La Versione di Banfi

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Il Papa dà scandalo

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Il Papa dà scandalo

Reazioni alle parole di Francesco alla Civiltà Cattolica. Domani i leader europei a Kiev. Terremoto nella politica italiana: Salvini e Conte studiano che fare. Vertice della Bce per calmare i mercati

Alessandro Banfi
Jun 15, 2022
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Il Papa dà scandalo

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Alla vigilia della visita a Kiev di Mario Draghi, Emmanuel Macron e Olaf Scholz, i destini della guerra sembrano legati all’esito della battaglia di Severodonetsk. Gli esperti militari non vedono altri scenari: entro qualche settimana si potrebbe concludere la conquista russa del Donbass. Eppure sembra che la diplomazia non sia ancora in grado di fare i passi giusti. Ci sono stati timidi segnali di dialogo sullo scambio dei cadaveri dei soldati da una parte e dall’altra e in parte sulla vicenda del grano ucraino. Vicenda su cui i leader europei torneranno nelle prossime ore. Nel frattempo la Bei, la Banca europea degli investimenti ha diffuso dei dati allarmanti sulle conseguenze economiche del conflitto. In Italia, sottolinea oggi il Fatto, questi quattro mesi di crisi bellica avrebbero provocato quasi 800 mila poveri in più. Un prezzo altissimo. Papa Francesco, in casuale sovrapposizione con la diffusione dei dati europei, ha reso noto il messaggio per la Giornata Mondiale dei poveri del prossimo novembre, in cui stigmatizza “quanti poveri genera l’insensatezza della guerra”.  

A proposito di Bergoglio, sui giornali di oggi ci sono ancora molte reazioni alla potente intervista del Papa con i direttori delle riviste dei gesuiti, anticipata ieri da Avvenire e La Stampa (ripropongo il pdf integrale). Domenico Quirico la commenta con grande passione. Il Papa, scrive Quirico, “pronuncia parole di una tale immensità che, a ripensarle una ad una, paiono osatissime. Frusta la Russia e la sua guerra «imperiale e crudele» e cita i mercenari con cui la conduce, ceceni e siriani. Ma poi impavido sfida anche la nostra verità di Occidente, il nostro sentirci sempre automaticamente dalla parte della ragione. Un errore che ci è costato guerre perdute, vittime tradite e abbandonate al loro destino, isolamento dall'Iraq all'Afghanistan”. Maurizio Belpietro sulla Verità ironizza sul “putiniano” Bergoglio e sfida il Corriere della Sera ad includerlo nelle sue liste di proscrizione.  

Il voto amministrativo di domenica ha sconvolto, ad un anno dalle prossime elezioni politiche, il panorama delle forze in campo. La Lega di Matteo Salvini è in fermento. Mentre è agitato anche il campo dei 5 Stelle, gli altri grandi sconfitti dalle urne. In ballo c’è il destino del governo, visto che i voti parlamentari sono indispensabili all’esecutivo di Mario Draghi. Anche i “vincitori” stanno metabolizzando i numeri, in primis Giorgia Meloni che si sente alla vigilia di un passaggio storico, di fatto conquistando la leadership del centro destra.

Sono le nubi che si addensano sull’economia a preoccupare. I rendimenti dei tassi dei nostri Buoni del Tesoro si sono drammaticamente alzati: a questo livello la spesa pubblica dello Stato italiano aumenterà di 6 miliardi. Questa mattina si terrà un vertice di emergenza del Consiglio direttivo della Banca centrale europea. L'incontro, che dovrebbe essere una riunione formale del Consiglio stesso, è stato convocato per discutere la situazione di tensione sul mercato dei titoli di Stato di questi giorni. Speriamo che dopo le mosse infauste di Christine Lagarde, la Bce sappia rassicurare i mercati e fermare la corsa al rialzo di spread e titoli.

È scomparso all’età di 85 anni il grande scrittore Abraham B. Yeoshua, l’autore del meraviglioso Il signor Mani, molto popolare anche nel nostro Paese. E, a sua volta, grande ammiratore dell’Italia.

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LA FOTO DEL GIORNO

Alluvione improvvisa nel Parco di Yellowstone negli Usa. L’immagine ritrae il punto dell’autostrada in Montana colpito dall’ondata di maltempo nella giornata di lunedì. Che ha interrotto i collegamenti. Il più famoso parco naturale degli Usa è stato chiuso.

