Il lutto che divide
Oggi i funerali di Silvio Berlusconi nel Duomo di Milano. Divisioni e polemiche. Meloni sul Corriere: "Silvio ha vinto". Colpita la città di Zelensky. Morta Flavia Prodi. Nordio presenta la riforma
Esagerazioni nel cordoglio generale ce ne sono state. Inutile negarlo. Nelle celebrazioni televisive (comprensibile sui canali Mediaset, meno sui neo-meloniani canali Rai), nelle decisioni governative su lutto nazionale e funerali di Stato, nel voler dire a tutti i costi, come oggi fa la nostra premier Giorgia Meloni in un articolo per il Corriere della Sera: “Silvio Berlusconi ha vinto”. Il bilancio vero, quello della storia, arriverà fra qualche anno. E tuttavia, è triste vedere che il Paese si divide ancora fra chi vorrebbe utilizzare la commozione e l’affetto degli italiani per rafforzare la sua attuale egemonia e chi fa dell’odio verso l’ex avversario politico l’unica identità politica. L’assenza di Giuseppe Conte, che pure è stato presidente del Consiglio e alleato di Forza Italia nella maggioranza Draghi, dai funerali che saranno celebrati oggi a Milano, è in questo senso emblematicamente grave. È come se mancasse , nel bipolarismo italiano, la capacità di mantenere un terreno comune, un linguaggio, un denominatore che siano condivisi. E, paradossalmente, su questo punto si potrebbe dire che Berlusconi stesso non ha affatto vinto, perché l’alternanza fra i due poli non è adulta, matura, consapevole. I cattolici italiani sono poi la cartina tornasole di questa divisione. Oggi Avvenire propone due interviste parallele: una a Rocco Buttiglione, l’altra a Rosy Bindi. In esse c’è la distanza del giudizio fra importanti anime del mondo cattolico. Che cosa direbbero di queste diversità di visioni Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga o Amintore Fanfani? L’esperienza democristiana è stata un unicum, cui è difficile non guardare con nostalgia, non tanto dal punto di vista “cattolico” quanto da quello dell’interesse generale del Paese, della democrazia italiana. Non so se con la morte di Silvio Berlusconi finisca davvero la Seconda Repubblica, come oggi qualcuno scrive. Certo è che la Terza non si preannuncia migliore, sotto l’egida di un neo-gollismo presidenzialista. E soprattutto la Seconda chiude ancora fra le polemiche, segno che qualcosa non funziona e non ha funzionato.
Le cronache ci preannunciano più di 10 mila persone ai funerali di oggi pomeriggio nel Duomo di Milano. Diretta televisiva e maxi schermi in piazza. I giornali pubblicano già stamattina le fotine degli invitati illustri: ci sarà questo, ci sarà quello. Il tempo scioglierà i nodi delle diverse eredità che lascia il Cavaliere. Forza Italia è piena di debiti ma dovrebbe avere la guida sicura di Antonio Tajani, che ha la difficoltà di far convivere le diverse tendenze interne. Mediaset gode di una certa vivacità in Borsa, segno di possibili cambiamenti ed Urbano Cairo, con un Corriere e una 7 molto partecipi e in gramaglie, viene accreditato come un possibile interlocutore di Cologno Monzese. Vedremo.
Le altre notizie riguardano la guerra in Ucraina, che ancora angoscia per l’allarme di colera nelle zone allagate vicino a Kherson. Sul fronte Nato, la novità è che Joe Biden starebbe pensando di confermare Jens Stoltenberg alla guida dell’Alleanza atlantica. L’ex presidente Usa Donald Trump è comparso in tribunale a Miami come imputato, ancora presto per dire quanto questo processo potrà incidere sulle prossime presidenziali americane.
Tornando alle cose italiane, grave lutto per Romando Prodi: sua moglie Flavia è morta improvvisamente durante una gita a piedi vicino ad Assisi. Interessante il commento di Mario Giro per il Domani su che cosa debba prevedere il cosiddetto Piano Mattei che il governo Meloni sta preparando.
A proposito di Mediterraneo e cooperazione, è in rete il quarto episodio della serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo. Il quarto episodio è dedicato ad una figura femminile, dopo Giorgio La Pira, Taha Hussein, Pierre Claverie ed Enrico Mattei: Germaine Tillion. Tillion, nata nel 1907 e morta nel 2008, è senza dubbio una grande testimone del Novecento. Come etnologa alla scuola di Marcel Mauss, Tillion svolge la sua prima missione di ricerca in Algeria. Quando torna in Francia il suo Paese ha appena capitolato davanti all’avanzata Germania nazista. S’impegna allora nella resistenza animandone il primo nucleo, che sarà poi noto come rete del Musée de l’homme, viene deportata, ma sopravvive al campo di concentramento. Dopo la guerra si dedica allo studio dei crimini dei sistemi totalitari, sia quello hitleriano che quello stalinista, e si preoccupa di preservare la memoria della resistenza. La sollevazione algerina del 1954 la riporta in Nord Africa. Negli anni ’60 torna agli studi etnologici, indagando in particolare la condizione della donna e le “repubbliche dei cugini”, come lei chiama le società del bacino del Mediterraneo fondate sull’endogamia. Anche da studiosa, è sempre mossa da una pressante volontà di agire per cambiare le cose, guidata da una forte compassione per la “carne sofferente dell’umanità”, come lei amava dire: nel 1978 partecipa attivamente al gruppo per la difesa delle minoranze e le viene affidata la presidenza dell’associazione contro la schiavitù moderna; nel 1979 denuncia la realtà delle mutilazioni genitali femminili; negli anni ’80 si pronuncia a favore dei diritti dei palestinesi e poi per la pace in Medio Oriente. Negli anni successivi torna con diverse pubblicazioni sia sull’esperienza della resistenza e della deportazione che sul mestiere di etnologa. È una delle sei donne accolte al Panthéon di Parigi, il tempio laico della République francese.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il sopralluogo nel Duomo di Milano dove oggi pomeriggio si terranno i funerali di Silvio Berlusconi.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Oggi i funerali di Silvio Berlusconi a Milano, polemiche sul lutto nazionale. Il Corriere della Sera infatti sceglie: L’addio tra dolore e polemiche. Vanno sui contrasti La Repubblica: Un lutto per dividere. E La Stampa: Berlusconi, il lutto che divide. Non è molto misurato Il Fatto che spara: I funerali dello Stato. Gioco di parole del Manifesto, che ricorda una storica auto definizione del Cav: L’unto nazionale. Il Domani del nemico Carlo De Benedetti sceglie: Il lutto per Berlusconi blocca l’Italia. La destra congela le istituzioni. Dall’altro fronte politico editoriale Il Giornale mantiene alti i toni: L’ITALIA PER SILVIO. Libero se la prende: Attaccano Berlusconi anche da morto: I SOLITI COMUNISTI. Mentre La Verità osserva che molti ammettono i loro “complotti”: Ora dicono la verità sul Cavaliere. Su famiglia, politica e aziende vanno Il Messaggero: Forza Italia nel segno del Cav. E il Quotidiano Nazionale: Nel nome del Padre. Il Sole 24 Ore ci aggiorna sull’economia mondiale con una buona notizia: Inflazione Usa al 4%, Fed in frenata. Mentre Avvenire sottolinea il messaggio di Francesco: Il Papa: troppi precari. Non si speculi sui poveri.
FUNERALI DI BERLUSCONI, NON CI SARÀ CONTE
Previste oggi migliaia di persone ai funerali di Silvio Berlusconi nel Duomo di Milano. Non ci sarà l’ex premier Giuseppe Conte. Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera.
«Giuseppe Conte non andrà ai funerali di Berlusconi. È una decisione di quelle che creano un certo scalpore. Primo, perché a disertare una cerimonia di Stato è un ex premier. Secondo, perché il leader del M5S era in maggioranza con Berlusconi ai tempi del governo Draghi. Governo che i due, insieme a Salvini, fecero poi saltare. Elly Schlein, invece, non seguirà l’esempio del suo futuribile alleato. Dopo ore di tira e molla al Nazareno, che qualcuno nel Pd ha paragonato al «mi si nota di più se vengo o se non vengo per niente» di Nanni Moretti in Ecce Bombo , alla fine una decisione è stata presa. Schlein oggi andrà ai funerali. Con la segretaria i capigruppo dem Chiara Braga e Francesco Boccia. Prenderà parte alla cerimonia pure il segretario del Pd lombardo Vinicio Peluffo. Anche l’ex leader ds Fassino parteciperà alla cerimonia. E, se riuscirà a spostare un impegno all’estero fissato in precedenza, sarà presente pure Enrico Letta. Non hanno avuto esitazione alcuna a decidere di andare Renzi e Calenda, per una volta concordi. Dunque, Pd e Terzo polo non portano la battaglia politica contro il centrodestra fino alle estreme conseguenze e di fronte alla morte del leader di Forza Italia si fermano. Non così Conte. E come l’ex premier anche i rosso-verdi Fratoianni e Bonelli. I due hanno annunciato che diserteranno quell’appuntamento. Assente anche Bersani. Le opposizioni, quindi, non sono unite anche in questa occasione. Nel centrosinistra fa discutere la sospensione di una settimana delle votazioni di Camera e Senato, mentre divide e scatena polemiche la decisione di indire il lutto nazionale. Rosy Bindi, protagonista di più di una polemica con Berlusconi è dura: «Il lutto nazionale per una persona divisiva come Berlusconi non è una scelta opportuna. Ha segnato l’Italia in negativo e invece siamo nella fase della santificazione. Questo non va bene». Caustica la replica di Renzi: «Rosy è una donna che ha visibilità quando parla male di qualcun altro. Solitamente di Berlusconi, talvolta di me». Ma sulla stessa linea di Bindi si attestano Riccardo Ricciardi dei 5 stelle e Fratoianni. Accusa il primo: «Fa impressione una caserma della Guardia di Finanza con la bandiera a mezz’asta per uno condannato per frode fiscale». «Scelta eccessiva», la definisce Fratoianni, che chiede: «Quanti giorni di lutto avrebbe dovuto fare il Paese quando uccisero Falcone e Borsellino?». Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, annuncia che nell’ateneo non ci saranno bandiere a mezz’asta. Sull’altro fronte, quello del centrodestra, Meloni, Salvini e Tajani sono volati ad Arcore già ieri sera: sono stati gli unici leader politici ammessi alla camera ardente. Oggi saranno presenti tutti e tre, insieme a Sergio Mattarella, ai funerali di Berlusconi. Al Duomo oltre a 32 esponenti di governo e ai presidenti di Camera e Senato Fontana e La Russa,ci sarà pure l’amico di un tempo Umberto Bossi e, in rappresentanza delle regioni, Massimiliano Fedriga. Alla cerimonia parteciperà il presidente del Ppe Manfred Weber, mentre è improbabile che ci sia la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, ufficialmente impegnata a Strasburgo per la plenaria. Ci sarà invece, in rappresentanza della Commissione Ue, Paolo Gentiloni. Ai funerali parteciperanno i due ex premier tecnici Mario Draghi e Mario Monti. Saranno presenti il premier ungherese Orbán, l’emiro del Qatar e il presidente dell’Iraq».
TRISTE LITIGARE SUL LUTTO NAZIONALE
È giusto discutere sulle forme del lutto nazionale? Il commento di Eugenio Fatigante per Avvenire.
«Sventurato il Paese che si accapiglia davanti a un lutto (nazionale). Si può non condividere del tutto la decisione del governo Meloni di indirlo per oggi, in occasione delle esequie (di Stato) di Silvio Berlusconi. Certo, un inedito per chi è stato “solo” un presidente del Consiglio. Un onore che andrebbe riservato soltanto a personaggi senza macchia alcuna; e chiaramente anche una decisione fortemente “politica”, e non solo simbolica. Berlusconi è stato una figura divisiva, la più divisiva negli ultimi 30 anni e oltre di storia del Paese, e tale divisione se la trascina fino nell’aldilà, con tutta evidenza. Con essa ha fatto e continuerà a fare i conti. Ma non è la prima e non sarà l’ultima personalità di questo tipo, in un quadro già fortemente segnato dalla polarizzazione e che (senza correttivi) lo resterà ancora. Per questo mette anche un fondo di tristezza vedere esponenti, della politica e non solo, bisticciare davanti a un evento estremo, l’ultimo della vita di un uomo, anzi agitarlo ancora nella lotta politica. Perché ciò testimonia in una certa qual misura anche una incapacità storica del Paese di “guardare oltre”, di “volare alto”, di archiviare una pagina per pensare - da domani a costruirne di migliori. Non si tratta qui di giudicare le qualità morali del Berlusconi “uomo di Stato”, su cui tanto si è scritto e si farà ancora, con idee diverse. Resta il fatto che il “tycoon” di Arcore, pur con tutti i suoi limiti, è stato nella storia l’italiano che per più tempo è stato capo del governo. Ripetutamente scelto da una maggioranza di italiani che devono aver visto in lui anche dei pregi, o almeno dei motivi per i quali riconoscersi in lui. Non si tratta assolutamente di pensare “giusto o sbagliato, è stato il nostro leader”, né di collocare su un piedistallo il fondatore di Forza Italia: nessuno chiede tanto! Ma di ritrovarsi, almeno per una volta, uniti senza polemizzare (o persino senza presentarsi, come l’ex premier Conte, pur essendo chiari i suoi motivi legati alla base elettorale), quello sì potrebbe essere l’indizio di un nuovo inizio. E una lezione per non guardare sempre al passato».
