nel caos. Il Fatto usa un termine più prosaico: Casino totale. Il Domani attacca: Il governo non sa nemmeno come gestire la manovra. Il Quotidiano Nazionale sottolinea un dato Istat sulle retribuzioni: Il crollo degli stipendi: giù del 10 %. Divertente il titolo del Manifesto, che allude al ritiro dello scudo fiscale: Levata di scudi. La Repubblica è più didascalica: Stop al salva-evasori. La Stampa è sulla stessa linea: Manovra, rissa nel governo salta lo scudo salva-evasori. Il Mattino prova a consolarci: Giovani, bonus con il merito. Così come Il Messaggero: Bonus sul merito ai diciottenni. Il Sole 24 Ore fa questa sintesi: Rush sulla manovra, niente scudo penale. Resta il salva calcio, ultimi ritocchi al Pos. I giornali più governativi puntano ancora sull’inchiesta di Bruxelles. La Verità annuncia: Tutti i nomi della rete di Panzeri. Il Giornale prevede: Viene giù l’Europa. Libero legge le ripercussioni sulle intenzioni di voto in Italia: Crescono le mazzette, cala il Pd.

MANOVRA ALL’ULTIMO MIGLIO

L’approvazione della legge di bilancio. Pioggia di micro misure nell'ultimo giro in commissione, poi si va in aula entro Natale. Gianni Trovati e Marco Mobili per Il Sole 24 Ore.  

«Caduto all'ultimo rettilineo lo scudo penale per i reati tributari, il lavoro sui correttivi alla manovra si è speso su una pioggia di microinterventi. Dagli intenti a volte nobili, come il completamento delle tutele per le libere professioniste con la sospensione degli adempimenti in caso di parto, interruzione di gravidanza o gravi problemi di salute; ma dalla dotazione finanziaria sempre ultraleggera, come il milione di euro destinato appunto a questa tutela. Nell'ennesima giornata di trattative e rinvii sui correttivi parlamentari, la quadra è stata trovata con un accordo fra maggioranza e opposizione a cui però non partecipa il Terzo Polo, che abbandona i lavori nel primo pomeriggio rinunciando alla mini-dote da 14 milioni che gli era stata assegnata. «Si danno mancette a tutti perché questo è un governo colabrodo», riassume Carlo Calenda. Sul piano tecnico, la questione più complessa è quella del tentativo di creare un fondo per compensare i costi sopportati dai commercianti nelle transazioni elettroniche fino a 30 euro. Lo scopo, politico, è quello di mettere una toppa alla retromarcia imposta dalla Ue sulla soglia dei 60 euro che avrebbe offerto una franchigia sulle sanzioni per gli esercenti quando non accettano i pagamenti digitali. Ma la sua traduzione pratica si rivela complessa. Dopo un tavolo di confronto con «le associazioni di categoria maggiormente rappresentative» degli operatori, un decreto del ministero dell'Economia dovrebbe fissare il «costo giusto» delle commissioni. In caso di superamento, banche e intermediari dovrebbero versare il 50% dell'extracosto al fondo, che poi sarebbe distribuito fra i commercianti e professionisti con fatturato fino a 400mila euro per «ridurre l'incidenza dei costi per tutte transazioni elettroniche di valore compreso tra 0 e 30 euro». Meccanismo dall'apparenza quantomeno complessa. L'idea però ha un successo bipartisan, a cui ancora una volta si sottrae però il Terzo Polo facendo mancare la propria firma. In fatto di banche, si precisa poi il principio dei limiti ai compensi ai manager degli istituti di credito sottoposti a ricapitalizzazione precauzionale come Monte dei Paschi. Anche a loro si applicherà il tetto che limita i compensi pubblici a 240mila euro lordi annui, più adeguamento periodico sulla base dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego. Si ferma poi, come previsto, l'attività di indennizzo del Fondo risparmiatori, gli 1,5 miliardi messi a disposizione dal governo Conte 1 per gli indennizzi ai truffati delle banche saltate con la crisi del credito. La commissione tecnica per i ristori resterà in carica comunque fino al 30 giugno per gestire i contenziosi.
Per il resto, prosegue la lunga teoria di interventi minimali. Almeno sul piano generale, mentre i diretti interessati possono trovare qualche misura importante per loro.
È il caso del Comune di Roma, che per il 2023 si vede dimezzare da 200 a 100 milioni la somma da versare allo Stato alimentata dalla superaddizionale Irpef per finanziare la gestione commissariale del debito. Il Comune di Milano potrà invece ricevere un contributo annuale fino a 15 milioni dal 2023 al 2027 per compensare i colpi del caro materiali sui lavori della M4 dall'aeroporto di Linate al centro cittadino. E lo stesso aiuto è pensato per il Comune di Napoli, impegnato nell'estensione della rete Trm tra Afragola e la città e il rinnovamento dei treni della metropolitana. A Palermo arrivano invece 2 milioni per la gestione dei servizi cimiteriali. Qualche novità interviene ancora per l'agricoltura. Viene riscritta la disciplina per i lavoratori agricoli stagionali; la loro attività non potrà superare le 45 giornate all'anno. Non poteva mancare poi una serie di interventi correlati all'attuazione del Pnrr. Il più importante di questi riguarda in particolare il potenziamento delle attività del ministero dell'Istruzione per l'orientamento e le promozione delle competenze Stem. Fissato al 2% il tasso di interesse per le rateazioni in caso di ravvedimento speciale».

PERCHÉ NON CI SARÀ LO SCUDO FISCALE

Nel retroscena di Repubblica, a firma Giuseppe Colombo e Tommaso Ciriaco, si racconta com’è tramontata ieri pomeriggio la misura per andare incontro agli evasori.

«Il colpo di spugna per gli evasori muore a metà pomeriggio, tra i soffitti alti di Palazzo Chigi. Giancarlo Giorgetti chiama Giorgia Meloni. Le dice che l'emendamento dei berlusconiani deve saltare. Il rischio, evidente anche alla presidente del Consiglio, è che l'opposizione azzanni il governo. Pochi minuti prima, gli emissari del Pd hanno fatto sapere alla premier che assieme ai cinquestelle lanceranno un ostruzionismo senza precedenti. L'Aula di Montecitorio, giurano, «si trasformerà in una bolgia ». La promessa è interrompere la seduta con proteste eclatanti, trascinando il dibattito ben oltre Santo Stefano. E d'altra parte, è già il pomeriggio del 20 dicembre e la commissione non ha ancora votato neanche mezzo emendamento. L'incubo dell'esercizio provvisorio è distante solo undici giorni. La presidente del Consiglio riattacca con il ministro leghista e contatta Antonio Tajani: «Così ci salta tutto, non possiamo permettercelo. Chiama i tuoi e mettiamo fine il prima possibile a questa partita». Prende forma la ritirata. E si sblocca la finanziaria. In quegli stessi minuti, a Montecitorio. Nel corridoio con vista sulla commissione Bilancio squilla senza sosta il cellulare dell'azzurro Roberto Pella. È lo specchio di uno stallo, immagine plastica di una finanziaria inchiodata in commissione da sei giorni. Il deputato di Forza Italia è uno dei relatori della Finanziaria, quelli che mettono le firme che contano sotto gli emendamenti. Ha ricevuto il mandato di blindare proprio il condono penale che cancella tre reati: l'omessa dichiarazione dei redditi, la dichiarazione infedele e l'omesso versamento. Di fatto, il grande perdono agli evasori. Pella sta parlando con il viceministro berlusconiano della Giustizia Francesco Paolo Sisto.
«L'emendamento - concordano - va presentato». Non basta a frenarli il fatto che soltanto qualche ora prima quella stessa norma è stata cancellata, a penna, dall'elenco delle proposte di modifica finite sul tavolo di Giorgetti. Sanno che proprio per questo motivo, l'unica possibilità residua è che il via libera arrivi direttamente da Meloni.
Va in scena l'ultimo disperato tentativo di salvare la norma. Passano dieci minuti, il tempo della triangolazione tra la premier, il titolare del Tesoro e Tajani. La capogruppo del Pd Debora Serracchiani esce dall'aula della commissione. «Vittoria, lo scudo penale non c'è!». Perde Forza Italia, si sbloccano i lavori. La legge di bilancio, a questo punto, sarà approvata entro il 23 dicembre. In quelle stesse ore, Meloni volerà in Iraq per incontrare il contingente italiano impegnato nel Paese.
Non si dissolvono, invece, i ritardi accumulati. E resta in piedi anche l'idea del condono. Gli azzurri fanno sapere di essersi garantiti l'impegno diretto della premier a recuperare il progetto in un decreto ad hoc da approvare in consiglio dei ministri il 29 o il 30 dicembre, a manovra appena licenziata dal Senato. Un progetto che non sembra combaciare del tutto, in realtà, con i ragionamenti con cui Giorgetti stronca l'emendamento azzurro.
Le osservazioni del ministro si soffermano in particolare sull'omessa dichiarazione, il reato in cui incorre chi non presenta il 730. Il giudizio è netto: un segnale sbagliato, di fatto un regalo agli evasori, per questo da cancellare. Anche il suo viceministro Maurizio Leo, in quota Fratelli d'Italia, concorda. Altro discorso, invece, per le altre due fattispecie, ma da declinare comunque in modo differente rispetto a quanto scritto da Forza Italia: nessuna estinzione del reato, quindi nessun condono penale, ma solo la possibilità per il contribuente infedele di vedersi sospeso il processo se impegnato a versare, a rate, le somme dovute al Fisco. Un beneficio per andare sostanzialmente incontro a chi non è riuscito a pagare per problemi economici, con la clausola della riattivazione del procedimento in caso di inadempimenti nei versamenti. Le opposizioni, intanto, incassano un primo successo. E si organizzano per mettere di nuovo in difficoltà l'esecutivo prima della fine dell'anno. Il 27 dicembre è atteso alla Camera il decreto sui rave. Va convertito entro il 30 dicembre, per evitare che decada. Il Pd e i grillini l'hanno messo nel mirino e si stanno coordinando proprio in queste ore per trasformare l'Aula in un pantano. Se anche la fiducia sul testo dovesse passare, infatti, bisognerebbe superare l'ostacolo degli ordini del giorno. Ogni deputato di minoranza - sono 120 soltanto tra dem e 5S - può presentarne uno. E ogni odg porta via almeno dieci minuti. Poi ci sono le dichiarazioni di voto e il voto finale. La maggioranza potrebbe uscirne soltanto sfoderando l'arma estrema della cosiddetta "ghigliottina", che taglia brutalmente i tempi. L'effetto sarebbe quello di infuocare l'Aula e rovinare le feste a Palazzo Chigi. La battaglia sta per iniziare».

RENZI: “SALVO CROSETTO, TAJANI E NORDIO”

Intervista a Matteo Renzi, che boccia la premier ma spezza una lancia a favore di tre ministri. Ed apre a Berlusconi. Carlo Bertini per La Stampa.

«Del governo, salva tre ministri ma non la premier, della manovra «tutta marchette», nulla, del Qatargate non approfitta per dare addosso al Pd, che invece assolve: è un Matteo Renzi spiazzante quello che svela il potenziale effetto positivo di Salvini, «se sblocca i cantieri fa bene al paese»; e che si indigna per i fischi al Cavaliere «di chi gli deve tutto».

Non salva nulla della prima manovra targata Meloni?
«Non hanno sfasciato i conti: questo è il risultato migliore. Sul resto vedo una collezione di marchette da far impallidire le manovre della prima repubblica. Almeno lì c'era un'idea di Paese. Dare i soldi ai presidenti delle società di serie A, che si sono dimostrati incapaci, togliendo gli inventivi culturali per i diciottenni, è il simbolo della follia di questa manovra».

La sforbiciata della 18App è la cosa peggiore?
«L'hanno proprio azzerata. Nel 2022 c'erano 230 milioni di euro, nel 2023 zero. È la cosa peggiore perché tradisce una visione di Paese priva di speranza. Si tolgono i soldi ai ragazzi che entrano in libreria, ma si stanziano 890 milioni per gli indebitati presidenti delle società di serie A. Io adoro il calcio ma se in Inghilterra i diritti televisivi sono pagati dieci volte di più è perché c'è una cultura dell'industria sportiva: in Premier League il calcio regala emozioni alla gente, in serie A il governo regala emendamenti a Lotito. E dire che anche il PD e i Cinque Stelle avevano firmato l'emendamento della maggioranza.
Poi il caos che abbiamo creato e la saggezza di alcuni colleghi del PD come Berruto ha riportato l'opposizione a fare l'opposizione. La vera stampella di questo governo sono i grillini, l'abbiamo visto anche sulla pregiudiziale di costituzionalità del Decreto Rave. E il ministro Lollobrigida è l'ufficiale di collegamento con i grillini, lo sanno tutti».