Foto Larry Mayer/The Billings Gazette, via Associated Press

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il terremoto provocato dal voto amministrativo sta mettendo a dura prova i partiti sconfitti. Il Corriere della Sera si concentra su Salvini: Lega, è tensione. Primi scossoni per il governo. Anche La Repubblica punta sullo stesso tema: Lo strappo di Salvini. Il Domani spiega le mosse dei prossimi giorni: La Lega ferita alle elezioni prepara una nuova fase di logoramento del governo. Il Giornale incita i sostenitori del centro destra: Un anno per vincere. Libero nota che: Si apre la caccia a Giorgia. Il Quotidiano Nazionale è melanconico: C’erano una volta Lega e Cinque stelle. Il Manifesto usa un titolo “calcistico” insieme alla foto dell’ex giocatore Damiano Tommasi, che andrà al ballottaggio a Verona: Secondo tempo. Il Mattino teme il pressing leghista: Giustizia, pensioni e fisco. La Lega incalza il governo. La Stampa invece dà credito ai malumori fra i 5 Stelle: M5S, Conte minaccia la crisi: “Ce lo chiedono i cittadini”. Del conflitto in Ucraina o meglio delle sue conseguenze sul piano economico si occupano Il Fatto: 500 mila aziende in rosso e 770mila poveri in più. E Avvenire: La guerra ci fa poveri. La Verità torna sulla bella intervista di Bergoglio a Civiltà cattolica per ironizzare sulle liste di proscrizione: Un altro putiniano per la lista si chiama Francesco e fa il Papa. Il Messaggero promette: «Luce e gas, sconto in bolletta». Il Sole 24 Ore è invece pessimista: Btp, tassi ai massimi da 10 anni. Meno gas per l’Europa e il prezzo vola.

I RUSSI AVANZANO SU LYSYCHANSK

Il fronte della guerra è a Severodonetsk, dove infuria la battaglia chiave per la conquista del Donbass. Il reportage di Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera.

«Siete fortunati, oggi i russi bombardano meno. Ieri era un inferno», esclama sorridente il soldato Vitaly, che controlla il traffico in entrata all'area urbana. Avrà tutte le ragioni per dirlo, ma a noi non sembra affatto tranquillo qui attorno. L'artiglieria russa bombarda senza sosta la zona industriale di Severodonestk, che sta proprio di fronte, dall'altra parte del fiume. In realtà Lysychansk è separata dalla città gemella soltanto dal corso d'acqua, che adesso è quasi in secca e i soldati ucraini incontrano poche difficoltà a raggiungere a piedi il poco che ancora controllano di Severodonetsk passando sui resti dei tre ponti distrutti. I soldati ci dicono che non possiamo fotografare. Ma tra loro si riprendono di continuo e postano i video in Rete. Si distingue bene l'area della fabbrica chimica Azot, dove sono rifugiati oltre 500 civili, alte colonne di fumo nero ne marcano il perimetro tra le ciminiere e gli enormi depositi-silos. Le strade di Lysychansk sono sporche di rottami, macerie e posti di blocco abbandonati, i mezzi dei soldati le percorrono a tutto gas, non c'è più pazienza per i controlli. «La battaglia dall'altra parte del fiume è ancora in corso, ma presto qui sarà la prima linea e allora diventerà una storia diversa, i russi proveranno ad attraversare e prima spareranno alzo zero con l'artiglieria per distruggere i nostri rifugi», dice il sergente Andreii Budulai, 37 anni, della 118esima brigata. «Resistiamo. Combattiamo bene. Però sono due mesi che nel Donbass stiamo lentamente perdendo terreno, giorno dopo giorno. I russi hanno concentrato qui tutto il loro esercito, subiscono perdite dieci volte più gravi delle nostre, ma per ora continuano ad avanzare», aggiunge sottovoce, per non farsi sentire dal comandante.
A differenza che in tutte le altre regioni dove abbiamo seguito la guerra voluta da Putin il 24 febbraio, nel Donbass non è difficile trovare nette simpatie pro-Mosca tra i pochi civili rimasti. «Voi giornalisti occidentali siete troppo disposti ad ascoltare la propaganda di Zelensky. Non sapete che le forze ucraine sparano sui civili per poi accusare Mosca?», sostiene Irina, una 65enne con la borsa della spesa in mano.
Una vicina, tra le amiche raccolte nel cortile del loro casermone dai vetri rotti per gli spostamenti d'aria, le urla di stare zitta. «La scusi, da giovane lavorava per i servizi d'informazione sovietici, è una nostalgica dell'Urss, crede che Putin possa riportarla alla sua infanzia», ci spiega. Ma non c'è tempo per le discussioni. Nell'aria si disegna la traccia inquietante di un missile russo: da una macchia d'alberi nel mezzo di un campo non troppo lontano sparano le contraeree e il missile si schianta a qualche chilometro di distanza. All'orizzonte, una nube nera e il rombo amplificato da decine di altri scoppi. Siamo arrivati ieri a metà giornata su questo che al momento è il campo di battaglia più importante del Paese. I russi hanno ormai quasi completamente circondato Severodonetsk e ieri offrivano un «corridoio umanitario» per i civili. Il prezzo da pagare però è lo stesso che prevaleva a Mariupol sino allo scorso 20 maggio: accettare di essere trasferiti nelle zone controllate delle milizie filorusse del Donbass. Oggi il campo per gli sfollati dovrebbe essere a Svatovo, una sessantina di chilometri più a nord-est, nel Lugansk separatista. La strada per Kramatorsk è difficile, si snoda tra piccoli villaggi semiabbandonati dove le postazioni ucraine sono continuamente prese di mira dalle granate russe. Sparano duro dalla zona di Popasna nel sud e da Kreminna nel nord. Lysychansk appare ormai come una testa di ponte attaccata da tre lati e braccata dal rischio di restare a sua volta accerchiata».