MILANO E L’AFFETTO PER IL SUO LEADER
Sull’argomento dice la sua in modo intelligente anche Maurizio Crippa sul Foglio.
«C’è persino chi si è lamentato per la decisione di allestire dei maxischermi sulla piazza, dove sono attese decine di migliaia di persone che non avranno accesso alla chiesa. Come se piazza Duomo non fosse già normalmente deturpata dai maxipalchi per i maxiconcerti e dalle incongrue palme che Beppe Sala sta tentando con abnegazione di far togliere. Ma Milan l’è on gran Milan , nonostante qualche sifolott protestatario, e a queste piccolezze non bada, come non ci badava il suo cittadino larger than life che oggi sarà qui per ricevere l’ultimo saluto e il viatico religioso nel duomo costruito da tutti i milanesi: i santi e, in maggioranza, i peccatori. Milano lo saluterà come lo sta salutando il resto dell’Italia. Ci sono stati anche taluni, e non soltanto gli svalvolati dei social ma persino gente che si vorrebbe presumere informata dei fatti, che si sono lamentati per i funerali di stato: gli si è dovuto spiegare che sono previsti da leggi e cerimoniali. Ma nel mondo degli odiatori sguaiati tiene ancora banco il tema della non opportunità del lutto nazionale (in effetti sette giorni sembrano un po’ troppi, anche se siamo ben lontani dai cinquantatré giorni per la morte del Re Sole). Non poteva mancare la punta d’acido di Rosy Bindi: “I funerali di stato sono previsti ed è giusto che ci siano”, ha detto, “ma il lutto nazionale per una persona divisiva com’è stato Berlusconi secondo me non è una scelta opportuna”. E detto da una delle persone più divisive, nel suo stesso partito, della Seconda Repubblica, si commenta da sé. Per meglio dire: basterebbe togliersi gli occhiali odiografici delle Bindi o (ahinoi) dei Tomaso Montanari, che si rifiuterà di abbassare a mezz’asta le bandiere del suo ateneo – mentre si ammaineranno anche quelle dell’Unione europea – come se il beau geste dovesse impressionare chissà chi – per accorgersi che la morte, e oggi le esequie solenni, di Silvio Berlusconi hanno generato in Italia sentimenti di cordoglio tutt’altro che divisivi. Tutto il contrario, a parte ovviamente la sparuta minoranza seriale e qualche pirlotto che ha tentato di organizzare senza successo squallidi brindisi. Si narra che aristocratici e popolino danzassero nelle piazze di Francia quando morì Luigi XIV; ma innanzitutto aveva regnato 72 anni e aveva lasciato un regno sfasciato, non certo una ben funzionante e persino opulenta democrazia dell’alternanza. Qualche migliaio di ex minatori, studenti e nemici giurati del libero mercato si ritrovarono dieci anni fa a Londra per danzare sulla morte di Margaret Thatcher, che a ogni buon conto non governava, come il Cav., da molti anni. Ma va ben ricordato che per la working class britannica e per il Labour che “isn’t working” la Iron Lady era stata divisiva davvero, e in un modo ruvido e rigido imparagonabile con i modi giocosi e accomodanti di Berlusconi. Uno che, per dire, non è mai riuscito a separare le carriere dei magistrati né manco ad abolire l’art. 18. E’ vero che nel Duomo di Milano funerali di stato si sono svolti raramente, e quasi esclusivamente (a parte Montale, Alda Merini, Mike Bongiorno) per gravi lutti pubblici e per onorare le vittime del terrorismo. Ma Berlusconi era milanese, e di certo sarà salutato non soltanto per il suo percorso politico. La verità è che Silvio Berlusconi, anche in politica, è stato il leader più in sintonia con le classi popolari, con il ceto medio, che la storia repubblicana ricordi. E in ogni caso il più conosciuto e riconosciuto come leader. Molti anni fa ci capitò di fare una supposizione, da queste parti, o per meglio dire di formulare una facile previsione: quando il momento sarebbe venuto, l’ultimo saluto del paese al Cavaliere, e in un modo simile persino a Umberto Bossi (erano forse i tempi in cui quello con la salute più instabile era il Senatur), sarebbe stato un grande cordoglio di popolo; un saluto per alcuni commosso, non per tutti ovviamente; ma per molti altri pieno di rispetto. E non soltanto perché “de mortuis nil nisi bonum”, come dicevano gli antichi. E’ esattamente ciò che sta avvenendo adesso, e che tra questi commossi o rispettosi vi sia anche la maggior parte del mondo politico, e con una certa compostezza anche i media, significa molto. E dovrebbe essere uno spunto di riflessione anche per coloro che oggi non riescono a farsi una ragione di un affetto e un rispetto per Berlusconi che li spiazza, e li cruccia».
BINDI: “BERLUSCONI DIVIDEVA”
Avvenire propone due interviste simmetriche e contrarie sul ricordo del Cavaliere. Marco Iasevoli intervista Rosy Bindi.
«Rosy Bindi è stata una delle più fiere e dure oppositrici di Silvio Berlusconi, e al contempo è stata uno dei principali bersagli del Cav., sino allo sconfinamento dell’ex premier in offese personali che restano una brutta pagina. Per l’ex ministra della Salute trovare le parole non è semplice: «Berlusconi seduceva tante e tanti. Ma aveva anche la capacità opposta, quella di mettere gli altri nelle condizioni di non provare sentimenti di benevolenza nei suoi confronti. Dicono i suoi amici che fosse buono e generoso e non ne dubito. Io ho fatto un’esperienza diversa sul piano personale, ma non è questo il punto. Oltre la pietà che è sempre dovuta e oltre la comprensione verso chi gli ha voluto bene, io credo che ora inizi un tempo in cui il Paese deve fare i conti con il berlusconismo». Ora c’è come una “pausa” nel giudizio su Berlusconi? In questo momento credo stia prevalendo in modo eccessivo la santificazione. Capisco i funerali di Stato, ma non il lutto nazionale. Posso comprenderlo per un capo dello Stato, ma non per un presidente del Consiglio, che comunque è un incarico divisivo. Il lutto nazionale mi pare inopportuno ed eccessivo. Questa posizione le attira delle critiche. Penso che il Paese abbia la maturità per affrontare un giudizio storico su Berlusconi. Tutti dicono che ha inciso nella storia d’Italia. A mio avviso, bisogna avere anche il coraggio di dire che ha inciso in modo negativo non solo sulla politica, ma anche sul costume e sul modello di società, sul rapporto con le donne e con il potere. Sicuramente è stato anche lo specchio e ha interpretato una parte dell’Italia, ma a mio avviso non la parte migliore. Insomma, lei non ritiene debba esserci una “tregua” sull’anti- berlusconismo. Il berlusconismo, il berlusconismo sociale e culturale più che politico, va elaborato altrimenti questo Paese non si ricostruisce. Lui era un leader seduttivo. Ma la seduzione era legata a messaggi come il “mettere le mani nelle tasche dei cittadini”, ai risultati facili. Lo definisco un populista che, diversamente dagli altri populisti che spingono sul negativo, ha giocato invece sulle cose positive, sui miracoli che poi non si sono avverati. Non sono elaborazioni che il centrosinistra doveva fare quando Berlusconi era vivo e potente? Sul Berlusconi politico l’elaborazione c’è stata: il conflitto d’interesse, il senso padronale delle istituzioni, il conflitto con la magistratura. Io mi riferisco soprattutto al Berlusconi che ha voluto imprimere un modello sociale nel Paese. Penso al modo in cui ha sdoganato il rapporto con le donne, lo trovo un segno di decadenza in un Paese in cui il problema delle pari opportunità e della violenza esiste ed è serissimo. Penso alle battute su Angela Merkel, devastanti. E aggiungo: si pensi anche all’uso politico e strumentale della religione e dei valori cristiani, un tema che interpella la Chiesa e a cui bisogna dare una risposta. Certe enfatizzazioni di Salvini e Meloni sono “figlie” del berlusconismo. Lei fu offesa in tv da Berlusconi. Le fa male quel ricordo? Di quell’episodio sottolineo un aspetto: l’irrimediabilità. Stavamo registrando “Porta a Porta”. Lui intervenne telefonicamente. Ora un intervento telefonico non in diretta, ma durante una registrazione, è una cosa anomala. E Vespa non mi aveva annunciato nulla. Lui iniziò ad attaccare la Corte costituzionale e il presidente Napolitano perché gli avevano bocciato le leggi ad personam. Io gli dissi che non poteva permettersi di scagliarsi contro le massime istituzioni e lui se ne uscì con quel “Signora Bindi, lei è più bella che intelligente”. Il contesto ha reso quell’episodio del tutto irrimediabile, e non solo per la mia dignità. Non crede che il centrosinistra abbia affrontato la stagione berlusconiana in modo sbagliato? Certamente Berlusconi politico andava affrontato con la lente sul conflitto d’interessi. Va detto, a difesa dei governi di centrosinistra di quegli anni, che il primo governo Prodi non poteva distrarsi dall’obiettivo dell’ingresso nell’euro. E che il governo D’Alema è caduto dopo che il disegno di legge era stato portato in Consiglio dei ministri. Non c’è un tema generale di una reale alternativa mai costruita? Non c’è stato coraggio. Prodi ha vinto rappresentando un’alternativa radicale sulle politiche, sui messaggi culturali, sugli stili di vita, sull’etica pubblica e privata. Lui è stato la prova che bisognava avere il coraggio di andare fino in fondo su questa strada. Questo coraggio mancava e manca anche oggi perché alcuni credono, anzi temono, che l’Italia rappresentata da Berlusconi sia l’Italia tutta intera, mentre è solo una parte. E l’altra parte aspetta ancora di essere rappresentata, pur essendo maggioranza. Si discute in queste ore dell’eredità di Berlusconi. Berlusconi è l’artefice di questa destra. È lui che ha sdoganato i post-fascisti e la Lega. Il centrodestra l’ha costruito lui al di là della caduta del consenso personale. Quindi non vedo eredi sul piano politico. Alcuni ne approfitteranno e prima di tutti Matteo Renzi che vedo affannato a partecipare alla santificazione. Ma nel suo campo politico non vedo eredi. Meloni è premier ma lei è un’altra storia, le va dato atto di essere molto più in continuità con le forme tradizionali della politica».
BUTTIGLIONE: “HO GARANTITO PER LUI COI POPOLARI”
Nella stessa pagina di Avvenire Angelo Picariello intervista Rocco Buttiglione.