Crede che Meloni sia già in affanno, o no?

«Questa maggioranza è solida e la premier ha ancora un reale consenso nel Paese. È inspiegabile però vederla mentre si intesta battaglie che le fanno del male: ho l'impressione che i suoi nemici più acerrimi siano accanto a lei. Ma nel Governo comunque ci sono anche dei ministri di grande qualità.
Nordio è un fuoriclasse, Crosetto è molto serio, Tajani mi convince più del suo predecessore. Purtroppo, è la Meloni che non è Draghi. Ma lo sapevamo dal primo giorno».

Ma con Berlusconi non sono rose e fiori. Guai in vista?
«No. Alla fine Berlusconi è un pragmatico. Punterà i piedi, otterrà qualche poltrona a primavera nel giro di nomine, porterà a casa dei risultati ma non romperà. Berlusconi è Berlusconi: lo puoi amare, lo puoi odiare, ma sai chi è. Ed anche per questo che trovo ingenerosi i fischi che la piazza della Meloni gli ha riservato. Io non ho mai votato Berlusconi, ma vedere lo storico leader del centrodestra fischiato da quelli che lui contribuisce a tenere al Governo mi è sembrato politicamente miope e umanamente ingeneroso. Senza Forza Italia, Meloni va a casa. E chi fischia Berlusconi dovrebbe ricordarsi che gli deve tutto».

Con Salvini fanno il gioco delle parti?
«Non credo. Io penso che a Salvini piaccia fare il Ministro. E forse alle infrastrutture potrà persino fare bene, se va più sui cantieri e meno su TikTok. Per come lo conosco, credo che quel dicastero potrebbe persino aiutarlo a ripensarsi. È passato dal No alle trivelle al Sì al Nucleare: non un maestro di coerenza, ma se sblocca i cantieri sarà utile al Paese, non al suo partito».

Che atteggiamento tiene il Terzo Polo con il governo? Tendete la mano avendo chiaro il confine entro cui fermarvi, o mai dire mai?

«Costruttivo, ma non saremo mai la stampella di questa premier: non vogliamo niente, siamo pronti a dare una mano per l'interesse del Paese. Calenda lo ha dimostrato più volte. Ha persino fatto riunioni coi tecnici del ministero per offrire disponibilità. Eppure persino Carlo, che è stato il più aperto tra i leader a dialogare con la Premier, ieri ha dovuto fare una conferenza stampa dura».

Come stanno reagendo i Dem allo scandalo Qatar?

«È uno scandalo che riguarda molto più Articolo 1 che il PD. Panzeri aveva lasciato il mio PD perché diceva che i suoi valori fossero diversi ed aveva fondato un nuovo partito con Bersani, Speranza, D'Alema. E altri ex parlamentari europei, non solo Panzeri: ricordo ad esempio che a Bruxelles c'era un altro dalemiano, Paolucci, già braccio destro di Speranza prima e di Arcuri poi durante la pandemia. Solo che nel PD nessuno riesce a reagire. Sono sotto botta. Hanno una questione di morale, più che una questione morale: ad ogni nuovo sondaggio, qualche amministratore locale lascia».

Molti tra cui Calenda giudicano inopportune le sue consulenze in Paesi che non rispettano i diritti umani. Che ne pensa, anche da ex segretario di un partito molto sensibile al riguardo?

«Non mischiamo cose diverse. Una cosa è fare conferenze in tutto il mondo, anche in quei Paesi non democratici. Altra è prendere mazzette in cambio di voti parlamentari. Su questo io querelo e prendo i soldi da chi mi accosta a queste schifezze. Se vogliamo invece fare un ragionamento più ampio, ci sto. Che Calenda non condivida le mie attività internazionali è cosa nota. Non abbiamo le stesse idee sull'Arabia Saudita, forse, ma abbiamo le stesse idee sull'Italia. E infatti abbiamo creato una federazione che viaggia spedita. Poi ribadisco: se cambia la normativa sulle compatibilità parlamentari farò scelte diverse. Ma, prima di parlare di compatibilità, facciamo chiarezza sul più grande scandalo della storia recente: come mai nessuno vuol fare una commissione di inchiesta sugli acquisti covid? Come mai nessuno vuole vedere le carte? Quando Conte parla di questione morale, gli dico: perché non ci spieghi quello che sai sui ventilatori cinesi malfunzionanti, sui soldati russi entrati nel nostro territorio, sui banchi a rotelle? Finché Conte dice no alla commissione sul Covid, non ha titolo per parlare di questione morale».

BERLUSCONI: “LA MANOVRA È SOLO UN PRIMO PASSO”

Intervista al leader di Forza Italia, che non accusa il colpo della cancellazione dello scudo fiscale. Dice: la manovra è soltanto un primo passo, faremo riforme importanti. Paola Di Caro per il Corriere.

«Un primo passo». Prima di affrontare in futuro le «riforme strutturali» che saranno necessarie per rilanciare davvero il Paese. Sulle quali Forza Italia si batterà, senza fare sconti e considerandosi ancora l'asse centrale della coalizione. Magari con un rapporto più stretto con Matteo Renzi, con il quale «potremmo lavorare in sintonia su diversi temi». E - lo dice tra le righe Silvio Berlusconi dopo aver confessato nei giorni scorsi che un qualche ruolo se lo sarebbe aspettato, anche se sulla questione non vuole tornare - con un suo apporto più decisivo. Infatti rivendica come «della linea politica del mio partito l'unico garante sono io» e auspica che si aggiusti la rotta con «una maggiore condivisione a monte per il futuro» e aspetta magari qualche richiesta di consiglio da Giorgia Meloni: «Lei sa che se le servono miei consigli, sono qui», dice il leader di Forza Italia.

Due mesi di governo, si può fare un bilancio di questo inizio legislatura: la manovra che si sta delineando la soddisfa?
«Diciamo che è il primo passo. Il governo di centro-destra ha dovuto affrontare una situazione molto difficile per colpa dello scenario internazionale e degli aumenti dell'energia e delle materie prime. Di conseguenza è rimasto poco per le riforme strutturali che ritengo necessarie. Nonostante questo, alcuni risultati concreti li abbiamo ottenuti e in altre materie, come la giustizia, si sta lavorando nella giusta direzione».

Su cosa pensate di aver ottenuto risultati? Le richieste di FI erano tante, a partire dalle pensioni minime a 1.000 euro...
«Abbiamo ottenuto alcuni risultati importanti, come il primo aumento delle pensioni minime a 600 euro per gli ultra-settantacinquenni, stiamo lavorando per ottenere la detassazione e la decontribuzione per le assunzioni di giovani da parte delle imprese, che avrebbero la grande convenienza ad assumere con un costo uguale allo stipendio. Oggi, come è noto, il costo dell'azienda per uno stipendio, ad esempio, di 1.500 euro è di 3.300 euro, più del doppio. Si tratta di proposte di FI che nel corso della legislatura dovranno trovare piena attuazione. Importante è anche aver ottenuto la proroga al 31 dicembre del termine per la presentazione delle Cilas per il Superbonus al 110%».

Ci sono stati però degli stop and go su alcune misure, annunci e provvedimenti delineati poi ritirati o profondamente modificati, a partire al Pos fino allo scudo fiscale. Troppo?
«Avevamo poche settimane per scrivere una manovra e concordarla con l'Europa. È naturale che ci siano state delle difficoltà. Certo, in futuro alcuni meccanismi decisionali dovranno essere messi a punto meglio, con una condivisione a monte, evitando che i problemi ricadano sul lavoro del Parlamento».

Come le è sembrato l'approccio della premier, alla sua prima esperienza di governo di altissimo livello?
«Mi è parso assolutamente adeguato».

Lei ha contatti frequenti con la premier? E dalla sua lunga esperienza, che consiglio le darebbe?
«Ho i contatti che servono, tutte le volte che servono. E non mi permetto di dare consigli a mezzo stampa al presidente del Consiglio. Lei sa bene che se dovessero servirle, io sono sempre qui, pronto a darli».

Alla celebrazione dei 10 anni di FdI lei ha fatto un discorso molto inclusivo, ma la platea sembra non aver gradito. Che spiegazione dà di una certa freddezza, almeno fra i partiti?
«Non sarà per caso che la freddezza, come lei la chiama, era quella solita di qualche "testimone" interessato e malevolo? In effetti, il mio intervento era improntato alla massima cordialità e lealtà fra alleati ed esprimeva grande stima per Giorgia Meloni. Se davvero qualcuno non lo ha gradito, la spiegazione va chiesta a loro, non a me».

Ma Forza Italia cosa si aspetta da questo governo, e in che tempi?
«Naturalmente ci aspettiamo molte cose, in cinque anni: la progressiva estensione della flat tax, una riduzione della pressione fiscale (che oggi è al 43,6% mentre noi l'avevamo tenuta sotto il 40%) una riforma della giustizia ispirata a principi garantisti, sulla strada indicata dal ministro Nordio, un incremento delle pensioni minime di 100 euro all'anno sino a 1.000 euro per tutti al quinto anno della legislatura, la detassazione e la decontribuzione totale delle nuove assunzioni di giovani, e tante altre cose sulle quali abbiamo avuto il voto dagli italiani, decisivo per vincere le elezioni».

Spesso vi siete trovati in sintonia con le posizioni di Renzi: in futuro la maggioranza potrebbe allargarsi a un'area di centro? Lo auspicherebbe?

«Ho sempre stimato Renzi e ho sempre pensato che giochi in una metà campo che non è la sua. Certamente, se lo volesse, potremmo lavorare in sintonia su diversi temi ma gli italiani hanno scelto alle elezioni da chi vogliono essere governati».

EUROSCANDALO, PANZERI “PRONTO A COLLABORARE”

Veniamo alle ultime sull’euroscandalo. Antonio Panzeri parla con gli inquirenti e indica le responsabilità di Andrea Cozzolino. A Cervinia sequestrata la casa di Figà-Talamanca. Giuseppe Guastella per il Corriere.

«Un «accordo» per «evitare delle risoluzioni contro i Paesi e in cambio abbiamo ricevuto 50 mila euro»: nell'interrogatorio dopo l'arresto del 9 dicembre, un Antonio Panzeri «pronto a collaborare» ammette ciò che non può negare dopo che le indagini dei sevizi segreti e della magistratura hanno accumulato prove ed indizi contro di lui e contro Francesco Giorgi, il suo socio negli affari della Ong Fight impunity. Il secondo aveva fatto lo stesso anche perché, come l'ex europarlamentare di Pd e Articolo 1, gli avevano trovato una quantità di contanti impossibile da giustificare, tra tutti e due un milione e mezzo di euro. Dalle dichiarazioni di Panzeri, per come le ha rivelate il sito ilfattoquotidiano.it , emerge l'intenzione di circoscrivere per quanto possibile le proprie responsabilità ad una azione spregiudicata di lobbismo a favore di Paesi che, come Qatar e Marocco, avevano bisogno di migliorare la propria immagine che eventuali risoluzioni su temi problematici come i diritti umani d'urgenza avrebbero potuto offuscare. L'accordo con il Marocco sarebbe partito nel 2019 quando Panzeri era ancora europarlamentare attraverso Abderrahim Atmoun, l'ambasciatore del Marocco in Polonia con il quale aveva contatti assidui monitorati costantemente dai servizi segreti del Regno del Belgio. Il compito di Panzeri e degli altri coinvolti nell'inchiesta sembra dovesse essere quello di bloccare questi missili politici persuadendo i parlamentari, si sospetta anche a suon di mazzette e regali. Panzeri fa il nome di Andrea Cozzolino, il deputato europeo sospeso dal Pd per questa vicenda, che nel 2019 prese il suo posto nella delegazione Maghreb dell'assemblea, anche se dice che su di lui non ha prove. Uomo di contatto tra i due è Francesco Giorgi che dopo essere stato assistente di Panzeri passò a Cozzolino.
Spunta anche un riferimento al parlamentare belga di origini italiane Marc Tarabella (perquisito nel blitz del 9 dicembre) di cui Panzeri dice che avrebbe preso regali dal Qatar, mentre esclude il coinvolgimento di Luca Visentini, il segretario della Confederazione internazionale dei sindacati (arrestato e immediatamente scarcerato), e di Niccolò Figà-Talamanca, segretario della Ong No peace without justice che è ai domiciliari ed al quale ieri è stato sequestrato un appartamento a Cervinia su richiesta dei magistrati belgi.
Uno dei punti incontrovertibili della vicenda che sta sconvolgendo la politica parlamentare europea è la presenza di oltre 750 mila euro nella casa che la ex vicepresidente Eva Kaili divide con il compagno Giorgi e di altri 600 mila in quella di Panzeri. È un fatto di una tale gravità incompatibile per chiunque, a cominciare da chi ha incarichi politici. La socialista greca ha tentato di uscirne ammettendo ciò che non poteva negare. «Tutto è successo in quelle ore, quando ha visto i soldi, non ha avuto una risposta convincente sull'origine e ha subito chiesto che uscissero di casa», aveva detto il suo avvocato Michalis Dimitrakopoulos riportando le dichiarazioni della cliente dopo l'arresto. Secondo fondi di stampa belghe ed italiane, nella documentazione dei magistrati integrata da informative dei servizi segreti a verbale Kaili avrebbe ammesso: «Conoscevo le attività di Panzeri. E sapevo che a casa mia c'erano delle valigie piene di soldi», frase che dà l'idea di una consapevolezza di vecchia data, ammesso che tra greco, italiano e francese le traduzioni siano così accurate da cogliere le sfumature. Forte del fatto che non si sa di bene di cosa sia accusata, e che detenere tanto denaro di per sé non è reato, Dimitrakopoulos ieri smentisce: «Non ha mai confessato di aver chiesto a suo padre di trasferire denaro per nasconderlo»; «ha saputo di questi soldi all'ultimo minuto» e «chiese subito che andasse al loro proprietario, il signor Panzeri». Comunque, non aveva «alcun obbligo di denunciare».
Mentre la Procura federale apre un'inchiesta sulle fughe di notizie dopo un esposto degli avvocati degli arrestati, emergono frammenti di intercettazioni che sembrano chiarire la storia dei regali della famiglia Panzeri e dell'ambasciatore del Marocco Abderrahim Atmoun. Il 4 giugno 2022 Maria Colleoni, moglie di Panzeri (ai domiciliari), intercettata dagli 007 di Bruxelles con la figlia Silvia, forse dopo aver passato la dogana in uscita dall'aeroporto in Marocco, chiama il marito dicendogli che «tutto è andato bene, siamo stati fatti passare come vip» e di aver preso un caffè con l'ambasciatore, che evidentemente le stava aspettando. Secondo l'intelligence belga, il viaggio era servito a far entrare nel Paese regali ricevuti per la «attività di interferenza» di Panzeri sul Parlamento. Un'altra intercettazione, riportata da Le Soir, registra una conversazione di fine luglio 2022 nella casa dei Panzeri a Calusco d'Adda, non si sa fatta come, in cui la donna si augura che «non entrino qui» perché troverebbero «qualsiasi cosa».

