Il Meeting vuole la pace
Antonio Tajani arriva a Rimini e apre ad una soluzione pacifica del conflitto. I Brics si riuniscono in Sudafrica e altri 43 Paesi vorrebbero aderire. 450mila posti nel decreto flussi. Addio a Cutugno
Nel simbolo del Meeting di Rimini resiste la colomba. È lì dalla prima edizione del 1980. Ha subito diverse fasi di restyling grafico ma è ancora il simbolo della app, che oggi è indispensabile per partecipare di persona o per seguire da lontano gli eventi della kermesse riminese. È sempre la pace a fare, non a caso, notizia anche oggi: il ministro degli Esteri Antonio Tajani che sarà protagonista dall’evento ha dato un’intervista ad Avvenire in cui ha sottolineato l’appoggio italiano alla missione del cardinal Matteo Zuppi e ha affermato che l’obiettivo resta la pace. Una pace giusta. Dal campo della guerra in Ucraina le cronache raccontano una situazione di stallo sul fronte, con un continuo studio reciproco delle truppe nemiche, come riferisce il Corriere della Sera. In realtà gli occhi del mondo sono puntati su Johannesburg, che ospita il vertice dei cosiddetti Brics, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, che a loro volta hanno anche coinvolto altri importanti Paesi come Arabia Saudita, Argentina, Egitto Emirati Arabi Uniti, Siria, Messico, Nigeria… Il tema del “Sud globale”, che rappresenta la maggioranza della popolazione mondiale ma è più povero delle nazioni del G7, si impone sotto la guida del presidente cinese Xi Jinping: l’obiettivo ambizioso è la de-dollarizzazione del mondo. Un obiettivo che appare oggi ancora velleitario, come sottolinea da Washington Ian Bremmer, ma che raccoglie consensi politici che non possono oggi essere sottovalutati in Occidente. Scrive con acutezza Adriana Cerretelli da Bruxelles sul Sole 24 Ore che per l’Europa il confronto con i Brics è diventato impietoso: “Poco più di 20 anni fa Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica insieme facevano l’8% del Pil mondiale, l’Europa il 22. Oggi non solo le parti si sono invertite ma i Brics hanno fatto il sorpasso: 26% contro 18”.
Vladimir Putin è rimasto a Mosca ma è intervenuto da remoto e ha aperto uno spiraglio ad un rinnovo di quel patto sul grano che aveva coinvolto anche Turchia ed Onu. Se i Brics riuscissero a spingere nella direzione di un cessate-il-fuoco si aprirebbe uno scenario fino a ieri impensabile.
Oltre al tema della pace, ieri a Rimini si è parlato proprio dei rapporti economici fra Italia ed Europa: le considerazioni del ministro Raffaelle Fitto sul futuro patto di stabilità hanno determinato i titoli di apertura di diversi quotidiani. Dopo le schiette ammissioni di Giancarlo Giorgetti, si tratta dell’altra questione che condiziona l’avvenire dei nostri conti pubblici. Dopo il Pnrr e la sbornia del recovery, torneremo ad una forma di austerità?
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, sempre dal Meeting, ha fatto un annuncio importante sull’emergenza migranti: il nuovo decreto flussi riguarderà i prossimi tre anni e prevede 450 mila ingressi nel nostro mondo del lavoro. È questa una seria alternativa alla linea della Fortezza Europa. Intanto il caso Vannacci continua ancora ad agitare la maggioranza, mentre La Verità tira in ballo il ruolo di Sergio Mattarella. Vedremo se il capo dello Stato sfiorerà l’argomento venerdì quando sarà ospite a Rimini. Il Fatto amplifica oggi la polemica sui fondi per l’Emilia-Romagna alluvionata, sostenendo che di 4,5 miliardi promessi, per ora sono arrivati solo 60 milioni.
Tornando ai temi culturali del Meeting, oggi ci sono due recensioni ad un libro importante di cui si parla alla kermesse riminese, una su Avvenire, l’altra sul Foglio. Stiamo parlando del libro che raccoglie testimonianze dirette di alcuni protagonisti della storia del Movimento di Cl, che raccontano l’incontro personale con don Luigi Giussani In comunione e in libertà. Don Giussani nella memoria dei suoi amici (Studium edizioni). Una grande occasione di ”memoria condivisa”. Dei tanti incontri interessanti di ieri segnaliamo quello sull’intelligenza artificiale con il francescano Paolo Benanti, Docente alla Pontificia Università Gregoriana di Roma ed esperto di bioetica e Nello Cristianini, Professore di Intelligenza Artificiale all’ Università di Bath, in Gran Bretagna. E un altro appuntamento (lo trovate qui) dedicato a Giovanni Testori con Valter Malosti, Andrée Ruth Shammah e Andrea Soffiantini.
Qui i principali articoli usciti sulla stampa divisi per giornate.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae Gianmarco Tamberi, medaglia d’oro italiana ieri nel salto in alto ai Mondiali di Atletica leggere in corso a Budapest. Ieri ha saltato a 2 metri e 36.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Avvenire valorizza l’intervista ad Antonio Tajani: «Italia per la pace». Il Corriere della Sera punta sulle parole di Fitto: Allarme su Europa e conti. Così come La Repubblica: Conti, Meloni teme l’Ue. La Stampa è categorica: Ue, niente sconti sulla manovra. Il Quotidiano Nazionale vede il bicchiere mezzo pieno: Manovra, aiuti alle famiglie numerose. E lo fa anche Il Messaggero: «Aiuti a chi assume le mamme». Il Domani evoca il Quirinale sulla vicenda del generale “avvicendato”: Vannacci e lo sconcerto di Mattarella: Meloni non può inseguire Salvini. Dal versante opposto dello schieramento politico-editoriale stessa scelta de La Verità: La manina di Mattarella nella guerra al generale. Il Fatto polemizza sui mancati aiuti all’Emilia Romagna: Un’alluvione di balle 60 milioni su 4,5 miliardi. Il Giornale critica alcuni giudici in visita sull’isola di Pianosa sotto sequestro: Magistrati in vacanza a 7 euro al giorno. Il Sole 24 Ore spiega: Oltre il 90% del solare è cinese. Libero (su foto di Sarkozy) amplifica l’autobiografia dell’ex presidente francese che fece cadere il nostro governo nel 2011: Il francese che voleva comprare l’Italia. Il Manifesto interviene sui femminicidi: Ecce homo.
RUSSI E UCRAINI SI STUDIANO A DISTANZA
Lorenzo Cremonesi del Corriere racconta il fronte Nord del conflitto. La finta calma che regna nel settentrione dell’Ucraina. Un ufficiale di Kiev dice: «Mosca vuole creare una zona cuscinetto».
«Centinaia di auto tra campi e foreste: quando le hanno individuate, esplorando con i droni la regione russa in cui si stavano addentrando, gli uomini del commando ucraino non riuscivano a capacitarsi. Cosa diavolo ci fanno tra le 500 e 700 automobili civili ancora in buono stato, ma abbandonate presso alcuni vecchi capannoni a una decina di chilometri dal confine? «Soltanto arrivandoci poi a piedi di notte abbiamo capito. Sono mezzi rubati dai soldati russi nel marzo 2022, quando avevano invaso l’Ucraina dalla Bielorussia e della Russia meridionale, tutti hanno targhe ucraine e potrebbero servire se dovessero tornare a occupare il nostro Paese in profondità», spiega Olexa, l’ufficiale 32enne dell’intelligence aerea che accetta di parlarci a patto di non rivelare la sua identità e i dettagli delle sue operazioni dietro le linee russe. Del deposito racconta semplicemente perché ritiene che le pattuglie nemiche abbiano capito che loro sanno. È un’informazione bruciata: si fida persino a mandarci l’immagine scattata di recente dal drone. Resta il fatto che notte e giorno i due eserciti si spiano, si fanno imboscate a vicenda e preparano continuamente il campo per operazioni diversive. «Non passa settimana senza che i comandi di Mosca non mandino almeno quattro o cinque gruppi di incursori a compiere blitz nelle nostre retrovie, ovviamente noi facciamo lo stesso. Sono pattuglie piccole, molto agili, raramente composte da più di 10 uomini», spiega. E che fanno? «Minano le piste dove transitano le nostre guardie di frontiera, studiano le nostre difese, ci costringono a stare costantemente in allerta», risponde. Si parla poco del fronte nord. Da quando i russi si ritirarono agli inizi dell’aprile 2022, dopo il fallito attacco su Kiev, l’attenzione è più che altro concentrata su quelli caldi nel sud per la Crimea e verso quello orientale del Donbass. Ma anche qui la guerra si manifesta quotidianamente a suon di duelli d’artiglierie, razzi e mortai. Molti villaggi lungo il confine sono deserti. I posti di blocco militari fermano chiunque in un raggio di 15-25 chilometri dalla vecchia frontiera internazionale. Anche gli accessi alla Bielorussia sono vietati. Le bombe russe sono cadute anche l’altra notte e la questione delle infiltrazioni nelle retrovie nemiche è rilanciata dopo che l’intelligence britannica ha sostenuto che il drone responsabile della distruzione lunedì di un grande bombardiere supersonico in una base aerea presso San Pietroburgo sarebbe decollato dal territorio Russo. «Lo Stato maggiore a Kiev si sta convincendo che i russi potrebbero presto decidere di intensificare gli attacchi dal nord. C’è il sospetto che Putin intenda stabilire una zona cuscinetto profonda mediamente 10-15 chilometri in territorio ucraino nei settori che vanno da Chernihiv, Sumy e sino a Kharkiv. In questo modo otterrebbe due risultati: attrarre l’attenzione delle nostre truppe impegnate nella controffensiva e preparare il terreno per una nuova invasione nel futuro», dice Olexa. Da Chernihiv la strada verso nord è scorrevole, attraversa fitti boschi di pini e betulle ricchi di funghi e zone paludose. Da qui transitarono le colonne blindate russe che, all’alba del 24 febbraio 2022, sfondarono il confine puntando sulla capitale 200 chilometri più a sud. Le tracce della guerra sono molto meno evidenti che nel Donbass o a Kherson: qualche abitazione distrutta, le pompe di benzina bruciate, un paio di ponti abbattuti e già in fase di ricostruzione. Le truppe d’invasione non ebbero il tempo di porre campi minati, s’incontrano solo i segnali di avvertimento rossi con l’immagine del teschio bianco dove stavano i loro vecchi posti di blocco. I militari ci fermano appena dopo l’abitato di Horodnja, una ventina di chilometri dal confine. Poco più avanti il villaggetto di Senkivka viene continuamente bombardato e la polizia ha fatto evacuare gli abitanti. A destra c’è la Russia. A sinistra si entra in Bielorussia. «Non abbiamo notato cambiamenti particolari. L’arrivo dei mercenari della Wagner, dopo il fallito colpo di Stato contro Putin in 24 giugno, non ha influito sugli assetti delle difese confinarie in Bielorussia», ci dice il 56enne Andreji Bogdan, che da 21 anni è sindaco di Horodnja. Meno del dieci per cento dei suoi 21.000 cittadini è scappato. Lui è fiero di mostrare che i contadini sono tornati nei campi e in centro prevale un’apparente normalità. Ma non può dimenticare quella che non esita a definire «la nostra totale impreparazione iniziale di fronte all’invasione russa». Ricorda: «L’anno scorso le colonne di Putin entrarono come una lama nel burro. Non ci fu alcuna resistenza per oltre 70 chilometri, alle 8 di mattina erano già da noi e procedendo sino a Chernihiv quasi non spararono. Oggi è tutto cambiato. I nostri soldati sono pronti. Se i russi riprovassero, qui sarebbe battaglia dura».