«Ho garantito per Silvio Berlusconi quando Forza Italia chiese, e poi ottenne, di entrare nel Ppe. Avevamo un progetto comune e possiamo dire di aver fallito insieme se quella idea di dar vita a un bipolarismo “mite” alla tedesca, che vive di reciproca legittimazione e regole comuni, non è andata in porto. Peccato, sarebbe stato un bene per il nostro Paese». A Rocco Buttiglione, assieme al dispiacere, la scomparsa del leader di Forza Italia evoca più di un rimpianto. Uscito dall’impegno politico e tornato all’insegnamento, l’ex leader del Cdu con il Cavaliere non si sentiva più da tempo: «Quando le cose vanno in un certo modo, ognuno dentro di sé tende a incolpare l’altro e i rapporti si guastano. Ma oggi mi rendo conto che sono tanti i fattori che hanno determinato un esito non positivo». L’ultima espressione tendenzialmente unitaria dei cattolici, il Ppi nato sulle ceneri della Dc affondata da Mani pulite, si spaccò proprio sull’alleanza con Berlusconi. Un celebre “fuori onda” catturato da “Striscia la notizia” rivelò il suo disegno di arruolarlo al suo progetto. Poi di fatto avvenne il contrario… La mia idea era quella di incastrare dentro un progetto cristiano democratico il movimento berlusconiano. All’inizio si impegnò a non farne un vero partito e pure a far convergere i suoi, alle successive regionali del 1995, sotto il nostro simbolo, mentre noi lo avremmo continuato a indicare come guida del governo. Questo avrebbe consentito di mettere in salvo, a livello locale, la classe dirigente democristiana, e lui avrebbe proseguito nel suo progetto politico. Invece che cosa accadde? Accadde che non riuscii nell’intento di portare dentro questo progetto tutto il partito popolare, ma solo una parte. E questo ha molto indebolito la nostra forza contrattuale nella lista comune che facemmo, Forza Italia-Polo Popolare. In pratica invece di convergere lui su di voi fu lui a ospitarvi nella sua lista. Di fatto è così, ma avendo dato vita al Cdu, conservando il simbolo dello scudo crociato (mentre l’altra parte, il Ppi guidato da Gerardo Bianco, si diede come simbolo il gonfalone, ndr) il progetto visse una fase di rilancio. Il Cdu era nel Ppe, la famiglia alla quale Berlusconi aspirava ad entrare con Forza Italia. Ma c’erano molte resistenze al suo ingresso nel Ppe. Si chiedevano se il suo fosse un partito vero, democratico e se potesse essere considerato un partito democristiano. Kohl lo definiva un gefolgschaft, termine tedesco che vuol dire più o meno capitano di ventura, cioè non uno che viene scelto da un gruppo ma uno che crea lui stesso un gruppo di cui si pone alla guida. Parlai con il cancelliere tedesco, ci fu uno scambio di lettere con il presidente del Ppe Martens. Dissi che c’era l’intenzione di dar vita insieme a Berlusconi a un partito insieme di matrice cristiano democratica e questo lo aiutò a superare le diffidenze, insieme al sostegno del premier spagnolo Aznar. Ma il progetto non decollò mai. Al’inizio sembrava davvero intenzionato e Scajola si mise al lavoro di buona lena. Avremmo dovuto dar vita prima a una federazione, poi a un vero partito. Invece? Il progetto a un certo punto si arenò. Di sicuro l’offensiva giudiziaria che cresceva contro Berlusconi lo rese meno disposto a dar vita a un partito democratico e contendibile, che gli poteva anche essere sottratto lasciandolo da solo in balia dei giudici. Inoltre c’era Fini che era contrario; quanto a Casini non ha mai capito se fosse favorevole o meno. A un certo punto mi accorsi che Scajola non godeva più della fiducia incondizionata del capo. Ed è prevalsa alla fine l’idiosincrasia di Berlusconi per tutta la liturgia e le regole che un vero partito comporta. La scommessa fatta con la discesa in campo la ha vinta o persa? Il progetto affascinante che aveva in mente non è riuscito. La sua idea di bipolarismo si è infranta contro la reazione isterica della sinistra e lui si è andato convincendo che agitare lo spettro del comunismo pagava sul piano elettorale. Già Moro ci aveva provato, ma la sua democrazia dell’alternanza richiedeva dialogo fra forze contrapposte per scrivere le regole insieme. E prematuramente è uscito di scena anche Pinuccio Tatarella, uno dei pochi che credeva a questa prospettiva. Si è andata affermando l’idea che il dialogo fosse “inciucio”. Il segno più chiaro di questo disegno fallito è lo spoil system che si realizza a ogni cambio di governo, investendo anche ruoli di garanzia e organismi della società civile che ne dovrebbero restare fuori, sul modello di quanto avviene negli Stati Uniti. Berlusconi c’è chi lo ha amato e chi lo ha odiato. Per lei come andrebbe ricordato? Una figura poliedrica come la sua si presta a tante diverse riflessioni. Certo, la politica incattivisce un po’ tutti, ma mi piace ricordarlo per quello che è sempre stato: una persona buona, generosa, aperta. Voleva il bene del Paese, ha colto che ci si avviava verso la crisi e ha lavorato per superarla. In questo momento starà facendo anche lui un bilancio della sua vita. Avrà commesso tanti errori, ma ha fatto soprattutto del bene, in tante direzioni, pensando anche solo al San Raffaele. Che il buon Dio lo accolga nella sua pace».
MELONI: IL CAVALIERE HA VINTO
La premier Giorgia Meloni scrive sul Corriere della Sera. E dice: “Sapremo fare buon uso della sua eredità”.
«Silvio Berlusconi esce di scena da protagonista. Molti in queste ore ne hanno raccontato l’avventura umana, imprenditoriale e politica. Sul suo nome gli italiani si sono divisi e il giudizio della storia sarà diverso da quello della cronaca. Più sereno, meditato ed equilibrato. C’è chi lo ha combattuto politicamente con lealtà e chi invece ha usato mezzi impropri per provare a sconfiggerlo. Anche questo è un dato sul quale riflettere, per l’oggi e il domani, perché alla fine di questa storia i suoi avversari hanno perso. Berlusconi faceva parte della borghesia imprenditoriale di Milano non per eredità e lignaggio, ma per capacità e intraprendenza. Quanti stereotipi su di lui si addensano in queste ore. La storia della famiglia di Berlusconi è quella di tanti italiani che nel Dopoguerra, con pochi soldi e molte speranze, si sono battuti per migliorare la loro condizione e quella dei propri figli, realizzando quello che è stato chiamato il miracolo italiano. La naturale empatia che molti italiani provavano per Berlusconi deriva da qui: dall’essere uno di loro, uno che ce l’aveva fatta e che non apparteneva a quei mondi esclusivi e inaccessibili, tipici delle storiche famiglie influenti italiane. Berlusconi è stato il primo della nostra storia repubblicana a diventare presidente del Consiglio dopo essersi affermato nel settore privato. L’imprenditore prestato alla politica che rompeva uno schema ormai consolidato in Italia. La sua cavalcata nella cronaca è diventata storia perché, a un certo punto, il suo modo di essere nella vita privata è diventato una svolta pubblica, una reazione di fronte alla parabola che in Italia stava assumendo la storia dopo il crollo del Muro di Berlino. Berlusconi ha impedito che i post comunisti prendessero il potere in Italia pochi anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che aveva sancito la fine del comunismo in Europa. Un paradosso storico evitato dalla sua decisione di fondare Forza Italia e federare le forze politiche del centro, della destra e il movimento leghista. È questa, in fin dei conti, la grande colpa che la sinistra non gli ha mai perdonato. Il suo ingresso nell’arena della politica ha accelerato i processi di trasformazione che erano già in corso a destra e a sinistra. Berlusconi ebbe il tempismo e colse il momento. Quella che doveva essere una lunga stagione di governi di estrazione socialista, senza reali alternative nel campo moderato, si è trasformata nell’era dell’alternanza al governo tra centrodestra e centrosinistra, dando all’Italia una dimensione occidentale e contemporanea, rafforzando così l’intera Nazione a livello internazionale. Della sua figura prevalgono le molte luci, sul piano umano e ancor di più su quello politico, essendo stato da leader di partito e da presidente del Consiglio un formidabile difensore del nostro interesse nazionale e del nostro tessuto produttivo e sociale. È questa la grande eredità che Berlusconi lascia all’Italia. Ne sapremo fare buon uso. Grazie Silvio».
IL FUTURO DELLA TV DEL BISCIONE
La cronaca economica del Sole 24 Ore fa il punto sul futuro delle tv commerciali fondate dal Cavaliere. Momento chiave per Fininvest: l’apertura del testamento.
«L’uscita di scena di Silvio Berlusconi apre a molteplici scenari sul futuro di Fininvest. Lo sa bene il mercato dove ieri i titoli delle partecipate della holding sono stati acquistati a piene mani dagli investitori. Prima fra tutte MediaForEurope, la società televisiva della famiglia, che ha fatto segnare un progresso del 13,39% per le azioni A e del 7,38% per le azioni B. Sempre in rialzo, ma senza strappi, Mondadori (+1,9%), mentre Mediolanum ha chiuso in rialzo dello 0,56%. Sono due i piani di osservazione in questa transizione assai delicata. Il primo, e anche il più immediato, sarà l’assetto definitivo di Fininvest dopo la scomparsa del Cavaliere. Il secondo, da misurare nel medio termine, sarà la compattezza dei cinque figli sul futuro industriale e finanziario costruito dal padre, condizione chiave per non essere costretti a procedere alla grande spartizione dell’impero di Arcore. Sul primo punto, e dunque sugli assetti proprietari di Fininvest, la chiave è nel testamento. L’apertura, secondo indiscrezioni, potrebbe avvenire a stretto giro e comunque entro fine settimana. Un passaggio cruciale che svelerà che tipo di successione ha disegnato Silvio Berlusconi per il suo impero. Finora il 61% di Fininvest era nelle mani del Cavaliere, mentre il resto del capitale è stato tempo fa ripartito con quote del 7% circa tra i cinque figli, Marina e Pier Silvio, nati dal primo matrimonio, e Barbara, Eleonora e Luigi, figli delle nozze con Veronica Lario. La legge ereditaria stabilisce però che 1/3 dell’eredità potrebbe essere assegnato liberamente per via testamentaria. Una frazione che rappresenta il 20,4% di Fininvest e che, secondo diversi osservatori, potrebbe essere stata assegnata “in continuità” a chi, nell’impero, ha già ricoperto da tempo un ruolo ben definito. Il riferimento è a Marina Berlusconi, presidente di Fininvest e di Mondadori, e a Pier Silvio a capo di Mfe. L’impressione, negli ambienti finanziari, è che il Cavaliere possa aver scelto come futura figura di sintesi della famiglia proprio la figlia maggiore, attribuendole così un peso azionario adeguato a questo ruolo. Altri invece non escludono che il pacchetto “disponibile” possa essere stato assegnato ai due figli maggiori per riequilibrare il peso dei due grandi rami famigliari della dinastia o, ancora, che il Cavaliere abbia proceduto a una assegnazione paritaria fra tutti gli eredi. Certo è che, anche in presenza di posizioni di maggioranza relativa assegnata a un solo erede, oggi Fininvest è costruita in modo tale che gli altri figli possano comunque rappresentare una minoranza di blocco in grado di pesare sulle scelte strategiche che contano. La sola Holding Italiana Quattordicesima, quella di proprietà di Luigi, Barbara ed Eleonora, oggi ha il 21,4% della finanziaria e, solo con l’attribuzione della quota di riserva, arriverebbe al 45%. Servirà dunque unità per far funzionare il sistema Fininvest. E qui si arriva al secondo piano di osservazione: la famiglia resterà compatta o i cinque figli di Silvio Berlusconi si divideranno le aziende e la cassa? La Fininvest oggi con suoi quasi 4 miliardi di fatturato e 360 milioni di utili ha il controllo di Mfe (ex Mediaset) con il 50%, è presente nell’editoria con il 53,3% di Mondadori, partecipa al 30% Mediolanum, detiene il 100% del Teatro Manzoni e, dopo la cessione del Milan, possiede il Monza calcio. Fuori da Fininvest, ma sempre parte dell'impero , c’è poi il patrimonio immobiliare, gran parte del quale è custodito nella società Dolcedrago, di proprietà del Cavaliere e che secondo alcune stime vale più di mezzo miliardo. Complessivamente il patrimonio , secondo Forbes, a fine 2022 ammontava a 6,4 miliardi, una parte dei quali già nelle mani dei cinque figli. Ipotizzando che prevalga l’unità famigliare in seno alla holding, resta da verificare cosa sarà ritenuto strategico o no nel perimetro di Fininvest dal nuovo azionista. Andando per esclusione, data per scontata la centralità di Mondadori per la figlia maggiore Marina, nel post Berlusconi resta meno prevedibile il destino di Mediolanum e Mfe. Mediolanum rappresenta la partecipazione più ricca con i suoi 6,1 miliardi di capitalizzazione, il 30% dei quali (dunque 1,8 miliardi) di proprietà della dinastia. Una partecipazione finanziaria che storicamente ha garantito ricchi dividendi alla holding della famiglia Berlusconi e la cui gestione è affidata a Massimo Doris, numero uno della banca. Più delicata la partita di MediaForEurope, dove gli eredi hanno sulla carta più opzioni, dalla costruzione di un gruppo più forte per aggregazione fino alla vendita. I potenziali acquirenti, del resto, non mancano: dalla stessa Vivendi a Urbano Cairo, editore della Rcs e de La7, che secondo indiscrezioni, sarebbe al lavoro sul dossier».
IL FUTURO DEL PARTITO AZZURRO
Paola di Caro sul Corriere della Sera si occupa del futuro del partito fondato da Berlusconi.