IL QATAR PROVA A DIFENDERSI

Un dirigente vicino alla famiglia che governa il Qatar respinge gli addebiti dell’inchiesta belga: “Mancano le prove, ma se qualcuno ha sbagliato saremo inflessibili”. I media locali rilanciano le accuse all'Europa di muoversi secondo pregiudizi. Enrico Currò da Doha per Repubblica.

«Il luogo dell'incontro è evocativo: l'hotel che ha ospitato una tra le squadre protagoniste del Mondiale di calcio appena concluso, causa primaria del Qatargate. L'interlocutore è un esponente di spicco del Paese del Golfo. È molto vicino alla famiglia reale e al governo. E proprio per illustrarne la posizione sulla vicenda, ha accettato di parlare con Repubblica. Partendo da una puntualizzazione: se dall'inchiesta belga sulle mazzette agli europarlamentari, per ammorbidirli sulla discussa immagine internazionale del Qatar, emergesse il coinvolgimento di un cittadino qatarino, il governo di Doha sarebbe pronto a punirlo, quale che fosse il suo status: «Lo faremmo sicuramente. Nel recente passato, non abbiamo esitato ad arrestare il ministro delle Finanze. Non abbiamo alcun problema, siamo molti limpidi. Ma devono darci una sola prova, devono portarla in tribunale. E noi le prove non le vediamo». Al momento, dunque, è impossibile ipotizzare una collaborazione con la magistratura belga. Quanto all'eventuale taglio delle forniture di gas all'Europa come conseguenza delle misure del Parlamento europeo contro il Qatar, adombrato domenica scorsa da una fonte diplomatica di Doha, il sottile distinguo è di natura economica: «Per il gas il nostro mercato è prevalentemente asiatico, con contratti lunghi: 27 anni la Cina, 15 l'India e il Giappone, ad esempio. Non abbiamo intenzione di fermare alcuna fornitura, non l'abbiamo fatto nemmeno con gli Emirati, malgrado il blocco contro di noi nel 2017, perché rispettiamo i nostri contratti. Il problema dell'Europa è che li vuole brevi, di 1 o 2 anni. Ma dovremmo abbandonare qualche cliente asiatico e a queste condizioni non esiste possibilità». Il sospetto non dichiarato è che qualche governo europeo cerchi solo una soluzione ponte, in attesa che la crisi russa passi, per poi tornare a rifornirsi da Mosca. Di sicuro Doha non appare preoccupata dal price cap Ue: «Abbiamo una lista d'attesa lunga così. Col Regno Unito il contratto dura dal 2010. Con l'Italia? Non abbiamo alcun problema». Il guaio è diventato appunto il Qatargate, mentre trapelano le voci su un'indagine della magistratura qatarina per verificare se, nel giro d'affari da 200 miliardi di dollari per la costruzione delle infrastrutture del Mondiale, ci siano stati episodi di malversazione e di truffa ai danni dello Stato. «Non ne sappiamo nulla, ma nel caso non faremmo sconti a nessuno: siamo cristallini». Il riferimento è all'arresto del maggio 2021, per abuso di potere e uso improprio di fondi pubblici, del ministro delle Finanze, Ali Shareef Al-Emadi, già presidente della Qatar National Bank. Tuttavia l'inchiesta della magistratura belga è un nervo scoperto. L'irritazione del governo per il danno d'immagine internazionale emerge sui media locali, che per la prima volta, su Doha news, ne hanno parlato ieri, rilanciando le accuse all'Ue di muoversi secondo "pregiudizi precostituiti" (il Marocco, coinvolto nelle carte di Bruxelles, non è stato citato dall'Ue). Il Qatar si sente vittima dal 2017 di un attacco mediatico orchestrato da Abu Dhabi, con documenti falsi e fake news. La tesi fa breccia tra i tavolini dei caffè di lusso nel porticciolo di “The Pearl” («è tutta una montatura occidentale», si irrita Sara, imprenditrice qatarina, «qui le donne sono tutt' altro che discriminate »), però rimane una vicenda ignota ai più, che sono stranieri trapiantati (l'85% della popolazione), a cominciare dai commercianti del Suq Waqif come il profumiere indiano Arnav, che alla parola gate indica uno degli accessi al mercato. A cinque minuti d'auto dal grattacielo del ministero del Lavoro, dove il ministro Ali Bin Samikh Al Barri incontrò il 31 ottobre scorso Eva Kaili, la vicepresidente del Parlamento europeo arrestata il 10 dicembre, l'interlocutore di Repubblica rassicura se stesso: «Tre cose contano per un qatarino: famiglia, rapporti con gli altri popoli, reputazione del nostro Paese. I soldi vengono assolutamente dopo».

Anche la Ue pensa a come reagire all’euroscandalo. Francesca Basso per il Corriere.

«Siamo consapevoli che ci sono indagini in corso e che gli accadimenti sono seri. Va fatta chiarezza su cosa è successo ma sarebbe inappropriato fare commenti mentre l'indagine è in corso». Il portavoce del Servizio europeo per l'Azione esterna (il ministero degli Esteri dell'Ue), Peter Stano, risponde a una domanda su un presunto coinvolgimento di funzionari del servizio diplomatico dell'Ue, che fa capo all'Alto rappresentante Josep Borrell, nell'inchiesta della procura belga sulla presunta corruzione da parte del Qatar (ma anche del Marocco) di deputati e funzionari del Parlamento Ue per condizionarne le decisioni, che ha portato in carcere quattro persone tra cui l'ex eurodeputato Antonio Panzeri e l'ex vicepresidente dell'Eurocamera Eva Kaili. «Occorre indagare - ha proseguito Stano - capire cosa è successo, chi stava partecipando, chi è il corruttore, chi è il corrotto e per questo, in un sistema di Stato di diritto, le autorità belghe stanno conducendo le indagini». Secondo la procura belga - riportava ieri La Repubblica - vi sarebbe la presunta cooptazione di funzionari del Seae da parte della rete messa in piedi da Panzeri e che coinvolge anche il suo ex assistente Francesco Giorgi (anche lui in carcere) e il segretario generale della Ong Non c'è pace senza giustizia Niccolò Figà-Talamanca. Il portavoce Stano ha ribadito che «una volta che saranno finite le indagini e quando avremo i risultati, le prove e i verdetti saremo in grado non solo di commentare ma anche di prendere provvedimenti». Prevale la linea della cautela in Commissione, con la consapevolezza che l'inchiesta è grave e quanto sta emergendo getta discredito su tutta l'Ue, come ha osservato la presidente Ursula von der Leyen giovedì scorso: «La corruzione, eventi come questo, erodono la fiducia nelle istituzioni e questo è doloroso. Dobbiamo lavorare duramente per riguadagnare la fiducia». A Palazzo Berlaymont il sentimento più diffuso è quello di preoccupazione misto a irritazione per una vicenda che sta offuscando i risultati positivi ottenuti dall'Ue nelle crisi che si sono susseguite negli ultimi mesi. E viene percepito con un po' di distacco, perché legato alla precedente Commissione, il fatto che l'ex commissario all'Immigrazione Dimitris Avramopoulos (Nea Demokratia) fosse nel board onorario della Ong di Panzeri (ha percepito dal primo febbraio del 2021 per dodici mesi 60 mila euro). Avramopoulos, ha confermato nei giorni scorsi la Commissione, aveva ottenuto l'autorizzazione da von der Leyen ad entrare nel board «con le restrizioni» che vigono nei due anni successivi alla fine del mandato (il cosiddetto periodo di cooling-off ). «Abbiamo avviato delle verifiche interne», ha detto il portavoce Eric Mamer due giorni fa. Ma, viene fatto notare, i due incontri in luglio e nell'ottobre scorsi con il commissario al Bilancio Johannes Hahn e la vicepresidente Vera Jourova non rientravano nel periodo di cooling-off ed erano privati. Mentre le parole di Avramopoulos, ovvero che dietro l'attenzione nei suoi confronti ci sia «uno sforzo organizzato da parte di alcuni circoli in Italia» per indebolirlo nella corsa a rappresentante speciale dell'Ue, ruolo per il quale è in gara anche l'ex ministro Luigi Di Maio, vengono viste da una fonte vicina al dossier più come «ego eccessivo» che una «macchinazione». Di certo Borrell non prenderà una decisione entro fine anno».

ANCORA BOMBE RUSSE SU KHERSON

Le ultime notizie dal campo bellico. Continua il bombardamento russo delle zone “liberate” dagli ucraini. Sabato Angieri per il Manifesto.