GLI USA: FORNIREMO ALTRE ARMI AGLI UCRAINI

Gli americani forniranno nuove armi  e annunciano: "Non abbandoniamo l'Ucraina". Il capo del Pentagono Lloyd Austin oggi a Bruxelles per il vertice dei ministri alleati sugli aiuti a Kiev. Il punto di Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«Forniremo agli ucraini le attrezzature militari di cui hanno bisogno, con la rapidità umanamente possibile». Se c'era ancora qualche dubbio sulla determinazione degli Usa a continuare il sostegno bellico di Kiev, tra l'avanzata russa nel Donbass, e il presidente Biden che rimprovera Zelensky di non averlo ascoltato quando lo avvertiva dell'invasione imminente, a fugarlo ci pensa l'ambasciatrice alla Nato Julianne Smith. E sul piano di pace proposto dall'Italia aggiunge: «Siamo scettici che i russi negozino in buona fede». Smith parla con i giornalisti alla vigilia della visita del capo del Pentagono Austin, oggi e domani a Bruxelles per la riunione del gruppo di contatto che fornisce aiuti militari all'Ucraina, e la ministeriale Nato in vista del vertice di Madrid. «I circa 50 Paesi del Contact Group che assistono Kiev si riuniscono per discutere la situazione sul terreno, e valutare quali contributi addizionali per la sicurezza possono fornire, nell'immediato e nel lungo termine, per aiutare l'Ucraina a vincere questa guerra. Gli Usa chiariranno che resteremo uniti a Kiev per tutto il tempo necessario. «Da quando è presidente Biden, abbiamo dato aiuti per 5,3 miliardi di dollari». La ministeriale di domani riguarderà «la postura della Nato nel quadro della guerra, il nuovo concetto strategico e la riaffermazione della politica della porta aperta. Appoggiamo l'ingresso di Finlandia e Svezia perché renderanno l'Alleanza più forte». Kiev lamenta che i russi sono dieci volte superiori in termini di armamenti: «La decisione di ospitare la terza riunione del Contact Group ha proprio lo scopo di valutare i loro bisogni e richieste. L'idea è sentire direttamente gli ucraini, e determinare che tipo di contributo vogliono dare i Paesi membri. È un processo in evoluzione. Il momento è critico, e i leader concordano sulla necessità di incontrarsi per valutare cosa possono fare in più». Kiev dice che è un processo lento, rispetto all'avanzata russa, e mette in dubbio la determinazione della Nato ad aiutarla: «Gli alleati sono stati estremamente reattivi. Sentiamo gli ucraini ogni giorno e la lista si evolve. All'inizio della guerra parlavamo di difese aeree, poi munizioni, protezione delle coste, artiglieria, razzi, mezzi corazzati. Continueremo a stare in stretto contatto coi militari di Kiev, valutare i bisogni, e fornire le attrezzature con la rapidità umanamente possibile». Lasciando da parte il viaggio di Matteo Salvini pagato da Mosca, il commento sul piano di pace italiano è questo: «Ringraziamo Roma per i suoi contributi, è un alleato straordinario. Biden ha detto che la soluzione dovrà venire dai negoziati. Noi abbiamo fatto diverse proposte, prima dell'invasione, però Putin ha scelto la guerra. Sosteniamo tutti i Paesi che cercano una via diplomatica, ma siamo scettici che i russi negozino in buona fede. Gli ucraini erano andati al tavolo con proposte serie, Mosca no. Ora la questione è nelle mani di Zelensky: lui dovrà determinare quando sarà pronto per sedersi al tavolo, e come procedere». In discussione ci sarà la postura della Nato in Europa orientale: «Avevamo mandato 4 battaglioni, e dopo il 24 febbraio li abbiamo portati a 8. A Madrid i leader decideranno iniziative concrete per il medio e lungo termine», che potrebbero includere una nuova base a Est, dopo lo spostamento in Lituania di un quartier generale a livello di brigata. Su Mar Nero e grano «continuano le discussioni a vari livelli », mentre per l'ingresso di Svezia e Finlandia «puntiamo ad averle a Madrid come invitate».