«Il giorno dopo il grande dolore, lo spaesamento e la paura, Forza Italia cerca di compattarsi per resistere a un dopo Berlusconi tanto temuto quanto inatteso. Alla vigilia dei funerali di Stato, nessuno si azzarda nemmeno lontanamente a mettere in dubbio la propria permanenza nel partito né critica vertici o mosse. Sia chi fino a pochi giorni fa era in bilico nel suo ruolo e agguerrita — come Licia Ronzulli, capogruppo al Senato — sia chi invece ha l’incarico di punta, il coordinatore Antonio Tajani, tutti parlano la stessa lingua: «Bisogna continuare sulla strada indicata da Berlusconi». Un primo passo che fa capire come i nodi siano per ora rimandati è stato il Comitato di presidenza di ieri, che ha ratificato sia il bilancio (confermato il debito di circa 90 milioni, garantito con fidejussioni della famiglia Berlusconi) sia — tra un certo celato malumore di alcuni — le nomine a livello locale o gestionali che il leader aveva già deciso negli ultimi mesi. Non tutte condivise, se è vero che Alessandro Cattaneo aveva contestato i commissariamenti in Lombardia e nella sua Pavia, minacciando il ricorso ai probiviri. Alla fine tutto è stato comunque votato all’unanimità: nessuno vuole, o ancora può, scatenare guerre. Però adesso ci sarà da fare il lavoro più grande: esistere facendo a meno di Berlusconi. Il nodo è come. Va detto che ci sono alcuni punti fermi: l’obiettivo dei forzisti è arrivare alle Europee del 2024 con un consenso elettorale che permetta almeno di superare la soglia di sbarramento del 4%. Un cammino non facile, ma che non dovrebbe essere ostacolato da Giorgia Meloni, che almeno oggi non ha alcuna intenzione di terremotare Forza Italia visto che le serve tranquilla e unita per la stabilità del governo e per favorire un futuro patto tra i suoi Conservatori e il Ppe. Anche Matteo Salvini oggi non pare interessato ad andare a caccia nelle riserve altrui: «Non ha posto per i suoi — dice un azzurro di peso — figuriamoci per i nostri...». E Renzi non appare un approdo sicuro: «Chi passerebbe dalla maggioranza all’opposizione senza garanzie che lui non può certo dare?», continua il big forzista. Ma i problemi restano. La prima domanda che tutti si fanno è chi comanderà, e come. Ed è strettamente legata ad un’altra: la famiglia Berlusconi, Marina soprattutto, vorrà proseguire nel sostegno politico a finanziario al partito o deciderà di lasciarlo in tempi brevi o medi al suo destino? Negli alti piani di FI c’è la speranza che sia rispettata l’assicurazione data nelle settimane scorse dalla figlia dell’ex premier di voler tener viva la creatura del padre della quale di fatto la famiglia possiede il simbolo, ma nessuno ha certezze. Su questo possono cambiare tutte le prospettive. Il secondo punto è chi e come gestirà il partito. Il ruolo di Tajani oggi non è in discussione: è il più alto in grado nel partito, gode della fiducia della cerchia di familiari e amici storici del Cavaliere, ed è molto vicino a Meloni. Ma nel partito la richiesta che si allarghi la tolda di comando e si apra una contendibilità vera dei poteri c’è. Il rapporto tra Tajani e Marta Fascina, della quale non si sa ancora il ruolo che potrebbe averle assegnato il Cavaliere e che quindi è un ulteriore punto interrogativo nelle questioni interne di FI, è forte. Un’alleanza che ha permesso finora a ciascuno di tenere stretti alcuni ruoli chiave del partito, senza pestarsi i piedi. Anche Ronzulli oggi, nel suo ruolo di capogruppo al Senato, non ha interesse a scatenare contese, semmai a rientrare nelle grazie dei potenti di Arcore, anche se pure lei come molti altri non ha potuto ieri partecipare alla camera ardente alla quale sono stati ammessi fra i politici solo Tajani, Meloni con La Russa e Salvini. Però nessuno può sentirsi sicuro. «Andrà rispettato lo statuto, mai come ora. Non c’è più Berlusconi che poteva decidere liberamente su tutto», dicono dai vertici. Muoversi con cautela insomma oggi è l’unica strada percorribile. Ma già dalla prossima settimana, si prevede, bisognerà prendere decisioni sulla gestione del partito. E sarà il primo di molti ostacoli da superare».
MORTA FLAVIA PRODI
Durante una gita in Umbria è mancata improvvisamente Flavia Prodi, la moglie di Romano. Schiva ma sempre presente è stata un'anti-first lady. Rimaneva spesso dietro le quinte. Si conobbero all'università: lei studentessa, lui docente. Nel '69 le nozze. Il ritratto di Fabio Martini sulla Stampa.
«Un giorno, celiando ma non troppo, Flavia Franzoni disse di sé: «Io? Non esisto…». Ma il marito Romano Prodi, che le voleva un gran bene, nel corso di una notte speciale (L'Ulivo aveva appena vinto le elezioni del 1996) spiegò come stavano le cose: «La Flavia è il mio unico consigliere politico!». Flavia Franzoni, scomparsa ieri all'età di 76 anni, a causa di un malore mentre camminava in un bosco dell'Umbria assieme al marito Romano Prodi e al comune amico Arturo Parisi, è stata una donna che ha vissuto le luci della ribalta con uno stile tutto suo: sempre un passo indietro nelle occasioni pubbliche, vicinissima dietro le quinte. Poco appariscente e molto influente. Uno stile diverso da tante consorti di uomini importanti. Una anti-first lady. Albertina Solliani, amica di una vita di entrambi: «Un rapporto a due paritario e di stima reciproca. Colpiva la spontaneità di Flavia, la capacità di dire liberamente, pur selezionando, tutto ciò che la passava per la testa. Con un filo conduttore: la coerenza con i valori di tutta una vita vissuta assieme». Un rapporto a due senza interruzioni e paritario: anche in questo stava – e resterà per sempre – la differenza antropologica tra i Prodi e un certo mondo del centro-destra. Dunque, due metà che si completavano: stava esattamente in questo l'originalità e il miracolo che teneva assieme – sempre assieme da 54 anni – Flavia Franzoni e Romano Prodi. Si erano sposati nel 1969. Lei aveva 22 anni, lui 30, lei era stata attiva nell'Azione cattolica, lui insegnava già all'Università di Bologna. Si erano conosciuti quattro anni prima. Ha raccontato una volta Prodi: «Eravamo vicini di casa, ci siamo conosciuti a Reggio Emilia. Io facevo la corte a Flavia. Lei era bella, io brutto, però dopo tre anni ce l'ho fatta e ora siamo qui!». Ha raccontato Flavia: «Ricordo che abbiamo cominciato a uscire insieme "in maniera diversa" pochi giorni prima che io dessi l'esame di maturità». Negli anni successivi Flavia Franzoni aveva lavorato all'Istituto regionale per i servizi sociali, di cui era stata direttrice ed era stata docente alla Facoltà di Scienze politiche di Bologna dove era soprannominata "google", «perché sa tutto» di welfare e di assistenza ai più deboli, come disse una collega. Poi, per il marito Romano, vennero gli anni della grande politica e l'influenza di Flavia resta importante. Nelle biografie di entrambi non compare un episodio significativo. È il 1992: Pierluigi Castagnetti, braccio destro del segretario della Dc Mino Martinazzoli, a Prodi (che era tornato all'insegnamento) fa una proposta molto significativa: «Helmut Kohl ti stima molto e vuole che entri nella prossima Commissione e fra due anni vuole che ne diventi Presidente», Castagnetti torna da Martinazzoli: «Credo che la contrarietà di Flavia sia stata determinante». Certo, i ragazzi, Giorgio e Antonio, erano ancora piccoli, sta di fatto che Flavia (e Romano) Prodi lasciano passare quel primo treno per Bruxelles. Passeranno sette anni e quella seconda volta andò diversamente: Prodi diventò presidente della Commissione europea. Flavia Franzoni c'era sempre. C'era nella prima campagna vincente dell'Ulivo, quella del 1996 e, dietro le quinte, c'era anche in quella complicatissima del 2006. A un certo punto si deve decidere se affrontare o meno Berlusconi in due faccia a faccia televisivi, terreno ostico per il Professore. Qualcuno sconsiglia Prodi, ma Flavia va controcorrente: «Accetta, andrai bene» e accompagna la speranza con un consiglio: «Per un professore sempre un po' preoccupato per quel che gli altri pensano di lui, è giusto restare sé stessi mentre la cosa da temere di più è la forzatura; può trasformarsi in ridicolo». Schiva, Franzoni aveva una idiosincrasia per gli appuntamenti mondani, ma anche per i formalismi: una volta fu vista rientrare a palazzo Chigi con le buste della spesa in mano. Senza parere, era protettiva col marito e si coglieva uno sguardo spesso ironico verso gli assembramenti dei giornalisti in attesa per rubare una battuta. Flavia Franzoni aveva problemi cardiaci e 13 anni fa, quando fu costretta a operarsi, il marito trascorse un periodo di grande ansia. Raccontò lei stessa: «Romano si disperò». Un rapporto di simbiosi che l'amico Andrea Papini una volta ha sintetizzato così: «Flavia non è decisionista ma la sua opinione entra regolarmente nel circuito di pensiero di Romano». Ecco perché, nel breve comunicato che annunciava la scomparsa della moglie, il Professore ha voluto usare due parole, due parole che, chi conosce i coniugi Prodi, sa quanto siano vere e quanta pena si porteranno dietro: «Un immenso dolore».
I RUSSI PRENDONO DI MIRA LA CITTÀ DI ZELENSKY
Le ultime notizie dalla guerra. Mentre si diffonde l’allarme colera nella regione di Kherson allagata da giorni, i russi bombardano la città natale del presidente ucraino. Laura Lucchini per Repubblica
«È la maledizione della città che vanta i natali del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Dall’inizio del conflitto, colpire Kryvyi Rih, centro operoso nel cuore del Paese, ha assunto per Mosca il valore dello sfregio. Terrorizzare i civili che la abitano, per indebolire il più illustre di loro. Il colpo più duro è arrivato ieri. Il bilancio è di 11 morti e più di 30 feriti. Il più grave per la città dal 24 Febbraio 2022. Oggi è stata dichiarata una giornata di lutto. Sei missili da crociera russi hanno svegliato la città nel cuore della notte. Sono stati colpiti cinque obiettivi, tutti civili. Quattro persone sono morte all’interno di un edificio residenziale di cinque piani. Dopo l’impatto, si è scatenato un violento incendio su una superficie di 700 mq. I vigili del fuoco hanno impiegato ore a domarlo. «Altri sette corpi sono stati estratti dalle macerie di un magazzino di acqua e bevande, situato solo a 1 km di distanza», ha spiegato a Repubblica Serhiy Milyutyn, vice-sindaco. In totale 36 persone sono rimaste ferite, 12 sono attualmente in ospedale. Due sono in condizioni critiche. La conta dei danni materiali suggerisce che il bilancio avrebbe potuto essere peggiore: un totale di 70 edifici residenziali sono stati danneggiati, 400 gli appartamenti coinvolti, 1.300 le finestre andate in frantumi, secondo dati forniti da Oleksandr Vilkul, capo dell’amministrazione militare. E ancora tre scuole danneggiate, così come un’università, un istituto tecnico e un dormitorio. Durante tutta la giornata sono continuate le operazioni di soccorso intorno all’edificio crollato. Sono dodici le persone estratte in vita, tra di loro un neonato di appena tre mesi. Tra i morti c’è anche una coppia di giovani sposi: David e Ksenia Epelman di 22 anni, a dare la notizia è stato un quotidiano locale. Si erano sposati l’anno scorso. Lei insegnante, lui venditore. Le condoglianze di Zelensky sono arrivate ancora prima che il bilancio fosse concluso: «Ancora missili terroristici. Gli assassini russi continuano la loro guerra contro edifici residenziali, gente comune», ha detto, «le mie condoglianze a tutti coloro che hanno perso i loro cari. I terroristi non verranno mai perdonati e saranno giudicati per ogni missile». Situata nel centro geografico del Paese, Kryvyi Rih vanta di essere la dorsale economica dell’Ucraina: la sua fortuna si basa sulle miniere e sull’industria dell’acciaio, entrambe decisive anche per l’economia della guerra. Un obiettivo simbolico e strategico, dunque. Proprio qui, infatti, lo scorso mese di settembre, le truppe russe avevano bombardato con otto missili una stazione di pompaggio dell’acqua nel bacino idrico di Karachunivske, causando l’innalzamento del fiume Inhulets di 2,5 metri e la distruzione della diga che lo conteneva. Centinaia di abitazioni e intere aree della città erano state inondate. Si era parlato di “crimine di guerra”. Era un’azione profetica che l’esercito di Mosca ha ripetuto, in grande, lo scorso 2 giugno facendo saltare la diga di Nova Kakhovka. Le inondazioni hanno causato morte e distruzione nella regione di Kherson, ma i danni hanno raggiunto anche Kryvyi Rih. Lunedì le autorità avevano ordinato alla popolazione di consumare meno acqua, per far fronte alla scarsità delle scorte. Mentre i missili cadevano su Kryvyi Rih, ieri, le sirene suonavano anche a Kiev e Kharkiv. Da maggio Mosca ha intensificato gli attacchi sulle città per tenere sotto stress le difese anti- aeree lontano dal fronte, e sfondarle ove possibile».
ALLA NATO FORSE RESTA STOLTENBERG
Il presidente americano Joe Biden vuole sciogliere il nodo del segretario dell'Alleanza al summit di Vilnius. Jens Stoltenberg, oggi in visita alla Casa Bianca, potrebbe restare alla guida della Nato. Il punto è di Alberto Simoni corrispondente da Washington per La Stampa.