«Dniprovske è un villaggio di poche anime che sorge su un'ansa del Dnipro a sud di Kherson, uno dei tanti che si ripetono uguali fino al Mar nero. La strada che uscendo dal capoluogo porta al posto di blocco prima del villaggio costeggia vigneti secchi e campi incolti, l'orizzonte è piatto e paurosamente libero verso est. Percorrendola non si è mai tranquilli, ricorda la strada di Soledar, in Donbass, una delle tante strade della morte. Stupisce che a Kherson i check-point siano blandi mentre qui se ne incontrano tre a pochi km di distanza. Due colonne di fumo nero si alzano dall'abitato, sullo sfondo si vede la sponda controllata dai russi come se non ci fosse il fiume in mezzo. Un soldato di guardia ci raccomanda di stare attenti e, quando gli domandiamo se hanno colpito pesantemente, risponde facendo delle parabole con le dita serrate «boom boom boom». Seguiamo uno degli incendi e ci troviamo in una piazza sterrata e brulla, di terra gialla. Una casa colonica brucia dal tetto ed è evidente che a breve non ne resterà più nulla se non pochi mattoni anneriti. Dietro un angolo, di fronte al fuoco, una scena che sembra una foto di inizio secolo. Una squadra di soldati ucraini è in attesa sulle scale di una cantina, dai primi gradini ai più bassi spuntano le figure degli uomini in uniforme ed elmetto che guardano preoccupati verso il fiume. Ci avviciniamo e rimangono bassi, nel frattempo i boati continuano a far vibrare l'aria. Com' è la situazione? «Normalna», tutto a posto, dicono ridendo. Ma non è affatto così. «Quella quanto tempo fa?» chiediamo indicando la casa. «Cinque minuti prima che arrivaste voi» risponde lo stesso ragazzo che si ferma per una pausa scenica, «siete stati fortunati». I suoi commilitoni ridono di nuovo ma quando un colpo d'artiglieria più forte degli altri colpisce a poca distanza si abbassano istintivamente. «State attenti qui intorno» dice un altro soldato «e buona fortuna». La conversazione è finita. Tre settimane fa, a pochi giorni dall'ingresso degli ucraini a Kherson ovest, alcune indiscrezioni rivelavano che le forze armate ucraine nel sud stavano sondando il terreno per trovare punti favorevoli a un eventuale passaggio del fiume Dnipro. Riuscire a stabilire un contatto con l'altra riva, qui al sud sarebbe vitale per i soldati di Kiev. In primis si potrebbe tentare di insidiare direttamente le postazioni di tiro russe che tanti danni stanno causando alla parte liberata della regione di Kherson. Dall'attacco di lunedì mattina al centro di Kherson, sono trascorse più di 35 ore e gran parte della città è ancora senza corrente elettrica. Le reti del gas sono già fuori uso da settimane e quindi i riscaldamenti domestici dipendono direttamente dai blackout. In altri termini, senza corrente si resta al freddo. E ieri a Kherson le temperature durante la notte hanno toccato i -10°. Ma ciò non vuol dire che i bombardamenti si siano fermati. Mortai, grad, obici di vario calibro e, soprattutto, Mlrs hanno tenuto svegli gli abitanti tutta la scorsa notte. L'acronimo inglese significa «Sistema di lanciarazzi multiplo» (multiple launcher rocket system, ndr) e sono molto più potenti dei vecchi grad di produzione sovietica. Si consideri che gli Himars americani, che tanta importanza hanno avuto per le sorti della controffensiva ucraina nell'est, sono al momento il più devastante degli Mlrs. Quando i russi sparano con gli Mlrs verso Kherson si sente uno scroscio potente come una serie di tuoni a distanza di millesimi di secondi. Ieri mattina, proprio a causa di un attacco condotto con questi sistemi di lanciarazzi a Kherson sono morti altri due civili e almeno altri 5 sono rimasti feriti. Sono giorni che il bollettino dei morti e feriti in città non segna un rassicurante "0", forse dovrebbe bastare questo a far capire che la narrazione della stampa internazionale è errata. Kherson ha smesso di essere una notizia circa una settimana dopo l'ingresso delle truppe ucraine, da quel momento in poi l'unico fronte di interesse è stato Bakhmut. Infatti, ieri Zelensky si è recato di persona proprio nella città martoriata del Donbass per dimostrare la vicinanza del governo di Kiev ai combattenti. Ma il sud? È qui che probabilmente a breve vedremo nuove manovre. Altro motivo per cui gli ucraini vorrebbero passare il Dnipro è tentare una manovra a tenaglia verso Melitopol e spezzare la linea di approvvigionamento russa dalla provincia di Rostov sul Don alla Crimea. Dopo l'attacco al ponte di Kerch, interrompere anche i collegamenti via terra alla Crimea sarebbe strategicamente cruciale per Kiev. Intanto però il territorio di Kherson è bersagliato costantemente dalle bombe e tutto lascia presupporre che nel prossimo futuro la situazione non potrà che peggiorare».

FERITI DUE GIORNALISTI ITALIANI

L’artiglieria russa colpisce due giornalisti italiani free lance, che pure viaggiavano su una macchina con vistose scritte “press”. La cronaca del Corriere della Sera.

«Giornalisti italiani sotto tiro dell'artiglieria russa sulla sponda occidentale del fiume Dnipro, nella regione di Kherson liberata dagli ucraini. Le bombe esplodono a pochi metri, colpiscono la loro auto marcata in blu con vistose scritte «Press». A bordo ci sono il reporter freelance 35enne, Claudio Locatelli, assieme al fotoreporter 42enne Niccolò Celesti e il loro interprete italo-ucraino Daniel. Accadeva domenica, poco prima delle 14.00. E loro sono riusciti a riprendere in un video i momenti più drammatici. Non si vedono altri mezzi vicino al loro. «Ci siamo fermati vicino al cimitero del villaggio di Antonivka. Ci avevano detto che poco prima vi stavano seppellendo alcuni civili uccisi nei bombardamenti», ci ha detto ieri sera Locatelli da Mykolaiv. Antonivka si trova a nord di Kherson: un luogo estremamente pericoloso, dove da circa un mese le truppe russe, appostate lungo la riva orientale del Dnipro a meno di un paio di chilometri di distanza, sparano in modo indiscriminato contro le abitazioni. Il video mostra la crudezza della battaglia. Un'esplosione avviene più vicina delle altre. L'auto dei giornalisti viene danneggiata, si vedono i cristalli dei vetri incrinati, la carrozzeria bucata, un pneumatico è forato dalle schegge. Locatelli è ferito di striscio al collo, sanguina. «Sono stato colpito. Vedete molto sangue?», chiede ai due compagni. Celesti lo rassicura, sembra una ferita molto superficiale. Intanto Daniel guida a marcia indietro alla ricerca di una zona più riparata. Si sentono altri colpi. Loro sono costretti ad allontanarsi il più rapidamente possibile. «Non sembrava ci fossero droni russi nel cielo. Abbiamo però notato che c'erano pochissimi soldati ucraini e le loro postazioni di artiglieria non stanno lungo il fiume, sono più al riparo verso le retrovie», aggiunge Locatelli. Kherson resta una regione fantasma, quasi deserta. Anche i giornalisti rischiano la vita se vogliono andare a raccontare le prime linee».

MINSK, ATTENTI A QUEI DUE

Anna Zafesova analizza il faccia a faccia di Minsk fra i presidenti Putin e Lukashenko. Dice il bielorusso: “Io e Putin siamo i più cattivi, i personaggi più tossici di questo pianeta”. La Bielorussia nega le truppe allo Zar ma la sua sopravvivenza dipende dal Cremlino.

«Noi, io e Putin, siamo i più cattivi, i personaggi più tossici di questo pianeta. Siamo coaggressori, abbiamo un solo diverbio: chi dei due è più cattivo?». Non si capisce se questa frase di Aleksandr Lukashenko sia ironica, o se sia stata uno strano scatto di sincerità, ma sicuramente non è piaciuta molto a Vladimir Putin. In effetti, non è stata un'accoglienza particolarmente calorosa, considerato che per la prima volta in tre anni il presidente russo si è scomodato per venire a Minsk, invece di convocare Lukashenko al Cremlino o a Sochi. Ma non è un caso se il dittatore belarusso ripete spesso in pubblico di essere «l'unico alleato della Russia»: per quanto sia il leader traballante di un Paese povero e isolato, Putin ha un bisogno disperato di lui, tale da sopportare le disquisizioni di Lukashenko su chi è il più cattivo dei due: «Vladimir Vladimirovic dice che sono io, ma comincio a pensare che sia lui», ha commentato con una risatina. Lukashenko e Putin sono una strana coppia di dittatori che si odiano, ma che sono costretti a navigare insieme in un naufragio. Ufficialmente a Minsk non si è parlato di guerra, ma l'intenso scambio di visite dei ministri della Difesa nelle settimane precedenti lascia al comando di Kyiv pochi dubbi: Putin è volato in Belarus per convincere Lukashenko a entrare in guerra. Il comandante delle truppe ucraine Valeriy Zaluzhny è convinto che il Cremlino vuole lanciare un nuovo attacco contro Kyiv, che partirebbe dal territorio belarusso, come era successo già nel febbraio scorso. Ma stavolta i russi vorrebbero che Lukashenko non si limitasse a concedere il proprio territorio, mandando a fianco dei soldati russi anche i suoi, almeno 30 mila militari che dovrebbero non solo colmare le lacune nei ranghi dell'esercito di Putin, ma anche vincolare definitivamente il leader belarusso a Putin nella «coppia più tossica del pianeta». Una richiesta che Lukashenko però respinge da febbraio scorso, e che secondo il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba è stata respinta anche stavolta: «Il solito balletto tra Lukashenko e Putin», ha commentato il vertice a Minsk. Anche l'Institute for the Study of War sostiene che il presidente russo sia stato respinto con perdite: Lukashenko si sarebbe rifiutato di concedergli il suo esercito per una nuova offensiva su Kyiv. Per un motivo molto banale: una chiamata alle armi rischia di provocare una nuova rivolta popolare, che rischierebbe di essere fatale per un dittatore già in bilico dopo la rivoluzione in piazza dell'estate del 2020. Allora, si salvò grazie ai soldi e al sostegno della Russia, che però oggi non avrebbe la forza per invadere un altro Paese. Motivo per il quale il portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale Usa John Kirby sostiene che l'America «non hanno prove di un diretto coinvolgimento» delle truppe belarusse sul terreno. Questo però non significa che non possa accadere in futuro: la dipendenza del regime di Lukashenko dal Cremlino è totale, e ha appena ottenuto da Putin forniture di gas a prezzi di favore. La Belarus è comunque diventata di fatto un'enorme base militare russa: i neomobilitati si stanno addestrando nei suoi poligoni, i bombardieri decollano per i loro raid contro l'Ucraina dalle sue basi, e secondo l'Isw l'esercito di Lukashenko non ha più nemmeno il controllo su una serie di strutture strategiche. I suoi militari però non combattono a fianco dei russi, e senza di loro i piani di una nuova offensiva da Nord verso Kyiv, o a Ovest per spezzare le linee di approvvigionamento in direzione di Leopoli, appaiono fragili. Resta da vedere quanto durerà ancora la mirabile capacità di sopravvivenza politica del dittatore belarusso. Putin l'ha sempre considerato un partner «tossico» e poco affidabile, ma non può eliminarlo: il rischio è di un collasso del regime, e di una Belarus che si ribella e fugge verso l'Europa seguendo le orme dell'Ucraina. Infatti, un'altra indiscrezione che circola a Mosca è quella che vorrebbe Putin ansioso di annettere la Belarus, concludendo infine quel processo di «unione» tra due Stati che Lukashenko promette di compiere ormai da più di vent' anni. La speranza sarebbe quella di regalare ai russi una acquisizione territoriale al posto dell'Ucraina, di soddisfare gli appetiti imperiali a spese dei belarussi, distraendo l'opinione pubblica dalla sconfitta in guerra. Ma anche questo è un piano difficilmente realizzabile senza il consenso di Lukashenko, che non ha nessuna voglia di trasformarsi da presidente - per quanto non riconosciuto internazionalmente - in un governatore di una regione russa».

ZELENSKY VOLA IN USA

Se Putin va a Minsk, Zelensky vola negli Stati Uniti. Il presidente ucraino parlerà al Congresso e chiederà una dotazione di Patriot per la difesa antiaerea. Dall'inizio della guerra gli Usa hanno messo sul piatto oltre 22 miliardi di armamenti. Alberto Simoni per La Stampa.