DOPO 4 MESI DI GUERRA QUASI 800MILA POVERI IN PIÙ

Rapporto choc della Bei, la Banca europea degli investimenti. Dall’inizio della guerra si sono creati in Italia 770 mila poveri in più. Nicola Borzi per Il Fatto.

«L'invasione russa in Ucraina non è solo una catastrofe umanitaria, con decine di migliaia di morti e sette milioni di cittadini di Kiev, uno su sei, fuggiti dal Paese. L'aggressione del Cremlino, da frattura geopolitica, è divenuta un fattore di instabilità economica globale che finirà per colpire maggiormente l'economia europea, aumentando inflazione, povertà, tensioni aziendali e finanziarie. L'Italia è in prima linea: rispetto alla situazione precedente al 24 febbraio, data di avvio dell'"operazione militare speciale" di Putin, il conflitto porterà a rischio di povertà altri 775 mila italiani, pari alla popolazione dell'intera provincia di Lecce. Lo attestano i dati di "Quanto è grave la guerra in Ucraina per la ripresa europea?", il rapporto pubblicato ieri dalla Banca europea per gli investimenti (Bei), che mostrano con chiarezza l'impatto della guerra sull'economia europea, appena uscita dalla crisi pandemica e alla ricerca di una via di ripresa con il Pnrr. Le analisi mostrano che l'aumento dell'inflazione scatenata dai rincari dell'energia potrebbe spingere un numero crescente di europei sotto la soglia di povertà, in particolare nei Paesi dell'Europa centrale e sudorientale. Il rischio povertà in Italia passerà dal 23,4% del 2019 al 24,6%, con un aumento dell'1,3%. Ma non basta: la quota di imprese della Ue che chiuderanno i conti in perdita salirà dalla media "normale" dell'8% pre-conflitto al 15% nel 2023. Anche la quota di imprese che rischiano il fallimento passerà dal 10% al 17% nello stesso periodo. Su 5,16 milioni di imprese italiane attive a fine marzo, la guerra rischia dunque di mandarne "in rosso" il 9,6% in più, oltre 495 mila.
Secondo la Bei, sin dall'inizio della guerra in Ucraina, le proiezioni di crescita economica per l'Europa sono state riviste al ribasso e le stime di inflazione sono aumentate. Le previsioni più recenti, che tengono conto dell'accresciuta incertezza e degli choc sui prezzi delle materie prime, suggeriscono che la crescita del prodotto interno lordo (Pil) reale nell'Unione europea per il 2022 è scesa dal 3,9% di febbraio al 2,7% di maggio, con una riduzione maggiore (-1,3%) per l'Italia. Il calo di 1,2 punti percentuali nella previsione di crescita dell'eurozona è maggiore di quasi un punto percentuale rispetto al calo previsto negli Stati Uniti (dal 3,7% al 2,7%) e di mezzo punto percentuale previsto per il Regno Unito (dal 4,3% al 3,8%). Prima della guerra, il divario tra la crescita del Pil tra l'eurozona e gli Stati Uniti si stava riducendo, ma il conflitto rischia ora di impedire all'Europa di recuperare il ritardo, spegnendo l'accelerazione registrata dopo la crisi del Covid - anche grazie agli interventi di Bruxelles - che aveva messo l'Europa sulla buona strada per colmare già da quest' anno il divario con gli Stati Uniti. Le stime per la crescita del Pil reale nel 2022 sono state riviste al ribasso in modo particolarmente forte in Italia, Germania ed Europa centrale e orientale, anche per la correlazione negativa tra la revisione della previsione di crescita del Pil reale e la dipendenza dei diversi Paesi europei dal gas russo. Nel complesso, l'invasione russa dell'Ucraina potrebbe ridurre la crescita del Pil europeo fino a 1,5 punti percentuali nel 2022 e nel 2023. Non a caso, durante la visita ufficiale di ieri in Israele, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha affermato che "il Cremlino ha sfruttato la nostra dipendenza dalle energie fossili russe per ricattarci. Dall'inizio