TAJANI: L’ITALIA VUOLE LA PACE
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani parla ad Avvenire, alla vigilia del suo approdo a Rimini e dice: il governo sostiene il tentativo della Santa Sede. Ma la Russia deve cessare la guerra, l’Ucraina deve essere indipendente. «Impegno sulla cooperazione per 2 miliardi». L’intervista è di Angelo Picariello.
«Il governo segue con grande attenzione il tentativo della Santa Sede di favorire l’avvio di un processo di pace e intende fare di tutto per sostenerlo, senza far mancare il sostegno all’Ucraina. vittima di una violenta aggressione russa. Anche il mio viaggio in Cina a settembre va in quella direzione». Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri, sarà oggi al Meeting. La Farnesina ha allestito a Rimini in questi giorni un padiglione, in tema con la manifestazione, “Le strade dell’amicizia: percorsi e storie della Cooperazione Italiana”, animato da 30 giovani volontari. «Abbiamo voluto mettere l’accento sul nesso tra cambiamenti climatici e sicurezza alimentare, con un particolare focus sull’Africa. Tema – spiega - su cui siamo molto impegnati: abbiamo organizzato a Roma due importanti conferenze internazionali a luglio scorso: quella su “Sviluppo e migrazioni” ha lanciato il “Processo di Roma” per affrontare le cause profonde del fenomeno migratorio. E poi nella sede della Fao si è tenuto il secondo vertice Onu sulla sicurezza alimentare».
Si parla tanto di un nuovo “Piano Mattei” per l'Africa. Ma lei ha detto con chiarezza che solo come Europa, e non con un piglio sovranista, si può tentare di arginare i tanti focolai di crisi da cui partono i flussi migratori.
È così. L’Italia può fare da sprone, ma da sola non può farcela. Per questo a novembre ospiteremo a Roma il vertice Italia-Africa a livello di capi di Stato e di governo. In quell’occasione presenteremo che cosa intendiamo per nuovo “Piano Mattei”. Sull’Africa vogliamo cambiare narrativa: è un continente ricco di risorse naturali e soprattutto umane. È il continente che nei prossimi 30-50 anni potrebbe trasformarsi da uno dei luoghi dove maggiormente si muore di fame al futuro granaio del mondo. Nel 2023 la Farnesina ha incrementato l’impegno finanziario: in oltre 30 Paesi africani sono in corso oltre 460 iniziative di cooperazione per un totale di circa 2 miliardi.
Sul cambiamento climatico, lei ha segnalato il rischio che gli effetti della desertificazione sottraggano spazio all’agricoltura, spingendo i contadini ad avvicinarsi a gruppi jihadisti.
Il dossier climatico è sempre più centrale nel partenariato paritario tra Italia e Africa. Nei miei incontri dedico molto tempo ad approfondire questi temi, che saranno al centro anche della prossima presidenza italiana del G7 nel 2024. E sosterremo il lavoro degli Emirati per la Cop28, l’Africa avrà un ruolo centrale anche nella conferenza che si terrà a Dubai. In Libano la missione Unifil da oltre 15 anni garantisce la cessazione delle ostilità con Israele. Due stati che non si parlano e non si riconoscono, ma almeno accettano una forza multinazionale.
Uno schema che si può replicare in Ucraina?
La situazione è molto diversa, perché in Libano la sospensione delle ostilità fu comunque decisa e concordata dalle due parti con la mediazione delle Nazioni Unite, con un ruolo dell’Italia. Fra Russia e Ucraina invece non c’è ancora intesa sulla sospensione della guerra, le operazioni militari purtroppo continuano e finché la Russia non si ritirerà non sarà possibile porre termine alla guerra.
Ma in questa ottica la missione vaticana richiesta da papa Francesco può svolgere un ruolo importante?
Assolutamente sì, seguiamo con grande attenzione il lavoro del cardinale Zuppi e il tentativo di costruire la fase successiva, quella in cui le parti inizieranno a negoziare per fermare il conflitto. L’Italia vuole la pace. Una pace che sia giusta, che riconosca il diritto alla libertà e all’indipendenza dell’Ucraina.
Lei ha annunciato che andrà in Cina anche per sollecitare Pechino a un ruolo attivo presso Mosca per aprire un processo di pace. Vede passi avanti?
La volontà del governo italiano è quella di continuare il dialogo politico con uno dei partner principali e strategici sulla scena internazionale. A Pechino ci confronteremo con responsabilità su ogni aspetto delle nostre relazioni, ma di sicuro vorrò aggiungere la mia voce a chi nel mondo chiede che la Cina eserciti la sua decisiva influenza politica per far cessare questo conflitto sanguinoso.
L’accordo sulla Via della Seta può essere di ostacolo? Lei è per non rinnovarlo?
Noi siamo per incrementare gli interscambi con la Cina e non abbiamo un atteggiamento pregiudiziale, facciamo una analisi di costi e benefici. Fino a questo momento abbiamo riscontrato che non ha portato molti miglioramenti, anzi abbiamo notato che altri Paesi, senza un accordo di questo tipo, hanno avuto incrementi maggiori. Faremo una attenta riflessione e decideremo».
SPIRAGLI DI TRATTATIVA, IL RUOLO DELL’UNGHERIA
Diplomazia vaticana. Venerdì prossimo papa Francesco riceverà la presidente dell’Ungheria. Alessia Grossi per Il Fatto.
«Se poco è filtrato dall’udienza privata che Papa Francesco ha avuto lunedì con il capo degli Stati maggiori congiunti Usa, il generale Mark Milley – se non che i due hanno condiviso “le speranze di pace”, secondo quando riferito dal suo portavoce, Dave Butler –, già nell’agenda del Pontefice “instancabile cercatore di pace”, compare un altro incontro diplomatico. Venerdì 25 infatti Bergoglio riceverà la presidente dell’Ungheria, Katalin Novák, alla terza udienza in due anni in Vaticano – le prime due ad agosto 2022 e ad aprile 2023 –. L’appuntamento, altra “tappa della missione vaticana” nella definizione del cardinale Zuppi, emissario della pace di Papa Francesco già a Kiev, Mosca, negli Usa e presto a Pechino, seguirà alla visita di Novák con l’omologo ucraino Volodymyr Zelensky oggi in Ucraina. Secondo quanto riportato dal blog di notizie della Santa Sede il Sismografo, “sulla stampa ucraina filtrano dettagli sui colloqui con le due personalità e si ipotizzano conversazioni diplomatiche sulla situazione bellica”. Novák, a sua volta, ieri ha incontrato il presidente turco Tayyp Erdogan il quale ha fatto sapere che vedrà in Russia il presidente Vladimir Putin per i negoziati sull’accordo del grano interrottosi a fine luglio. La Turchia, infatti, secondo Yeni Safak, giornale turco islamista, starebbe valutando rotte alternative per l’esportazione del grano senza la partecipazione della Russia. La presidente ungherese ieri sulla sua pagina Facebook ha postato l’annuncio del suo incontro con Erdogan sottolineandone l’importanza non solo in quanto “alleato e partner strategico, ma anche uno dei pochi che si impegna per la pace”. Interesse della presidente sono ovviamente i confini e la vicinanza al conflitto soprattutto di regioni come l’Oblast della Transcarpazia, dove si reca ogni 22 agosto per incontrare i rappresentanti della comunità ungherese locale. Oggi arriva invece a Kiev per partecipare alla Piattaforma di Crimea, l’iniziativa diplomatica ucraina per riportare la questione della regione contesa nell’agenda tradizionale e facilitare il ritorno della Crimea a Kiev ripristinando relazioni pacifiche tra Russia e Ucraina. Di pace hanno parlato ieri anche Zelensky e il montenegrino Jakov Milatovic, che il presidente ucraino ha ringraziato “per il suo sostegno umanitario e politico e per aver aderito alla Dichiarazione del G7 sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. I due capi di Stato hanno anche discusso del “sostegno del Montenegro alla ‘Formula di pace’ di Kiev, mentre ci prepariamo al Vertice globale della pace”. La dichiarazione di Milatovic si lega a quella congiunta a sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina siglata al vertice di lunedì ad Atene alla presenza di Zelensky da 11 leader dei Balcani (Serbia, Moldavia, Montenegro, Romania, Kosovo, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord, Bulgaria e Croazia, nonché dalla Grecia che ha ospitato l’evento). Nel testo i Paesi hanno espresso il loro “incrollabile sostegno all’indipendenza, alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina all’interno dei suoi confini riconosciuti a livello internazionale” di fronte all’aggressione della Russia. Al vertice hanno partecipato anche il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Sullo stop al conflitto è tornata anche la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola nel suo video-messaggio al meeting di Cl di Rimini. Dallo stesso pulpito dal quale il cardinale Zuppi aveva accusato l’Europa di fare troppo poco per la pace, Metsola ha chiarito che “l’obiettivo” dei 27 deve essere certo “il raggiungimento della pace”, ma “una pace con la libertà, una pace con giustizia, una pace con dignità perché una pace vera non può essere quella imposta dall’aggressore. Abbiamo riconosciuto – ha spiegato la presidente del Pe – la scorsa estate all’Ucraina lo status di Paese candidato a entrare nell’Unione europea. Mi auguro che i negoziati possano iniziare quanto prima”, ha concluso. Intanto il Pontefice prosegue silenziosamente con i suoi».
LA SFIDA DEI BRICS: DE-DOLLARIZZARE IL MONDO
Nel mondo si pone come il polo opposto del G7: Lula segue un’agenda «umanista», Putin lancia strali sulle sanzioni, Xi chiede colloqui di pace in Ucraina. Paolo Vittoria per il Manifesto.