«A Washington fra i corridoi del Congresso mentre i deputati sono impegnati nel dibattito se divulgare o meno la dichiarazione dei redditi di Trump, corre la voce - lanciata dal sito PunchbowlNews - che il presidente ucraino Volodymir Zelensky è in viaggio per gli Stati Uniti. È partito direttamente dal fronte. Fuori è buio e nessuno, men che meno Nancy Pelosi, speaker in uscita della Camera, si presta a confermare i rumors benché gli inviti ai deputati a non lasciare la capitale per le feste di Natale e a riunirsi stasera in Campidoglio portino la sua firma. "Abbiamo ricevuto il biglietto", ha spiegato alla Stampa l'assistente di un deputato democratico. Zelensky arriverà oggi. Vedrà Biden, il Consiglio per la Sicurezza nazionale e quindi terrà un discorso al Congresso prima di rientrare in patria. È il primo viaggio all'estero da quando "la brutale e ingiustificata invasione" dell'Ucraina, nel gergo della Casa Bianca e degli alleati, è iniziata il 24 febbraio. E oggi segna il trecentesimo giorno di guerra, un dettaglio enfatizzato dai funzionari Usa. Biden ha parlato con Zelensky l'11 dicembre, mercoledì scorso ha formalizzato l'invito che è stato accettato venerdì. Quindi domenica è giunta la conferma della visita e Biden ha allertato Nancy Pelosi. È una missione storica che arriva nei giorni in cui la Casa Bianca e il Pentagono stanno mettendo a fuoco l'ennesimo pacchetto di aiuti militari e all'indomani dell'accordo "omnibus" sul budget che prevede per il 2023 un ulteriore stanziamento di 44,9 miliardi di dollari per Kiev. Poco prima che la notizia del viaggio di Zelensky terremotasse l'agenda dei deputati, John Kirby, portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale, aveva ribadito il totale sostegno dell'America all'Ucraina e sottolineato come i fondi che il Congresso stanzierà ne sono un segnale. Zelensky parlerà al Congresso in persona e avrà prima di salire sul podio la conferma che nel pacchetto di aiuti preparato dal Pentagono ci sono non solo bombe teleguidate JDAM ma soprattutto una dotazione di Patriot per la difesa antiaerea. Funzionari Usa hanno riferito all'agenzia AP che il pacchetto che sarà annunciato oggi "ammonta a 1,8 miliardi" ed è il più massiccio degli ultimi mesi. Con questa ultima dotazione gli Usa avranno messo sul piatto dal 24 febbraio oltre 22 miliardi di armamenti. I Patriot sono praticamente il massimo che Washington può fornire all'alleato sotto attacco e rappresentano il riconoscimento che la guerra è entrata in una fase in cui allo stallo sul terreno - fra avanzate e ripiegamenti - Putin contrappone attacchi con droni iraniani e missili sulle infrastrutture civili. Washington darà anche garanzie a Zelensky che non consentirà che si apra un nuovo fronte in Bielorussia, fonti dell'Amministrazione hanno spiegato che al momento non ci sono movimenti di truppe bielorusse, ma il "coinvolgimento di Minsk - a sostegno della Russia - è evidente e smaccato dal primo giorno". Per usare i Patriot, hanno spiegato fonti americane, gli ucraini verranno addestrati all'estero e ci vorrà comunque del tempo prima che entrino in funzione a pieno regime. La missione di Zelensky serve per rafforzare la grande alleanza e stemperare qualche tensione o incomprensione che c'è stata con Biden che in estate era rimasto infastidito dalle continue, a suo dire, immotivate richieste del presidente ucraino. Il presidente Usa e il suo staff, in primo luogo il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, avevano chiesto a Kiev una apertura, almeno formale, al dialogo con la Russia. Qualche settimana fa lo stesso Sullivan aveva invitato Zelensky a mettere da parte la retorica anti-Putin e quelle frasi, "mai al tavolo con Putin", per non finire oggetto di critiche. Ora la situazione sembra mutata. Fonti del Consiglio per la Sicurezza nazionale hanno detto che gli Usa "sono sempre più convinti che Putin non voglia risolvere il conflitto con la diplomazia". Lo scenario di un conflitto che si protrarrà fino a dopo l'inverno resta il più probabile, secondo gli americani. Agli Usa e a Kiev preoccupano in particolare gli attacchi indiscriminati su obiettivi civili con l'inverno usato come arma così come prima Putin aveva usato il gas e il grano. Anche da queste valutazioni è nata la convinzione che serviva alzare il livello degli armamenti».

LA VIA DIPLOMATICA È QUELLA DI HELSINKI

I negoziati, il cessate il fuoco e poi la tregua restano in secondo piano. Ma prima o poi ci si dovrà arrivare. Antonio Armellini per il Corriere della Sera.

«Biden e Macron hanno promosso una nuova conferenza sull'Ucraina, crescono le ipotesi di mediazione e, nella nebbia di notizie in cui gioca la sua partita la propaganda, è difficile leggere bene i segnali di movimento. Le truppe di Kiev continuano la lenta liberazione dei territori occupati, ma l'inverno avanza e Putin è in grado di gettare nella mischia ancora, e ancora soldati male equipaggiati e poco motivati. È necessario continuare a mostrare un viso dell'arme compatto ed efficiente; qualsiasi cedimento sarebbe non solo disastroso per l'Ucraina, ma potrebbe rivelarsi un pericoloso autogol perché Putin, ritenendo di aver dimostrato l'inanità del fronte occidentale, potrebbe irrigidire ancor più il terreno dello scontro. Anche questo conflitto prima o poi finirà. Una debellatio della Russia non sarebbe né facile né necessariamente vantaggiosa. L'opposizione a Putin cresce nelle città e fra i ceti produttivi - che emigrano in massa, togliendogli un problema - ma nella Russia profonda, quella della Stalingrado dei libri di Vasilij Grossman, che fornisce il grosso della carne da cannone inviata sul fronte ucraino, il discorso è diverso. Qui, allo zar si è sempre creduto: è stato prima imperiale, poi sovietico e ora «grande russo» ma il suo messaggio non è cambiato e il misto di nazionalismo e di integralismo religioso continua a fare presa su una popolazione che diffida dei discorsi «stranieri». Alla sua cacciata potrebbe seguire sì una primavera di democrazia, ma è poco probabile; più facile invece sarebbe trovarsi di fronte ad un leader - forse un generale - pronto a soffiare sul fuoco dell'umiliazione e della volontà di rivalsa di un paese in preda ad una crisi inarrestabile. I pericoli maggiori per Putin potrebbero venire proprio dalla cerchia di coloro che ne hanno sostenuto l'ascesa; qualora oligarchi ed altri si convincessero che non è più in grado di assicurare le medesime posizioni politiche e di rendita, il suo destino potrebbe essere prima o poi segnato. Non Jalta, ma Helsinki, si è detto più volte per ribadire il rifiuto della logica dei blocchi, identificata (non del tutto a ragione) con la Conferenza di Jalta, e affermare il primato dei principi di multilateralismo e di rispetto reciproco dell'Atto Finale di Helsinki della CSCE (La Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, oggi diventata OSCE, una organizzazione internazionale vera e propria). Vi ha fatto riferimento anche il Presidente Mattarella nel suo recente intervento alla conferenza dell'ISPI, ed è giusto, ma è bene ricordare che «Helsinki» - il processo cioè che portò nel 1975 al Trattato che indicò la via del graduale passaggio dalla guerra fredda alla coesistenza pacifica - fu reso possibile perché c'era stata Jalta, e non il contrario. I due blocchi avevano esaurito le possibilità di espansione, le rispettive aree di influenza si erano consolidate e diventava possibile cercare il vantaggio reciproco della collaborazione, senza mettere in discussione i criteri fondanti di entrambi. La sua logica win-win - che si basava da un lato sull'intuizione di Kissinger del potenziale dirompente dei diritti umani sugli equilibri esistenti e, dall'altro, sull'ambizione di Breznev di vedere riconosciuta la sua primazia nell'Est europeo - fu all'epoca molto criticata, ma funzionò, e determinò vent' anni più tardi un vincitore, senza nuove guerre. L'Ucraina è stata aggredita, deve essere risarcita e le cose devono tornare al loro giusto posto; non sarà facile, con un inverno climaticamente difficile, con un'opinione pubblica occidentale che dà segni di fatica, con l'autolesionismo difficilmente comprensibile di Putin, ma rimane l'unica via. Nella logica di Jalta era più facile individuare i punti di frattura dello scontro; qui ci troviamo dinanzi a un conflitto dalle caratteristiche imprevedibili e frastagliate, non più fra blocchi bensì fra gruppi diversi, ineguali per composizione e finalità, e per ciò stesso più pericoloso. La pressione deve poter continuare sino a quando il conto del dare e dell'avere della guerra non avrà raggiunto un punto in cui le parti si convinceranno di aver raggiunto ciascuna il massimo risultato possibile dal conflitto, comprimendo correlativamente i danni. Potrebbe anche avvenire presto - ma non è detto - e conterà la realtà dei fatti sul terreno (perché un vincitore e un perdente ci saranno), ma soprattutto la percezione di ognuno di poter presentare un risultato difendibile ai propri referenti politici e alle proprie opinioni pubbliche. Solo da qui si potrà avviare un negoziato capace di affrontare l'insieme dei problemi, in una logica win-win simmetrica rispetto a quella di Helsinki; non partendo dai blocchi per arrivare a un nuovo equilibrio, bensì da una situazione destrutturata per trovare un punto di ancoraggio che ne prevenga la ricostituzione. Un negoziato in cui si potrà parlare non solo di Ucraina e in cui la flessibilità dei principi e degli strumenti dell'Atto Finale - l'inviolabilità e modificabilità delle frontiere, le minoranze, i diritti civili e così via - potranno ritrovare la loro utilità. Come ha sottolineato - spesso inascoltato - Henry Kissinger, che del processo di Helsinki era stato il padre».

OGGI PREGHIERA PER LA PACE SULLA TOMBA DI SAN NICOLA

Parla l’arcivescovo Satriano: oggi pomeriggio a Bari nella Basilica di san Nicola, insieme cattolici e ortodossi invocheranno la fine delle ostilità in Ucraina. L'invito ai leader politici è quello di avere il coraggio di fermare le armi e iniziare ad aprire un tavolo di confronto tra le parti. Mimmo Muolo per Avvenire.

«La pace non è un'utopia. La pace è possibile anche in Ucraina. E chi la invoca nella preghiera non è fuori dal mondo. Anzi «ha in mano il timone della storia». Si è espresso così ieri, alla vigilia della odierna preghiera per la pace sulla tomba di San Nicola, nell'omonima Basilica barese, l'arcivescovo di Bari-Bitonto, Giuseppe Satriano, presentando l'evento che sarà presieduto dal presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi. Una presenza, quella del porporato, ha fatto notare parlando con Avvenire, che porterà idealmente dentro le antiche mura romaniche del grande tempio in riva al mare Adriatico, tutta la Chiesa italiana. Perciò la preghiera di questo pomeriggio (l'inizio è previsto alle 18,30) assumerà più di una valenza: comunitaria oltre che ecumenica.

Monsignor Satriano, qual è la finalità di questo momento di preghiera?

C'è una sottile operazione di discredito sul tema della pace che come Chiesa non possiamo sottacere e, dinanzi alla quale, dobbiamo abbracciare con forza la risorsa della preghiera. La preghiera è patrimonio di tutti e, in particolare, la preghiera d'intercessione, vissuta da Gesù sulla croce, ha il sapore della misericordia e l'obiettivo della riconciliazione. San Giovanni Crisostomo affermava che: "Chi prega ha le mani sul timone sulla storia".

In che modo la preghiera di questo pomeriggio può aiutare il processo di pace?

Ritrovarci a pregare, abbracciando le sorelle e i fratelli Ucraini e Russi, sulla tomba di san Nicola, nell'imminenza del Natale, vuole essere opportunità per invocare l'avvio di un processo di pace che ridoni speranza agli smarriti e agli afflitti; impetrare il dono di un possibile "cessate il fuoco" che permetta a tutti di fermarsi a riflettere, per sanare le ferite, seppellire i morti e pregare; inoltre, chiedere la grazia per un cammino di conversione che possa ricondurre questa nostra umanità a una ritrovata fratellanza.

Come si svolgerà il momento liturgico che sarà presieduto dal Presidente della Cei?

La preghiera sarà ecumenica nello stile e semplice nel suo genere. Tre i momenti che vivremo. Il primo sarà caratterizzato dall'ascolto della Parola di Dio e un secondo spazio sarà dedicato al silenzio orante. La conclusione vedrà il celebrante alimentare con olio la lampada che arde sulla tomba del Santo, segno di supplica e intercessione.

La presenza del cardinale Zuppi è un valore aggiunto.
È bello che sia il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana a presiedere questo momento di grazia. La sua presenza diviene segno prezioso che richiama l'impegno di tutta la Chiesa in Italia a favore della pace. Con lui ci saranno altri vescovi e rappresentanti di Chiese sorelle.

San Nicola è molto amato nelle chiese dell'Est Europa e in particolare in Russia, dove il giro di alcune sue reliquie, qualche anno fa, mosse folle imponenti. Che cosa direbbe oggi a Putin soprattutto, ma anche a Zelensky?

Abbiate il coraggio di fermare le armi e iniziare ad aprire un tavolo di confronto! Come in tutte le guerre la verità è la prima a morire e con essa la capacità di ascoltare gli uni le ragioni dell'altro. Credo che alla luce del Vangelo, e della vita di San Nicola, non è possibile legittimare la guerra neanche dinanzi a ingiustizie e criminali. La guerra è sempre un tornare indietro e aprire alla barbarie, la storia ce lo insegna. I veri audaci non sono quelli che in nome di una causa, giusta per quanto sia, uccidono i fratelli. Veri audaci sono piuttosto coloro che coltivano la pace come frutto della giustizia secondo l'espressione del profeta Isaia. La non-violenza è l'unica scelta cristiana in linea con il Vangelo di Gesù Cristo.

A Bari c'è una chiesa del patriarcato di Mosca. Come sono i rapporti con la diocesi?

I rapporti con la Chiesa Russa, qui a Bari, da sempre, sono stati buoni e ricchi di reciproco rispetto. Non dimentichiamo che all'indomani dell'inizio della guerra ho pregato con loro e alcuni Ucraini sulla tomba di San Nicola e, nei giorni successivi, ho potuto visitare di persona il complesso edilizio della Comunità Ortodossa Russa, ricevendo bella ospitalità. Anche recentemente, il Parroco russo, padre Viaèeslav Baèin, ha presenziato alla celebrazione eucaristica del 6 dicembre, insieme agli altri rappresentanti delle Chiese Orientali.

I fedeli russi continuano a venire in pellegrinaggio a Bari?