«Mentre le truppe della Nato conducono in Germania la più grande esercitazione aerea dal 1949 schierando – fino al 23 giugno - 100mila uomini da 25 nazioni e 250 caccia, il segretario dell'Alleanza, Jens Stoltenberg, è a Washington e condensa in poco più di tre ore l'incontro con il segretario di Stato Antony Blinken e quello poi con Joe Biden, saltato lunedì per un imprevisto intervento dal dentista del presidente. In cima all'agenda c'è la preparazione del summit di Vilnius dell'11-12 luglio che avrà nel rafforzamento della deterrenza e della capacità di difesa il grande obiettivo strategico. Sul breve invece servirà a riconfermare il sostegno all'Ucraina e a dare nuovo impulso all'ingresso della Svezia ancora in sospeso per l'ostinazione turca. Un lungo braccio di ferro che Biden vorrebbe sbloccare al più presto e ribadisce infatti, d'intesa con Stoltenberg, che Stoccolma ha rispettato tutti gli impegni. Un'altra questione è la scelta del nuovo segretario generale. La Casa Bianca ha detto di non aver ancora preso una decisione, ma resta impegnata ad arrivare con un nome in Lituania. Nei giorni scorsi sono emerse voci su una possibile conferma di Stoltenberg su richiesta Usa. L'Amministrazione statunitense non ha confermato ma le parole di apprezzamento che la portavoce di Biden e quello del Consiglio per la Sicurezza nazionale John Kirby hanno indirizzato all'ex premier norvegese, «ha fatto un lavoro superbo e gli siamo grati», qualche dubbio sulle intenzioni americane lo lasciano. Stoltenberg ieri non ha risposto alle domande dei cronisti sulla questione. La settimana scorsa Sunak ha messo sul tavolo la candidatura del suo ministro della Difesa Wallace. La premier danese Mette Frederiksen è un altro nome nel lotto dei papabili. Avrebbe dato la sua disponibilità allo stesso Biden nel corso del bilaterale di dieci 9 giorni fa. La guerra in Ucraina chiama i leader dell'Alleanza a investire di più sulla sicurezza. Stoltenberg ha auspicato che il «2% delle spese militari in rapporto al Pil diventi il requisito minimo» e chiederà a tutti i Paesi massimo impegno. Gli investimenti in tal senso – che la Nato vuole puliti e non "sporcati" da capitoli di spesa come sicurezza interna o ricerca nonostante le tentazioni di qualche Paese fra cui l'Italia – serviranno ad aumentare il potere di deterrenza. In chiave antirussa. La controffensiva ucraina sta guadagnando terreno, ha spiegato Stoltenberg evitando però toni trionfalistici, anzi avvertendo che non si può consentire a Putin di vincere poiché sarebbe benzina per le ambizioni di altri Paesi «inclusa la Cina». Biden e Stoltenberg sono allineati nel ritenere che «più territorio Kiev riprende, più è forte al tavolo negoziale», le parole del segretario generale mentre Biden ha citato il rafforzamento «del fianco orientale della Nato» per difendere ogni lembo di terreno. Da Washington intanto arriveranno altri 325 milioni di dollari in armamenti, fra cui missili per la difesa aerea, e veicoli Bradley e Strykers destinati a Kiev».
GASDOTTO: LA CIA AVREBBE CHIESTO A KIEV DI NON SABOTARE
La stampa tedesca rivela che la Cia, novanta giorni prima del sabotaggio, avrebbe chiesto agli ucraini di desistere dal progetto. Cronaca da Il Fatto.
«Tre mesi prima dell’attacco ai gasdotti Nord Stream, la Cia avrebbe avvertito Kiev di non compiere atti di sabotaggio. Lo scrivono i media tedeschi dopo che il Washington Post aveva svelato che gli 007 americani proprio a giugno sapevano dell’intenzione degli ucraini di far saltare in aria le infrastrutture, secondo documenti riservati condivisi con la Cia da altri Paesi europei. Le prime indicazioni di un possibile attacco da parte di un commando ucraino sarebbero state ottenute dall’intelligence militare olandese Mivd, che sarebbe venuta a conoscenza di un piano del giugno 2022 per attaccare il Nord Stream 1 utilizzando un’imbarcazione a noleggio. Gli olandesi avrebbero quindi avvisato prima gli Stati Uniti e poi altri Paesi partner, tra cui la Germania. Quindi sarebbe l’Olanda il Paese europeo citato dal Wp. A quel punto la Cia avrebbe messo in guardia i servizi segreti ucraini dall’attaccare le pipeline. Significativo secondo i nuovi dettagli della ricerca di Ard, Swr e Zeit sarebbe che, da queste nuove rivelazioni, sembrerebbe che il governo tedesco era a conoscenza di un possibile piano di attacco. Poco dopo le esplosioni di settembre, inoltre, il Mivd olandese avrebbe nuovamente indicato l'Ucraina come il Paese da cui proveniva l’attacco, anche se a oggi nessun elemento porta concretamente al governo ucraino. Nessun commento è arrivato dal governo tedesco né dalla Procura generale federale, né tantomeno dall’intelligence americana. Da Kiev invece continuano ad arrivare solo smentite: il presidente ucraino Zelensky ha ripetuto la scorsa settimana che Kiev non c’entra con le esplosioni del Nord Stream, sostenendo con la Bild che “essendo il presidente colui che dà gli ordini, di conseguenza, l’Ucraina non ha fatto nulla del genere. Non mi comporterei mai in questo modo”.».
COSA DEVE ESSERCI NEL PIANO MATTEI
L’esecutivo di Giorgia Meloni sta lavorando ad un nuovo “piano Mattei”. Ma quali saranno i contenuti? Ne scrive Mario Giro sul Domani.
«Cosa deve esserci nel piano Mattei che il governo sta preparando? Per ottenere un impatto reale non può che basarsi sul lungo termine. Non è serio continuare a pensare che la risposta debba essere soltanto emergenziale, in particolare se si pensa alle migrazioni. L’Africa ne produrrà ancora per lungo tempo, almeno fino a che non potrà disporre di una produzione locale fruibile per il proprio mercato interno e non solo limitarsi a fare il provider di materie prime (energetiche, minerarie o agricole) per gli altri continenti. Per questo il piano Mattei dovrebbe prevedere lo spostamento progressivo verso l’Africa di una parte delle produzioni, della manifattura o delle industrie di trasformazione, in specie nel settore agroalimentare. È la sola strada per ottenere una dinamica di sviluppo virtuosa. Non basta un piano di aiuti di emergenza, pur necessari: ci vuole un progetto economico a lungo termine. Qui si innesta la seconda condizione: negoziare il piano con gli africani stessi. Non è possibile immaginare che l’Italia sappia già tutto su cosa serve al continente senza parlarne con gli interessati. Sarebbe proseguire sulla strada seguita fino ad ora dall’Europa, che non ha portato a buoni risultati. Non si tratta solo di una questione morale, etica o di diritti: è un tema squisitamente politico. Anche ammettendo che le nostre idee siano migliori e che il nostro approccio sia più equo, non è più il tempo per tali imposizioni o anche semplicemente indicazioni. Gli africani non lo accetterebbero in nessun caso. Per tali ragioni occorre trattare e trovare convenienze e convergenze comuni. Quali sono le sfide più evidenti per l’Italia (l’Europa) e l’Africa? Innanzi tutto c’è un tema strutturale: la tenuta degli stati. All’Italia (come all’Europa tutta) serve che in Africa vi siano stati resilienti, in controllo del proprio territorio. L’esperienza libica ha fatto comprendere sin troppo bene sia agli africani che ai dirimpettai italiani ed europei che quando manca lo stato è molto complicato potersi accordare con milizie, gruppi armati e altri soggetti che ne prendono il posto. Le conseguenze che subiamo sulla sponda nord a causa della fine dello stato in Libia, sono le stesse che soffrono gli stati africani posti a sud della Libia, forse anche peggiori. La morte dello stato libico ha aperto le porte a flussi incontrollati verso nord ma ha mandato in crisi interi stati a sud, come il Mali o il Burkina Faso. Va evitato il caos gestito da soggetti armati senza alcuna legittimità e dediti a traffici di ogni tipo. Questo non vale solo per l’Italia ma anche per l’Africa. Un piano Mattei serio mira a difendere la tenuta degli stati sub-sahariani: senza di essi non ci sarebbe alcun soggetto con cui parlare o accordarsi, né alcuna possibilità di progettare lo sviluppo. Certamente sarebbe meglio avere a che fare con stati democratici. Tuttavia anche stati in transizione o ancora indietro su tale terreno sono comunque degli interlocutori necessari. Meglio uno stato non ancora compiutamente democratico piuttosto che l’anarchia violenta e caotica. Ma occorre stare attenti ad un limite invalicabile: talvolta regimi autoritari provocano l’autodistruzione dello stato che pretendono difendere. È il caso di alcuni stati del nord Africa, oggi in balia di una politica senza prospettiva da cui i cittadini fuggono proprio a causa del loro autoritarismo. In conclusione: collaborare con stati in transizione ma evitare di cadere ostaggi di regimi che non tollerano il dialogo e la negoziazione. La cartina di tornasole per comprendere se con uno stato africano si possa collaborare mediante il piano Mattei è se accetta di negoziarlo. Ciò vale per i progetti italiani ma soprattutto per quelli europei. A sud del Mediterraneo e del Sahara la dissoluzione degli stati è il primo grande pericolo per il nostro paese ma nessuno può fare tutto da solo. A questo livello serve una politica di cooperazione e sicurezza che l’Italia non può svolgere in solitaria: in Africa è necessario un accordo prima di tutto con la Francia; poi con Germania e Spagna; a cui aggiungere intese con Turchia, gli Emirati Arabi Uniti ecc. Va elaborata una politica di sostegno alla stabilità degli stati in termini di cooperazione alla sicurezza, collaborazione delle forze dell’ordine, scambio di intelligence, fino alla cooperazione militare laddove essa sia preventiva. Soltanto a tali condizioni preliminari il piano Mattei può puntare a gestire ragionevolmente i flussi incontrollati di emigrazione, evitando le morti in mare o nel deserto. Se si vuole ottenere la collaborazione degli stati di origine e transito occorre non limitarsi ad offrire denari e supporto per il controllo delle frontiere ma dare in cambio qualcosa di concreto: fine delle doppie imposizioni, trasferimenti pensionistici, cooperazione tecnologica, spostamento delle produzioni in particolare agricole e così via. L’Africa deve poter produrre e trasformare: l’economia della rendita da materie prime non è più sufficiente, anzi è diventata invisa alle popolazioni locali che la leggono come sfruttamento, paternalismo o neocolonialismo. Gli stati africani devono diventare reali partner del loro medesimo sviluppo. È nel settore agricolo che l’Italia può fare di più, mediante un partenariato tecnologicamente innovativo e la trasformazione dei prodotti in loco. Possiamo dare un grosso contributo alla nascita di un’industria agroalimentare africana, anche se questo ci costa il dover cedere qualcosa. L’Italia ha il know how necessario e migliaia di produttori piccoli e medi che possono trasmetterlo. Un grande piano Italia-Africa sull’agribusiness andrebbe ad incidere davvero sulla realtà africana rurale. Vi sono altri settori utili al piano Mattei come l’energia, il turismo, l’edilizia ecc. Tuttavia l’agribusiness resta certamente il più strategico da un punto di vista occupazionale e quindi migratorio. È evidente che per una tale operazione serve tempo e pazienza. Infine un ulteriore volet per il piano Mattei sono le opere infrastrutturali. Non bisogna solo immaginare grandi opere: in Africa mancano le opere medie, le strade intermedie di collegamento, i porti e gli aeroporti medi, i corridoi secondari e la logistica afferente. Non sempre il gigantismo è sufficiente: sono necessari i grandi corridoi per collegare l’Africa atlantica a quella dell’oceano Indiano, oppure la dorsale nord sud o anche la grande strada costiera dell’Africa occidentale e centrale. Se ne stanno già occupando i cinesi ma anche la Commissione europea con il programma Global Gateway. Lanciato nel 2021 quest’ultimo vuole essere la risposta europea all’aggressività di Pechino. Il Gateway sarà finanziato con 150 miliardi, mobilitando il settore privato. L’Italia potrebbe fare due cose: entrare nel Global Gateway mediante le proprie grandi imprese private di trasporto e grandi opere. In secondo luogo potrebbe creare un programma parallelo per aggiungere le linee secondarie ai grandi corridoi: proprio quelle che riguardano le aree interne dei paesi africani da dove si muovono i potenziali migranti. Occorre tener conto che le migrazioni africane sono cambiate con il tempo: prima partivano gli adulti o erano loro a decidere chi dei giovani dovesse farlo. Oggi i giovani (oltre il 60 per cento della popolazione africana è sotto i 24 anni) fanno da soli, muovendosi in un primo tempo verso le megalopoli africane da dove poi tentare il grande balzo verso l’Europa. Si dà anche il triste caso dei bambini e adolescenti inviati in avanscoperta dai propri genitori, e che creano il terribile fenomeno dei minori non accompagnati che ben conosciamo. Infine il piano Mattei dovrebbe inventare e mettere in pratica il tanto atteso sistema circolare delle migrazioni: la possibilità di venire a formarsi in Italia (e in Europa) e anche a lavorarci per un periodo, per poi rientrare (disseminando così know how) ed avere la possibilità – dopo un congruo numero di anni – di ritornare per riciclaggio o specializzazione e così via. Non possiamo rassegnarci all’irregolarità: occorre proporre vie legali e sicure. Un sistema circolare che permetta un fruttuoso scambio, basato sull’esperienza dei corridoi umanitari ideati dalla Comunità Sant’Egidio e che a tutt’oggi restano l’unico canale sicuro e legale per giungere in Italia. I corridoi rispondono a quell’esigenza di manodopera che abbiamo nel nostro paese e che esiste in tutta Europa. Su tale modello si può costruire una risposta non solo emergenziale».
PNRR, MISSIONE UE: “RISPETTATE I TEMPI”
Sul PNRR i tecnici di Bruxelles incontrano a Roma il ministro Raffaele Fitto. I sindacati esprimono preoccupazione per la messa a terra dei progetti. Luca Monticelli per La Stampa.
