La Versione di Banfi

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Il Manifesto dei cattolici

alessandrobanfi.substack.com

Il Manifesto dei cattolici

"Vaccini per tutti nel mondo" chiedono i politici cattolici riuniti a Madrid. in Italia Green pass esteso sul lavoro anche ai privati. L'obbligo slitta. Talebani già in guerra. Incendio anche a Torino

Alessandro Banfi
Sep 4, 2021
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Il Manifesto dei cattolici

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L’Italia metabolizza la conferenza stampa di Mario Draghi di due giorni fa su Green pass e obbligo vaccinale. Sull’estensione del certificato verde si va veloci: giovedì la cabina di regia, entro ottobre nuove norme che coinvolgeranno anche i luoghi di lavoro. Compresi quelli dei privati. Sull’obbligo i tempi sono invece molto più dilatati. Si aspettano Ema e Aifa, e soprattutto si vogliono coinvolgere altri Paesi europei, come Francia, Grecia e Spagna. Anche per evitare critiche strumentali. Salvini dice: «L'obbligo di vaccino c'è solo in Indonesia, Turkmenistan e Tagikistan. Non mi sembrano dei modelli di democrazia da seguire con entusiasmo». È lo stesso argomento del titolo di apertura del Fatto di Travaglio e dell’editoriale della Verità di Belpietro. In realtà non c’è rischio di rottura del Governo su questo punto.

Diamanti su Repubblica illustra sondaggi schiaccianti a favore del Green pass e dei vaccini, anche fra gli elettori di FI e Fdi. Gli italiani in realtà hanno già deciso, come ha notato Fauci a Cernobbio, aderendo in massa alla campagna di Figliuolo. È vero che si è perso ritmo in agosto e ancora ieri sono state fatte solo 301 mila 275 vaccinazioni. Circostanza stagionale o flessione nell’adesione? Lo capiremo presto.

Importante il Manifesto dei politici cattolici di Europa e America Latina in favore della vaccinazione universale. Fra l’altro questo principio potrebbe essere la bussola cattolica per orientarsi fra i candidati e i partiti delle prossime amministrative, almeno nel senso della selezione dei soggetti politici: non votare chi si oppone ai vaccini per tutti. Vaccini per tutti nel mondo fra l’altro chiesti ripetutamente da Papa Francesco fin dall’inizio della pandemia.

Molti anche stamattina gli articoli di approfondimento sull’Afghanistan. Nella Versione trovate un bel reportage di Repubblica, che è tornata nel Paese con un inviato, un’interessante analisi dello storico Ferguson e una fotografia dei nuovi Talebani su Oasis. Scandaloso, soprattutto per noi italiani, il rapporto Onu sulla detenzione dei bambini in Libia, pubblicato da Avvenire. L’incendio di Torino arriva dopo pochi giorni quello di Milano. Ma non è che la nuova coibentazione dei palazzi, a fini del miglioramento energetico, rischia di rendere le nostre città più infiammabili? Intervista di Repubblica Milano tutta da leggere con il dottor Spaggiari, proprietario di un alloggio nella Torre bruciata.

Vi rubo un altro minuto per parlare ancora di noi. Stamattina siamo tornati alla Versione con il solito orario intorno alle 9 di mattina e sarà così anche domani, domenica. Vi ricordo anche l’altra grande innovazione di questi giorni: la possibilità di scaricare gli articoli integrali in pdf. Trovate uno strepitoso link alla fine della lettura e se qualcosa vi interessa scaricatelo, perché il file resta disponibile solo per 24 ore. Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Le reazioni alle parole di Draghi dominano le scelte dei quotidiani, con due sottotemi: l’obbligo vaccinale e l’estensione del Green Pass. Per il Corriere della Sera: L’obbligo di vaccino agita i partiti. Mentre al Fatto non par vero di paragonare Draghi a un dittatorello: Vaccini forzati: questi Paesi ispirano Draghi. Il Giornale è realistico: L’obbligo vaccinale soltanto nel 2023. Il Quotidiano Nazionale derubrica a contravvenzioni le norme sull’obbligo: Il piano: multe a chi non si vaccina. Più seri e concreti i titoli sull’estensione del certificato verde. Il Mattino: Al lavoro con il Green pass da ottobre anche i privati. Il Messaggero: Pass obbligatorio in azienda. Il Sole 24 Ore per una volta apre anch’esso sulla pandemia: Green pass esteso ad altri 3 milioni. La Stampa mette tra virgolette il parere del commissario Gentiloni: “Vaccini e Green pass, l’Ue sta con Draghi”. Avvenire fa il verso al Manifesto, usando un gioco di parole: A pass più veloci. La Verità si lamenta e chiede: Stop ai vaccini sui bambini. Sull’argomento Afghanistan restano il Manifesto che dà grande spazio alla manifestazione delle donne a Kabul: Un coraggio del genere. E Repubblica che sottolinea il reportage del proprio inviato: A Kabul, in viaggio con l’esercito talebano. Di politica si occupano Libero: Renzi vuole i voti del centrodestra. E il Domani: Anche la Lega adesso si vergogna di Durigon e lo nasconde agli elettori.

ESTENSIONE DEL GREEN PASS, SULL’OBBLIGO C’È TEMPO

Dopo la conferenza stampa di Draghi di giovedì, Tommaso Ciriaco fa il punto per Repubblica. Il governo è già al lavoro sull'estensione del Green pass. Ci sarà una cabina di regia giovedì prossimo. Sull’obbligo di vaccinazione le cose sono più complesse e articolate. Il piano di Draghi, dopo il parere dell'Ema, è coinvolgere Francia Spagna e Grecia per un annuncio comune sull'eventuale imposizione.