Il pellegrinaggio non si è interrotto, soprattutto da parte dei russi presenti in Italia e in Europa. Al momento il numero è ridotto per evidenti situazioni contingenti, ma il fatto stesso che essi continuino a venire dice quanto il pregare sia di per sé uno spiraglio attraverso cui attestare il desiderio di pace. San Nicola è ben saldo nel cuore di tanti, non solo dei russi e dei baresi. La speranza è che, continuando in tanti ad accostarci a lui, possiamo ritrovarci tutti più vicini anche tra di noi».

BOSSI: “SALVINI SI COMPORTA DA BAMBINO”

Veniamo alla politica italiana. Umberto Bossi guida il Comitato nord che vorrebbe presentare una sua lista alle regionali lombarde. Ieri ha incontrato Fontana al Pirellone, che sta mediando con Salvini. Matteo Pucciarelli per Repubblica.

«Questa potrebbe essere l'ultima settimana di Umberto Bossi nella Lega, perlomeno in quella 2.0 che porta il nome di Matteo Salvini. Anche perché della vecchia Lega Nord il fondatore rimane presidente a vita. Ieri al Pirellone c'è stata una nuova tappa dello scontro a distanza tra il Senatur e il segretario federale, con quest' ultimo che ostenta sicurezza e fa spallucce di fronte ai richiami e alle richieste del primo. Ma andando con ordine: debilitato nel fisico ma sempre svelto nel pensiero, Bossi è arrivato a sorpresa alla sede del Consiglio regionale a metà mattinata. Chiuso in una stanza laterale, con lui ci sono i co-promotori della minoranza interna e associazione Comitato Nord Angelo Ciocca e Paolo Grimoldi, oltre ai quattro consiglieri che hanno formato un nuovo gruppo e per quello sono stati espulsi. Il capo - c'è chi lo chiama ancora così ricordando i tempi di quando dettava legge lui - riceve Attilio Fontana. Il presidente della regione esce dopo mezz' ora e si fa portatore di un messaggio di pace: chiedere alla coalizione di centrodestra di far spazio alla lista nordista, come da desiderata di Bossi.
Una formazione alleata quindi alla Lega, ma alternativa al Carroccio. Un'eresia, per com' è strutturato e pensato il partito. Inconcepibile e inammissibile per Salvini, eppure il calcolo politico è questo: senza l'1-2-3 per cento di voto "padano", a Fontana rischia di mancare la percentuale decisiva per raggiungere il 40 per cento e ottenere il premio di maggioranza alla prossima legislatura. Con FdI che veleggia al 25-30 per cento, il governatore rischia la rielezione sotto il commissariamento di Giorgia Meloni e dei suoi. Per questo servono anche i consensi verde antico. Salvini ormai da più di due settimane si nega al telefono quando chiama Bossi. Da Gemonio era stata benedetta l'operazione di rottura in Consiglio regionale, il "Capitano" aveva ordinato l'immediata espulsione dei tre (poi diventati quattro) e il senatur aveva chiesto clemenza. Fine delle comunicazioni. «Salvini si comporta come un bambino e non come un uomo, io sono abituato a parlare da uomo a uomo», ha sibilato Bossi parlando coi suoi. Il ragionamento che fanno i ribelli, o meglio la sfida posta, è questa: Salvini si comporterà da leader politico o da capo di una corrente? Nel primo caso, darà il via libera all'operazione Nord. «Entro domenica sera ci dovranno dare una risposta, o dovranno darla a Fontana...», spiega Roberto Mura, fazzoletto verde nel taschino e la spilletta di Alberto da Giussano sulla giacca. In realtà un primo responso è già arrivato ed è un semaforo rosso. «Noi lavoriamo in coerenza e continuità con quanto scelto dai cittadini e da migliaia di militanti e amministratori del partito di via Bellerio che non hanno mai tradito, insultato o perso tempo a fare polemica», sentenzia il commissario regionale Fabrizio Cecchetti. Salvini fa direttamente il vago: «Io bambino? Lo prendo come un complimento, sono come Peter Pan. Comunque non mi occupo di questioni locali». Eppure, da ex segretario della Lega Lombarda, sa benissimo quanto conti negli equilibri interni la regione dov' è nato tutto. Dei 9 mila iscritti dell'anno scorso, a metà estate erano andate perse il 40 per cento delle tessere. «Di questo passo alle Europee del 2024 la Lega non prenderà il 4 per cento, perdono i territori e dicono che va tutto bene, come faceva l'orchesta sul Titanic», avverte Ciocca, ormai anche lui con un piede fuori dal partito; chissà se uscirà definitivamente e se accadrà per provvedimento di espulsione o per scelta».

RAMPELLI ACCETTA LA BOCCIATURA IN FAVORE DI ROCCA

Elezioni regionali nel Lazio, deciso il candidato del centro destra: sarà Francesco Rocca, che si è dimesso dalla Croce Rossa. Bocciato di nuovo Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera (FdI), già mentore di Meloni. Emanuele Lauria per Repubblica.

«Il navigato capo di una Destra d'antan si mette ancora una volta sull'attenti: «Sono un soldato e faccio quel che mi dicono». Chi pensava che Fabio Rampelli prorompesse in una plateale protesta contro il suo partito, o contro la sua ex pupilla Giorgia Meloni, non conosce evidentemente il personaggio. Ruvido ma abituato alla disciplina. Con l'unica arma del sarcasmo: a Montecitorio, in una fugace apparizione, si concede qualche battuta per l'esclusione dalla candidatura a governatore del Lazio. Rigorosamente in romanesco: « Sono come la sora Camilla, tutti la vonno e nissuno la pija». Rampelli prova a scherzarci su, ricorda tutte le volte che è stato a un passo dalla nomination per il Campidoglio o per la Regione: «Sono stato candidato per tre ore nel 2013, per tre ore nel 2016 e un po' di più nel 2018. Poi nel 2021, quando fu scelto Michetti, beh il mio nome l'avete fatto voi... ». Sintesi mirabile: «Sono un incandidabile permanente». E via, senza più una parola. Qualche dubbio, molto probabilmente più di uno, gli è rimasto. Ma non potremo mai sentirgli dire che c'è un fatto personale con Giorgia Meloni, la giovane militante che Rampelli accolse e allevò alla sezione di Colle Oppio.
Sponsorizzandola nelle prime avventure elettorali. E che oggi lo "tradisce" di nuovo. Al massimo, per comprendere il sentimento dell'ex capo dei Gabbiani, si può tentare di interpretare un post della moglie Gloria Sabatini dopo che è stato ufficializzato il nome di Rocca: «La facevo più intelligente». Post subito cancellato. Quel che resta sono borbottii, dissapori, rancori silenziosi. Un vociare che alimenta il dibattito soprattutto fra "fedelissimi": Massimo Milani (coordinatore di Fdi a Roma), Lavinia Mennuni, Maria Teresa Bellucci, Federico Mollicone, Andrea De Priamo, Marco Scurria. Che ciò si traduca nella nascita di una corrente critica dentro il partito, è da escludere. Ma si è comunque aperto il primo caso da quando Fratelli d'Italia è al suo apogeo, con Meloni premier. Francesco Lollobrigida, uomo forte del partito, minimizza ma lancia un segnale preciso: «Io non so se Rampelli ci sia rimasto male. Sono certo che lui, come tutti nel partito, ha a cuore il bene comune prima delle aspirazioni personali. Così siamo diventati quel che siamo». Che qualcosa stesse andando storto, Rampelli lo aveva capito già nello scorso week-end, alla festa per il decennale del partito, quando Meloni invece di annunciare il nome del candidato aveva preso tempo e lanciato la "terna". Alle otto di sabato, il vicepresidente della Camera non sapeva neppure se facesse parte di quella rosa. E l'idea di finirci dentro, in realtà, neppure lo esaltava. Comprendendo che la consultazione degli alleati, da parte della premier, avrebbe portato alla scelta di un "tecnico" quale Francesco Rocca. Rampelli ha comunque dato la sua disponibilità, confidando nei sondaggi a favore e nel consenso della classe dirigente romana di Lega e Forza Italia. Ma alla fine, almeno ufficialmente, ha pesato il gradimento espresso da Salvini e Berlusconi nei confronti di Rocca. Di certo, Meloni con questa scelta ha evitato di spaccare il partito e ha anche risparmiato l'umiliazione della convergenza su un altro candidato di FdI, Procaccini, Trancassini (legato a Lollobrigida) o Chiara Colosimo. Ma gioca una nuova rischiosa scommessa puntando su un civico, dopo il fallimento di Enrico Michetti. Se Rocca dovesse perdere, si riaprirebbe l'eterno dibattito sulla qualità della classe dirigente di FdI. E chissà se, a questo punto, come rivelano fonti di Fdi, Meloni troverà un ruolo diverso per Fabio Rampelli. Qualcosa che non sia un semplice premio di consolazione, che il capo dei Gabbiani ha già fatto sapere di non gradire. Qualcuno ipotizza un'authority, una società pubblica. O la promessa di una nuova candidatura a Roma. Purché duri più di tre ore».

IL PREZZO DEL GAS: MENO 30% IN UNA SETTIMANA

Anche grazie alle decisioni della Ue il prezzo del gas continua a scendere. Luca Pagni per Repubblica.

«Il più sincero è stato Paolo Gentiloni. Il commissario Ue agli Affari economici, in una intervista alla Cnn , ha ammesso che il tetto al prezzo del gas è solo una tessera del mosaico che porterà l'Europa alla sicurezza energetica. Il limite di 180 euro al megawattora annunciato ufficialmente lunedì dalla Ue «non è la risposta definitiva» al problema del caro-energia, e quindi «dovremmo essere onesti nel dire che occorre continuare con il risparmio energetico e indipendenza dalla Russia». Ma non c'è dubbio che la prima risposta del mercato al price cap sia stata positiva. Ieri, le contrattazioni al Ttf di Amsterdam, indice di riferimento per il mercato all'ingrosso in Europa, hanno chiuso a 105,5 euro in calo del 2,75% (circa -30% in una settimana). Una discesa iniziata quando era stato raggiunto l'accordo tra i capi di Stato e di governo e le quotazioni erano attorno ai 150 euro. Per non dire che ieri il calo dei prezzi avrebbe potuto essere più consistente. In mattinata aveva sfiorato anche il 7% a un passo dai 100 euro, salvo poi risalire dopo la notizia di una esplosione che ha danneggiato - nella parte russa - il gasdotto che porta il gas siberiano in Europa attraverso l'Ucraina. Una volta capito come l'incidente non influenzerà le forniture verso l'Europa, gli investitori hanno ripreso a vendere. Come riconosciuto da Gentiloni se il tetto è un elemento che aiuta, non è il solo che sta garantendo all'Europa un inverno al caldo. La crescita delle rinnovabili (la potenza di solare installato è cresciuta del 42% in tutta Europa rispetto a un anno fa), l'aumento dell'efficienza energetica, i risparmi delle famiglie che in parte hanno accolto gli inviti dei governi ad abbassare di uno o due gradi i riscaldamenti: tutto ciò sta contribuendo a un calo della domanda di gas. A questo si devono aggiungere i razionamenti delle imprese per limitare i costi, ma soprattutto le temperature sopra le medie negli ultimi tre mesi dell'anno. Risultato finale: gli stoccaggi in Europa sono mediamente pieni all'83,5% (con punte dell'87,3% in Germania e dell'84,6% in Italia). Numeri che - a detta degli analisti - dovrebbero garantire un margine di sicurezza importante anche se a gennaio e febbraio dovesse fare particolarmente freddo. I dati del nostro Paese sono emblematici. Secondo i calcoli degli esperti dell'Ispi (l'Istituto per gli studi politici internazionali), che sta monitorando il mercato dell'energia da quando è iniziato il conflitto in Ucraina, grazie alle temperature più miti il nostro Paese ha risparmiato 5 miliardi di metri cubi di gas a partire dal primo settembre (con un calo del 20% rispetto a un anno fa). Il meteo ha quindi dato una grossa mano, ma i risparmi ci sarebbero stati anche "a parità di temperature": il meteo ha coperto l'85% dei minori consumi, con un 15% che dipende comunque dai comportamenti dei consumatori e dalla maggiore efficienza. Se la tendenza dovesse proseguire, alla fine dell'inverno gli stoccaggi in Italia sarebbero al livello più alto degli ultimi dieci anni. Tutto questo ha avuto un costo, come ricorda Matteo Villa, analista dell'Ispi, perché riempire gli stoccaggi d'urgenza l'estate scorsa aveva portato i prezzi del gas al record storico di 345 euro al megawattora. «Abbiamo avuto bollette alte per famiglie e imprese, perdita di competitività, riduzione della produzione soprattutto per gli energivori, povertà energetica in aumento». Per evitare che ciò si ripeta il prossimo inverno, la Ue ha introdotto il tetto al prezzo per limitare i costi: sarà il momento in cui il meccanismo del price cap sarà messo definitivamente alla prova».