«Ieri sera, di ritorno da Strasburgo, il ministro Raffaele Fitto ha incontrato Céline Gauer, la direttrice della task force della Commissione europea presente a Roma per una verifica sullo stato di attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Tra i temi sul tavolo c'è soprattutto la richiesta del governo Meloni di ottenere il pagamento della terza rata da 19 miliardi di euro, ma i funzionari europei vogliono vederci chiaro sia sui 55 obiettivi ad essa collegati, sia sulla nuova governance che gestisce il Pnrr da Palazzo Chigi e non più dal Tesoro. Gli ispettori, che si fermeranno nella capitale fino a venerdì, ieri hanno avuto un confronto anche con Cgil, Cisl e Uil. Ai sindacati, secondo quanto racconta una fonte, i tecnici hanno fatto capire che Bruxelles sarà molto rigida sui tempi, e controllerà scrupolosamente la spesa dei fondi del Pnrr. Quando si arriverà a un'intesa con la Commissione sulla revisione del piano, i target e le milestone definiti dovranno poi essere rispettati. Il ragionamento riferito ai sindacati è che non ci saranno altre deroghe, insomma, non ci sarà una trattativa ogni anno per cambiare i progetti e gli obiettivi. Il commissario Ue all'Economia, Paolo Gentiloni, ospite dei dialoghi italo-francesi all'Università Luiss, conferma che la priorità è «rispettare tempi e tabelle di marcia». Ivana Veronese, segretaria confederale Uil, era al tavolo con gli ispettori, e nel corso del confronto ha denunciato l'opacità che avvolge il piano italiano: «Nonostante siano se incluse nella cabina di regia, le parti sociali non hanno avuto ancora la possibilità di entrare nel merito dei provvedimenti», racconta. I sindacati sono preoccupati soprattutto per la lentezza nella messa a terra dei progetti. Secondo Christian Ferrari della Cgil, «l'incertezza sulle prossime scadenze rischia di mettere in discussione, oltre alla terza rata non ancora erogata, anche la quarta e la quinta». Sui ritardi delle opere che stanno bloccando la terza rata, interviene il presidente dell'Anci Antonio Decaro: «Non è vero che i Comuni non sono in grado di spendere i fondi del Pnrr di loro competenza. Dai dati dell'Anac si evince che attualmente sono stati impegnati con gare già appaltate il 60% delle risorse che fin qui sono state assegnate ai comuni. Non si può dire la stessa cosa dei ministeri, delle Ferrovie dello Stato e delle Regioni».
GIUSTIZIA, ARRIVA LA RIFORMA NORDIO
Sulla giustizia si muove il governo: via l’abuso d’ufficio e limiti alle intercettazioni nel pre-Consiglio dei ministri. Sarebbero otto gli articoli nel testo di riforma. Tra le novità collegialità delle decisioni sulla custodia cautelare e motivazioni più robuste per l’avviso di garanzia. Le anticipazioni di Giovanni Negri per il Sole 24 Ore.
«Abrogazione dell’abuso d’ufficio, limiti alla trascrizione delle intercettazioni, collegialità delle decisioni sulla custodia cautelare, con aumento di organico della magistratura, irrobustimento motivazionale dell’avviso di garanzia per favorire l’immediata predisposizione di difese. Sono questi i contenuti principali del disegno di legge, 8 articoli in tutto, che questa mattina sbarca al preconsiglio dei ministri (il consiglio è convocato invece per domani sera alle 18). Considerare l’esame del testo nelle ore delle esequie del fondatore di Forza Italia come un omaggio alla figura del Silvio Berlusconi garantista è però più una suggestione che una realtà, visto che i contenuti dell’intervento erano già stati messi a fuoco da tempo, e lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva preannunciato nel consiglio dei ministri di questa settimana il momento di confronto nel Governo prima del passaggio del testo in Parlamento. Più nel dettaglio, nel disegno di legge, ancora soggetto alle ultimissime modifiche, trova posto innanzitutto la cancellazione dell’abuso d’ufficio dal Codice penale, un”pallino” di Nordio che molto ha insistito sul punto, facendo leva soprattutto sui dati, che certificano la bassissima percentuale di condanne a fronte dei procedimenti avviati. Di fronte alle fortissime perplessità espresse soprattutto dal fronte dei magistrati nel corso delle audizioni alla Camera, centrate anche sul rispetto degli impegni presi con l’Europa e sulla necessità di non abbassare la guarda nella lotta alla corruzione, il ministro della Giustizia aveva avuto modo, pochi giorni fa, il 9 giugno, di rassicurare il commissario Didier Reynders sulle misure di riforma dei reati contro la pubblica amministrazione. Dell’intervento farà parte, infatti, anche una più puntuale messa a punto del reato di traffico d’influenze, introdotto sulla scia di precisi impegni assunti sul piano internazionale e tuttavia “accusato” di eccessiva genericità, anche a fronte del vecchio millantato credito. Sulle intercettazioni si punta ad asciugare il più possibile, compatibilmente con le esigenze investigative, le trascrizioni di conversazioni che coinvolgono terzi collocate all’interno dei documenti che più frequentemente sono oggetto di divulgazione, ordinanze cautelari in primo luogo. Quanto alle misure cautelari, nel disegno di legge trova posto l’attribuzione della decisione su quelle coercitive, dal carcere preventivo agli arresti domiciliari, a un collegio di tre magistrati, garanzia, si ritiene, di valutazioni più attente e ponderate. Si prevede poi, quando si procede per alcuni reati, l’obbligatorietà di interrogatorio preventivo. A risposta delle preoccupazioni della magistratura per la difficoltà nell’applicare una norma di questo tenore negli uffici medio piccoli, tra vuoti in organico e moltiplicarsi delle incompatibilità, il provvedimento mette in cantiere anche un aumento di organico della magistratura (questa la ragione del riferimento, nel titolo del disegno di legge, all’ordinamento giudiziario). Infine, l’avviso di garanzia che dovrebbe uscire dall’intervento arricchito nella parte motivazionale, in maniera tale da poter elevare il tasso di conoscenza delle accuse da parte della difesa. Di un progetto di riforma della giustizia più esteso il disegno di legge costituisce solo il primo e più urgente stadio, visto che in autunno sono previsti altri interventi, di natura più spiccatamente ordinamentale, come quelli su Csm e status della magistratura».
TRUMP ALLA SBARRA
Le altre notizie dall’estero. L'ex presidente Usa Donald Trump compare in aula a Miami. 37 i capi d'imputazione a suo carico per aver portato documenti top secret nella villa di Mar-a-Lago in Florida Lui prova a difendersi. Francesco Semprini per La Stampa
«Donald Trump alla sbarra. Questa volta l'ex presidente degli Stati Uniti deve fare i conti con reati federali, accuse molto più pesanti di quelle per le quali è dovuto comparire a New York per aver pagato il silenzio della pornostar Stormy Daniels presumibilmente con fondi elettorali. Il tycoon si presenta al tribunale di Miami per assistere alla lettura delle 37 accuse a suo carico, tra le quali violazione della legge contro lo spionaggio e ostruzione della giustizia, come Richard Nixon all'epoca del Watergate. La città della Florida è blindata ma ancora una volta il bagno di folla del popolo trumpista manca, il movimento non ha più la spinta degli anni d'oro del tycoon. A Miami ci sono più persone rispetto a New York, ma nulla a che vedere col 2016 o il 2020, anche la marcia annunciata dei Proud Boys, tra i protagonisti dell'assedio del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, si è rivelata una chimera. Il secret service avrebbe voluto transennare tutta l'area attorno al tribunale e mettere la corte in lockdown ma la polizia locale non ha dato il via libera. Una volta in tribunale, essendo accuse federali, l'ex presidente deve sottoporsi a tutte le procedure protocollari: impronte digitali e compilazione di moduli e stato di fermo temporaneo. Niente foto segnaletiche né manette, tuttavia, per evitare strumentalizzazioni o spettacolarizzazioni. Trump non deve neanche sottoporsi al test del Dna, come invece previsto per alcuni reati federali. Come preannunciato si è dichiarato non colpevole, ma non è chiaro quale sia la strategia difensiva visto che le 49 pagine dell'impianto accusatorio contengono prove concrete sul fatto che sapesse di essere in possesso di documenti classificati, alcuni dei quali top secret e di averli maneggiati in maniera spregiudicata. Oltretutto, dopo aver licenziato gli storici avvocati Jim Trusty e John Rowley, secondo i media Usa, il tycoon sta avendo difficoltà a trovare dei legali che vogliano rappresentarlo proprio per disaccordi sulla strategia da seguire. Trump, inoltre, starebbe cercando un esperto di sicurezza nazionale che lo aiuti a muoversi nei meandri di un caso assai più complesso delle bugie su pagamenti a Daniels. Con lui in aula c'erano Todd Blanche e l'ex procuratore della Florida Chris Kise, una squadra legale di opportunità dal momento che non è detto che siano loro a seguire il caso. La strategia mediatica ricalca il consueto copione, come due mesi fa, quando la sera prima della comparizione si fece vedere con Melania a Mar-a-Lago, il tycoon ha ostentato tranquillità cenando nel suo resort di Miami, il Doral, in compagnia dei suoi avvocati e dell'assistente Walt Nauta. Il 40enne veterano della marina Usa, che è arrivato in Florida a bordo del Trump Force One, deve rispondere di sei capi d'imputazione nell'ambito dell'indagine su Mar-a-Lago, tra i quali cospirazione e false dichiarazioni. In particolare, è accusato di aver spostato e nascosto scatoloni di documenti top secret, su ordine di Trump, dopo che il dipartimento di Giustizia ne aveva chiesto la restituzione. Il tycoon lo ha difeso su Truth definendolo «un coraggioso patriota». Secondo le accuse formulate dal procuratore speciale Jack Smith l'ex presidente è colpevole di aver mentito quando è stato interrogato dall'Fbi nel maggio 2022. Trump come sempre ha giocato di anticipo, prima di arrivare in aula ha attaccato sia Smith che il dipartimento di Giustizia, definendo il primo «delinquente estremista di destra» e il secondo «corrotto e nelle mani di Biden». Dopo la comparizione l'ex inquilino della Casa Bianca è tornato in New Jersey e, nella sua roccaforte di Bedminster, dove ha organizzato un discorso alla presenza di molti donatori, i soggetti chiave del suo futuro politico. La vera sfida politica è cementare il legame con loro. Se molti conservatori difendono Trump a spada tratta osservando come il suo caso sia simile a quello di Biden e alle e-mail di Hillary Clinton nel 2016, altri iniziano a dubitare della sua presentabilità elettiva. In generale prevale un ampio sostegno fra il pubblico, atteggiamento che nel caso dell'incriminazione di New York lo ha aiutato ad aumentare il suo vantaggio nei sondaggi sugli avversari di partito e a riguadagnare quella presa sulla base elettorale che si era indebolita dopo i deludenti risultati alle elezioni di Midterm del novembre 2022. Tuttavia, nel Grand Old Party ci sono timori sul fatto che le molteplici vicende giudiziarie del tycoon penalizzino i repubblicani alle urne. Da segnalare l'assenza della ex First Lady Melania (Trump è stato accompagnato in tribunale dal figlio Eric) che, come è successo per la prima incriminazione, mantiene le distanze dal marito, sebbene i tabloid assicurino che «supporta al 100%» il marito. In remoto».
RAPPORTO ONU SUI PROFUGHI
Allarme Onu sui 108 milioni di profughi. “Otto su dieci in fuga per colpa del clima”. L’articolo di Avvenire.