«La cabina di regia sarà convocata giovedì prossimo. Il decreto arriverà subito dopo, per esplicita volontà di Mario Draghi. E dovrebbe entrare in vigore il 4 ottobre. Ecco il piano a cui lavora il governo in queste ore, senza arretrare neanche di un millimetro sull'estensione del passaporto vaccinale. Il certificato sarà richiesto ai dipendenti della pubblica amministrazione, ma anche a tutti i lavoratori impiegati in settori in cui è già necessaria la carta verde per gli utenti. Sono tantissimi: ristoratori e camerieri, chi lavora nei bar, su treni e aerei, navi e bus interregionali, musei e stadi, fiere, teatri, cinema, palestre e piscine. È solo il primo passo che ha in mente Draghi. Il presidente del Consiglio "pesa" in queste ore anche gli effetti dell'annuncio in conferenza stampa sull'eventuale obbligo vaccinale. Si è spinto forse addirittura oltre il previsto, ma comunque perseguendo un obiettivo: rafforzare l'adesione alla campagna e stroncare le resistenze leghiste sul Green Pass, che è comunque un compromesso rispetto all'imposizione dura e pura. Non a caso, Salvini ha ribadito che il Carroccio «voterà contro» l'eventuale obbligo: cederà invece, inevitabilmente, sul certificato verde, al massimo ottenendo in cambio un'altra limatura al ribasso dei prezzi dei tamponi. L'eventualità del "vaccino per legge" serve al governo anche per far capire a tutti che lo strumento resta sul tavolo e sarà utilizzato, se necessario, contro la pandemia. Già, ma a quali condizioni? Ed eventualmente da quando? Un orientamento esiste. E si può riassumere così: l'esecutivo attenderà fino alla seconda metà ottobre, verificando gli effetti del super Green Pass, poi sceglierà se spingersi fino all'obbligo. È uno scenario politicamente complesso, visto che Salvini lo osteggia e il Movimento preferirebbe limitarsi a rafforzare il certificato verde. Ma Palazzo Chigi deciderà tenendo conto di una soglia: il 90% di copertura degli over 12. La stima è che si arrivi almeno all'85% entro ottobre. Ma in termini di contenimento della pandemia potrebbe non bastare, vista la contagiosità della variante Delta. Proprio per questo, si punta a una copertura quasi totale della popolazione. Sotto l'asticella del 90% il governo si sentirebbe autorizzato a intervenire. Senza contare che l'obbligo potrebbe servire anche a "difendere" la campagna per la terza dose, inevitabilmente più complessa dell'attuale. Prima, in ogni caso, Draghi rafforzerà la carta verde. La platea minima su cui il governo è deciso a legiferare coinvolge come detto gli statali e i lavoratori dei settori in cui già vige il pass per gli utenti. L'intervento gode del consenso trasversale di Pd e Forza Italia, Movimento, Italia Viva e Leu. E pure del favore imbarazzato dei governatori leghisti. «Io il Green Pass ce l'ho», taglia corto il veneto Luca Zaia. Non si può escludere, però, che nel decreto della prossima settimana entri anche qualcosa di più. Si ragiona in particolare del trasporto pubblico locale. Gran parte dell'esecutivo sarebbe favorevole a introdurre il pass per metropolitane, bus e tram, ma il ministro dei Trasporti Enrico Giovannini per adesso frena. L'altro dossier è quello degli studenti. Anche in questo caso, esiste la strada del passaporto per chi ha tra i 12 e i 19 anni (per gli universitari è già previsto, per gli under 12 il vaccino non è ancora autorizzato). Durante un summit di governo è stato Dario Franceschini a ipotizzare questa svolta, ma l'ipotesi sembra per il momento congelata. I minorenni, infatti, hanno avuto accesso al vaccino soltanto da fine maggio, con poco tempo a disposizione rispetto al resto della popolazione. E poi, è compatibile un eventuale Green Pass - e non un'imposizione secca - con l'obbligo scolastico? Altro discorso, invece, è il certificato verde per i lavoratori del settore privato. Il pass per i dipendenti della pubblica amministrazione sarà il grimaldello utile a scardinare le ultime resistenze sindacali. L'obiettivo del governo è avviare molto presto un nuovo tavolo di confronto con le parti sociali e sancire questa ulteriore estensione. Che sia poi un decreto a imporre il pass - o un protocollo tra esecutivo, industriali e sindacati - è ancora un nodo da sciogliere. Si punta comunque a chiudere questo capitolo entro un mese, in modo da far entrare in vigore il passaporto per il settore privato a metà ottobre. Ed è proprio allora che si deciderà anche dell'obbligo vaccinale. Tenendo conto di un'ultima variabile: la tempistica dell'autorizzazione definitiva dei vaccini da parte dell'Ema - dopo quella dell'Fda americana - che superi la fase emergenziale. Il governo può procedere comunque, anche senza questa certificazione. Ma preferirebbe averla in tasca prima di muoversi. La "copertura" dell'agenzia del farmaco europeo permetterebbe a Draghi di consolidare un percorso che ha in mente: coinvolgere l'Unione - o comunque alcuni Stati membri - nell'eventuale imposizione del vaccino all'intera popolazione. Ad esempio, un annuncio congiunto di Italia, Francia, Spagna e Grecia - tra i Paesi che vantano le regole più ferree a favore della vaccinazione - darebbe maggiore forza all'iniziativa e depotenzierebbe le proteste dei No Vax. D'altra parte proprio Macron, che venerdì sera ha cenato fino a notte con Draghi, è stato il primo a imporre il Green Pass e non ha escluso proprio la strada dell'obbligatorietà. E di vaccini e strategie globali contro la pandemia si discuterà durante il G20 dei ministri della Salute che Speranza presiederà domani a Roma. Un summit anticipato da un bilaterale con l'omologo statunitense Becerra».

Ilvo Diamanti sempre su Repubblica illustra però i risultati dei sondaggi: gli italiani sono favorevoli non solo al Green pass ma anche all’obbligo vaccinale. Compresi gli elettori di Lega e Fdi.

«Mario Draghi continua a guidare la graduatoria con il 69% di fiducia personale: 8 punti in meno rispetto a luglio, ma comunque 14 in più, rispetto a Giuseppe Conte. A sua volta in calo. Come tutti leader degli gli altri partiti principali. Per primi, il ministro della Sanità Roberto Speranza, il Commissario europeo Paolo Gentiloni e la leader dei Fd'I, Giorgia Meloni. Anch' essa, diversamente dai Fd'I, in calo sensibile: - 7 punti. Perdono consensi, per quanto in lieve misura, anche Matteo Salvini, Luigi di Maio e gli altri leader considerati. Compresi Enrico Letta e Silvio Berlusconi. E quindi, a seguire, Carlo Calenda, Matteo Renzi. Insomma, è difficile individuare tendenze e prospettive chiare in un quadro politico fin troppo equilibrato. A suo modo, stabile. E quindi "instabile". A causa del Covid. E delle "cautele" imposte dal governo, per evitare nuovi contagi. Com'è avvenuto proprio un anno fa, quando il Virus ha ripreso la sua corsa. Favorito dal venir meno delle "paure" e delle, conseguenti, cautele. Così gli effetti sul piano politico si vedono, ma incidono sulla popolarità del governo in misura limitata. Perché il cammino del Virus procede, ma è frenato dalla diffusione dei vaccini, che, ormai, coinvolge il 70% degli italiani sopra i 12 anni, secondo i dati del Ministero della Salute. Il sondaggio di Demos, su un campione rappresentativo della popolazione maggiorenne, alza questo dato all'84%. Oltre il doppio, rispetto allo scorso maggio, quando era poco sotto al 40%. Parallelamente, la quota di chi non si è vaccinato e non intende farlo è pressoché dimezzata. Poco sopra il 6%. E cresce solamente fra i lavoratori autonomi e i disoccupati. Lo stesso orientamento si osserva nei confronti dell'obbligo vaccinale, ritenuto necessario per tutti dal 64% dei cittadini e da un ulteriore 17% per le categorie più esposte. In primo luogo, gli operatori sanitari. Una misura simile a quella delle persone favorevoli al cosiddetto Green Pass, riconosciuto e assegnato a coloro che si sono vaccinati. Un Pass che permette di accedere liberamente a eventi e luoghi pubblici. Il consenso verso questo documento - e provvedimento - appare generalizzato e trasversale. Totale, fra gli elettori del PD. Ma larghissimo anche presso la base degli altri partiti. Condiviso da oltre l'80%, fra chi vota per il M5S e FI. E da tre quarti dei votanti di Lega e dei Fd'I. I due partiti che, peraltro, esprimono maggior distacco e dissenso verso l'uso di questo strumento. È la stessa geografia politica che caratterizza le opinioni di chi considera il Green Pass una limitazione alla libertà personale e, dunque, alla democrazia. Questo orientamento risulta maggiormente esteso fra gli elettori dei Fd'I e della Lega. Ma appare, comunque, "largamente minoritario", anche tra di loro».

Francesco Verderami sul Corriere offre un retroscena sui sentimenti interni alla Lega e fa capire che, una volta compiuto lo strappo necessario, Draghi si muoverà con prudenza sul terreno dell’obbligo vaccinale.