della crisi la Russia ha tagliato intenzionalmente le forniture di gas alla Polonia, alla Bulgaria, alla Finlandia e a compagnie olandesi e danesi in ritorsione contro il nostro sostegno all'Ucraina. Ma il comportamento del Cremlino - ha aggiunto Von der Leyen - non farà che rafforzare la nostra determinazione a liberarci dalla dipendenza dalle energie fossili russe. La aggressione russa all'Ucraina è una guerra contro la democrazia stessa. Oggi più che mai le democrazie in Europa come in Israele devono stringersi assieme". La presidente della Commissione vuol garantire all'Unione europea un accordo con Israele sulla cooperazione energetica, per realizzare il cavo elettrico sottomarino tra Israele Cipro e la Grecia e un gasdotto nel Mediterraneo orientale. Intanto però l'Europa deve fronteggiare l'inflazione, in particolare sul fronte dei generi alimentari e dell'energia, che colpirà soprattutto le famiglie più povere. Secondo la Bei, l'inflazione innescata dalla guerra quest' anno potrebbe ridurre i consumi privati reali nell'Unione europea dell'1,1%, anche se l'impatto varierà da Paese a Paese. L'aumento dei prezzi aumenterà la quota di persone a rischio povertà, che in Italia crescerà dell'1,3%, in particolare sul fronte della povertà energetica. Sotto il fuoco finiranno anche le imprese Ue, già indebolite dalla crisi del Covid, in particolare quelle più piccole che erano alle prese con la difficoltà di resistere alla fine dei sostegni pubblici per la pandemia. Sono tre, per la Banca europea degli investimenti, i possibili canali di contagio: la riduzione delle esportazioni, l'aumento dei costi causato dall'aumento dei prezzi dell'energia e la contrazione delle credito bancario, più sentita in Germania, Spagna e Italia. Chimica e farmaceutica, trasporti, alimentare e agricoltura saranno i settori più colpiti. Tra le più esposte ci saranno le imprese dei Paesi più vicini a Ucraina e Russia, come Ungheria, Polonia, Lettonia e Lituania. Le aziende di Grecia, Croazia e Spagna saranno più colpite rispetto alla media Ue, ma anche quelle di Austria, Germania, Italia, Romania e Portogallo subiranno maggiormente l'aumento dei prezzi dell'energia. Quanto alla finanza, l'impatto sulle banche dovrebbe rimanere contenuto. Nel complesso, il sistema bancario europeo ha poca esposizione diretta verso Ucraina, Russia e Bielorussia, fatta eccezione per una manciata di banche, tra le quali però spiccano i due "campioni nazionali" italiani, UniCredit e Intesa Sanpaolo, insieme ad alcuni concorrenti esteri. Tuttavia, queste banche hanno rafforzato le riserve di capitale a sufficienza per resistere alla svalutazione delle loro attività in Ucraina e Russia. Per la Bei, infine, la guerra porterà a un deterioramento dei conti pubblici degli Stati Ue, non solo a causa delle spese umanitarie e delle misure redistributive per aiutare le famiglie a far fronte all'aumento dei prezzi dell'energia - su questo fronte l'Italia svetta insieme alla Francia, con misure pari sinora allo 0,6% del Pil - ma anche per gli aumenti della spesa militare. Anche le entrate dovrebbero essere inferiori al previsto data la frenata economica. Così la guerra in Ucraina mette a nudo le fragilità dell'Europa, vaso di coccio stretto tra quelli di ferro, Stati Uniti e Russia».

IL PAPA E LA GUERRA 1. “CI RENDE PIÙ POVERI”

In concomitanza casuale con i dati rilanciati dalla Bei, anche papa Francesco parla delle conseguenze economiche della guerra, che ricadono sui più poveri. L’occasione è data dalla diffusione del Messaggio per la Giornata mondiale dei poveri, che sarà celebrata il prossimo 13 novembre. Qui l’integrale in pdf del messaggio per la giornata mondiale. La cronaca di Gianni Cardinale per Avvenire.