CONTRORDINE, LO SPID PER ORA RESTA

Polemiche su una possibile cancellazione dello Spid, l’innovazione burocratica che ha coinvolto più di 30 milioni di italiani. Il governo ipotizza l’uso della carta d'identità elettronica come unico accesso ai servizi della Pa. L’annuncio del sottosegretario Butti divide la maggioranza e innesca lo scontro con l'opposizione. Manuela Perrone per il Sole 24 Ore.

«Nessun addio allo Spid, almeno nell'immediato. Il Governo avvierà invece una «valutazione concordata con tutti gli stakeholder», istituzionali e non, sulla razionalizzazione delle identità digitali, con l'obiettivo di verificare la fattibilità a lungo termine di un'unica identità digitale, nazionale e gestita dallo Stato. Dalla presidenza del Consiglio si prova a chiarire (e a frenare) la direzione di marcia dopo le dichiarazioni al decennale di Fdi del sottosegretario con delega all'Innovazione, Alessio Butti, sulla volontà di «spegnere» lo Spid. L'idea, cara al partito della premier Giorgia Meloni, è realizzare un percorso - che si precisa «lungo e da condividere» - in quattro tappe, di «transizione negoziata» per fare della Carta d'identità elettronica il solo strumento di accesso ai servizi online della Pubblica amministrazione. Ma le affermazioni di Butti sono state accolte con ostilità dall'opposizione («Basta alle scelte contro i cittadini, viva la modernità», hanno commentato Matteo Renzi e Marianna Madia) e con freddezza anche da una parte della maggioranza. Il capogruppo di Fi alla Camera, Alessandro Cattaneo, ha voluto rassicurare: «Lo Spid semplifica la vita dei cittadini. Non verrà cancellato, ma stiamo cercando il modo di risolvere alcune criticità. Ci sono categorie, come gli anziani, che incontrano difficoltà nell'utilizzarlo». Proprio per consentire ai cittadini di delegare più facilmente i familiari, l'Inps offre il servizio "Delega Spid". Si è smarcato da Butti il governatore della Liguria, Giovanni Toti: «Spid si può semplificare, ma abolirlo mi sembra un passo indietro». «Spegnerlo sarebbe un errore», ha avvertito l'Osservatorio Digital Identity del Politecnico di Milano. Sono anni che Spid, nato nel 2013 e implementato da Agid (Agenzia per l'Italia digitale) fino al debutto nel 2016, è nel mirino di Fdi. Nel febbraio 2020, da deputato, Butti aveva firmato un ordine del giorno al Milleproroghe che impegnava il Governo a lavorare per uno «Spid di Stato», con il Viminale come identity provider unico e con l'erogazione dell'identità digitale non più affidata a gestori privati, ma solo ad aziende pubbliche come Poste. La richiesta era indirizzata all'allora ministra dell'Innovazione del Conte 2, Paola Pisano. Già a quei tempi si provò a ragionare su una convergenza con la Cie, ma non se ne fece nulla. Poi sono arrivate la pandemia, la pioggia di bonus richiedibili online e la spinta in era Draghi-Colao all'aumento delle identità digitali, inserito nel Pnrr come obiettivo. Con risultati eccellenti, perché sono già stati superati i target al 2024: oggi sono 33,32 milioni gli italiani con Spid (+5,87 milioni da fine 2021), 12.591 gli enti aderenti(+33,7% da inizio 2022) e 950,6 milioni gli accessi ai servizi (+66% da gennaio). Era però logico aspettarsi che Fdi non avrebbe abbandonato la bandiera dell'identità digitale «nazionale», sventolata contro la caratteristica principale di Spid: la presenza di un elenco di dieci gestori accreditati (Tim, Poste italiane, TeamSystem, Intesa, InfoCert, SpidItalia, Lepida, Namirial, Aruba e Sielte) che forniscono le identità e gestiscono l'autenticazione degli utenti. Molti sono i siti che consentono l'accesso ai servizi tramite sia Spid sia Cie. La differenza è che la Carta d'identità elettronica, posseduta da 31 milioni di italiani, è un documento di identità non dematerializzato, prodotto dall'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato e rilasciato dal ministero dell'Interno, dotato di un microchip dove sono memorizzati i dati personali e biometrici del titolare e le informazioni che ne consentono l'identificazione online. I dati contenuti nella Cie, tranne le impronte, possono essere letti con un pc a cui è collegato un lettore di smartcard o con uno smartphone dotato di interfaccia Nfc (near field communication). Questo meccanismo rende più complesso l'uso della Cie ma più elevato il suo livello di sicurezza, elemento che potrebbe rivelarsi determinante in futuro ai sensi del cantiere aperto in Europa, dove si studia un digital identity wallet in cui inserire tutte le credenziali dei cittadini Ue. Anche per questo Butti ha parlato di una migrazione da Spid a Cie da gestire a livello europeo. E ha promesso come primo step la semplificazione della Cie per permetterne il rilascio da remoto, a costo zero (oggi costa 16,79 euro) e in 24 ore. Quello sì un goal su cui nessuno avrebbe da ridire. A cominciare dai cittadini».

TORNA LA RICETTA CARTACEA?

La ricetta via email fu introdotta per il Covid, ma la legge scade a fine dicembre. Il ministro per ora non l'ha rinnovata. L'obbligo di mascherina in ospedali e Rsa invece resterà fino alla primavera. Michele Bocci per Repubblica.

«Di nuovo dal medico per ritirare la ricetta dei farmaci, anche quando si tratta di medicinali per malattie croniche. A fine anno scadrà una norma pensata durante l'emergenza Covid, quando si voleva evitare che gli ambulatori si riempissero di pazienti. La legge, introdotta il 21 marzo 2020 dal ministro alla Salute Roberto Speranza e poi prorogata, rendeva possibile l'invio attraverso la mail o per messaggio sul telefono del promemoria delle prescrizioni farmaceutiche, da mostrare direttamente in farmacia. Sono proprio medici di famiglia della Fimmg a segnalare il problema, del quale hanno parlato anche con il ministro alla Salute Orazio Schillaci (che ieri ha annunciato la proroga dell'obbligo di mascherine nelle strutture sanitarie almeno fino a primavera). «È necessaria una risposta a breve - dice Silvestro Scotti del sindacato Fimmg - Altrimenti si torna al passato. Abbiamo avuto rassicurazioni ma stiamo ancora aspettando». La ricetta elettronica in Italia non è mai veramente partita. Certo, le vecchie prescrizioni rosse non ci sono più ma è rimasta la carta, che invece avrebbe dovuto essere eliminata. In base alla riforma che promuoveva la digitalizzazione sarebbe dovuto succedere quello che per ora avviene solo in Trentino e Veneto. E cioè che il medico scrive sul computer il farmaco per un determinato paziente, il quale mostra la tessera sanitaria al farmacista che vede sul computer di quali medicine ha bisogno. Senza usare, appunto, carta. Nella gran parte del Paese, però, le cose funzionano in modo diverso. Quando i medici prescrivono generano un codice a barre e uno numerico che vengono stampati su un foglio bianco, quindi non più una ricetta rossa. Il paziente lo va a prendere e lo porta dal farmacista. Con il Covid si era permesso, anche dopo aver sentito il Garante della privacy, di «inviare al cittadino attraverso un sistema di messaggistica, via mail o whatsapp il codice identificativo della ricetta», spiega Scotti. In quel modo si risolvevano i problemi dei cronici che devono ritirare regolarmente i farmaci. Ma il sistema era utile anche per chi aveva bisogno di una prescrizione che non richiedeva un incontro con il medico, per un antipiretico ad esempio. E invece, dicono dalla Fimmg, da gennaio non si potrà più «trasmettere il promemoria via posta elettronica, dare il numero di ricetta elettronica con sms o altra applicazione per telefonia e nemmeno comunicare telefonicamente i dati della ricetta ». I farmacisti durante l'emergenza hanno stampato i promemoria che i clienti avevano sul telefono. A loro il foglio di carta serve per certificare l'avvenuta consegna dei medicinali. «Siamo disponibili ad andare avanti così», assicura Marco Cossolo di Federfarma. Tra chi protesta l'associazione Cittadinanzattiva. «Questo strumento perché semplifica le procedure, riduce la burocrazia e consente ai medici di dedicare più tempo all'ascolto dei pazienti, soprattutto i fragili», dice la segretaria dell'associazione, Anna Lisa Mandorino. Ilenia Malavasi, deputata del Pd annuncia un'interrogazione parlamentare mentre l'assessore alla Salute del Lazio, Alessio D'Amato si dice pronto a varare una delibera «per consentire di utilizzare una modalità che ha funzionato ed evitare assembramenti negli studi per semplici prescrizioni».

PROIBITA L’UNIVERSITÀ ALLE DONNE AFGHANE

Le altre notizie dall’estero. I talebani escludono le donne da tutte le università afghane. Per decreto governativo sarà impossibile studiare negli atenei pubblici o privati. Monica Ricci Sargentini per il Corriere.

«In Afghanistan le donne devono rimanere analfabete. I talebani le vogliono così: sottomesse, chiuse in casa, coperte dal burqa, cancellate dalla società. Ieri l'ennesimo schiaffo. Il governo ha chiuso l'accesso alle università alla popolazione femminile. Lo ha annunciato il ministro dell'Istruzione Superiore Neda Mohammad Nadeem in un'ordinanza inviata a tutte le università governative e private del Paese: «Si consiglia a tutti voi di attuare il citato ordine di sospendere l'istruzione femminile fino a nuovo avviso», si legge nel testo. Nadeem, ex governatore e comandante militare, nonché esponente della linea dura religiosa, è stato nominato responsabile dell'Università lo scorso ottobre e sin da subito ha espresso la sua ferma opposizione all'istruzione femminile, definendola non islamica e contraria ai valori afghani. «Hanno paura di noi e del nostro potere», ha commentato una studentessa alla Bbc. «Hanno distrutto l'unico ponte che mi metteva in connessione con il futuro - ha aggiunto tra le lacrime -. Come posso reagire? Pensavo di poter studiare e portare luce nella mia vita ma hanno spazzato via tutto». Un'altra ragazza ha parlato dei «tanti ostacoli» che già esistevano sulla strada dello studio: «Abbiamo affrontato una situazione difficile proprio per essere in grado di continuare ad andare a scuola. Ero felice di potermi laureare e inseguire i miei sogni. Ma ora a cosa servirà?». Il divieto di istruzione superiore arriva meno di tre mesi dopo gli esami di ammissione all'università sostenuti da migliaia di ragazze e donne in tutto il Paese. Le afghane erano già state private dell'accesso alle scuole secondarie lo scorso 23 marzo poche ore dopo la loro tanto annunciata riapertura. E anche negli atenei era stata a loro impedita l'iscrizione ad alcune facoltà come ingegneria, economia, veterinaria e agricoltura. Oltre al fatto che erano state istituite classi separate e l'obbligo per le studentesse di avere insegnanti donne o uomini molto vecchi. Ma una popolazione femminile analfabeta o quasi ha riflessi anche sull'economia che è già sull'orlo del collasso. Secondo un'analisi dell'Unicef questo implica una perdita di almeno 500 milioni di dollari l'anno. Ieri gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno condannato la decisione del governo di Kabul che, tra l'altro, è arrivata mentre era in corso una riunione del Consiglio di Sicurezza a New York proprio sul Paese centroasiatico. Dal momento del loro ritorno al governo, il 15 agosto 2021, i talebani avevano varato le stesse misure draconiane che avevano segnato il loro primo periodo al potere (1996-2001). La libertà conquistata dalle donne nei venti anni precedenti è stata velocemente erosa. Il governo, formato naturalmente da soli uomini, ha abolito il ministero degli Affari femminili e lo ha sostituito con quello del Vizio e della Virtù, ha vietato alle cittadine quasi tutti i lavori, ha imposto che le donne viaggino per lunghi tragitti solo accompagnate. Infine, all'inizio di maggio, è arrivato l'editto del leader supremo Hibatullah Akhundzada che imponeva alle afghane di «stare a casa» e di indossare il burqa qualora fossero costrette ad uscire. Resta da vedere quale sarà ora la reazione delle cittadine. «Pane, lavoro, libertà» avevano gridato alcune coraggiose lo scorso maggio quando erano scese in piazza per protestare contro l'imposizione del burqa. Ora potrebbero rifarlo nella consapevolezza che comunque nessuno le aiuterà».

AMSTERDAM OSCURA I NEGOZI A LUCI ROSSE

ll Comune di Amsterdam vuole vietare i corpi in vetrina delle lavoratrici del sesso. Che protestano: "Non potremo controllare i clienti e saremo meno sicure". Enrico Franceschini per Repubblica.