«Salvini confida che sul green pass Draghi gli risparmi il prendere o lasciare, la fiducia, che lo metterebbe ancor più nell'angolo dove si è cacciato per tenere un pezzo del suo elettorato. Da tempo ormai il capo del Carroccio cerca affannosamente di difendere quel blocco eterogeneo di consenso che lo aveva portato ad essere la guida del primo partito nazionale. Ma un conto era giocarsela con Conte e i Cinque Stelle, altra cosa è fare il leader di lotta e di governo con l'ex presidente della Bce a Palazzo Chigi. Perciò ieri il capogruppo della Lega Molinari ha chiesto al ministro per i Rapporti con il Parlamento D'Incà che l'esecutivo almeno non chieda il voto di fiducia alla Camera, così da consentire a Salvini uno spazio di manovra, per presentare alcuni emendamenti di bandiera prima di votare il provvedimento. Perché è chiaro che l'ex ministro dell'Interno non romperà mai sui vaccini, «ma devo pur tenere in considerazione una parte dei nostri elettori. Sulla spiaggia questa estate ne ho sentiti tanti di dubbiosi». Nel dubbio l'errore è stato farsi rappresentare l'altro giorno da Borghi a Montecitorio, scatenando il parapiglia. Non tanto nella maggioranza ma nella Lega, se è vero che i governatori del Carroccio sono rimasti spiazzati, «perché - come dice Zaia - non ha senso stare in un gabinetto per l'emergenza sanitaria e poi assumere certe posizioni», che vellicano il mondo dei no vax. Sarebbe però un errore rappresentare la Lega spaccata in due, siccome le leghe sono almeno una decina e i suoi elettori sono oggi espressione di un arcipelago di voci e interessi difficili da tenere insieme persino da chi li aveva uniti. Il fatto è che Salvini teme di veder tramontare il disegno della Lega nazionale e di tornare là da dove era partito: dalla Lega nord. Eccolo allora inseguire i suoi sostenitori per evitare di essere superato dalla Meloni. Ma questa rincorsa lo consegna prigioniero della sua stessa foga, provocando i soliti lamenti di chi già vede tutto nero in una giornata di sole, quel Giorgetti che dopo l'intemerata della Lega alla Camera si è sfogato con i dirigenti di partito adoperando l'intera gamma di lamentazioni: dal «così andiamo a sbattere», al «che ci stiamo a fare qui», fino agli inediti «se Matteo vuole uscire dal governo il giorno delle elezioni basta dirlo», e allo psichedelico «ora faccio come Borghi e vado in Parlamento a dire quello che (bip) mi pare». Se è per questo a una riunione della Lega avevano sentito Giorgetti dire che «non voterò mai il green pass in Consiglio dei ministri», ma in queste ore non era il caso di rivangare. Andava messa una toppa al buco. Ed ecco che Molinari ha avanzato la richiesta di grazia in attesa di ricevere risposta. Al grillino D'Incà non è parso vero di tenere il leghista sulla corda, evidenziando «i rischi su certe votazioni» visto che «Fratelli d'Italia non si farà sfuggire l'occasione». Ovviamente spetterà a Draghi decidere se mettere o meno la fiducia, mentre le tante leghe della Lega ribollono. Con i seguaci di Salvini che derubricano le tensioni con Palazzo Chigi a «problemi di comunicazione». Con i dirigenti d'antan che si chiedono cosa ci facesse ieri il segretario dall'ambasciatore cinese «se domani vorrà fare il premier». Con i funzionari locali che assistono a una «nuova infornata al Sud, dove stiamo imbarcando di tutto». In Sicilia, per esempio, a un anno dalle Regionali, è stato notato l'avvicinamento di alcuni uomini «vicini a Lombardo», politico di lungo corso che ha navigato per molti mari. Il segretario si è sempre raccomandato sui nuovi, «che siano persone pulite». Ma non si sa quanto possano essere fidelizzate. Che poi è il motivo per cui al Sud la Lega ha avuto finora difficoltà ad attecchire. E il problema di identità su cui ragionano i critici del progetto salviniano non è legato alla questione territoriale ma a un nodo politico: così si snatura il partito, la sua linea. E rincorrendo le tante leghe il segretario rischia di perderle, perché l'offensiva sul green pass non è apprezzata dall'elettorato del Nord mentre il progetto di cancellare il Reddito di cittadinanza non piace all'elettorato del Sud. A ottobre le Amministrative potrebbero provocare uno sconquasso per il Carroccio e l'intero centrodestra. Non per il governo e tantomeno per Draghi, che deve decidere se evitare il ricorso alla fiducia e dare una mano a Salvini».

MANIFESTO DEI CATTOLICI PER LA VACCINAZIONE UNIVERSALE

Molto interessante la presa di posizione di politici cattolici di Europa e America Latina riuniti a Madrid. Hanno approvato un manifesto per la Vaccinazione universale. La cronaca di Avvenire.

«Mentre in Italia s'infiamma la polemica sull'obbligo vaccinale, c'è chi ricorda che il problema più grave è che la vaccinazione avanza solo nei Paesi sviluppati ed è del tutto insufficiente in quelli più poveri. Gli esperti stimano che sarà necessario vaccinare da 3,2 a 4,1 milioni di persone per l'immunità di popolazione a livello globale. E il divario si è aggravato dopo che il 15% dei Paesi ricchi ha acquistato il 60% della produzione di vaccini. «Una vaccinazione universale solidale in tutto il mondo», è la dichiarazione del Manifesto presentato ieri al secondo Incontro internazionale di politici cattolici di America Latina ed Europa in corso fino a domani a Madrid. È il principale dei temi oggetto del dialogo trasversale tra oltre settanta rappresentanti di una ventina di Paesi, evento in cui si vuole riflettere sulla cultura dell'incontro nella vita politica al servizio dei popoli. Appuntamento che vedrà la presenza e l'intervento, oggi, del segretario di Stato Vaticano, Pietro Parolin. In quanto soluzione efficace alla pandemia, il vaccino è un «bene globale », un «imperativo morale» e un «diritto umano integrante di quello fondamentale alla salute», evidenzia il documento, articolato in 12 punti. Ed è anche «un dovere di giustizia», giustificato da tutti i criteri, sanitari, economici, finanziari, sociali e politici. «Noi abbiamo una doppia responsabilità sociale: non mandiamo i vaccini dove vorrebbero vaccinarsi e ci rifiutiamo noi stessi di vaccinarci mettendo a rischio la salute collettiva», spiega ad Avvenire Paola Binetti, vicepresidente della commissione Diritti umani del Senato, fra i redattori italiani del Manifesto assieme all'ex presidente della Camera Rocco Buttiglione. La risposta è dare maggiori risorse al programma Covax, che si è dimostrato insufficiente, perché con i fondi attuali e se i produttori rispetteranno le consegne - al netto dei ritardi già marcati - con i 2 miliardi di dosi previste saranno vaccinati solo 500 milioni di abitanti dei Paesi poveri e il 20% di quelli dei Paesi a basso e medio reddito. E poiché sospendere la brevettabilità dei vaccini per consentire la produzione nei Paesi in via di sviluppo non sembra essere la soluzione, dal momento che i modelli di sieri mRna necessitano di altissime tecnologie, urge aumentare la produzione, che i leader cattolici reclamano «coordinata, adeguata e sostenibile in tutto il mondo». Per Paesi come l'Italia o la Spagna, che hanno già vaccinato il 70% della popolazione e puntano a immunizzare il 90%, si tratta di essere generosi con i fondi Covax e di rendere disponibili modelli organizzativi di distribuzione, personale per le campagne di vaccinazione che si sono dimostrate agili ed efficaci. Dal cardinale Carlos Osorio, arcivescovo di Madrid, è venuto l'appello ai cattolici, lanciato in apertura degli incontri - organizzati in collaborazione con l'Accademia dei leader cattolici di America Latina e il supporto della Fondazione Adenauer - a «tendere ponti di dialogo» e coinvolgersi nell'azione politica, perché «nessuno può lavarsene le mani».  

FAUCI ESCLUDE EFFETTI COLLATERALI A LUNGO TERMINE

È un virologo che gode di grande fiducia nel mondo: l’americano Anthony Fauci ha partecipato ai lavori del Forum Ambrosetti di Cernobbio. E ha lodato l’Europa e l’Italia, più efficaci degli Usa nella campagna vaccinale. La cronaca del Corriere.

«Pur partiti dopo e più lentamente degli Stati Uniti, i principali Paesi europei si sono dimostrati più efficienti nel vaccinare gran parte della popolazione contro Covid-19. Lo dicono i dati, perché le somministrazioni hanno raggiunto il 78% degli abitanti eleggibili in Spagna, il 72% in Francia, il 71% in Italia, il 64% in Germania, ma solo il 61% negli Stati Uniti. Da ieri però lo dice anche Anthony Fauci, capo dei consiglieri medici della Casa Bianca e direttore dell'Istituto nazionale per le malattie infettive negli Stati Uniti. Come spesso gli accade, Fauci non si è nascosto dietro formule diplomatiche intervenendo ieri al Forum Ambrosetti di Cernobbio. «Nei Paesi europei il sistema di fornitura dei servizi sanitari è molto più accettabile, più uniforme e giusto per tutti - ha detto Fauci per spiegare la copertura più ampia in Italia o in Francia -. In quei sistemi è molto più facile avere una distribuzione più equa dell'intervento. Speriamo che anche gli Stati Uniti possano evolvere in quella direzione». Fauci ha poi avuto dalla platea di Villa d'Este una domanda sull'ultimo zoccolo di popolazione che esita a vaccinarsi, perché teme che magari fra qualche anno i prodotti di Pfizer, di Moderna, Johnson&Johnson o AstraZeneca abbiano effetti collaterali pericolosi e ancora non testati. Anche su questo punto l'immunologo italo-americano ha evitato i giri di parole. «Se guardiamo all'esperienza clinica che abbiamo su molti decenni con molti vaccini, questi timori non sono nuovi - ha riconosciuto -. Ma l'esperienza clinica ci dice qualcosa di chiaro». Ci sono le reazioni immediate che durano al massimo un giorno o due quando il braccio duole, si registrano un fenomeno allergico, brividi, febbre o dolori muscolari. «Ma tante persone si chiedono cosa può succedere con eventi negativi che arrivano dopo - ha riconosciuto ieri Fauci al Forum Ambrosetti -. Se guardi alla storia dei vaccini, virtualmente tutti gli effetti successivi alle prime 48 ore arrivano nei primi trenta o al massimo 45 giorni». Dunque mai dopo due o tre anni, per esempio. Ha spiegato Fauci: «È per questo che, prima che i vaccini siano approvati negli Stati Uniti o nell'Unione Europea, persino per l'autorizzazione all'uso di emergenza, si devono aspettare sessanta giorni dopo l'ultima persona nel campione selezionato per i test clinici ha avuto l'ultima dose». Secondo Fauci, dunque, «la possibilità di avere un evento avverso nel lungo periodo sono quasi zero. E dico "quasi zero" solo perché niente ha probabilità pari allo zero assoluto in biologia. Ma mi sento di schierarmi con molta forza contro l'idea che possa esserci un evento avverso due o tre anni dopo la somministrazione». Lo scienziato prevede oggi che i Paesi avanzati possono superare la fase epidemica di Covid-19 solo quando una «proporzione schiacciante» della popolazione sarà vaccinata. Dunque convincere gli esitanti - se non i no vax ideologicamente schierati - diventa ogni giorno di più una chiave per la salute pubblica. Di tutti». 