«La denuncia dell’Onu: mai così tante persone strappate con la forza dalle loro case. I drammi dell’Ucraina, dell’Afghanistan e del Sudan hanno acuito la crisi. I Paesi più poveri sono però i più generosi nell’accoglienza Kateryna è fuggita da casa, nel sud dell’Ucraina, nel marzo del 2022, a pochi giorni dall’inizio dell’aggressione militare russa. Ora si trova in Polonia, come rifugiata, insieme alla sua famiglia. Lei è al sicuro, ma teme per la sicurezza di altri suoi parenti, compresa la sorella e il nonno, rimasti in terra ucraina. Kateryna e la sua famiglia fanno parte dei 110 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette alla fuga a causa di guerre, persecuzioni, violenze e violazioni dei diritti umani. Un numero record, secondo il principale rapporto annuale dell’Unhcr-Acnur, « Global Trends in Forced Displacement 2022» , un dossier di 48 pagine (visionato da Avvenire in anteprima e che verrà diffuso oggi) , ultimato in vista della Giornata mondiale del rifugiato, del 20 giugno. Guerre e mutamenti climatici Nel 2022, si legge, «la guerra in corso in Ucraina, insieme ai conflitti in altre parti del mondo e agli sconvolgimenti provocati dal clima», hanno costretto altri milioni di persone a fuggire, acuendo l’urgenza «per un’azione immediata e collettiva per alleviare cause e impatto dello sfollamento». A fine dicembre il numero totale è salito «al livello record di 108,4 milioni, con un aumento senza precedenti di 19,1 milioni rispetto all’anno precedente». E il trend «non mostra segni di rallentamento», anche a causa «dello scoppio del conflitto in Sudan, che ha causato nuovi esodi, spingendo il numero totale delle persone in fuga a un valore stimato di 110 milioni fino al maggio scorso». Numeri, osserva amaro l’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi, che «dimostrano che ci sono persone fin troppo pronte a ricorrere alla guerra, e decisamente troppo lente a trovare soluzioni». Con conseguenze angoscianti: « La devastazione, lo sfollamento e l’angoscia per milioni di persone sradicate con la forza dalle loro case». Tecnicamente, 35,3 milioni di persone sono «rifugiati», perché hanno attraversato un confine internazionale in cerca di sicurezza, mentre il gruppo più numeroso (il 58%, ossia 62,5 milioni) riguarda gli sfollati all’interno dei loro Paesi, per conflitti o per situazioni di violenza. Inoltre, 4,4 milioni di persone risultano apolidi o di nazionalità indeterminata, il 2% in più rispetto al 2021. Da Kiev a Kabul La guerra in Ucraina ha determinato un boom di partenze: da 27.300 nel 2021 a 5,7 milioni nel 2022, «il più rapido esodo di rifugiati al mondo dalla Seconda guerra mondiale». E in Afghanistan la quota si è impennata per la revisione delle stime dgli afghani ospitati in Iran (molti non erano stati contabilizzati). Meno persone sono invece rientrate in patria volontariamente e in sicurezza: «339mila in 38 Paesi», con «significativi ritorni volontari in Sud Sudan, Siria, Camerun e Costa d’Avorio». Mentre 5,7 milioni di sfollati interni sono tornati a casa, in particolare in Etiopia, Myanmar, Siria, Mozambico e in Congo. Sconcerta apprendere che «i 46 Paesi meno sviluppati», che «rappresentano meno dell’1,3% del prodotto interno lordo globale», ospitano «più del 20% di tutti i rifugiati». E i fondi per far fronte alle molte crisi in corso sono stati insufficienti e continuano a esserlo nel 2023. «Le persone continuano a dimostrare una straordinaria ospitalità nei confronti dei rifugiati», constata Grandi, «ma è necessario maggior sostegno internazionale e una condivisione più equa della responsabilità». Soprattutto, «bisogna fare molto di più per porre termine ai conflitti» e per «rimuovere gli ostacoli in modo che i rifugiati abbiano l’opportunità concreta di ritornare volontariamente a casa, in sicurezza e dignità».
LA NIGERIA RILANCIA LO SVILUPPO
La Nigeria disinveste dal petrolio per fare cassa e rilanciare la crescita. Allo studio la cessione di un’ampia quota nel colosso nazionale del greggio. Sul Sole 24 Ore Alberto Magnani.
«Bola Tinubu, il neo presidente della Nigeria, lo scriveva nel suo manifesto elettorale: l’industria dell’Oil&Gas nigeriana resta fondamentale, ma non può essere «la risposta ai problemi economici» che affliggono il Paese più popoloso dell’Africa. La soluzione che offre lui va in una direzione diversa, la stessa fallita dai suoi predecessori: rinnovare l’industria del petrolio e diversificare un’economia appesa alle vendite di greggio, il settore che incide su oltre l’80% dei guadagni da export e oltre il 60% delle entrate nelle casse di Abuja. I primi segnali iniziano a intravedersi. A quanto riporta l’agenzia Reuters, le autorità nigeriane stanno valutando la cessione di una grossa quota della partecipazione pubblica nella Nigerian National Petroleum Company Limited: il colosso locale del petrolio che opera in joint venture con multinazionali che vanno dalla Shell a Texaco. L’ipotesi, suggerita a Tinubu dal suo team di consiglieri, condurrebbe all’incasso di 17 miliardi di dollari Usa da (re)investire per la crescita economica e la rigenerazione di un settore, quello petrolifero, valso ricavi da 45,6 miliardi di dollari americani nel solo 2022. La ricchezza o la condanna della prima economia continentale per Pil, caso da manuale della cosiddetta «maledizione delle risorse»: la tendenza che spinge i Paesi più ricchi di risorse naturali ad adagiarsi sulla monetizzazione delle proprie commodity, favorendo corruzione e disuguaglianze letali per la stabilità. La «maledizione» nigeriana sono riserve di petrolio quantificate dall’Opec, l’organizzazione dei Paesi produttori, a circa 37 miliardi di barili nel 2021, a fronte di una produzione media di 1,2 milioni di barili al giorno nel maggio 2023. Quanto basta a contendersi con l’Angola il record per gli output di oro nero del Continente, non a garantirsi né una crescita sostenibile né una fornitura adeguata ai propri fabbisogni energetici. La Nigeria è incastrata nel paradosso di esportare grossi volumi di greggio e importare quote altrettanto robuste di prodotti raffinati, visto che la carenza di infrastrutture obbliga il governo a procacciarsi carburante e altri beni sul mercato estero: una dipendenza costata 23,3 miliardi di dollari Usa a fine 2022, con il rischio di salire a 30 miliardi in uscite nel 2027. L’anomalia dovrebbe attenuarsi con l’inaugurazione della raffineria di Dangote, la più grande del Continente, pronta al debutto nel mercato a luglio 2023 e chiamata a soddisfare «al 100%» la domanda domestica. A restare in sospeso, però, è l’altro pilastro dell’agenda, quello della diversificazione tout-court dal predominio dell’export di materie prime. Tinubu sta galvanizzando i mercati con annunci sull’addio ai sussidi e la riforma del sistema di tassi di cambio, ma non è entrato nei dettagli su come - e se - potrebbe stimolare un’industria all’altezza delle prospettive di crescita di un Paese oggi piagate da inflazione sopra il 20%, povertà in crescita e l’instabilità che dilaga nel Nord. I primi 100 giorni saranno decisivi per Tinubu. L’attesa per qualche indizio potrebbe essere più breve, o lunga».
CORMAC MC CARTHY, NON È UN PAESE PER SCRITTORI
Gianni Riotta traccia per Repubblica un ritratto di Cormac Mc Carthy morto ieri, nel suo New Mexico, a 89 anni.
«Ci sono scrittori ben diversi dai loro personaggi, Hemingway non ebbe mai la saggezza di Robert Jordan, guerrigliero di Per chi suona la campana , Fitzgerald la grazia del Grande Gatsby o Tolstoj il romanticismo del principe Andrej. E ci sono scrittori che invece sembrano identici ai loro eroi, Salinger per tutta la vita irrisolto come Holden, Calvino sognatore come il Barone Rampante , Eco curioso come Guglielmo da Baskerville nel Nome della rosa. Cormac McCarthy, maestro del noir americano scomparso ieri a Santa Fe, New Mexico, a 89 anni, apparteneva risolutamente alla seconda categoria, artisti specchio dei loro romanzi. Duro, solitario, sprezzante, senza affetti, viveva come i protagonisti dei suoi capolavori, La strada (2006), Einaudi, il nuovo Stella Maris , in corso di traduzione, Cavalli selvaggi , (1992), Guida, Meridiano di sangue , (1985), Einaudi. La prima moglie, la poetessa Lee Holleman, raccontava di aver divorziato da McCarthy quando lui, benché lei si curasse del figlio Cullen e della casa, le chiese di trovarsi un lavoro, «così che possa scrivere ogni giorno, tranquillo». E la seconda moglie, la cantante inglese Anne De Lisle, raccontò: «Con Cormac si viveva senza un cent, poveri, facevamo il bagno nel lago gelato per risparmiare. Era già uno scrittore apprezzato dalla critica, ma non voleva nessun impegno se non scrivere, gli offrivano 2000 dollari per una conferenza, diceva di no e mangiavano fagioli in scatola per un mese». «Insegnare scrittura nei college è una truffa» commentava l’artista. Secondo il Washington Post Mc-Carthy decide di «vivere da eremita », ma per i familiari le scelte sono estreme, dure, come la scrittura agra delle pagine migliori e la desolazione delle trame. «Solo la vita e la morte sono degne della letteratura» ripete McCarthy, deciso a vivere da straccione pur di dedicarsi all’arte. Lo salva il primo premio della Fondazione MacArthur, nel 1981, considerato in America «la borsa di studio dei geni». Viveva in miseria in un motel, ma grazie ai 236.000 dollari può comprare una casa in Texas e studia la pianura brulla, la prateria riarsa e le facce grevi dei cow boy che saranno poi quinte e trame dei libri. Nato il 20 luglio 1933 a Providence, Rhode Island, da una famiglia benestante, si ribella a scuola, «non volevo essere quel che i miei genitori volevano», fa il servizio militare in aviazione, legge le prime recensioni favorevol. «Da giovane scrittore ha sviluppato una voce narrativa unica che affascina i lettori con la potenza grezza e la bellezza cruda. Con un distintivo mix di umorismo nero, lirismo poetico e onestà implacabile, McCarthy supera i confini e sfida le norme». Non vende più di 3000 copie dei libri degli esordi, i giudizi sono meravigliosi, le tirature pessime. Per il Nobel Saul Bellow, McCarthy è un maestro per «l’uso del linguaggio, le frasi degne di vita e morte» e per il critico e leggenda dell’università di Yale Harold Bloom Meridiano di sangue resta «il western migliore di tutti i tempi». Nel 2007 arriva infine il capolavoro, La strada , travolgendo il mondo delle lettere chic che il maestro aveva sempre disprezzato, trionfando a Hollywood con la pellicola dallo stesso titolo, con Viggo Mortensen e Kodi Smith-McPhee, diretto da John Hillcoat. McCarthy è conscio, a quel punto, della deriva amara del suo paese e del mondo, la fine delle illusioni del dopo Guerra Fredda, il ritorno della guerra, con l’invasione dell’Iraq da parte del presidente Bush figlio, la catastrofe ambientale che incombe e La strada racconta di un padre e un figlio che, in un pianeta post apocalisse provano a tener vivi i rapporti umani, l’amore, la speranza. Premiato con il Pulitzer, La strada smentisce i critici come Harrison Smith, persuasi che Cormac McCarthy fosse «capace di poesia ma non di sentimenti». Al contrario il romanzo diventa popolare proprio perché, quando il piccolo resta solo, tra le folle crudeli che battono l’America, anticipando la furia dei teppisti che assaltano il Campidoglio in nome di Trump, il 6 gennaio 2021, prima che lo rendano schiavo sessuale o cibo per cannibali, le tribù decise a restare umane lo adottano. Un altro celebre film nero dai libri di McCarthy, il vero nome era Charles Joseph McCarthy, Cormac un soprannome, è “Non è un paese per vecchi”, portato sugli schermi dai fratelli Coen nel 2007, con un perfetto Javier Bardem nella parte del killer con la pistola usata per ammazzare le mucche, Anton Chigurh. A quel punto McCarthy è ricco e famoso, ma non smette di vivere come un eremita, malgrado qualche goffa foto per le riviste di gossip con registi e attori celebrati. La strada vince il premio Pulitzer per la narrativa, seguono il National Book Award e il National Book Critics Circle Award le traduzioni ubique di una scrittura capace ormai di catturare lettori di ogni estrazione sociale grazie alle complessità dell’esperienza umana brutale e meravigliosa. Scontroso, burbero, antisociale nell’era social, McCarthy sa che nell’America di Trump, nel mondo di Putin e dell’Intelligenza Artificiale, la forza elementare dei sentimenti umani è a rischio, i valori migliori dell’Homo Sapiens sull’orlo del baratro. La sua prosa, a tratti scabra e magnifica come il lessico dell’Antico Testamento nella Versione inglese di King James, spaventa, con bambini impiccati, bande di narcotrafficanti allo sbando, pedofili a schiavizzare i più deboli ma non perde mai la fede nella dignità di uomini e donne, perché se “Dio non c’è” tuttavia “noi siamo i suoi profeti”».
“I POVERI SONO PERSONE VERE, NON VIRTUALI”
Il Papa: per qualche istante ci commuoviamo davanti alle immagini dei bisognosi, salvo infastidirci ed emarginarli se li incontriamo. Nel Messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale del 19 novembre la denuncia di precarietà e speculazioni come attentati alla dignità umana. Da Avvenire.