«Il presidente Lula guarda all’Africa, lo definisce «il continente del futuro», insiste sulla lotta alle diseguaglianze razziali, di genere, di educazione, di salute e di salario come tema principale, pensa al prossimo G20 e alla presidenza dei Brics in Brasile del 2025 per mettere questi temi al centro dell’agenda politica del vertice in Sudafrica. La distribuzione di ricchezza è la grande questione, così come quella di superare meccanismi post-coloniali che non permettano una piena indipendenza dei paesi africani. Lo strumento: rendersi autonomi dal dollaro. Per questo insiste sull’importanza di creare un sistema bancario forte che abbia criteri diversi dal Fondo monetario internazionale e pensi a criteri di prestito e di investimento che non soffochino i paesi poveri, anzi creino le condizioni per uno sviluppo sostenibile. In questo senso – secondo il presidente brasiliano – va coniata una valuta che sia di riferimento per il commercio internazionale senza rinunciare però alle monete nazionali. Di «de-dollarizzazione» parla anche il presidente russo Putin. In videoconferenza: il Sudafrica non si è assunto la responsabilità di invitarlo visto il mandato d’arresto che gli pesa addosso. Dopo gli strali sulle sanzioni internazionali («illegittime»), definisce «irreversibile» il passaggio a un mondo multilaterale dove il dollaro non sarà più la principale moneta di scambio. Una posizione simile a quella cinese, nel discorso di Xi Jinping letto dal suo ministro del Commercio: il punto di caduta, «la democratizzazione delle relazioni internazionali e la multipolarità». È in questa chiave che viene letta anche la guerra in Ucraina, per la quale c’è una sola «opzione praticabile», colloqui di pace ai quali Pechino, si legge nella dichiarazione congiunta di Xi Jinping e il presidente sudafricano Ramaphosa, la Cina vuole dare il suo contributo. Perché il mondo, dicono i Brics, non è più a due poli. Lo ribadisce Lula, che rivendica che gli altri paesi Brics, oltre alla Cina, entrino nel Consiglio di Sicurezza permanente dell’Onu. Non si tratta di competere con i G7 (che definisce «club dei ricchi»), ma organizzarsi come sud globale: «Noi siamo stati sempre trattati come la parte povera del pianeta, adesso possiamo trasformarci in paesi importanti». E incalza: «Abbiamo superato il G7, abbiamo il 32% del Pib mondiale. È prevista una crescita del 4% per il prossimo periodo mentre i cosiddetti paesi industrializzati decrescono. Questo mostra il dinamismo dell’economia mondiale sta nel sud globale e i Brics sono la forza motrice». Anche la questione climatica dipende dal sud globale, come le possibilità di sviluppo: «Vogliamo trattare intorno a un tavolo alle stesse condizioni di Ue e Usa. Creare nuovi meccanismi che creino un mondo più equo senza togliere niente a nessuno», sostenendo l’Onu per un percorso di pace e per la lotta ai cambiamenti climatici. Bisogna cessare il fuoco, non far parlare le armi, ma oltre all’invasione della Russia in Ucraina, non dimenticare la guerra degli Stati uniti in Iraq, o quella di Francia e Inghilterra in Libia. «Bisogna creare un mondo più giusto, democratico, solidale pensando che la cosa più importante è la guerra alla fame». Sulla possibilità di ampliare i Brics: bisogna stabilire procedimenti e norme. Fa il nome dell’Indonesia – la popolazione di circa 200 milioni permetterebbe ai Brics di superare metà della popolazione mondiale – e dell’Argentina in profonda crisi economica e a cui pensa per un nuovo meccanismo di aiuto economico. . Insomma, un Lula fortemente umanista, per un mondo di pace, un’integrazione intercontinentale e nuovi strumenti multilaterali di una politica finanziaria che rendano possibile questo «altro mondo possibile». Tuttavia, a differenza dei forum mondiali dove questi principi potrebbero fiorire, nei Brics non c’è costruzione dal basso, meccanismi di imperialismo e controllo di potere interno di paesi partner come Cina e Russia non sono poi meno violenti di quella dei paesi colonizzatori del secolo XXI».
BREMMER DAGLI USA: NON POSSONO COMPETERE COL G7
Francesco Semprini per la Stampa intervista Ian Bremmer fondatore dell’Eurasia Group di Washington. Che manifesta tutta l’avversione americana al vertice.
«I Brics sono Paesi assai diversi fra loro che rendono complicato l'allineamento e la funzionalità del gruppo su diversi fronti, col risultato che l'efficacia delle sue azioni è assai più limitata rispetto a quella del G7». Il giudizio sui lavori del vertice di Johannesburg è di Ian Bremmer, fondatore di Eurasia Group.
I Brics possono davvero costituire l'alternativa al G7?
«Il G7 è un gruppo di Stati democratici ed economie avanzate, nei Brics c'è un po' di tutto. Cina e Russia sono due dittature, India, Brasile e Sud Africa sono democrazie. Quindi si tratta di un nucleo poliedrico che riunisce Paesi da un po' tutto il Pianeta indifferentemente».
Ciò cosa comporta?
«Questo rende difficile ai Brics essere un gruppo coeso e allineato su diversi fronti. Senza dubbio mettendosi assieme danno vita a una comunità più potente dal punto di vista economico e stanno guadagnando in influenza da un punto di vista globale, specie al cospetto di un G7 meno sostanziale in termini di crescita. Ma il G7 è assolutamente più allineato dei Brics».
Può andare nel dettaglio?
«Questo avviene per diversi motivi, la Cina ad esempio non fa più parte di fatto del Sud del mondo, è diventata il più grande creditore del Sud del mondo e i Paesi che appartengono a questo raggruppamento cercano pertanto di aver buoni rapporti con Pechino. Così come li cercano con gli Stati Uniti e non vogliono che i Brics rappresentino un gruppo contrapposto tale da creare una sorta di guerra fredda con il G7. C'è poi l'India che in termini di relazioni con la Cina è la più incerta e da un punto di vista geostrategico è più vicina agli Usa, in particolare con Narendra Modi, attraverso il Quad (il quartetto che riunisce Stati Uniti, India, Australia e Giappone, nato nel 2007 con l'obiettivo di contrastare la crescente influenza della Cina nella regione Asia-Pacifico). Questo rende ancora più complicato l'allineamento strategico da parte dei Brics».
E la Russia?
«In ultimo abbiamo il fatto che Vladimir Putin non è potuto andare di persona al vertice a causa del mandato di cattura internazionale, questo è un punto a favore del G7 e al contempo un elemento di preoccupazione per i Brics. Tutti gli Stati membri vogliono che il conflitto in Ucraina finisca quanto prima ma è difficile, e la Russia ne è principalmente responsabile. Per questo dico che i Brics rimangono in qualche modo ostaggio di cosa possono e non possono fare».
Ci sono però degli sforzi concreti non le pare?
«Certo, come il tentativo di accrescere investimenti e commercio tra i Brics in moneta locale ma finché il dollaro rimane la valuta ufficiale della riserva del Pianeta non credo che ci siano rischi per il biglietto verde. I Brics non sono preparati a creare una valuta unica alternativa al momento, ma c'è un chiaro sforzo di limitare l'uso del dollaro come arma».
Però il gruppo rappresenta la gran parte della popolazione del Pianeta…
«Il grande problema dei Brics è che la globalizzazione non è più così veloce come negli ultimi cinquant'anni. In mezzo secolo la classe media è cresciuta tantissimo dal punto di vista globale, i prossimi dieci anni saranno molto più complicati in questi termini. La traiettoria dell'India si rafforzerà molto, il Brasile anche, ma la Cina non necessariamente perché non è più la fabbrica del mondo, c'è molto "decoupling", separazione delle produzioni dal punto di vista della localizzazione, e c'è un ritorno della produzione a casa propria. Quei meccanismi che agevolavano la maggiore integrazione dei Brics col resto del mondo stanno diventando meno efficaci».
A proposito di Cina, che rischi comporta la bolla immobiliare?
«Riduce la crescita globale. Quando c'è stata la pandemia la Cina si è rialzata per prima e ha trainato la ripresa, ora la situazione è opposta. C'è inflazione globale, rimbalzi nell'economia globale e incertezza nella crescita. Questo comporta una contrazione della domanda globale di materie prime e meno abilità di Pechino di trainare la crescita globale. Non vedo tuttavia un rischio di contagio sull'immobiliare globale ma senza dubbio ricadute sull'economica globale e questo potrebbe diventare un problema strutturale».
XI, IL LEADER BENIGNO DEL SUD GLOBALE
Non solo Brasile, Russia e India: altri 43 Paesi sono in lista d’attesa. Xi Jinping si presenta come il Re benigno del Sud globale. In questo modo Pechino afferma la leadership dei «Paesi emergenti». Lorenzo Lamperti per il Manifesto.
«Le persone che la pensano allo stesso modo non sono separate dalle montagne e dai mari. La Cctv, la televisione di stato cinese, introduce così il summit dei Brics a cui partecipa Xi Jinping. I media di Pechino stanno seguendo con grande enfasi il viaggio del presidente in Sudafrica. Con l'intensificarsi della competizione con gli Stati uniti, i Brics diventano d'altronde sempre più importanti per la Cina. Non un semplice acronimo per le economie emergenti, ma un manifesto politico di quel cosiddetto «sud globale» di cui Pechino vuole ergersi a capofila. L'interpretazione cinese è ben illustrata da quanto scritto ieri dal Quotidiano del Popolo: «La cooperazione dei Brics è un'innovazione che trascende l'approccio convenzionale delle alleanze politiche e militari, stabilendo un nuovo rapporto di partnership piuttosto che di alleanze». Un po' il modo in cui la Cina racconta la sua partnership con la Russia, sulla base dei «tre no»: nessuna alleanza, nessun confronto e nessun obiettivo contro terzi. Per il Quotidiano del Popolo, il modello Brics «trascende il vecchio pensiero di tracciare linee basate sull'ideologia e segue un nuovo percorso di rispetto reciproco e progresso comune. Si libera dal vecchio concetto di competizione a somma zero, abbracciando una nuova filosofia di mutuo beneficio e cooperazione win-win». Il riferimento agli Stati uniti è implicito ma chiarissimo. Infinite volte, negli ultimi anni, il governo cinese ha accusato Washington di promuovere una «mentalità da guerra fredda» e una logica di «confronto tra blocchi». Così la Cina racconta le iniziative americane in Asia-Pacifico: dal Quad ad Aukus, fino all'alleanza trilaterale con Giappone e Corea del sud rilanciata dal summit di Camp David di venerdì scorso - contro cui ha presentato una protesta formale. Pechino descrive le manovre statunitensi come atte a «seminare discordia tra la Cina e i suoi vicini», dunque portatrici di instabilità e potenzialmente di conflitti. Allo stesso tempo presenta se stessa come una potenza responsabile e garante di stabilità, nonostante le recenti tensioni strategiche e militari con diversi paesi della regione. Il summit dei Brics è un'occasione fondamentale per rafforzare questo racconto. Il sottotesto che emerge in realtà chiaramente: mentre Washington organizza »circoli ristretti» per contenerla, la Cina punta ad allargare le sue partnership. Non per motivi egoistici, prova a sostenere, ma per rendere più forte la voce di quel mondo in via di sviluppo che è stato spesso silenziato. Così viene giustificato il primo obiettivo del viaggio di Xi: l'allargamento del blocco. In tal senso, è ritenuto fondamentale l'andamento delle relazioni con Nuova Delhi, finora meno disponibile di altri vicini asiatici ad allontanarsi da una politica estera non allineata. Attesa per capire se ci sarà un bilaterale tra Xi e il premier indiano Narendra Modi. Sarebbe il primo da oltre tre anni, dopo gli scontri lungo il confine conteso del giugno 2020, che causarono diversi morti tra i militari dei due paesi. Almeno 40 governi sarebbero interessati ad aderire ai Brics, e 23 hanno formalmente espresso la propria candidatura, quasi sempre di paesi che hanno un ottimo rapporto con Pechino, ed è proprio la Cina a spingere per un loro ingresso. Realizzare l'espansione darebbe a Xi un considerevole benefit diplomatico. Soprattutto se il valore economico del gruppo facesse seri passi di avvicinamento al G7. L'ambasciatore cinese in Sudafrica, Chen Xiaodong, ha dichiarato che la governance globale è «disfunzionale, inadeguata e assente». I Brics extra large potrebbero ambire a rinnovarla, sempre che vengano appianate le asimmetrie interne. Brasile e India hanno frenato sull'allargamento, per evitare l'impressione di un blocco anti occidentale, ma la Cina mira a far valere in chiave politica l'eventuale maggiore peso di un consesso in cui agisce da leader senza dire di esserlo».
CONFRONTO AMARO PER L’EUROPA
Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore analizza le difficoltà dell’Europa nel confronto con i Brics.