TALK SHOW, IL TEATRINO DEI NO VAX

In questi giorni riaprono i battenti i talk show giornalistici in prima serata, che erano stati sospesi d’estate (Il ritiro storico dall’Afghanistan non ha meritato edizioni speciali) . Sul Foglio Salvatore Merlo intervista Fedele Confalonieri sull’evidente sbilanciamento televisivo in favore dei no Green Pass, no Vax eccetera.

«L'inflessione è ironico- brianzola, e la avvolge una pragmatica saggezza. Questa: "Il talk- show deve fare casino, sennò chi lo guarda? La politica ormai è quella roba lì". Cazzotti di scena si chiamano. "Draghi spazza tutto via. Mentre lui lavora, gli altri chiacchierano. Non fanno un cavolo. Né nel bene né nel male". E a questo punto Fedele Confalonieri torna ironico di fronte al giornalista che gli ha chiesto perché su Rete 4 ( ma non solo) i No vax esprimono le loro tesi bislacche come fossero alla pari con quelle degli scienziati. "Vorrei vedere lei a condurre un talk- show per tre ore...". Poi il presidente di Mediaset torna serio: "Ma le posizioni non sono trattate alla pari, è evidente. E i nostri conduttori, che sono in gamba, lo sanno benissimo. Come lo sa la gente che guarda la televisione. Gli spettatori sanno distinguere. Gli italiani si sono vaccinati, ho letto che entro la fine di settembre saranno l'ottanta per cento della popolazione. Il vaccino ha vinto: ottanta a zero. I No vax sono quattro gatti messi male insieme che non riescono nemmeno a riunirsi alla stazione di Milano". E allora perché farli parlare ogni sera, a tu per tu con chi sostiene il vaccino, come se ci fossero dubbi? "Ma noi non possiamo mica fare come i talebani, noi dobbiamo far parlare tutti. Anche gli sfessati. Uno spettatore sa cos'è giusto e cos' è sbagliato. Un anno fa il vaccino era un interrogativo, era nuovo e non sapevi come fare. Ora non è più così. Abbiamo ripreso a lavorare grazie al vaccino. Oggi sono andato al ristorante con il green pass, sennò non mi davano da mangiare". Insomma in televisione anche i no vax servono, e un po' ci sono delle esigenze di sceneggiatura. Informazione e intrattenimento talvolta danzano avvinghiati: quattro stecchi, una trombetta e un No vax. "Ma nessuno li prende sul serio", ripete Confalonieri. Chissà. La settimana prossima ricomincia la trasmissione di Mario Giordano. Manca poco. E un po' ci si chiede se per essere fuori dal coro bisogna davvero urlare come degli invasati contro la dittatura sanitaria. "Giordano ogni tanto deve giocare a fare il cazzone, ma è bravissimo. Per fare audience un conduttore di talk deve tirare lungo. Mica facile. Voi della carta questo non lo capite, voi fate il contrario: dovete concentrare. E poi avete un pregiudizio sui giornalisti televisivi. Detto questo, quando io ero bambino in ogni classe c'era un poliomielitico. Poi arrivò il vaccino, e non ce n'erano più. Esisteva anche la difterite, e qualcuno moriva. C'era pure la tisi... Bisogna vaccinarsi. Punto. La ragionevolezza vince. Il resto sono chiacchiere ed effetto di scena". In pratica un talk-show».

AFGHANISTAN, LA GUERRA DEL PANSHIR

Non è ancora formato il nuovo governo dei Talebani. Ma intanto l’attenzione è concentrata sulla battaglia del Panshir, la valle controllata dai ribelli. Andrea Nicastro per il Corriere della Sera.

«I media del Pakistan hanno diffuso notizie sulla conquista della valle del Panshir. E' una menzogna. Se mai dovesse capitare, quello sarebbe anche l'ultimo giorno della mia vita. Inshallah», a Dio piacendo. Il giovane Massoud è in trappola, circondato nella valle che fu di suo padre, il Leone, e che ora è lui a cercare di difendere. Combattono talebani e panshir: artiglieria pesante, incursioni di commando, campi minati, contrattacchi. Migliaia di soldati, centinaia di morti. Arretra Massoud, ma non cede. Niente a che vedere con lo scioglimento d'agosto dell'esercito nazionale afghano addestrato per venti anni dalla Coalizione internazionale. La notizia della capitolazione della valle dava anche Ahmad Massoud in fuga. Sui social c'era chi lo sapeva decapitato, chi su un elicottero verso il Tagikistan come ha fatto a Ferragosto l'allora presidente Ashraf Ghani. Invece Massoud è vivo e nonostante il black out telefonico comunica via Twitter la sua verità. «Questa disinformazione mostra la disperazione talebana davanti alla fiera resistenza del Panshir. E' solo l'inizio. Non possono imporsi su 35 milioni di persone usando violenza ed estremismo». Nessun Paese sembra disposto ad aiutarlo ad opporsi ad un regime, quello dei talebani, che fino a ieri era considerato la personificazione del male, da sradicare a costo della vita dei nostri soldati e di miliardi di dollari. Ora no, per Massoud neppure una pallottola. La scheggia di resistenza tra le montagne svela la falsità di una delle prime promesse talebane: quando le truppe straniere avranno lasciato l'Afghanistan, ogni disputa interna sarà risolta pacificamente, avevano detto decine di volte. La valle che combatte rovina anche il quadro disegnato delle diplomazie: finito l'impegno occidentale, rientrati i talebani, bisogna solo trovare il modo di contenerli e il ricatto sugli aiuti economici potrebbe bastare. Invece no, c'è Massoud a scuotere le coscienze, proprio come faceva suo padre. Il giovane cresciuto in Iran e laureato in scienza della guerra a Londra parla di resistenza contro il fanatismo, di infiltrazioni di Al Qaeda, tocca i tasti che dovrebbero essere sensibili anche in Occidente. Ma poi, aggiunge, piuttosto di arrendersi morirò armi in pugno. Nel silenzio del mondo. Davanti alla paura fisica, le cortesie politiche saltano e le accuse diventano esplicite. Massoud scrive della «mano pachistana dietro ai talebani» e un suo lealista replica via Twitter: «Il 4 settembre del 1994, tuo padre respinse un'offensiva talebana contro il Panshir e disse: l'America deve capire il proprio errore nel sostenere» questi barbari. Passati 27 anni, la cronaca si ripete. Il figlio del «Leone» può mettere un like, ma deve lottare per sopravvivere. Per fortuna, sa che Panshir significa, letteralmente, cinque leoni. Dopo di lui, altri tre».  

Interessante reportage di Pietro Del Re per Repubblica, che è riuscito ad entrare nel Paese. La versione integrale la trovate nei pdf linkati alla fine della Versione.