«La Giornata mondiale dei poveri, segno fecondo della misericordia del Padre, giunge per la settima volta a sostenere il cammino delle nostre comunità. È un appuntamento che progressivamente la Chiesa sta radicando nella sua pastorale, per scoprire ogni volta di più il contenuto centrale del Vangelo. Ogni giorno siamo impegnati nell’accoglienza dei poveri, eppure non basta. Un fiume di povertà attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare; quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte. Per questo, nella domenica che precede la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo, ci ritroviamo intorno alla sua Mensa per ricevere nuovamente da Lui il dono e l’impegno di vivere la povertà e di servire i poveri. « Non distogliere lo sguardo dal povero » ( Tb 4,7). Questa Parola ci aiuta a cogliere l’essenza della nostra testimonianza. Soffermarci sul Libro di Tobia, un testo poco conosciuto dell’Antico Testamento, avvincente e ricco di sapienza, ci permetterà di entrare meglio nel contenuto che l’autore sacro desidera trasmettere. Davanti a noi si apre una scena di vita familiare: un padre, Tobi, saluta il figlio, Tobia, che sta per intraprendere un lungo viaggio. Il vecchio Tobi teme di non poter più rivedere il figlio e per questo gli lascia il suo “testamento spirituale”. Lui è stato un deportato a Ninive ed ora è cieco, dunque doppiamente povero, ma ha sempre avuto una certezza, espressa dal nome che porta: “il Signore è stato il mio bene”. Quest’uomo, che ha confidato sempre nel Signore, da buon padre desidera lasciare al figlio non tanto qualche bene materiale, ma la testimonianza del cammino da seguire nella vita, perciò gli dice: «Ogni giorno, figlio, ricordati del Signore; non peccare né trasgredire i suoi comandamenti. Compi opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell’ingiustizia» (4,5). Come si può osservare subito, il ricordo che il vecchio Tobi chiede al figlio non si limita a un semplice atto della memoria o a una preghiera da rivolgere a Dio. Egli fa riferimento a gesti concreti che consistono nel compiere opere buone e nel vivere con giustizia. Questa esortazione si specifica ancora di più: « A tutti quelli che praticano la giustizia fa’ elemosina con i tuoi beni e, nel fare elemosina, il tuo occhio non abbia rimpianti » ( 4,7). Stupiscono non poco le parole di questo vecchio saggio. Non dimentichiamo, infatti, che Tobia ha perso la vista proprio dopo aver compiuto un atto di misericordia. Come egli stesso racconta, la sua vita fin da giovane era dedicata a opere di carità: « Ai miei fratelli e ai miei compatrioti, che erano stati condotti con me in prigionia a Ninive, nel paese degli Assiri, facevo molte elemosine. […] Davo il pane agli affamati, gli abiti agli ignudi e, se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo» (1,3.17). Per questa sua testimonianza di carità, il re lo aveva privato di tutti i suoi beni rendendolo completamente povero. Il Signore però aveva ancora bisogno di lui; ripreso il suo posto di amministratore, non ebbe timore di continuare nel suo stile di vita. Ascoltiamo il suo racconto, che parla anche a noi oggi: « Per la nostra festa di Pentecoste, cioè la festa delle Settimane, avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola: la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi al figlio Tobia: “Figlio mio, va’, e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive qualche povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme con noi. Io resto ad aspettare che tu ritorni, figlio mio”» (2,1-2). Come sarebbe significativo se, nella Giornata dei Poveri, questa preoccupazione di Tobia fosse anche la nostra! Invitare a condividere il pranzo domenicale, dopo aver condiviso la Mensa eucaristica. L’Eucaristia celebrata diventerebbe realmente criterio di comunione. D’altronde, se intorno all’altare del Signore siamo consapevoli di essere tutti fratelli e sorelle, quanto più diventerebbe visibile questa fraternità condividendo il pasto festivo con chi è privo del necessario! Tobia fece come gli aveva detto il padre, ma tornò con la notizia che un povero era stato ucciso e lasciato in mezzo alla piazza. Senza esitare, il vecchio Tobia si alzò da tavola e andò a seppellire quell’uomo. Tornato a casa stanco, si addormentò nel cortile; gli cadde sugli occhi dello sterco di uccelli e divenne cieco (cfr 2,1-10). Ironia della sorte: fai un gesto di carità e ti capita una disgrazia! Ci viene da pensare così; ma la fede ci insegna ad andare più in profondità. La cecità di Tobi diventerà la sua forza per riconoscere ancora meglio tante forme di povertà da cui era circondato. E il Signore provvederà a suo tempo a restituire al vecchio padre la vista e la gioia di rivedere il figlio Tobia. Quando venne quel giorno, «Tobi gli si buttò al collo e pianse, dicendo: “Ti vedo, figlio, luce dei miei occhi!”. Ed esclamò: “Benedetto Dio! Benedetto il suo grande nome! Benedetti tutti i suoi angeli santi! Sia il suo santo nome su di noi e siano benedetti i suoi angeli per tutti i secoli. Perché egli mi ha colpito, ma ora io contemplo mio figlio Tobia” » (11,13-14). Possiamo chiederci: da dove Tobia attinge il coraggio e la forza interiore che gli permettono di servire Dio in mezzo a un popolo pagano e di amare a tal punto il prossimo a rischio della sua stessa vita? Siamo davanti a un esempio straordinario: Tobia è uno sposo fedele e un padre premuroso; è stato deportato lontano dalla sua terra e soffre ingiustamente; è perseguitato dal re e dai vicini di casa… Nonostante sia di animo così buono è messo alla prova. Come spesso ci insegna la sacra Scrittura, Dio non risparmia le prove a quanti operano il bene. Come mai? Non lo fa per umi-liarci, ma per rendere salda la nostra fede in Lui. Tobia, nel momento della prova, scopre la propria povertà, che lo rende capace di riconoscere i poveri. È fedele alla Legge di Dio e osserva i comandamenti, ma questo a lui non basta. L’attenzione fattiva verso i poveri gli è possibile perché ha sperimentato la povertà sulla propria pelle. Pertanto, le parole che rivolge al figlio Tobia sono la sua genuina eredità: « Non distogliere lo sguardo da ogni povero» (4,7). Insomma, quando siamo davanti a un povero non possiamo voltare lo sguardo altrove, perché impediremmo a noi stessi di incontrare il volto del Signore Gesù. E notiamo bene quell’espressione «da ogni povero». Ognuno è nostro prossimo. Non importa il colore della pelle, la condizione sociale, la provenienza… Se sono povero, posso riconoscere chi è veramente il fratello che ha bisogno di me. Siamo chiamati a incontrare ogni povero e ogni tipo di povertà, scuotendo da noi l’indifferenza e l’ovvietà con le quali facciamo scudo a un illusorio benessere. Viviamo un momento storico che non favorisce l’attenzione verso i più poveri. Il volume del richiamo al benessere si alza sempre di più, mentre si mette il silenziatore alle voci di chi vive nella povertà. Si tende a trascurare tutto ciò che non rientra nei modelli di vita destinati soprattutto alle generazioni più giovani, che sono le più fragili davanti al cambiamento culturale in corso. Si mette tra parentesi ciò che è spiacevole e provoca sofferenza, mentre si esaltano le qualità fisiche come se fossero la meta principale da raggiungere. La realtà virtuale prende il sopravvento sulla vita reale e avviene sempre più facilmente che si confondano i due mondi. I poveri diventano immagini che possono commuovere per qualche istante, ma quando si incontrano in carne e ossa per la strada allora subentrano il fastidio e l’emarginazione. La fretta, quotidiana compagna di vita, impedisce di fermarsi, di soccorrere e prendersi cura dell’altro. La parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37) non è un racconto del passato, interpella il presente di ognuno di noi. Delegare ad altri è facile; offrire del denaro perché altri facciano la carità è un gesto generoso; coinvolgersi in prima persona è la vocazione di ogni cristiano. 5. Ringraziamo il Signore perché ci sono tanti uomini e donne che vivono la dedizione ai poveri e agli esclusi e la condivisione con loro; persone di ogni età e condizione sociale che praticano l’accoglienza e si impegnano accanto a coloro che si trovano in situazioni di emarginazione e sofferenza. Non sono superuomini, ma “vicini di casa” che ogni giorno incontriamo e che nel silenzio si fanno poveri con i poveri. Non si limitano a dare qualcosa: ascoltano, dialogano, cercano di capire la situazione e le sue cause, per dare consigli adeguati e giusti riferimenti. Sono attenti al bisogno materiale e anche a quello spirituale, alla promozione integrale della persona. Il Regno di Dio si rende presente e visibile in questo servizio generoso e gratuito; è realmente come il seme caduto nel terreno buono della vita di queste persone che porta il suo frutto (cfr Lc 8,4-15). La gratitudine nei confronti di tanti volontari chiede di farsi preghiera perché la loro testimonianza possa essere feconda. Nel 60° anniversario dell’enciclica Pacem in terris, è urgente riprendere le parole del santo Papa Giovanni XXIII quando scriveva: «Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; e ha quindi il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà» (n. 6). Quanto lavoro abbiamo ancora davanti a noi perché queste parole diventino realtà, anche attraverso un serio ed efficace impegno politico e legislativo! Malgrado i limiti e talvolta le inadempienze della politica nel vedere e servire il bene comune, possa svilupparsi la solidarietà e sussidiarietà di tanti cittadini che credono nel valore dell’impegno volontario di dedizione ai poveri. Si tratta certo di stimolare e fare pressione perché le pubbliche istituzioni compiano bene il loro dovere; ma non giova rimanere passivi in attesa di ricevere tutto “dall’alto”: chi vive in condizione di povertà va anche coinvolto e accompagnato in un percorso di cambiamento e di responsabilità. A ncora una volta, purtroppo, dobbiamo constatare nuove forme di povertà che si assommano a quelle già descritte in precedenza. Penso in modo particolare alle popolazioni che vivono in luoghi di guerra, specialmente ai bambini privati di un presente sereno e di un futuro dignitoso. Nessuno potrà mai abituarsi a questa situazione; manteniamo vivo ogni tentativo perché la pace si affermi come dono del Signore Risorto e frutto dell’impegno per la giustizia e il dialogo. Non posso dimenticare le speculazioni che, in vari settori, portano a un drammatico aumento dei costi che rende moltissime famiglie ancora più indigenti. I salari si esauriscono rapidamente costringendo a privazioni che attentano alla dignità di ogni persona. Se in una famiglia si deve scegliere tra il cibo per nutrirsi e le medicine per curarsi, allora deve farsi sentire la voce di chi richiama al diritto di entrambi i beni, in nome della dignità della persona umana. Come non rilevare, inoltre, il disordine etico che segna il mondo del lavoro? Il trattamento disumano riservato a tanti lavoratori e lavoratrici; la non commisurata retribuzione per il lavoro svolto; la piaga della precarietà; le troppe vittime di incidenti, spesso a causa della mentalità che preferisce il profitto immediato a scapito della sicurezza… Tornano alla mente le parole di san Giovanni Paolo II: « Primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso. […] L’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”» (Enc. Laborem exercens, 6). Questo elenco, già di per sé drammatico, dà conto in modo solo parziale delle situazioni di povertà che fanno parte del nostro quotidiano. Non posso tralasciare, in particolare, una forma di disagio che appare ogni giorno più evidente e che tocca il mondo giovanile. Quante vite frustrate e persino suicidi di giovani, illusi da una cultura che li porta a sentirsi “inconcludenti” e “falliti”. Aiutiamoli a reagire davanti a queste istigazioni nefaste, perché ciascuno possa trovare la strada da seguire per acquisire un’identità forte e generosa. È facile, parlando dei poveri, cadere nella retorica. È una tentazione insidiosa anche quella di fermarsi alle statistiche e ai numeri. I poveri sono persone, hanno volti, storie, cuori e anime. Sono fratelli e sorelle con i loro pregi e difetti, come tutti, ed è importante entrare in una relazione personale con ognuno di loro. Il Libro di Tobia ci insegna la concretezza del nostro agire con e per i poveri. È una questione di giustizia che ci impegna tutti a cercarci e incontrarci reciprocamente, per favorire l’armonia necessaria affinché una comunità possa identificarsi come tale. Interessarsi dei poveri, quindi, non si esaurisce in frettolose elemosine; chiede di ristabilire le giuste relazioni interpersonali che sono state intaccate dalla povertà. In tal modo, “non distogliere lo sguardo dal povero” conduce a ottenere i benefici della misericordia, della carità che dà senso e valore a tutta la vita cristiana. L a nostra attenzione verso i poveri sia sempre segnata dal realismo evangelico. La condivisione deve corrispondere alle necessità concrete dell’altro, non a liberarmi del mio superfluo. Anche qui ci vuole discernimento, sotto la guida dello Spirito Santo, per riconoscere le vere esigenze dei fratelli e non le nostre aspirazioni. Ciò di cui sicuramente hanno urgente bisogno è la nostra umanità, il nostro cuore aperto all’amore. Non dimentichiamo: «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» ( Evangelii gaudium, 198). La fede ci insegna che ogni povero è figlio di Dio e che in lui o in lei è presente Cristo: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» ( Mt 25,40). Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di santa Teresa di Gesù Bambino. In una pagina della sua Storia di un’anima scrive così: «Ora capisco che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze, edificarsi nei minimi atti di virtù che vediamo praticare, ma soprattutto ho capito che la carità non deve restare chiusa in fondo al cuore: “Nessuno, ha detto Gesù, accende una fiaccola per metterla sotto il moggio ma la si mette sul candeliere, affinché illumini tutti quelli che sono nella casa”. Mi sembra che questa fiaccola rappresenti la carità che deve illuminare, rallegrare non solo coloro che sono a me più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza eccettuare nessuno» (Ms C, 12r°: Opere complete, Roma 1997, 247). In questa casa che è il mondo, tutti hanno diritto a essere illuminati dalla carità, nessuno può esserne privato. La tenacia dell’amore di santa Teresina possa ispirare i nostri cuori in questa Giornata mondiale, ci aiuti a “non distogliere lo sguardo dal povero” e a mantenerlo sempre fisso sul volto umano e divino del Signore Gesù Cristo».
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