«L’attende un autunno rovente in politica come in economia. Per questo l’Europa si sarebbe risparmiata volentieri il confronto con il vertice dei Brics in corso a Johannesburg: la ferrea prova dei numeri che le sbatte in faccia la realtà del proprio inarrestato declino. Poco più di 20 anni fa Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica insieme facevano l’8% del Pil mondiale, l’Europa il 22. Oggi non solo le parti si sono invertite ma i Brics hanno fatto il sorpasso: 26% contro 18. Percentuale tanto più umiliante per l’Europa perché, anche se in parallelo è calata dal 65 al 43%, la quota del G7 resta comunque abbondantemente sopra, e non sotto, quella del club che sfida l’ordine occidentale. Dopo lungo torpore, l’Ue da tempo si è data la sveglia ma i risultati concreti della sua volontà di riscossa tardano a venire: dalla ricostruzione industriale, verde e digitale, all’autonomia strategica su energia, materie critiche e catene del valore, fino al de-risking con la Cina. Per le eterne fatiche di aggregazione di interessi e consenso a 27 e perché la crescente interazione tra politica ed economia complica la governance delle democrazie e rallenta quasi tutte le riforme necessarie a dare velocità e credibilità al cambiamento. Con l’economia in frenata, l’inflazione che morde, tassi alti, disparità e tensioni sociali in aumento, locomotiva tedesca in panchina e nuove elezioni in Paesi importanti, il surplace decisionale europeo più che un rischio assomiglia a una certezza. La Spagna di Pedro Sanchez avrà fino a fine anno la presidenza dell’Ue ma, non avendo ottenuto in luglio la maggioranza per continuare a governare, ha due sole alternative: o raffazzonarne una a qualsiasi prezzo politico, compreso un patto con il diavolo, i separatisti catalani che pretendono amnistia e autonomia contro la Costituzione. Oppure convocare nuove elezioni in dicembre. Comunque vada, più che in Europa, Sanchez avrà la testa a Madrid, anche se in agenda ci sono temi decisivi: riforma del patto di stabilità, destino del green deal e della lotta al riscaldamento climatico, politica industriale, rimonta tecnologica nell’hi tech, allargamento a Ucraina e Balcani, rinnovo dell’europarlamento nel giugno 2024. Oltre alle tante insidie della guerra ucraina. Il 15 ottobre appuntamento con le urne in Polonia, un altro grande Paese Ue come la Spagna ma tra i più problematici: molti sperano nella svolta ma pochi credono nel tramonto del nazionalismo conservatore al potere. Il 22 novembre il turno dell’Olanda, orfana dopo 13 anni dell’era Rutte, simbolo di stabilità all’interno e in Europa. Come fu la stagione Merkel in Germania. I pronostici sulla successione sono aperti. Di sicuro il successo dei partito dei contadini mobilitato contro il green deal, le proteste anti-migranti e contro le forniture degli aerei F-16 all’Ucraina annunciano un’Olanda più ondivaga e incerta. Perdita secca per l’Europa in cerca di nuove sicurezze politiche, economiche, sociali e militari che però stenta ad autoprodurle a proprio beneficio. Se non fosse blindata nell’armatura della V Repubblica, la Francia di Emmanuel Macron sarebbe già crollata tra scioperi, violenze e tensioni sociali endemiche. Ora viene strapazzata anche in Africa dove si frantuma la statura globale che rivendica da sempre fuori dall’Unione. Potrebbe però arrivare dalla Germania di Olaf Scholz il colpo più duro a crescita e stabilità collettiva europea. Non solo perché la sua superpotenza economica è in crisi strutturale, complici scelte rivelatesi incompatibili con il nuovo quadro geopolitico globale: troppa dipendenza da Russia e Cina, troppo pochi investimenti in infrastrutture e innovazione tecnologica di punta, troppi sussidi pubblici ai danni della tenuta del mercato interno europeo. E ora la paura delle riforme in un Paese dove il 64% dei tedeschi auspica un cambio di Governo, l’estrema destra dell’Afd è al 20% davanti alla Spd del cancelliere, la coalizione tripartita con liberali e verdi fatica a decidere. Se la Germania piange, l’Europa finisce alle corde, bloccata tra i tanti cantieri incompiuti. Lusso proibito, pena la propria lenta dissolvenza».
DA DOMANI I BANCHIERI A JACKSON HOLE
Il tradizionale summit organizzato dalla Federal Reserve americana inizia domani. Attesa per gli interventi di Powell e Lagarde per capire le prossime mosse sui tassi d’interesse. Alessandro Bonini per Avvenire.
«Anche quest'anno alcune delle decisioni chiave di politica monetaria potrebbero essere prese al simposio di Jackson Hole, l'evento che ogni anno riunisce i banchieri centrali provenienti da ogni parte del mondo nell'omonima località sulle montagne del Wyoming (anche se il meeting è organizzato dalla Fed di Kansas City). La riunione inizia domani, ma il clou è previsto venerdì pomeriggio con l'intervento del presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, mentre nello stesso giorno è in calendario anche un discorso della presidente Bce, Christine Lagarde. L'anno scorso da questo pulpito il numero uno della banca centrale americana dichiarò guerra all'inflazione, avvertendo che ciò avrebbe inflitto «qualche dolore alle famiglie e alle imprese», ma che «il fallimento nel ripristinare la stabilità dei prezzi» avrebbe provocato problemi «molto peggiori». Nei 12 mesi successivi le due maggiori banche centrali, la Fed appunto e la Bce, hanno alzato violentemente i tassi d’interesse, fino a portare il costo del denaro su livelli record. Un anno dopo il mercato scommette almeno su una tregua. Anche se, ammesso che questa ci sarà, rimane incerta la sua durata. I tassi nei prossimi mesi potrebbero essere alzati ulteriormente, con l'obiettivo dichiarato di contrastare una nuova fiammata dell'inflazione; ma potrebbero anche essere tagliati; oppure lasciati su questi livelli elevati per un periodo più lungo del previsto. Come se non bastasse, si è aperto un altro fronte in Cina, la seconda maggiore economia mondiale alle prese con una crescita deludente e la concreta minaccia di una bolla immobiliare. La nuova “sindrome cinese” e i potenziali rischi di contagio sono destinati a tenere banco a Jackson Hole e potrebbero suggerire prudenza ai banchieri centrali. Un altro assist alle posizioni meno oltranziste è arrivato ieri dall'Ocse, secondo cui i salari minimi hanno protetto i lavoratori dall'inflazione ma non hanno provocato alcuna spirale dei prezzi. « I salari minimi si sono rivelati in media nei paesi Ocse uno strumento politico utile per proteggere i lavoratori più vulnerabili dall’aumento dei prezzi. Gli aggiustamenti dei salari minimi nominali hanno contribuito a contenere l’impatto dell’inflazione sul potere d’acquisto dei lavoratori a bassa retribuzione», hanno spiegato gli economisti dell’organizzazione dei Paesi avanzati. « La nostra analisi mostra che il rischio di alimentare ulteriormente l’inflazione aumentando i salari minimi è limitato ». Finora sul fronte economico, gli Stati Uniti ancora una volta sono “caduti in piedi”: il Pil americano nel secondo trimestre è cresciuto oltre le attese; e gli analisti scommettono su un atterraggio morbido per l'economia o al massimo su una lieve recessione nei primi mesi del 2024. I tassi Fed sono stati portati a luglio nella forchetta 5,25-5,50%. Powell dopo la riunione ha confermato l’approccio “dipendente dai dati”. Dalle minute del meeting è poi emerso che diversi partecipanti del Fomc (il Comitato di politica monetaria della Fed) non escludono altri aumenti del costo del denaro. Tuttavia il mercato sconta ancora un'elevata probabilità di tassi fermi al prossimo meeting del Fomc, in calendario il 1920 settembre, mentre un'ampia maggioranza di economisti, secondo un recente sondaggio Reuters, ritiene che la banca centrale Usa abbia smesso di alzarli. Le eventuali decisioni che matureranno a Jackson Hole non saranno prive di conseguenze per l'economia europea e il nostro Paese. Il mese prossimo si riunisce anche la Bce (14 settembre) che da un anno a questa parte ha alzato il costo del denaro da zero al 4,25% senza mai fermarsi, e potrebbe concedere una pausa, tanto più che l’Eurozona a differenza degli Stati Uniti fa i conti con una crescita stagnante (Germania) o negativa (Olanda, la stessa Italia) in alcuni dei suo Stati membri più importanti».
EMERGENZA PER I MIGRANTI RAGAZZINI
Sono oltre 20 mila, quasi tutti maschi. Pochi centri di accoglienza dedicati: in tanti finiscono con gli adulti e gli affidi sono al palo. Virginia Piccolillo sul Corriere della Sera.
«Ci ricordiamo di guardarli quasi solo quando li troviamo protagonisti di una tragedia, senza vita sulle spiagge, nelle foto sui giornali. Altrimenti gli adolescenti e i bambini che arrivano nel nostro Paese da soli vengono spesso considerati solo come numeri di un’«emergenza» che contrappone i Comuni al governo. Oggetto di uno scambio di accuse sulla loro accoglienza. E su cosa abbia funzionato nella legge firmata da Sandra Zampa («del Pd», si sottolinea al Viminale) e cosa no. Il governo studia un «tagliando» della norma e una stretta sulla verifica dell’età dei migranti, nel decreto scurezza di settembre. Per capire occorre partire da un dato: quanti sono i minori stranieri non accompagnati accolti nel nostro Paese. L’ultimo aggiornamento, al 31 luglio, ne ha censiti 21.710 — alla stessa data del 2022 erano stati 16.470 — con una percentuale di maschi nettamente superiore di bambine e ragazze: una su dieci, appena il 12,8%. La maggior parte, ben il 44,6%, ha 17 anni. Un quarto, il 25,4%, ha 16 anni; poco più di uno su dieci, l’11,9%, ne ha 15. Poi ci sono i più piccoli. La fascia tra 7 e 14 anni è il 16%. Quindi i bimbi smarriti, quelli che hanno da zero a due anni che nel caos delle partenze restano separati da mamme e papà. Sono il 2%. La nazionalità prevalente è egiziana, 24,7%, il 20,4 dalla Tunisia, e poi Guinea, Costa d’Avorio, Gambia. La distribuzione geografica non è omogenea. E questo è il primo problema. Il 23,8% viene accolto in Sicilia, il 12,9% Lombardia e l’8,3% nell’Emilia-Romagna, il 6,7% nella Campania, il 6,3% in Puglia, il 6,2% in Calabria, il 5,8% nel Lazio. Tutti, sottolinea Raffaela Milano di Save the Children «sono in una condizione di particolare vulnerabilità, viaggiano senza adulti di riferimento e per molti il rischio è che se non si attiva subito un’accoglienza e una rete di protezione possano diventare facile preda di circuiti di illegalità e sfruttamento». La legge Zampa, in accordo con le convenzioni internazionali, prevede che siano considerati minori prima ancora che stranieri. Non sempre accade. Per loro la legge prevede l’accogienza in centri dedicati e con standard di qualità elevati. Prima falla: non ce ne sono a sufficienza e alcuni hanno standard pessimi. La destinazione dovrebbe essere decisa entro 30 giorni: o in affido familiare o in comunità di accoglienza gestite dai Comuni. Ma i centri di accoglienza sono insufficienti e i minori finiscono in quelli per adulti, gli affidi sono fermi al palo, i posti in comunità non bastano, i tutori volontari, figura adulta di riferimento che dovrebbe essere abbinata a ciascun minore, sono pochi. «La legge sulla carta funziona — assicura Sandra Zampa —. Ma tutti devono attivarsi: il governo nella prima accoglienza, Comuni e Regioni per la parte loro, l ’autorità dell’infanzia deve pubblicizzare affidi e possibilità di fare i tutori dei ragazzi, la società civile offrirsi di farlo, il fondo per minori stranieri va alimentato e i posti in comunità ampliati. Ciascuno deve fare la sua parte».