«Barba corvina e occhi ferini, il talebano doganiere ci guarda incredulo. Indossa una camicia lunga fino al ginocchio, sulla quale porta un elegante gilet di lana rosso bordò. Col pollice continua a indicare la direzione opposta a quella dalla quale arriviamo chiedendo: «Kabul?». Sono le 7.30 del mattino, e qui c'è solo gente che fugge dall'Afghanistan. Nessuno vuole entrarvi, salvo noi. Il doganiere alza un sopracciglio, sorride e poi emette un suono che somiglia a Good luck, buona fortuna. Il nostro lento avvicinamento alla capitale afghana comincia in questo posto di confine, al di là del ponte dell'Amicizia che attraversa il fiume Amu Darya. Provenendo dall'Uzbekistan, che pure non è la Svizzera, l'Afghanistan più remoto e rurale è un cazzotto nello stomaco: ricorda l'Africa più malandata e depressa. Come questo villaggio di frontiera, desolante, che alcuni definirebbero medievale quand'è soltanto molto povero. A differenza dell'altra sponda, dove tutto è ordinatamente coltivato, a pochi chilometri dal fiume si apre una landa desertica con dune che a tratti invadono la carreggiata, senza che nessuno si dia la briga di rimuovere la sabbia. Ma presto la Toyota Corolla classe 1994 sulla quale viaggiamo comincia a inerpicarsi verso le prime montagne appuntite delle tante catene e massicci che incroceremo lungo il tragitto, con cime di varie forme e altezze, alcune ocra, altre viola, altre ancora giallo pastello. Ed ecco i villaggi di fango rappreso che spesso si confondono con le pareti su cui sembrano appesi. A difendere i più importanti, con parte dei mille miliardi spesi da Washington dal 2001, i presidenti pro-americani Hamid Karzai e Ashraf Ghani avevano fatto costruire roccaforti e guarnigioni militari. Ma sulle loro garitte e sui loro muri merlati vediamo sventolare soltanto il vessillo bianco dei talebani, spesso inastato su una canna di bambù o su un ramo storto. Negli ultimi vent' anni la strada tra Mazar-i Sharif e Kabul si poteva percorrere solo scortati militarmente per via degli agguati talebani. Oggi, sono tornate le bancarelle che vendono meloni grossi come cocomeri, pesche e fichi dolcissimi. (…) Un talebano più anziano, col viso da mastino, mi prende per mano e mi trascina verso il cortile di un grande edificio. Cerco di liberarmi, ma ha mani d'acciaio. All'interno, in posa marziale, ci saranno un centinaio di talebani. Alcuni, con una sorta di casacca bianca, ricordano i cacciatori alpini. «È il nuovo esercito dell'Emirato islamico dell'Afghanistan », sentenzia l'anziano. «Siamo qui per festeggiare la conquista del nostro Paese». Anche loro sorridono e corrono a stringerci la mano. Ma si sono davvero rabboniti i talebani? Gli stessi che ammazzavano frustando le persone con le catene di bicicletta e che lapidavano le donne? È più verosimile che stiano provando l'estasi della vittoria. Bisogna aspettare i postumi di questa sbornia di conquista. Anche perché nelle centinaia di chilometri percorsi dal confine uzbeko abbiamo incrociato solo poche donne: tutte emarginate, mendicanti sul ciglio della strada, sepolte sotto il burqa. Dopo undici ore, siamo quasi a Kabul. Il traffico, le cuspidi dei minareti e le prime baracche della periferia della capitale ci appaiono come un miraggio».

NON ESISTONO I TALEBANI MODERATI

Martino Diez su Oasis spiega che i Talebani dovranno scegliere per l’Afghanistan tra emirato e califfato.

«La domanda da farsi allora non è se i talebani saranno moderati o no (non saranno moderati), ma se si concepiranno come un emirato territoriale afghano o se saranno scavalcati dai jihadisti alla ISIS che premono per un califfato universale. Da un lato, la sconfitta del 2001 e la ventennale traversata nel deserto ha insegnato ai talebani quanto rischioso sia attirarsi l’ostilità globale. Dall’altro però il titolo stesso del loro leader, comandante dei credenti, è quello di un potenziale califfo e le prevedibili difficoltà che incontreranno quando dai proclami media-friendly si tratterà di passare alle decisioni sul terreno in fatto di amministrazione, economia, gestione della complessità etnica e religiosa (gli Hazara sciiti), potrebbero rendere necessaria una virata ‘massimalista’. In realtà, non è possibile rispondere a questa domanda senza considerare il contesto internazionale. La Cina in testa. Tolta la prevedibile soddisfazione per l’imbarazzante scacco americano, resta vero che la prospettiva di un Afghanistan jihadista o filo-jihadista rappresenta un serio problema per Pechino, alle prese con la durissima repressione della propria minoranza musulmana nella confinante regione dello Xinjiang, condotta a suon di deportazioni e campi di concentramento. I talebani, fino a poco tempo fa, rappresentavano l’incarnazione dei cosiddetti Tre Mali che la politica cinese combatte: terrorismo, separatismo, estremismo religioso. Finché restano in una logica nazionale, è pensabile un patto in cui i talebani, in cambio di una completa mano libera sul piano culturale e religioso, si impegnino a non fomentare l’instabilità regionale. Ma sicuramente non è questa l’agenda dei gruppi jihadisti, che anche nel vicino Pakistan hanno messo a segno negli ultimi mesi alcuni attentati contro obiettivi cinesi, nonostante gli enormi interessi economici che legano (o meglio vincolano) Islamabad a Pechino. In questo senso la scelta americana di disimpegno potrebbe anche rivelarsi una scommessa politica almeno parzialmente vincente. Resta però un enorme fallimento umanitario, ben prima che mediatico. Oltre alla hybris imperiale che ha ispirato il progetto di esportare la democrazia con le armi, ne escono distrutti anche i modi abituali di operare della cooperazione internazionale. Sull’Afghanistan, infatti, in questi due decenni sono state riversate enormi risorse. Prevalentemente per finalità militare, ma anche per costruire scuole ed ospedali e per promuovere i diritti delle donne e delle minoranze. Sembra che questa enorme macchina, sempre tentata dall’autoreferenzialità, non sia riuscita a incidere veramente. È vero però che i cambiamenti sociali hanno un ritmo proprio e potrebbero riservarci qualche sorpresa: un indicatore da guardare, molto più del numero di telefonini o dell’accesso a Internet, è sicuramente quello del tasso di matrimoni endogamici, elemento essenziale per il funzionamento di una società tribale. In ogni caso, l’Occidente dovrà riflettere molto su questo fallimento culturale. Ei musulmani non potranno non tornare a confrontarsi con la domanda sul loro posto nel mondo, che ISIS aveva sollevato con inaudita urgenza, spingendo le istituzioni, anche religiose, a inedite prese di posizione, e che ora il ritorno dei talebani ripropone con forza».

“IL RITIRO DA KABUL È MANNA PER LA CINA”

Il mondo visto dallo storico inglese Niall Ferguson è il mondo della “seconda guerra fredda”. La prima fu tra Usa e Urss, quella attuale sarebbe tra Usa e Cina. Ne ha parlato sempre al Forum di Cernobbio. Ecco l’intervista sul Corriere di Federico Fubini.     