«Sul controverso quartiere a luci rosse di Amsterdam sta per calare il sipario. Letteralmente: le autorità municipali sono in procinto di approvare questa settimana una misura che obbligherà le "lavoratrici del sesso" della zona a tirare le tende sulle vetrine in cui espongono sé stesse seminude. Per vederle, e per prenotare una visita all'interno, gli eventuali clienti dovranno scannerizzare un codice a barre sul telefonino, come si fa per leggere il menù di certi ristoranti in era post-Covid. L'intento del governo locale è in primo luogo di ridurre il cosiddetto turismo molesto: gli schiamazzi, l'alcolismo, i comportamenti inappropriati lungo le vie del centro che costeggiano i canali della città nel famoso red light district , da parte di visitatori soprattutto stranieri, molti dei quali richiamati dallo spettacolo delle donne in vetrina per fare baccano più che per avere un appuntamento a pagamento. A lungo termine, il provvedimento è il primo passo per chiudere o trasferire la zona della prostituzione, che ad Amsterdam è legale (così come l'uso e il commercio di marijuana nei celebri coffee-shop) ma viene visto sempre più negativamente sia dal punto di vista commerciale che da quello etico e sociale.
Chiudere le tende sulle donne in vetrina, tuttavia, suscita le irate proteste delle "sex workers" in persona, secondo le quali il nuovo regolamento è una minaccia alla loro sicurezza. Dalla vetrina esposta alla pubblica via, afferma l'associazione che le rappresenta, non solo la gente può vedere le donne, ma anche le donne possono vedere la gente: rendendosi conto se un cliente ha bevuto troppo, ha un aspetto poco raccomandabile o può rappresentare un pericolo per qualsiasi ragione. «Dicono che la nuova legge è per la mia protezione, ma è assurdo », dichiara Lucy, nome d'arte di una delle lavoratrici del sesso del quartiere, interpellata dal londinese Daily Telegraph . «Con le tende aperte, se si presenta uno ubriaco, lo capisco subito e non lo faccio entrare». E riferendosi all'innovazione tecnologica che permetterà di vedere le donne e prenotare un incontro solo digitalmente, osserva che la situazione attuale è più semplice: «Non ho bisogno di rispondere a email o comprare pubblicità sul web. Mi registro alla Camera di Commercio, compro un po' di biancheria intima, una confezione di profilattici e posso cominciare ». Ilana Rooderkerk, capo della sezione cittadina del Partito liberale e autrice del proposto cambiamento, sostiene che le sex workers vengono degradate da alcuni dei turisti e che atteggiamenti simili sono inaccettabili al tempo del #MeToo, il movimento contro gli abusi sessuali. Nadia van der Linde, presidente e fondatrice del Pic (Centro Informazione sulla Prostituzione), ribatte che le autorità di Amsterdam dovrebbe mettere nel mirino il turismo molesto, non le lavoratrici del sesso. L'iniziativa verrà votata in questi giorni, insieme a piani per vietare la vendita di cannabis nel weekend (con l'obiettivo di vietarlo del tutto in futuro) e di limitare i party per l'addio a celibato e nubilato, feste organizzate di solito da visitatori stranieri che finiscono per ubriacarsi e disturbare l'ordine pubblico (con in prima fila gli inglesi, nota il tabloid londinese Daily Mail). Fa tutto parte del tentativo della città di cambiare la propria reputazione globale, da luogo dove sono consentiti il vizio e lo sballo di ogni tipo, mettendo piuttosto in rilievo le gemme delle sue istituzioni culturali, dal museo Van Gogh alla casa-museo di Anna Frank fino ai pittoreschi canali che ne hanno fatto una Venezia del Nord».

SI CONOSCERANNO LE TASSE DI TRUMP?

L'ultimo affondo contro Trump: saranno svelate anche le tasse dell’ex presidente? La Camera vota se rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi, finora tenute nascoste. Viviana Mazza per il Corriere.

«È l'ultimo atto di un braccio di ferro durato anni. La Commissione sorveglianza della Camera ha votato ieri notte per decidere se rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi che Donald Trump tenta da sette anni di tenere private. Ogni candidato alla presidenza nell'arco degli ultimi quarant' anni ha divulgato le tasse pagate, tranne Trump: non è richiesto dalla legge ma è diventata una prassi. Due sere fa, sulla sua piattaforma social «Truth», l'ex presidente ha scritto: «Non scoprirete molto dalle mie dichiarazioni dei redditi, ma è illegale renderle pubbliche se non sono vostre!». Tutto ciò succede in una settimana complicata per l'ex presidente, dopo la raccomandazione di perseguirlo penalmente presentata ieri al dipartimento di Giustizia dalla Commissione della Camera sul 6 gennaio, che oggi pubblicherà il suo rapporto completo. La Commissione «Ways and Means» ha avuto accesso alle dichiarazioni dei redditi di Trump dal 2015 al 2020, dopo uno scontro giudiziario iniziato nel 2019 e giunto davanti alla Corte suprema; quest' ultima alla fine ne ha consentito la consegna alla Commissione da parte del dipartimento del Tesoro, in base a una legge che prevede in casi limitati l'accesso ai documenti fiscali personali per i leader del Congresso (ma richiede che restino confidenziali). I democratici che controllano questa Commissione bipartisan hanno detto che volevano esaminarli non per indagare Trump, ma per scopi legislativi. I repubblicani avvertono che la divulgazione sarebbe un attacco alla privacy di tutti i cittadini e un precedente pericoloso dell'uso di queste informazioni contro rivali politici. Nell'attesa della decisione, si dibatteva nella notte su quali novità potrebbero emergere. Uno scoop del New York Times nel 2018 ha già rivelato due decenni di debiti e di metodi dubbi per eludere le tasse da parte di Trump, che ha fatto scattare anche un controllo del fisco. I documenti in mano alla Commissione sono più recenti (quelli del Times arrivavano ai primi due anni della sua presidenza). Anche i procuratori di New York hanno visionato alcuni documenti fiscali e la Trump Organization è stata condannata per frode fiscale. L'ex presidente ha venduto un'immagine di sé come imprenditore di successo, si è definito «furbo» perché non pagava tasse federali aggirando legalmente il sistema. Ha affermato di non aver tratto vantaggi personali da un taglio alle tasse che approvò nel 2017 (disse agli amici in Florida: «Siete appena diventati più ricchi»). Le dichiarazioni dei redditi potrebbero forse illustrare se ciò è vero, come pure se aveva debiti con l'estero che avrebbero potuto influenzare le sue politiche. Una vicenda che può danneggiare la sua reputazione ma anche essere brandita come ennesima arma politica».

A MARSIGLIA IL PROSSIMO INCONTRO DEL MEDITERRANEO

Papa Francesco ipotizza Marsiglia come sede del prossimo forum dei vescovi del Mediterraneo, dopo quelli di Bari e Firenze. Nel capoluogo toscano il cardinale Zuppi consegna alla città il Consiglio dei giovani del bacino e invita a dare «continuità» all'iniziativa. Bassetti: portiamo avanti i sogni. Betori: un progetto di dialogo. Giacomo Gambassi per Avvenire.

«C'è bisogno di dare continuità agli Incontri del Mediterraneo ». Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, sceglie Firenze per indicare la rotta nel cammino di dialogo cominciato a Bari nel 2020 con il "G20 ecclesiale" che aveva riunito per la prima volta i vescovi di venti Paesi del bacino e proseguito nel capoluogo toscano lo scorso febbraio con il "doppio" forum di vescovi e sindaci che aveva portato anche alla firma congiunta di una Carta per la pace e lo sviluppo. Due appuntamenti promossi dalla Cei e concepiti dal predecessore di Zuppi, il cardinale Gualtiero Bassetti, sui passi di Giorgio La Pira che invitava a "unire le città per unire le nazioni". Presentando sabato a Firenze, all'Istituto degli Innocenti, il Consiglio dei giovani del Mediterraneo, opera-segno dell'evento di dieci mesi fa, il presidente della Cei non solo raccoglie il testimone lasciato da Bassetti ma rilancia la scommessa di fare del grande mare un luogo dell'incontro, «non una frontiera » perché «quando si è pensato di farlo diventare tale, abbiamo creato tanta sofferenza». Le sue parole che riportano nell'agenda della Chiesa italiana il Mediterraneo e che sollecitano la Penisola a essere «ponte per il dialogo» precedono di poche ore quelle del Pontefice che nell'intervista pubblicata domenica dal quotidiano spagnolo Abc annuncia: «Forse l'anno prossimo andrò a Marsiglia per l'Incontro del Mediterraneo ». Ma tiene a precisare che «non è un viaggio in Francia» perché «la mia prima scelta è stata quella di visitare i Paesi più piccoli d'Europa. Non sono stato in nessun Paese grande d'Europa. Sono andato a Strasburgo, e non per la Francia, ma per visitare le istituzioni europee». Il Papa non fa ulteriori riferimenti ma a Bari era stato lui a concludere l'appuntamento. L'ipotesi che Marsiglia possa essere la nuova tappa del "summit" dei vescovi è legata a più fattori: l'arcivescovo che guida la diocesi è Jean-Marc Aveline, figura vicina a Francesco che lo scorso agosto lo ha creato cardinale e che, come lui stesso si definisce, è una "porpora mediterranea" anche perché è nato in Algeria; la città, ritenuta la più araba fra quelle europee dove un abitante su tre è musulmano e "capitale del meticciato" per la presenza di gruppi etnici del Nord Africa e dell'Oriente, è un laboratorio sociale, ma anche ecclesiale, del dialogo fra le sponde; e poi Marsiglia è una delle periferie del continente dove si intrecciano problemi e speranze. A raccontarla a Firenze è don Alexis Leproux, vicario episcopale per le relazioni mediterranee, un organismo che non ha corrispettivi nelle diocesi della regione. «Siamo chiamati a garantire uguale dignità alle differenti culture e a promuovere la diversità messa in discussione dalla globalizzazione economica », sostiene il sacerdote francese. E indica tre vocali che rimandano ad altrettanti ambiti d'impegno: l'identità che «non può essere un muro»; la cura che «significa attenzione alle fragilità»; la gratuità che «è richiamo al farsi prossimi». «Per assicurare un cammino comune tra le civiltà del Mediterraneo » serve «un patto di fraternità», spiega Zuppi. Ed «è il servizio che le Chiese possono offrire a quest' area del mondo. Passione per la casa comune a partire non da presunte solide certezze ma da un amore di testa, cuore, mani e anima », avverte il presidente della Cei citando l'enciclica Fratelli tutti che, aggiunge, «ha una visione molto lapiriana». E poi l'urgenza di ascoltare «il grido dei poveri» per «compromettersi » e «attivare la solidarietà e la comunione». Alle nuove generazioni Zuppi chiede di mettersi in gioco. Come accadrà con il Consiglio dei giovani del Mediterraneo di cui faranno parte i ragazzi indicati dalle Chiese del bacino e che non solo si riuniranno in Toscana ma promuoveranno anche scambi, gemellaggi, seminari di studio. «Occorre che un'intuizione come quella degli Incontri del Mediterraneo dia frutti concreti», dice Mario Primicerio a nome delle quattro realtà fiorentine a cui la Cei affida la consulta: la Fondazione Giorgio La Pira, il Centro internazionale studenti Giorgio La Pira, l'Opera per la gioventù Giorgio La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II. «Ai ragazzi consegniamo un progetto nel segno della conoscenza», ricorda il cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori. Ci sono, comunque, esperienze che stanno già unendo i Paesi affacciati sul grande mare. È il caso del campo internazionale dell'Opera La Pira che da anni «raduna giovani di fedi e tradizioni diverse», riferisce una delle protagoniste, Giulia Passaniti. Oppure Rondine-Cittadella della pace che alle porte di Arezzo, grazie alla Cei, ha accolto e formato undici ragazzi delle verie rive, come la libanese Nathalie Abdallah che nella sua terra ha realizzato un itinerario di "trasformazione dei conflitti" coinvolgendo le scuole. «I giovani non vanno lasciati soli e la Chiesa non può deluderli », sprona il vescovo Cesar Essayan, vicario apostolico latino di Beirut, ripercorrendo la crisi che vive il suo Paese dove anche le tensioni religiose crescono. E racconta la reazione musulmana a certe scelte politicamente corrette dell'Europa: «La decisione di togliere il crocifisso da un luogo pubblico viene letta come mancanza di rispetto per il proprio Dio». Allora la sfida è quella della «convivialità mediterranea », come la chiama il sindaco di Firenze, Dario Nardella. Consegnata ai giovani. «È ciò che mi dà maggiore speranza», dice il cardinale Bassetti. Perché loro «hanno la forza di portare avanti i sogni».

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