MANTOVANO: 450MILA INGRESSI NEL DECRETO FLUSSI
Il sottosegretario di Palazzo Chigi Alfredo Mantovano parla al Meeting e dice: «Il decreto sarà operativo a giorni. Ma la sfida più importante è quella per la natalità». La cronaca di Avvenire.
«Sta per diventare operativo il mega-decreto flussi, «per la prima volta triennale», per «450mila stranieri che verranno in modo regolare». L’annuncio che fa Alfredo Mantovano al Meeting indica «una strada regolare» come «antidoto a consegnarsi ai mercanti di morte». Darà la «possibilità di ingresso fuori quota per l’aspirante lavoratore se ha frequentato un corso di formazione organizzato da una azienda o un network italiano». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio torna al Meeting da amico, l’anno scorso aveva collaborato a una delle mostre più frequentate, poi replicata in tutta Italia, quella sul giudicebeato Rosario Livatino, «ma è per la prima volta qui nella nuova veste», sottolinea il direttore del Meeting Emanuele Forlani che lo introduce. Il suo è il bilancio di 10 mesi di governo, in cui, rivendica, sullo scenario internazionale «con buon senso e ragionevolezza» sono stati fugati i dubbi di chi «non era completamente prevenuto». Un altro annuncio riguarda l’unificazione dei servizi di sicurezza. Ma qui è lui stesso a spiegare che non si tratta di una novità epocale, «visto che la delega è già unica». Si tratta semmai, in un’epoca in cui un attacco informatico può essere «pianificato a san Pietroburgo» e paralizzare i servizi di una Asl in Italia «che l'attività dei servizi eviti di fare riferimento a criteri - interno e esterno - che potevano valere nel Regno di Sardegna, ma oggi sono un tantino superati ». Serve «un criterio più ragionevole » senza evocare «rischi autoritari o peggio totalitari» che non ci sono, per i quali «il miglior antidoto è un controllo penetrante da parte del Parlamento ». Che «c'è già, ma può essere reso più incisivo». Un altro annuncio importante riguarda il Giubileo: «Il 24 dicembre del 2024 è domani», non c’è tempo da perdere. E qui rivendica un metodo, appreso da sottosegretario all’Interno con Roberto Maroni, che potrò a sgominare i clan dei casalesi con una verifica quindicinale delle decisioni prese, «senza limitarsi agli effetti annuncio o alle sole circolari». Un metodo che sta ora usando anche a Palazzo Chigi e, per il Giubileo, con il sindaco di Roma Roberto Gualtieri nominato commissario dal governo, con esiti positivi. Parla anche di Africa, e “piano Mattei”, la definisce «nostro presente e nostro futuro, non solo per l'approvvigionamento energetico e le migrazioni ma anche per la prevenzione ed il contrasto del terrorismo jihadista». Considera un errore per l’Europa l’aver rinunciato al valore unificante delle radici cristiane dell’Ora et labora benedettino, e se «la guerra è tornata in modo così tragico sul territorio europeo» può aver contribuito anche «l’aver rifiutato la forma e la sostanza di quell'elemento unificante». Per ultima indica, in sintonia con Giorgetti, quella che definisce in realtà «la sfida più importante», la lotta alla denatalità, che richiede di considerare non più scandaloso «il diritto di ogni bambino ad avere un padre e una madre» e «considerare la maternità come qualcosa che non si mette né in vendita, né in affitto. Il figlio - insiste - non è un’autovettura che ti scegli nel catalogo, decidendone il colore non dei sedili ma degli occhi». E «si potrà parlare di ripresa vera solo quando la curva demografica riprenderà a salire, quando ogni mamma incinta verrà considerata una benemerita della società». Un tema su cui in serata si è poi soffermata, al Meeting, la ministra della Famiglia Eugenia Roccella, che ha annunciato delle importanti novità in dirittura d’arrivo. «Stiamo cercando di elaborare una legge che accompagni le donne anche nella maternità». Inoltre, dal momento che «gli esperti dicono che per aumentare la natalità dobbiamo fare sì che le coppie che vogliono il secondo figlio possano averlo, proporrò un pacchetto di facilitazioni nella prossima finanziaria per il secondo figlio», è il secondo annuncio. «L’assegno unico, che è sotto la procedura di infrazione europea, questo governo lo difende e lo ha implementato», rivendica ribadendo il metodo della condivisione delle misure. «Non vogliamo che avere figli sia una rinuncia o un sacrificio, ma una gioia in più. Vogliamo che le donne abbiamo i figli e anche lo spritz».
L’EUROPA SI MUOVE PER GLI ETIOPI
Reazioni al rapporto di Human rights watch a Berlino, Parigi e Bruxelles: «Inchiesta sui migranti uccisi dai soldati sauditi». Chiara Cruciati sul Manifesto.
«Ventiquattro ore dopo il rapporto di Human Rights Watch sull’uccisione di migliaia di migranti etiopi al confine tra Yemen e Arabia saudita, il mondo reagisce. Lunedì il Dipartimento di Stato Usa aveva chiesto all’alleata Riyadh un’inchiesta e ieri la monarchia ha indirettamente risposto: prima ha mandato avanti funzionari anonimi che all’Afp hanno bollato il rapporto di Hrw come infondato; poi ha ufficiosamente annunciato un’inchiesta, a Sky News, di nuovo tramite un funzionario senza nome. Più diretto il governo etiope che ha scelto X (l’ex Twitter) per dar conto dell’intenzione di avviare «rapidamente un’inchiesta congiunta con le autorità saudite». Lo ha fatto dalla pagina del ministero degli esteri che ha precisato: «Nessuna speculazione» fin quando «l’indagine sarà completata». La chiusa è un omaggio a Riyadh, visto che l’uccisione di massa di propri cittadini viene definita «una sfortunata tragedia». Lo scorso febbraio lo stesso ministero celebrava le ottime relazioni con i Saud (sempre di più le aziende saudite che investono nel Corno d’Africa) e ne approfittava per ringraziarli dell’«assistenza nel rimpatrio di propri cittadini entrati nel regno illegalmente». Reazioni anche dall’Europa. Se l’Italia tace, a parlare sono Francia e Germania. Parigi ieri, tramite il ministero degli esteri, ha ribadito la stessa richiesta statunitense, «un’indagine trasparente su queste accuse»: «La Francia monitora attentamente il rispetto dei diritti umani in Arabia saudita e Yemen». Eppure, tra le proteste, lo scorso giugno il presidente Macron accoglieva (per la seconda volta in meno di un anno) il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman a Parigi, definita in quell’occasione «una seconda casa per i processi decisionali sauditi». «Preoccupata» si diceva ieri Berlino dopo la pubblicazione del rapporto: la ministra degli esteri tedesca Baerbock, pur dicendo di non avere informazioni dirette sul caso in questione, ha chiesto al regno una risposta. La Germania negli ultimi anni aveva assunto una posizione più prudente: dopo l’omicidio del giornalista saudita Khashoggi (di cui Mbs è considerato dalla Cia il mandante) aveva interrotto l’export di armi a Riyadh, per reintrodurlo lo scorso luglio con l’eccezione dei caccia Eurofighter. E poi c’è la presa di posizione dell’Unione europea che ha detto ieri di voler affrontare la questione direttamente con Riyadh. A dichiararlo il portavoce della Commissione europea per la politica estera, Peter Stano: «Abbiamo preso atto con preoccupazione del rapporto e solleveremo la questione con le autorità del Regno dell’Arabia saudita e anche con le autorità yemenite». Dunque sanzioni? Stano si è limitato a parlare di «assunzione di responsabilità» saudita ma senza fretta, «lasciamo che le cose facciano il loro corso». Insomma, una sorta di «vorrei ma non posso».
ALLUVIONE, SPESI SOLO 60 MILIONI
Giacomo Salvini e Marco Palombi per il Fatto raccolgono le polemiche sui soldi davvero spesi dal governo per l’alluvione in Emilia Romagna.
«Tra una settimana, il 31 agosto, il commissario straordinario alla Ricostruzione dell’Emilia-Romagna, Francesco Paolo Figliuolo, incontrerà gli amministratori locali per fare il punto sui fondi stanziati e troverà una situazione imbarazzante: dei 4,5 miliardi che il governo si vanta di aver messo a disposizione dei territori alluvionati, dopo tre mesi sono stati spesi solo 60 milioni. Una cifra che il commissario governativo conosce bene perché le tabelle sono nella disponibilità del governo e della Regione Emilia-Romagna: si ottiene sommando le voci di spesa relative al primo decreto, quello approvato dal Consiglio dei ministri il 23 maggio, una settimana dopo gli eventi alluvionali, e pubblicato in Gazzetta Ufficiale solo l’1 giugno, dopo un lungo passaggio al Tesoro che alla fine aveva ridotto l’importo del decreto a 1,6 miliardi rispetto ai 2,2 annunciati. In quel decreto si stanziavano i primi fondi per rispondere alle emergenze sul territorio. Le voci di spesa più significative riguardavano gli ammortizzatori sociali e un fondo per le imprese con alti livelli di export. Tre nello specifico: 620 milioni per la cassa integrazione, 300 per mettere in sicurezza i lavoratori autonomi e altri 300 per garantire l’export delle imprese. Tanti soldi, troppi per quei capitoli di spesa e infatti oggi si scopre che di quegli 1,2 miliardi ne è stato speso solo il 5%, cioè 60 milioni: 30 milioni per la cassa integrazione, 18 milioni per gli autonomi, 11 milioni per l’export delle imprese. Questo miliardo è teoricamente stanziato per il dopo-alluvione, ma non può essere utilizzato in altri modi e per la buona ragione che è uno stanziamento in larga parte teorico, come sempre per gli ammortizzatori sociali o gli sgravi fiscali: quel che conta è il cosiddetto “tiraggio”, che stavolta è ridicolo. Il 31 agosto gli amministratori locali chiederanno di utilizzarlo per altre voci di spesa: difficile che il Tesoro acconsenta a spostare fondi dalla Cig o dalle spese fiscali agli appalti. A essere corretti, oltre ai 60 milioni di cui sopra, nelle zone alluvionate sono stati spesi anche 230 milioni nella prima emergenza, quando il commissario era Stefano Bonaccini, con fondi della Protezione civile: sono stati usati per i primi soccorsi, per sistemare gli sfollati e per dare 5mila euro alle famiglie rimaste senza più nulla. Questi sono i numeri, nonostante la premier, rispondendo via lettera alle critiche del presidente emiliano Stefano Bonaccini, si sia limitata al gioco delle tre carte, parlando di uno stanziamento totale di 4,5 miliardi: Fratelli d’Italia da giorni costruisce la sua comunicazione intorno a questa cifra. Problema: in sostanza è falsa. Meloni e soci sommano gli 1,6 miliardi del primo decreto (con le finalità e i risultati che abbiamo visto) coi circa 2,7 miliardi del secondo, approvato a fine giugno, e poi arrotondano: ma non solo i fondi del primo decreto non sono destinati alla ricostruzione e saranno usati solo in minima parte, ma i soldi del secondo sono spalmati su tre anni (800 milioni quest’anno, 750 l’anno prossimo e 850 nel 2025) e destinati solo alla ricostruzione pubblica. È appena il caso di ricordare che il conto dei danni degli enti locali ammonta a 8,8 miliardi, metà per i danni di famiglie e imprese, che hanno invece a disposizione 120 milioni per la ricostruzione privata e 100 milioni per “il mantenimento dell’occupazione e l’integrale recupero della capacità produttiva” (neanche un euro distribuito). Se gli amministratori romagnoli – con Bonaccini in testa – protestano da settimane sui fondi che non arrivano, una fonte di governo replica che non ci sono anomalie nell’allungamento dei tempi. Secondo Palazzo Chigi per garantire gli investimenti serviva una stima precisa dei danni che è stata conclusa solo a metà agosto: il piano definitivo arriverà a novembre. Sui soldi del primo decreto, invece, la speranza è che le aziende possano ricredersi e accedere entro settembre. I ritardi però stanno creando qualche perplessità nella maggioranza, soprattutto per la volontà di Meloni di accentrare tutto il potere nelle mani di Figliuolo. Non tutti nel governo hanno condiviso l’idea di nominare il generale e non un presidente di Regione, creando un precedente pericoloso. I ritardi sugli stanziamenti rischiano di provocare ricadute in vista delle Regionali del 2025. Ieri Salvini ha telefonato a Figliuolo che gli ha ribadito “massima determinazione affinché le richieste dei Comuni vengano accolte al più presto”».