«Lei parla di seconda guerra fredda mondiale. Cosa intende dire? «Ci sono state la Prima e la Seconda guerra mondiale. Perché non dovrebbero esserci la prima e la seconda guerra fredda mondiale? - si chiede al margine del Forum Ambrosetti di Cernobbio il grande storico di Stanford Niall Ferguson -. Saremmo miopi se fingessimo che non è così. Dura già da qualche tempo e ha origine nella transizione di Xi Jinping - netta, consapevole - verso un modello marxista-leninista più autoritario all'interno e sul piano internazionale verso un'aperta competizione con gli Stati Uniti per il dominio almeno nell'area del Pacifico. Sul piano interno c'è il pensiero di Xi Jinping, la sorveglianza digitale, la centralizzazione del potere in pochissime mani, il ritorno al totalitarismo. Nel mondo ci sono la Via della Seta e tutto l'armamentario dell'espansione cinese». Basta questo per definirla una guerra seconda fredda? «La prima aveva dimensione ideologiche, geopolitiche, economiche e la corsa al riarmo. E di nuovo abbiamo tutto questo. La competizione ideologica è diventata evidente da quando Xi ha dichiarato che le idee occidentali sono deteriori. Poi c'è una competizione economica e tecnologica: non più per le armi nucleari, ma per l'intelligenza artificiale. C'è una corsa al riarmo, con i cinesi che costruiscono missili terra-aria in grado di affondare una portaerei. E se guardi alla mappa geopolitica, il mondo è già diviso in due blocchi: i Paesi che usano Huawei e gli altri». Ne parla con i suoi colleghi cinesi? «Quando dico loro in privato che questa è una guerra fredda, quelli mi guardano e dicono: è ovvio». Gli Stati Uniti e la Cina non sono troppo interdipendenti sul piano economico? «Possono separare i loro interessi economici molto rapidamente. Nel 1914 Germania e Gran Bretagna lo fecero in poco tempo. E la Cina con le sue interazioni economiche può fare spionaggio su scala molto più vasta di quanto i sovietici siano mai riusciti a fare. Sapevamo esattamente cosa faceva ogni cittadino sovietico negli Stati Uniti. Ma i cinesi sono milioni: studenti, persone con visti di lavoro». Le università americane dovrebbero fermare il loro grande afflusso? «No. Credo che non ci sia alcun problema nel far venire studenti cinesi a studiare negli Stati Uniti. È qualcosa di molto positivo e se qualcuno li fermerà, quella persona sarà Xi Jinping. Ma è meno scontato che dei cinesi possano lavorare nei laboratori dell'intelligenza artificiale di Google o a Apple o siano ammessi ai lavoratori di ricerca più avanzati di Stanford. Sarebbe come avere cittadini sovietici in ruoli simili negli anni 50». Non sta esagerando con la demonizzazione? «C'è un aspetto storico: nelle prime fasi della prima guerra fredda, molti americani e europei preferivano rimuovere quella realtà. E alcuni continuano a farlo, al punto da dare la colpa della rivalità fra superpotenze agli Stati Uniti. Non è inusuale all'inizio di una guerra fredda che gli intellettuali o altri osservatori neghino a se stessi l'evidenza. A me sembra un ulteriore indizio. Anche dopo la guerra c'era chi voleva tenere buoni rapporti con Stalin e faticava a capire chi era a cosa stava facendo. Adesso siamo con la Cina in una fase come il 1946 o 1947 fu con la Russia». Che intende dire? «Non abbiamo pienamente assimilato il fatto che ci sarà una escalation, perché Xi Jinping ha bisogno di essere combattivo - come Stalin - per ragioni domestiche. Il sistema lo richiede, perché la base della legittimità di Xi non potrà essere per sempre la crescita economica. L'economia rallenterà e ha già prodotto una diseguaglianza sudamericana. Se c'è una plutocrazia al mondo, quella è la Cina. L'espansione internazionale serve per far leva sul sentimento nazionalista». Dunque l'Afghanistan è una battaglia persa da parte dell'Occidente e vinta per la Cina? «Credo che dal punto di vista cinese sia una manna, perché l'amministrazione Biden non era costretta a sbagliare tutto in questo modo. Puoi smontare una missione coloniale in modo competente, e i britannici erano abbastanza bravi in questo. O puoi farlo come Joe Biden in Afghanistan. Fa sembrare buona anche la fuga da Saigon del 1975».

L’EUROPA E UN PIANO PER L’AFGHANISTAN

E l’Europa? Come si muoverà? L’alto rappresentante Ue Josep Borrell ha fissato alcuni criteri per il riconoscimento del nuovo governo. Anais Ginori da Parigi per Repubblica

«Dialogo con il nuovo governo di Kabul senza però riconoscerlo ufficialmente. È il punto di equilibrio che l'Ue ha trovato nell'evolversi della crisi afghana, come espresso dall'Alto rappresentate Josep Borrell: «Dovremo impegnarci con i talebani, ma non significa riconoscimento». L'approccio pragmatico, scaturito dall'ultima riunione dei ministri europei degli Esteri, è ancora sottoposto a cinque condizioni presentate al nuovo regime anche per un eventuale riconoscimento: non diventare una base per il terrorismo, rispettare i diritti delle donne, formare di un governo inclusivo, dare libero accesso agli aiuti umanitari, lasciare partire stranieri e afghani a rischio. In un quadro ancora incerto, a cominciare dai membri che andranno a formare il futuro governo di Kabul, l'Ue punta a un «impegno operativo». «Per sostenere l'evacuazione delle persone a rischio e valutare l'attuazione delle condizioni poste dalla Ue - ha spiegato l'Alto rappresentante - abbiamo deciso di lavorare in modo coordinato, con una presenza europea congiunta a Kabul». Dietro le quinte, l'Ue teme che un'assenza diplomatica europea lascerebbe il campo a potenze come Russia, Cina, Iran, Pakistan e Qatar, che hanno tenuto aperte le loro ambasciate. L'ufficio consolare dell'Ue, sotto la guida del Servizio europeo per l'azione esterna (Seae), lavorerà all'idea dei corridoi umanitari, verso paesi limitrofi ma anche europei. È una delle tante questioni discusse da Emmanuel Macron e Mario Draghi nel loro incontro di giovedì sera a Marsiglia. Una cena di lavoro che si è protratta per oltre quattro ore. Sorseggiando a fine pasto bicchierini di cognac, i due leader hanno mostrato piena sintonia su dossier come Afghanistan e Libia. Dopo la mezzanotte Macron ha anche fatto gli auguri di compleanno al premier italiano. Draghi sa di poter contare sulla sponda francese nell'idea di organizzare un G20 straordinario. Macron punta sull'Italia come partner privilegiato per sostenere le riforme previste con la presidenza francese dell'Ue. Entro dicembre, hanno convenuto i due leader, si dovrebbe firmare il Trattato del Quirinale che strutturerà la relazione bilaterale. Draghi e Macron hanno insistito sulla responsabilità morale nei confronti degli afghani in pericolo. L'Europa è spaccata e quindi non si potrà avanzare a 27. Borrell ha precisato: «I governi decideranno su base volontaria se dare accoglienza ». Ha anche parlato della necessità di continuare a lavorare con i paesi vicini dell'Afghanistan attraverso «una piattaforma politica regionale per la cooperazione». Il piano Ue sull'Afghanistan dipende ora dalla risposta alle 5 condizioni. «Per noi, non sono negoziabili », ha commentato il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas. «Nessuno si illude che tutte saranno realizzate al 100% nei prossimi giorni», ha aggiunto riferendosi a un «compito a lungo termine». «Non vogliamo giudicare i talebani e il governo sulle loro parole ma sui fatti», ha continuato il tedesco, spiegando che il disgelo degli aiuti allo sviluppo dipenderà dal «comportamento» dei talebani».

Silvio Berlusconi sul Corriere rilancia, con un intervento, il ruolo dell’Europa e un possibile Piano di aiuti per Kabul.