LE ULTIME SUL CASO VANNACCI
Matteo Pucciarelli per Repubblica ipotizza che il caso Vannacci sia stato orchestrato. Ma non fa riferimento allo storico scontro sull’uranio impoverito impiegato in Iraq.
«Man mano che passano i giorni i pezzi del puzzle Vannacci si mettono assieme e la vicenda assume un contorno politico più chiaro. Ovvero quello di un saggio che si sapeva benissimo potenzialmente discusso ma che poteva (o doveva) servire a tastare un terreno; e il terreno, lo dicono i fatti, c’è tutto. Perlomeno in termini di consenso. Il vascello sicuro per portare il generale a salutare la divisa è quello della Lega, una candidatura da indipendente alle Europee magari sorretto da quel mondo radicale e di destra — vedi Gianni Alemanno, vedi Francesco Storace — che contesta una linea di governo ritenuta troppo lontana dalle aspirazioni antisistema di quando Fratelli d’Italia stava all’opposizione. Non era neanche un mese fa quando l’ex sindaco di Roma a Orvieto aveva lanciato il “Forum dell’indipendenza italiana”, con 31 altre e diverse associazioni. Una super-destra critica, come detto, con Giorgia Meloni: sulla guerra, su un allineamento eccessivo a Ue e Nato, sull’incapacità di contenere i flussi migratori, su scelte economiche troppo liberiste. In questi giorni, specie dopo la decisione dell’Esercito e del ministro della Difesa Guido Crosetto di rimuovere Roberto Vannacci dalla guida dell’Istituto geografico militare di Firenze, nelle chat d’area sovranista e sui social si è vista una rumorosa solidarietà al generale; gente che si diceva delusa soprattutto da FdI, vittima del fantomatico “politicamente corretto”. Dati non ufficiali né certificabili da nessuno se non dalla stessa Amazon parlano di oltre 20 mila copie del saggio vendute — il numero l’hanno diramato gli organizzatori della sua prima presentazione pubblica, il 9 settembre a Marina di Pietrasanta, ma poi partirà una specie di tour —, sarebbe un numero di prima grandezza per il mercato editoriale italiano. E poi: la creazione del gruppo Facebook “io sto con il generale Vannacci”, centinaia di foto profilo con l’immagine del suo libro, il Giornale d’Italia (diretto da Storace fino al 2018) che offre il pdf del volume, la Verità sulle barricate in difesa del militare. Domanda che in parecchi a questo punto si fanno? Tutto casuale oppure studiato? «Più passano i giorni e più viene fuori che in diversi tra i paracadutisti sapevano che Vannacci stava lavorando a un libro — racconta un ufficiale — e che alcuni hanno anche collaborato con lui alla stesura di alcuni capitoli». Di sicuro c’è che dopo l’autopubblicazione avvenuta il 10 agosto scorso c’erano state due segnalazioni (positive) dell’uscita del saggio: su Analisi Difesa , a firma del direttore Gianandrea Gaiani, già consulente per la materia di Matteo Salvini al tempi del governo gialloverde; e di Marco Bertolini sul sito dei congedati della Folgore, generale in pensione, ex candidato di FdI e anche lui (come Alemanno e come la Lega, specie a inizio conflitto) molto critico sulla gestione della guerra in Ucraina. Di sicuro il generale, dopo che il caso è scoppiato, si è mosso con una certa sicurezza: interviste a tutto spiano, piena rivendicazione di quanto scritto, nuove apparizione pubbliche in via di programmazione. Tutto rigorosamente senza richiedere autorizzazioni, non usuale per un graduato di altissimo livello. Quasi fosse con un piede già fuori dall’Esercito, impegnato in una battaglia di principio che farebbe presagire nuove sfide. Del resto il libro, al di là delle frasi più discusse su omosessualità, migranti e donne, ha dei capitoli che sembrano quasi un programma politico. In primis quello sull’ambiente, dove il generale dedica ampio spazio a criticare le direttive dell’Europa «a trazione socialista». E poi: energia, casa, nuove città, patria, sicurezza... Parecchio materiale per essere tutta farina del sacco di un generale che scrive nei ritagli di tempo».
SARKOZY AMMETTE: NEL 2011 FACEMMO CADERE BERLUSCONI
Fausto Carioti per Libero analizza le memorie dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy che oggi ammette: facemmo cadere Berlusconi nel 2011.
«C’était cruel, mais nécessaire». Nicolas Sarkozy, presidente della repubblica francese dal 2007 al 2012, rivendica così la scelta di costringere Silvio Berlusconi alle dimissioni: «Crudele, ma necessaria» per salvare l’eurozona messa in pericolo dal debito pubblico italiano. Un’ammissione, quella contenuta nell’autobiografia appena uscita, che resta clamorosa anche se imbellettata con l’intento di dipingersi come un grande statista internazionale: lui e Angela Merkel interferirono nel gioco democratico di un altro Paese europeo, tramarono affinché l’Italia avesse un presidente del consiglio diverso dal leader che aveva vinto le elezioni. Dopo tante prove indiziarie e testimonianze de relato, ora c’è la confessione di uno dei protagonisti di quel complotto. Era il 3 novembre del 2011 e a Cannes si svolgeva il vertice G20 passato alla storia come quello delle “risatine” su Berlusconi. «Nessuno voleva rivivere una nuova Lehman Brothers, questa volta sostituita dalla Grecia o dall’Italia. La tensione era estrema», scrive Sarkozy. «Dovevamo sacrificare Papandréou e Berlusconi nel tentativo di contenere lo tsunami di una crisi finanziaria il cui epicentro questa volta era chiaramente nel cuore dell’Europa». Per questo, racconta, si chiuse in una stanza con Berlusconi e la cancelliera tedesca. Lì, racconta, «ci fu un momento di grande tensione quando dovetti spiegargli che il problema dell’Italia era lui! Angela ed io eravamo convinti che fosse diventato il “premio di rischio” che il paese doveva pagare ai creditori del Tesoro italiano. Pensavamo sinceramente che la situazione sarebbe stata meno drammatica senza di lui e il suo atteggiamento patetico. Lui non sapeva che prima della fine del mese sarebbe stato lasciato solo e costretto ad abbandonare il suo incarico». Appena nove giorni dopo, infatti, Berlusconi fu costretto a dimettersi, e sarebbero trascorsi undici anni prima che l’Italia avesse un altro premier scelto dagli elettori. Per capire l’enormità della rivelazione, basta immaginare i ruoli invertiti: Berlusconi e Zapatero che manovrano per deporre l’inquilino dell’Eliseo, una trama che non troveremmo nemmeno in un romanzo di fantapolitica. Il francese e la tedesca, invece, fecero proprio questo: si sostituirono agli italiani, sapendo (anche se su questo Sarkozy glissa) di contare sulla sponda di Giorgio Napolitano ed altri. È la tessera più importante del mosaico, che completa tante testimonianze, molte delle quali riportate da Renato Brunetta nel libro Berlusconi deve cadere. Come quella di Timothy Geithner, segretario al Tesoro durante la presidenza Obama, il quale ha raccontato che «in quell’autunno alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato. Parlammo al presidente Obama di quest’invito sorprendente, ma non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello». L’allora premier spagnolo, il socialista José Luis Zapatero, nelle sue memorie scrive che nel vertice di Cannes «Berlusconi resisteva a tutti gli inviti che riceveva» a mettere l’Italia sotto la tutela del Fondo monetario, «e nei corridoi già si cominciava a parlare di Mario Monti». Quel Monti che il 9 novembre fu nominato senatore avita e una settimana dopo giurò da presidente del consiglio. Una sequenza che si capisce meglio leggendo il racconto fatto dall’insospettabile Wall Street Journal nel dicembre del 2011: «In un gelida sera di ottobre», e dunque prima del vertice di Cannes, la Merkel aveva fatto una «telefonata confidenziale» a Napolitano, preoccupata perché Berlusconi temporeggiava sulle riforme che la Bce gli aveva chiesto di adottare nella lettera inviatagli il 5 agosto. «I leader europei», spiegava il corrispondente da Berlino, «hanno una regola non scritta che impedisce di intervenire nella politica interna degli altri Paesi. Mala signora Merkel stava spingendo delicatamente l’Italia a cambiare il suo primo ministro». Tant’è che, pochi giorni dopo, Napolitano «iniziò con discrezione a sondare i partiti italiani per verificare il sostegno a un nuovo governo». Ricostruzione che il Quirinale smentì, ma che il politologo Edward Luttwak, dopo la pubblicazione del libro di Geithner, confermò nella sostanza: «Ci fu un complotto ordito da Sarkozy e dalla Merkel contro Berlusconi con l’appoggio di molte persone in Italia. (...) Sarkozy e Merkel si rivolsero ad Obama per partecipare al complotto». Ma il presidente statunitense si rifiutò di «interferire», perché l’America «ritiene più importante la democrazia dell’economia». Un problema, quello del rispetto della democrazia, che Sarkozy non si pose allora e continua a non porsi oggi. Ma almeno, vantandosi di aver brigato con la Merkel per far cadere Berlusconi, fa piena luce su quella vicenda e mostra quale considerazione abbiano, a Parigi e a Berlino, dell’Italia e dei suoi elettori».
SPAGNA, INCARICO AI POPOLARI
Il Re di Spagna dà l’incarico al capo dei popolari spagnoli Alberto Núñez Feijóo. Ma non ha i voti in Parlamento. Il premier socialista Sanchez già dice: «Solo noi sapremo trovare una maggioranza». Matteo Castellucci per il Corriere.