«Io credo che anche noi come europei proprio alla luce di questi fatti dovremmo fare una nostra riflessione approfondita, proprio nello spirito del recente appello del capo dello Stato, che condivido in toto - sia sul futuro della nostra politica verso l'Afghanistan e l'intero Medio Oriente - sia sulla capacità dell'Europa di essere protagonista della politica mondiale. Ho già detto spesso come la penso sulle comuni radici storiche e religiose dei nostri popoli e di come il lento ma inesorabile processo verso l'integrazione abbia certamente assicurato a questo nostro continente decenni di stabilità. Tuttavia questa stabilità non basta. È come se - dopo aver fatto un grande sforzo per raggiungere pur importantissimi traguardi sotto il profilo politico, economico, finanziario e sociale - l'Europa si fosse «accontentata» dei risultati raggiunti. Ma non può e non deve essere così. La crisi afghana è solo l'ultima, in ordine di tempo, fra le situazioni internazionali che ci richiamano alle nostre responsabilità. Quante volte, negli anni, di fronte a un problema mondiale abbiamo detto (Kissinger fu tra i primi) che l'Europa deve parlare con una sola voce («non so quale numero di telefono comporre se devo parlare con l'Europa», mi disse una volta il mio amico George Bush, citando proprio una battuta dell'ex segretario di Stato). Quante volte abbiamo detto e pensato che potevamo e dovevamo fare di più ma ci siamo ritrovati in una condizione di sostanziale, rassegnata impotenza. Questo è accaduto per diverse ragioni, ma la prima e più importante è che abbiamo appaltato forse con un po' di superficialità e - diciamolo pure, di convenienza - la nostra totale difesa al grande alleato americano, che con il suo ampio ombrello ci ha protetto, difeso e tranquillizzato. Non immagino naturalmente che gli Stati Uniti abbandoneranno l'Europa al suo destino nel futuro prevedibile: forse però agiranno in modo diverso, meno garantito e magari un po' più distaccato. In una parola: le priorità geopolitiche mondiali si evolvono. Gli Stati Uniti sono costretti a riorientare la loro politica estera, oggi più diretta a fronteggiare il pericolo egemonico ed espansionista cinese. (…) Mentre sulla lotta alla pandemia, l'Europa (anche per il nostro intervento) ha saputo essere all'altezza della situazione, prendendo determinanti decisioni comuni, non abbiamo saputo fare altrettanto per esempio sul tema egualmente importante della lotta all'immigrazione clandestina. Su questo tema continuiamo ad invocare, non senza difficoltà e con pochi risultati, il sacrosanto principio della solidarietà, della condivisione e della redistribuzione tra i Paesi dell'Unione. Sono almeno vent'anni che insisto in tutti i consessi internazionali che ho frequentato sul concetto di difesa comune europea. Se ancora oggi si parla dello stesso tema e finalmente si sono levate molte altre voci chiedendone l'introduzione effettiva, è perché i fatti si sono incaricati di dimostrare dolorosamente la gravità di questa lacuna. La parola d'ordine è sembrata molto spesso questa: andiamo avanti insieme, ma sempre in ordine sparso. Suona come un paradosso, ma è quello che è accaduto. Ben venga, pertanto, e fa benissimo l'Italia ad insistere su questo, una riunione straordinaria del G20 sull'Afghanistan, dove la simultanea presenza di attori fondamentali della Comunità Internazionale con voce in capitolo sul martoriato Paese potrà davvero rivelarsi utile. Lo sarebbe forse meno il G7, per la ristrettezza del formato, ma anche perché l'assenza della Russia - che assurdamente si protrae - ne inficia e ne limita le pur evidenti potenzialità. Tuttavia, fermarsi a riconoscere le difficoltà dell'Europa non basta davvero: dobbiamo lavorare per non perdere la possibilità che l'Europa torni ad essere quel faro di civiltà e sicurezza nel quale abbiamo sempre creduto. L'Europa delle società aperte, degli uomini liberi, dell'uguaglianza fra le persone, delle opportunità per tutti. Un'Europa capace di proiettare i propri principi fondanti e anche i comuni interessi da difendere nel futuro globale del mondo. Lanciamo pertanto tutti insieme, noi, Paesi membri dell'Unione, un grande piano europeo per l'Afghanistan. Un grande piano che abbracci iniziative a tutto campo, in tutti i settori essenziali: politico-diplomatico; assistenza umanitaria; difesa e sicurezza; cooperazione economica e sociale. Offriamo speranza ed asilo a chi lo sta cercando affannosamente in questi tragici momenti; lavoriamo per garantire dei corridoi umanitari; condividiamo realmente una solidarietà europea, naturalmente mantenendo sempre alto il livello di allerta contro il rischio terrorismo; facciamo sentire il peso dell'Europa, convocando un Consiglio europeo straordinario; agiamo in tutti i fori internazionali (Onu in testa) con posizioni comuni; soprattutto iniziamo a mettere in cantiere una reale ed effettiva politica di difesa comune dei confini esterni dell'Unione. Adottiamo posizioni comuni nei consessi economici multilaterali per dare sostegno alla popolazione afghana. Anni fa avanzai l'idea di un grande piano Marshall per la Palestina: analogamente agiamo, noi europei, per coordinare i nostri sforzi per varare iniziative comuni in campo economico, finanziario e della cooperazione allo sviluppo a favore di chi sta forse sfuggendo ad una morte quasi sicura. Facciamo in modo che il nobile sacrificio di così tante vite umane (ricordiamoci sempre con profondo rispetto dei nostri caduti in Afghanistan nell'adempimento del loro dovere) non sia reso vano: prendiamo spunto dal loro sacrificio, come anche dall'encomiabile lavoro dei nostri civili e militari che hanno salvato anche in questi giorni molte vite umane. Lavoriamo perché l'Europa non sia marginale ma protagonista nel mondo, quale portatrice dei più alti valori della persona, del rispetto delle libertà e dei diritti umani. Partiamo da questa immane tragedia, per varare un grande Programma europeo di aiuto e sostegno. Cosi l'Europa sarà all'altezza del suo compito e così avremo dimostrato la nostra forza e il peso delle nostre idee».

RAPPORTO ONU SULLA LIBIA: MINORENNI DETENUTI

Non solo Afghanistan. Nello Scavo per Avvenire racconta che nel nuovo rapporto Onu sui campi di detenzione in Libia sono elencati orrori e abusi anche sui bambini.

«Il nuovo rapporto Onu sulla Libia è un continuo atto d'accusa. Con il segretario generale Antonio Guterres che denuncia «le continue restrizioni all'accesso umanitario e al monitoraggio da parte delle agenzie umanitarie nella Libia occidentale». Nessuna pietà neanche per i bambini. «Il Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia ha riferito che i bambini - scrive Guterres nel suo ultimo dossier (Unsmil) - hanno continuato a essere detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione a Tripoli e dintorni, senza accesso alla protezione di base e ai servizi sanitari e senza ricorso all'assistenza legale o al giusto processo, e spesso sono stati detenuti con gli adulti». Quasi non c'è più alcuna distinzione tra uomini in uniforme e trafficanti. «Le donne migranti e rifugiate hanno continuato ad affrontare un rischio elevato di stupro, molestie sessuali e traffico da parte di gruppi armati, contrabbandieri e trafficanti transnazionali, nonché funzionari della Direzione per la lot- ta all'immigrazione illegale sotto il ministero dell'Interno». I continui divieti alle agenzie Onu, a cui è impedito di ispezionare i campi di prigionia, sono motivati dalla volontà di nascondere i fatti. «A giugno, l'Unsmil ha documentato ripetuti episodi di violenza sessuale perpetrati - si legge ancora - contro cinque ragazze somale di età compresa tra i 16 e i 18 anni». Abusi avvenuti in strutture ufficiali da parte di agenti e militari libici. Alla data del 14 agosto, la guardia costiera libica aveva intercettato e riportato nel Paese 22.045 migranti e rifugiati, con 380 morti confermati e 629 persone considerate disperse. «Ma l'aumento del numero di migranti e rifugiati rimpatriati ha portato a un maggior numero di persone detenute arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali della Direzione per la lotta all'immigrazione clandestina, senza un controllo giudiziario e sottoposte a trattamenti e condizioni disumane», insiste Guterres. Ad attenderli non c'è alcun tentativo di impedire i crimini, ma «tortura, violenza estrema, abusi sessuali e accesso limitato a cibo, acqua, servizi igienici e cure mediche, in alcuni casi con conseguente morte o lesioni». All'inizio di agosto i prigionieri erano 5.826 migranti, contro i 1.076 dichiarati a gennaio. Per le milizie l'approvvigionamento di esseri umani è essenziale per far pesare la propria presenza sia ai tavoli interni che nei negoziati con l'Ue a colpi di barconi. Ancora una volta è il clan di Zawyah a fare scuola, dove gli uomini del comandante Bija e dei fratelli Kachlav non perdono occasione per rilanciare la sfida. E mentre per le strade si torna a combattere, tra faide e regolamenti di conti come quelli avvenuti ancora una volta ieri proprio a Zawyah, viene fomentato l'odio. «Durante il periodo di riferimento, Unsmil ha documentato - riferisce ancora Guterres nel dossier inviato al Consiglio di sicurezza - un aumento delle dichiarazioni pubbliche contro i migranti e contro i rifugiati oltre a incidenti xenofobi contro gli stranieri ». È bastato che un certo numeri di lavoratori subasahariani protestasse contro l'impunità garantita agli xenofobi, perché scoppiassero dei disordini. «Centinaia di uomini, donne e bambini sono stati arrestati e portati in una struttura di detenzione a Zawiyah gestita dalla Direzione per la lotta all'immigrazione illegale». Si tratta proprio del campo di prigionia statale gestito dal clan di Bija. Notizie compatibili con l'aumento delle partenze da quelle coste».

DOPO MILANO, INCENDIO A TORINO

Dopo il grattacielo andato a fuoco a Milano domenica scorsa, ieri terribile incendio nel centro di Torino. La cronaca della Stampa.

«Torino, anche nel dramma del fuoco, non è come Milano. La Torre dei Moro, bruciata nei giorni scorsi come un gigantesco cerino, era un grattacielo dal fascino moderno. Il palazzo divorato ieri dalle fiamme, lentamente come un falò, di fronte alla stazione di Porta Nuova, era un signorile edificio tardo ottocentesco. Austero come la sua città. Un tempo albergo, «Hotel Ligure», poi trasformato negli ultimi anni in condominio di lusso, con due attici con giardini pensili e vista sulle montagne. Come il grattacielo di Milano, anche il palazzo di Torino è stato rivestito di materiale di coibentazione. Per migliorarne l'efficienza energetica. Ma in questo caso c'è una variante. Un errore umano. E riguarda il desiderio discreto di una facoltosa famiglia piemontese, acquirente di uno degli attici, di nascondere in un anfratto del sottotetto, in gran segreto, una cassaforte. Così ieri mattina un fabbro di fiducia si è messo a lavorare con fiamma ossidrica e saldatrice a una delle pareti. Tra legni antichi rimessi a nuovo, parquet di pregio e intercapedini farcite di coibentante. «A quanto ci risulta - dicono i tecnici di un'impresa che ha lavorato alla ristrutturazione dello stabile - il fabbro ha tagliato il muro condominiale e le scintille hanno dato fuoco all'isolante. L'operaio ha provato a spegnere il fuoco con un estintore e una manichetta, ma non è riuscito a fermare l'incendio». Addio attico, quello adiacente da poco abitato, e a tutto il resto del tetto, con una ventina di mansarde. Cinque persone sono rimaste leggermente ferite: il fabbro, torinese, di 56 anni, che ha riportato lievi ustioni alle mani, due inquilini che hanno avuto un mancamento a causa della paura e un paio di soccorritori che hanno riportato delle escoriazioni. «È stata una lotta lunga, non facile per le condizioni dell'edificio ma finalmente possiamo dire che le fiamme sono sotto controllo» diceva ieri poco dopo le 19 il comandante dei vigili del fuoco di Torino, Agatino Carrolo. Gli edifici sono di quattro piani, più le mansarde e gli attici. Un complesso a forma di «otto», con una manica centrale a separare le due porzioni condominiali. L'allarme è partito intorno alle 10. «Brucia un tetto in centro, di fronte alla stazione». Ci sono volute quasi nove ore di operazioni: quattro autoscale, oltre 40 vigili del fuoco. Le fiamme hanno divorato quasi 1800 metri quadrati di tetto. Alla fine della giornata, il bilancio è di due condomini inagibili, un centinaio di sfollati, una trentina di unità distrutte, tra cui i due attici: uno di circa 200 metri quadrati, l'altro di 300. Venduti di recente, per un valore complessivo che si aggira sui 4 milioni di euro. Ma i danni totali, stando ad una prima stima, sarebbero di almeno 30 milioni di euro. Una donna è stata coraggiosa. «Macché, ho solo fatto il mio dovere» racconta Antonella Lo Iacono, seduta ai margini dei giardinetti di piazza Carlo Felice, di fronte alla stazione. È la portinaia del palazzo di piazzetta Lagrange, adiacente a quello da cui sono partite le fiamme. Al primo allarme ha pigiato tutti i citofoni dello stabile. Ha chiamato uno ad uno gli inquilini. «Uscite subito, c'è un incendio». Poi è andata nel cortile e si è messa ad urlare. «Mettetevi in salvo, correte. Portate in salvo gli animali». Cani e gatti. Poi è arrivata una pattuglia della polizia. Gli agenti hanno setacciato i piani, per accertarsi che nessuno fosse rimasto bloccato in casa. «Avevo paura che qualcuno fosse rimasto addormentato o che non avesse sentito le mia urla. Per fortuna sono usciti tutti» racconta Antonella. Anche lei costretta a passare la notte fuori casa. Tutto il centro di Torino è rimasto bloccato per l'intera giornata. (…) L'operaio, sentito dalla polizia in mattinata, avrebbe ammesso la ricostruzione dei fatti. «La prego non riesco a parlare in questo momento» dice al telefono, con voce sconvolta. Oggi, terminate le operazioni di messa in sicurezza, l'edificio sarà ispezionato dagli ispettori dei vigili del fuoco e sottoposto a sequestro. La magistratura ha aperto un'inchiesta».

IL PRIMARIO E IL CROCIFISSO

Giampaolo Visetti sulla pagina milanese di Repubblica di ieri torna sulla vicenda della Torre milanese andata a fuoco, intervistando il dottor Spaggiari, proprietario di un alloggio, che racconta un “prodigio”.

«Se fossi credente mi sentirei davanti a un miracolo. Da trent'anni però opero chi è colpito dal cancro: i contorni della mia idea di fede si sono progressivamente offuscati. Così non posso che definire incredibile quello ho visto». Il professor Lorenzo Spaggiari, 60 anni, emiliano, direttore della chirurgia toracica dell'Istituto europeo dei tumori e docente all'università di Milano, abitava con la famiglia l'ultimo piano della Torre dei Moro. «Il soffitto è crollato e abbiamo perso tutto. Bruciata e sciolta dal calore anche la cassaforte inserita nel muro. Soltanto una cosa non solo è salva, ma intatta: un crocefisso. Lo conservavo in una bustina di plastica: come nuova anche quella. Incredibile: mia moglie si è messa quella croce al collo e non vuole toglierla più». Perché è tanto colpito da questo episodio? «Siamo proprietari del diciottesimo piano. In duecento metri quadri non è recuperabile uno spillo e ho visto la mia casa bruciare in diretta tivù. L'unico oggetto ad essere riemerso dalle macerie, in perfetto stato dentro una cassaforte liquefatta, è quella piccola croce d'oro. Inutile negarlo, la mia famiglia è scossa». Non può essere un caso? «Se lo è, è un caso che turba. Anche perché non si è verificato da solo». Cosa intende dire? «Domenica mia moglie voleva restare a casa. L'ho infine convinta ad andare qualche ora al mare in Liguria con i bambini. Non avevo mai insistito prima. Se non fossimo usciti, trovandoci al di sopra delle fiamme scoppiate più in basso, saremmo stati in trappola. Spesso nel fine settimana stavamo a giocare e a riposare nel soppalco al diciannovesimo piano. La coincidenza, grazie a cui siamo vivi, ci ha turbato: ritrovare poi tra i detriti solo una croce, sparata fuori dal muro, lascia increduli». Ora è prima mattina: cosa ci fa lei ai piedi del grattacielo sotto sequestro? «Passo prima di andare in ospedale. Sono tornato a operare già lunedì e lavoro ogni giorno. Chi ha un tumore non può aspettare. La mattina dopo il rogo ero atteso da diciassette pazienti. Io avevo perso la casa, ma loro rischiavano di perdere la vita». Come riesce, dopo il disastro, a concentrarsi subito su un lavoro tanto delicato? «È l'opposto: operare mi aiuta a resistere. Da lunedì la mia empatia con i malati e con le loro famiglie è più forte. Ora sono loro ad aiutare me. Vedo la dignità con cui affrontano il dolore: mi vergognerei a dare la precedenza alla mia casa. Quando si incontra la propria disperazione si comincia a capire meglio quella degli altri». Quando aveva acquistato l'appartamento? «Prima che esistesse, ancora sulla carta. Poi ho visto il grattacielo nascere. L'ho scelto per stare vicino allo Ieo. Sono sempre reperibile: in dieci minuti potevo essere in sala operatoria». E adesso? «Un amico mi ha prestato 60 metri quadri. Negli ultimi dieci anni siamo vissuti su un piano intero, per la famiglia accontentarsi è un'esperienza preziosa. Un chirurgo può guardare alla vita da una prospettiva complessa. Lei però non dimentichi ora l'essenziale: quel crocifisso salvato all'ultimo piano. Tutti i residenti nel grattacielo lo considerano un miracolo perché il rogo non ha causato vittime. Lasci che io possa pensare quantomeno a un inspiegabile prodigio»».

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