«Il primo giro di campo spetta ad Alberto Núñez Feijóo. Il leader dei Popolari riceve da Re Felipe VI di Spagna l’incarico di provare a formare un governo. Il vincitore delle elezioni del 23 luglio non è riuscito finora a tradurre quel primo posto in una maggioranza parlamentare, ma ha accettato. «Daremo voce agli oltre 11 milioni di cittadini che vogliono cambiamento, stabilità e moderazione», ha detto ringraziando il sovrano. Al momento, però, non ha abbastanza seggi per spuntarla in un voto di fiducia: sono due quelli previsti per legge, a distanza di 48 ore. La data sarà fissata dalla neopresidente della Camera, Francina Armengol, del Psoe. L’ex governatore della Galizia può contare su 172 deputati: ai 137 del suo partito vanno sommati i 33 i Vox e due alleati regionali (Coalición Canaria e Upn). L’ultradestra aveva posto delle condizioni. Di più. Il segretario generale di Vox, Ignacio Garriga, aveva pronunciato un ultimatum: esigeva «spiegazioni» dal Pp. Ieri mattina il presidente dei sovranisti Santiago Abascal ha invece confermato, al Re e al «señor Feijóo», di essere pronto ad allearsi con il centrodestra. Tra le richieste, però, la fine del «cordone sanitario» ai suoi danni, che si è rivisto di fatto nella votazione per i vertici del «Congreso», una vittoria dei Socialisti che ha lasciato Vox senza nemmeno una vicepresidenza. Secondo la sinistra, Feijóo andrà a sbattere. A Felipe VI il premier uscente Pedro Sánchez ha ribadito di «essere nelle condizioni di riunire il sostegno parlamentare necessario». Cioè di avere i numeri per un nuovo governo. In caso di duplice fallimento del Pp, toccherà a lui. Può contare su diversi partiti regionali che allargano il pacchetto di mischia «progressista» rispetto ai 121 seggi di Psoe e ai 31 di Sumar. Sánchez ha rivendicato i 178 voti con cui la settimana scorsa il Psoe ha conquistato la presidenza della Camera. In quel caso, ha intercettato il sostegno dei catalani di Junts, che però non è scontato. La Casa Reale ha rispettato il cerimoniale, una «pratica diventata una consuetudine», indicando Feijóo in quanto leader del partito più votato. Sánchez già tratta con gli indipendentisti. «Non c’è alternativa a un governo del progresso», ha scandito. Dal primo voto di fiducia, però, l’orologio comincerà a ticchettare: se entro due mesi da allora nessuno avrà la maggioranza, andranno convocate nuove elezioni».
TRUMP: ANDRÒ A FARMI ARRESTARE
Donald Trump annuncia: «Andrò a farmi arrestare». Il magnate Rupert Murdoch punta sul governatore Glenn Youngkin. Ron DeSantis si gioca tutto nel dibattito tv. Massimo Gaggi per il Corriere.
«Oggi a Milwaukee, nel primo dibattito tv della maratona presidenziale 2024, il governatore della Florida Ron DeSantis e gli altri candidati repubblicani combatteranno, oltre che tra loro, contro due fantasmi: il primo, gigantesco, è quello del grande assente, Donald Trump. Che sarà, comunque, oggetto di accese discussioni con le sue incriminazioni. Soprattutto la quarta, quella della Georgia, che lo costringerà a consegnarsi all’autorità giudiziaria di Atlanta già domani. I suoi avvocati hanno negoziato un rilascio immediato su cauzione (è la prima volta che ne verrà pagata una dall’ex presidente) di 200 mila dollari. Altri quattro dei 18 coimputati hanno già negoziato la cauzione e due di loro (l’avvocato John Eastman e Scott Hall, un funzionario accusato di accesso illegale alle machine elettorali della contea Coffee) si sono già consegnati ieri. Il rilascio di Trump è anche condizionato al suo impegno a non comunicare con coimputati e testimoni del processo e a non intimidire o minacciare nessuno di loro anche con post sulle reti sociali «e a non ostacolare in alcun modo la Giustizia». L’impegno è stato sottoscritto dai tre avvocati di Trump ma non verrà rispettato dall’ex presidente che ha già trasformato le incriminazioni in carburante della sua campagna elettorale. E se il caso della Georgia, con la procuratrice afroamericana Fani Willis eletta nelle liste del partito democratico, è quello penalmente più rischioso, è anche quello più sfruttabile politicamente. Trump lo sta già facendo: ha chiesto al Parlamento della Georgia di avviare l’impeachment della Willis e su Truth ha scritto: «Vado a farmi arrestare da una procuratrice della sinistra radicale». E stavolta la procedura dovrebbe avvenire in un carcere anziché in tribunale. L’altro fantasma del dibattito di stasera, per ora sullo sfondo ma insidioso per i candidati, DeSantis per primo, è l’ombra del dark horse : un cavallo che potrebbe scendere in pista se quelli già in corsa si riveleranno inadeguati. Glenn Youngkin, divenuto governatore della Virginia battendo un leader democratico di rango, Terry McAuliffe, viene spinto da tempo ad annunciare la sua candidatura da molti conservatori decisi a sbarrare la strada a Trump e delusi dai suoi sfidanti. Miliardari come Ronald Lauder a Thomas Peterffy che avevano puntato su DeSantis, ora sostengono Youngkin che, però, per ora è concentrato sul voto per la rielezione in Virginia, il 7 novembre. Solo dopo deciderà se puntare alla Casa Bianca. Il Washington Post ha svelato che Rupert Murdoch, padrone di Fox News, la tv conservatrice più ascoltata, di giornali autorevoli ( Wall Street Journal ) e di testate popolari ( New York Post ), da tempo preme su Youngkin che ha incontrato più volte di persona. Strano rapporto quello fra Murdoch e Trump: l’editore disprezza l’ex presidente, ma lo sostiene perché il pubblico della Fox è in gran parte composto da suoi fan. Trump detesta Murdoch ma se ne serve: The Donald ottiene il megafono più potente della destra, Rupert gonfia gli ascolti che portano pubblicità. Ma, come fece già nel 2016, anche stavolta il 92enne editore è a caccia di un anti Trump. A novembre, quando stravinse le elezioni in Florida, i giornali di Murdoch ribattezzarono DeSantis, «DeFuture». Da allora un diluvio di interviste accomodanti. Ma la sua stella si è già appannata: misure ideologiche estreme, scontri con le imprese, zero empatia e un calo di consensi subito registrato dai sondaggi. Murdoch ora guarda altrove mentre i suoi media trattano Ron in modo più rude. Il dibattito di stasera (ospitato dalla Fox e al quale Trump non va perché non gli conviene, ma anche per fare un dispetto a Murdoch) è, quindi, per DeSantis una sorta di ultimo appello: se non batte Mike Pence, Vivek Ramaswamy e gli altri e non esce dall’ombra di Trump, la sua stella sarà già al tramonto. Ne nascerà in tv un’altra? Possibile ma improbabile. Spunterà dall’oscurità il cavallo Youngkin? Forse, ma anche per lui battere Trump sarebbe difficilissimo: «È alto, bello, ricco, colto, politicamente saggio, è molto popolare: in tempo normali, il candidato ideale» dice Myra Adams, una ex consigliera di Bush e McCain. «Ma questi sono tempi insani». Traduzione: Youngkin deve prima vincere in Virginia il 7 novembre. Dopo, avrà poco tempo per prepararsi all’esordio in Iowa (15 gennaio). In più, Steve Bannon, stratega della vittoria trumpiana nel 2016, ha già invitato gli elettori MAGA della Virginia a non voltare per Youngkin. Bloccare un possibile concorrente di Trump anche a costo di consegnare la Virginia ai democratici. Tempi insani per i conservatori Usa».
A FUKUSHIMA L’ORA X: COMINCIA LO SVERSAMENTO
Tokyo rompe gli indugi: saranno rilasciati i primi quantitativi del liquido di raffreddamento della centrale di Fukushima. La radioattività è al di sotto dei limiti e ci vorranno 30 anni per lo svuotamento. Cina e ambientalisti protestano. Piergiorgio Pescali su Avvenire.
«Domani la Tepco, gestore della centrale nucleare di Fukushima, inizierà lo sversamento nell’oOceano delle acque contaminate da trizio. 1,33 milioni di tonnellate di acque raccolte tra il 2011 ed oggi in 1066 contenitori, verranno rilasciate ad un chilometro dalla costa dopo essere state diluite di circa 100 volte per diminuire i livelli di radioattività. Per trent’anni, questo è il periodo stimato per completare il deflusso, più di duecento, tra laboratori specializzati e oceanografici raccoglieranno periodicamente campioni in un’area di circa 100 chilometri quadrati per analizzarne il livello di radioattività che non dovrà superare il limite massimo fissato dalla legge giapponese di 100 Becquerel/ litro (il limite dell’Oms è di 10.000). Le cooperative dei pescatori, che subiranno il contraccolpo economico maggiore per via della pubblicità mediatica che la stampa giapponese e internazionale sta dando all’evento, hanno già annunciato manifestazioni di protesta che si andranno ad aggiungere a quelle già organizzate nel passato. Dopo l’incidente dovuto allo tsunami dell’11 marzo 2011, le attività economiche delle aree in prossimità della centrale hanno subito un tracollo imponendo la chiusura di molte aziende a carattere familiare. Tra queste, quelle ittiche sono quelle che sono state più colpite nonostante il pescato, attentamente monitorato con contatori Geiger, dopo 12 mesi dall’incidente non abbia segnato valori di radioattività superiori alla norma. Pur essendo consapevoli che la modalità di rilascio e la quantità di trizio non altererà il livello di radionuclidi nella fauna e nella flora marina, i pescatori temono una replica dell’effetto rifiuto riscontrato dopo il 2011 da parte dei consumatori; rifiuto dovuto soprattutto alle notizie allarmistiche rilasciate da associazioni e dalla stampa. Ciò che attualmente preoccupa maggiormente il governo di Fumio Kishida è però la risposta internazionale: mentre l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’ente delle Nazioni unite preposto al controllo delle centrali nucleari e delle loro attività, ha già dato il suo nulla osta per lo sversamento, ieri è giunta anche l’inaspettata apertura della Corea del Sud. Il portavoce presidenziale Park Ku-yeon, dopo che per mesi aveva criticato la decisione giapponese di versare le acque in oceano, ha annunciato che Seoul non ravvisa problemi scientifici e tecnici nel rilascio delle acque di Fukushima. Di senso opposto, invece, sono le critiche della Cina che ha convocato l’ambasciatore di Tokyo e che, tramite Wang Wenbin, portavoce del ministero degli esteri, ha fatto sapere che «L’Oceano è proprietà di tutta l'umanità, non è un luogo dove il Giappone può scaricare arbitrariamente acqua contaminata». Wang ha aggiunto che la Cina «esorta con decisione la parte giapponese a correggere la decisione sbagliata, ad annullare il piano di scarico dell’acqua contaminata e (…) a smaltire l’acqua triziata in modo responsabile accettando una rigorosa vigilanza internazionale». Va però detto che la stessa Cina ha in funzione lungo le coste del Pacifico una cinquantina di reattori nucleari che immettono ogni anno circa 1.000 Tera Becquerel di trizio, una quantità 500 volte superiore a quella dello scarico di Fukushima (22 ). Anche in Europa il centro di trattamento e riciclaggio di scorie nucleari di La Hague rilascia nella Manica 1.016 Bq di trizio all’anno a poche centinaia di metri da spiagge considerate balneabili e frequentate. Le acque di Fukushima, oltre che un problema ambientale sono diventate un campo di sfida politica in cui si affrontano le principali capitali dell’Asia orientale».
ADDIO A TOTO CUTUGNO
Renato Farina su Libero ricorda il cantante Toto Cutugno, morto all’età di 80 anni. Aveva cantato “l’italiano vero”.
«Noi non ci rendiamo conto davvero di quanto sia stato e sia tuttora importante Toto Cutugno. Non perché sostegno al Made in Italy, ma per la forza universale dell’amore alla sua patria, dichiarato con umiltà, e gli altri ci invidiavano uno così, che con umiltà sottometteva il mondo all’ammirazione per la nostra gente. I siti più importanti, quelli di peso internazionale, scrivono della sua dipartita, a 80 anni, dopo lunga malattia vissuta nel silenzio delle morti antiche. Ricordano del successo planetario del brano L’Italiano, quando questo ragazzo ciuffoluto salì sul palco di Sanremo, 1983. Le Figaro, dimentica il sussiego parigino, e con la giusta dose di retorica improvvisata scrive che «ha smesso di cantare il più celebre musicista italiano, con la sua chitarra in mano». Bè, ho visto. Era proprio così. Il più celebre, non proprio osannato tra noi. Nel gennaio del 2011, una delegazione dei parlamentari del Consiglio d’Europa era appena atterrata all’aeroporto di Kiev. Ero nel piccolo gruppo, eravamo incaricati di verificare la correttezza delle elezioni presidenziali. C’era una tensione fortissima nell’aria, prima dell’imbarco. Oltre che un gelo bestia all’arrivo. Ci avevano informati del timore di scontri. Il pullman per i passeggeri si apposta sotto la scaletta, noi ci approssimiamo, ma il bus viene fatto allontanare dalla polizia semivuoto. Ecco che si accosta un van con i vetri oscurati, del tipo di quelli che si piazzano dietro i presidenti americani, ma con le bandierine giallo-azzurre dell’Ucraina. Aspettiamo con il nostro bel borsone e una certa aria di matura consapevolezza: giusto rispetto e tutela per i rappresentanti delle democrazie europee. Macché. Sale un signore, ci attraversa come fossimo di burro, e gli si illumina il volto come per un appuntamento mistico. Giunto in cima alla scaletta prega, con un piccolo megafono, «il maestro Toto Cutugno di raggiungere l’uscita». Eccolo. Non ce n’eravamo accorti, mica è Gianni Morandi. Ha il colbacco, gli consegnano la custodia con la chitarra appena sceso. Pesava più la sua musica che le nostre patacche all’occhiello. Si erano affacciati a salutarlo persino dalla torre di controllo. Ma chi è quest’uomo, cosa mi sono perso in tutti questi anni? Ho pensato così. Ho saputo del compianto di Putin, non mi stupirei se avesse battuto quello di Zelensky. Non so se il cardinale Zuppi manderà un messaggio ai funerali come fece per Michela Murgia: a lei il presidente dei vescovi italiani chiese di pregare per noi; da Totò il buon Dio credo preferirebbe una sua canzone. La prima strofa de L’Italiano propone questi versi: «Lasciatemi cantare/Con la chitarra in mano/Lasciatemi cantare/Sono un italiano». E via con le immagini che tutti capiscono, appartengono a qualsiasi concezione italiana del mondo, idea politica, tifo calcistico. Ma a essere italiano è l’impatto di accordi elementari, una melodia che non è stata un biglietto vincente della lotteria trovato per terra, ma frutto di lavoro e lavoro (italiano). Aveva già scritto canzoni per Adriano Celentano, in Francia per Johnny Hallyday. Guardato dalle nostre élite come fenomeno folkloristico, mai sentito messo nell’elenco dei cantautori, a sinistra ciò che è plebeo e provinciale, senza autocoscienza proletaria, ma sottoproletariato di quelli trattati come feccia da Marx. Chi erano i provinciali? La sua canzone più famosa è l’inno nazionale che ha dato l’immagine dell’Italia povera e bella, amabile, buona. La sua faccia era quella di un uomo buono. Comunicava la nostra essenza. Non perché réclame del Made in Italy, ma come memoria di un amore appassionato alla patria. Ha insegnato a tutti che non esiste modo di amare la propria patria più bello e forte di quello di cui è capace «un italiano vero». Nessuno al mondo, negli ultimi cento anni, ha saputo cantare le proprie origini, onorando terra e anima, cielo e persino abitudini, modi di essere, il farsi la barba con schiuma alla menta. Tutto ma tutto degno di un canto. Perché l’Italia è questa qua, non quella dei riti e degli alzabandiera, ma il luogo dove riposano i padri, i loro insegnamenti, il dolore, il pane, il vino. E la musica. Perché la musica è linguaggio universale, buca confini, taglia fili spinati, entra in dinamiche misteriose distruggendo pregiudizi, razzismi: parla di nazione, alle nazioni degli altri. Parla di Italia, dell’essere italiano che vuol dire non smettere di cantare. Non potete vietare di cantare».
IN COMUNIONE E IN LIBERTÀ, DON GIUSSANI RACCONTATO DAI SUOI
A margine del Meeting di Cl a Rimini, prosegue il dibattito sull’identità culturale del Movimento e sulla sua azione nella società. Un libro, curato dal filosofo Massimo Borghesi, ha catturato l’attenzione di Avvenire e del Foglio. Ecco la prima recensione:
«Un libro per documentare chi è stato, e che cosa rappresenta ancora oggi, don Luigi Giussani. E se «il metodo è imposto dall’oggetto», come insegnava il fondatore di Cl che non amava essere definito tale («Io non ho mai voluto fondare niente», diceva) il metodo migliore per raccontare un’esperienza è far parlare chi da essa è stato abbracciato e cambiato. Non deve quindi meravigliare che Massimo Borghesi, docente di filosofia morale all’università di Perugia, studioso della vita della Chiesa, del magistero del Papa e della storia di Cl, nel raccontare don Giussani, invece di indossare i panni dell’ideologo, scelga di farlo ricorrendo ai «contributi di persone che lo hanno conosciuto direttamente e realmente, in grado di documentarne l’umanità, oltre che le idee». Il libro a cura di Borghesi in uscita proprio in questi giorni per l’editrice Studium (“In comunione e in libertà. Don Giussani nella memoria dei suoi amici”) è il racconto di un padre realizzato attraverso i suoi figli che ha come ri-messo al mondo, cambiati da un incontro fatto. «E come potrebbero non ricordarlo con gratitudine commossa quelli che sono stati i suoi amici, i suoi figli e i discepoli?», ha detto il Papa nella celebrazione in Piazza San Pietro per il centenario del sacerdote di Desio. Sacerdoti, presuli, giornalisti, teologi, missionari, artisti, politici. Alcuni in vita altri no, fra questi ultimi un chirurgo in odore di santità come Enzo Piccinini. Tutte persone, per citare ancora il Papa, per le quali «è stato padre e maestro, servitore di tutte le inquietudini e le situazioni umane che andava incontrando nella sua passione educativa e missionaria». Una «genialità pedagogica e teologica che la Chiesa riconosce».
La recensione al volume curato da Borghesi di Maurizio Crippa sul Foglio:
«La prima impressione, che è sempre quella giusta, di chi entra in contatto con quell’alveare operoso, festoso, ordinato che il Meeting di Rimini è ogni volta la stessa dell’Innominato di Manzoni: “Che allegria c’è? Cos’hanno di bello tutti costoro?”. E rispondere a questa domanda, darsene ragione, è impossibile senza un incontro personale, umano e diretto. Il “segreto” di don Giussani in fondo è tutto lì, in un insegnamento che il suo maestro di seminario, don Gaetano Corti, gli aveva dato: affinché un uomo possa credere in Cristo bisogna che lo conosca, e “per conoscerlo nella sua concreta personalità storica deve in certo modo frequentarlo, come l’hanno frequentato gli apostoli… Anche oggi un uomo deve ripetere in certa maniera e misura l’esperienza dei primi discepoli”. Per tutta la vita Giussani ha trasmesso questo a chi lo ha incontrato. E allo stesso modo oggi il metodo più sicuro per conoscere il don Gius è entrare in contatto diretto con chi lo ha conosciuto, con chi gli è stato amico. E’ anche il metodo migliore per rispondere a quella prima impressione, “cos’hanno di bello tutti costoro?”, che è sempre quella giusta. Nasce da questa intuizione semplice, ma metodologicamente fondata, un libro curato da Massimo Borghesi, filosofo, dal titolo “In comunione e in libertà-Don Giussani nella memoria dei suoi amici” (Studium edizioni) che permette di fare proprio questo: incontrare il don Gius attraverso la vita, gli incontri e la storia che la personalità di questo “strano professore di religione ‘brutto e affascinante’”, come lo ricordò molti anni dopo uno dei suoi primi allievi al liceo Berchet, Giuliano Pisapia, seppe suscitare. Il tentativo insomma di restituire – soprattutto ai giovani – non solo il pensiero, quasi fosse ormai “un classico” da studiare, ma la fisicità viva di quella sua voce roca, l’intensità dello sguardo, la battuta e la cordialità che “facevano accadere” le cose che diceva. Dunque, scrive Borghesi, il criterio scelto è quello della conoscenza diretta. Il libro raccoglie contributi “di persone che hanno conosciuto direttamente e realmente don Giussani, in grado di documentarne l’umanità, oltre che le idee. Di parlare di lui, di com’era davvero”. Una ventina di racconti, diretti e in prima persona. Ci sono nomi noti per la storia di Cl e anche al di fuori di essa. Da Giulio Andreotti (con un suo ricordo del 2011) al “giovane giessino” Rocco Buttiglione. Altre invece sono meno solite alla platea pubblica, come la commovente, potente, testimonianza di Monica Della Volpe, monaca trappista e a lungo badessa nel monastero di Vitorchiano nel Lazio: “Eravamo a Varigotti, una ‘tre giorni’ di giovani, e per la prima volta ho ascoltato la parola di quel prete. Ero imbevuta dello spirito del mondo e al primo colpo l’ho odiato. E’ stata come un’esplosione”, racconta ricordano con impressionante nettezza l’avvenimento decisivo di tanti anni fa. C’è la testimonianza del cardinale Scola e quella della musicista Marina Valmaggi, una delle “voci” del canto di Cl. Sfaccettature e intuizioni anche inconsuete di persone come Giorgio Vittadini o Carlo Wolfsgruber, uno dei primissimi collaboratori e responsabile dei Memores, che di questo loro rapporto non hanno però raccontato spesso. Non lo ha incontrato di persona, ma la sua presenza in questo volume dice molto, l’intellettuale teologo musulmano Wael Farouq, da anni impegnato nella promozione di “Il senso religioso” nel mondo islamico. Giuseppe Frangi è stato testimone diretto, tra le molte altre cose, del primo incontro tra Giussani e Giovanni Testori, pochi giorni dopo il rapimento Moro: Incredibilmente icastico nel mostrare la forza umana del “metodo” di Giussani: “In un ristorante di piazza Aquileia, a poche decine di metri dalle mura del carcere di San Vittore”. “Testori titubante e teso: non si sentiva ‘degno’ di questa opportunità”. Entrano nel ristorante, seduto a un tavolo in fondo alla sala c’è Giussani che lo attende in compagnia di alcuni amici. “Appena lo vide, si alzò per andargli incontro. Giovanni era totalmente commosso, sino alle lacrime. Don Giussani, anche lui commosso, lo abbracciò”. Il secondo criterio che Borghesi ha voluto usare “è quello di una memoria condivisa. Giussani ha coinvolto nella storia del suo movimento persone diverse, con sensibilità diverse che non sempre si sono incontrate”. Ma questa polifonia di voci è oggi la prova migliore di quella “comunione in libertà”».
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