«Quanti poveri genera l'insensatezza della guerra! Dovunque si volga lo sguardo, si constata come la violenza colpisca le persone indifese e più deboli. Deportazione di migliaia di persone, soprattutto bambini e bambine, per sradicarle e imporre loro un'altra identità». Il grido di dolore del Papa per la guerra, per la guerra in Ucraina, per ogni guerra si alza di nuovo con il Messaggio scritto in vista della prossima Giornata mondiale dei poveri - la sesta da quando l'ha istituita al termine del Giubileo della misericordia - che si celebrerà il prossimo 13 novembre sul tema 'Gesù Cristo si è fatto povero per voi', tratto dalla seconda lettera ai Corinzi di San Paolo. Il testo, diffuso ieri e presentato in Sala stampa della Santa Sede dall'arcivescovo Rino Fisichella e da monsignor Graham Bell, si apre con la denuncia della «nuova sciagura » che, dopo la pandemia di covid-19, «si è affacciata all'orizzonte »: ovvero quella «guerra in Ucraina venuta ad aggiungersi alle guerre regionali che stanno mietendo morte e distruzione». «Ma qui il quadro si presenta più complesso per il diretto intervento di una 'superpotenza', che intende imporre la sua volontà contro il principio dell'autodeterminazione dei popoli », denuncia il Papa. Nessun nome, ma il riferimento alla Russia è chiaro. «Si ripetono - aggiunge il Pontefice scene di tragica memoria e ancora una volta i ricatti reciproci di alcuni potenti coprono la voce dell'umanità che invoca la pace». Nel suo Messaggio il Papa denuncia l'«idolo della ricchezza» davanti al quale anche i fedeli rischiano di inchinarsi. «Nulla di più nocivo potrebbe accadere a un cristiano e a una comunità - scrive - dell'essere abbagliati dall'idolo della ricchezza, che finisce per incatenare a una visione della vita effimera e fallimentare». Per il Pontefice poi «davanti ai poveri non si fa retorica, ma ci si rimbocca le maniche e si mette in pratica la fede attraverso il coinvolgimento diretto, che non può essere delegato a nessuno». Quindi la denuncia del fatto che a volte «può subentrare una forma di rilassatezza, che porta ad assumere comportamenti non coerenti, quale è l'indifferenza nei confronti dei poveri». Non solo. Ma succede anche che «alcuni cristiani, per un eccessivo attaccamento al denaro, restino impantanati nel cattivo uso dei beni e del patrimonio». Francesco ricorda che il problema non è il denaro in sé, ma «il valore che il denaro possiede per noi: non può diventare un assoluto, come se fosse lo scopo principale». Non si tratta quindi «di avere verso i poveri un comportamento assistenzialistico: è necessario invece impegnarsi perché nessuno manchi del necessario». Infatti «non siamo al mondo per sopravvivere, ma perché a tutti sia consentita una vita degna e felice ». «Non è l'attivismo che salva, - esorta il Pontefice - ma l'attenzione sincera e generosa che permette di avvicinarsi a un povero come a un fratello che tende la mano perché io mi riscuota dal torpore in cui sono caduto». E non manca l'invito «urgente» a trovare «nuove strade che possano andare oltre l'impostazione di quelle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che unisca i popoli». Papa Francesco infine ribadisce che «c'è una povertà che umilia e uccide, e c'è un'altra povertà», quella di Gesù, «che libera e rende sereni ». La povertà che uccide «è la miseria, figlia dell'ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza e della distribuzione ingiusta delle risorse ». È «la povertà disperata, priva di futuro, perché imposta dalla cultura dello scarto che non concede prospettive né vie d'uscita». È «la miseria che, mentre costringe nella condizione di indigenza estrema, intacca anche la dimensione spirituale, che, anche se spesso è trascurata, non per questo non esiste o non conta». Così «quando l'unica legge diventa il calcolo del guadagno a fine giornata, allora non si hanno più freni ad adottare la logica dello sfruttamento delle persone: gli altri sono solo dei mezzi». Così «non esistono più giusto salario, giusto orario lavorativo, e si creano nuove forme di schiavitù, subite da persone che non hanno alternativa e devono accettare questa velenosa ingiustizia pur di racimolare il minimo per il sostentamento». La povertà che libera, al contrario, sostiene Francesco, «è quella che si pone dinanzi a noi come una scelta responsabile per alleggerirsi della zavorra e puntare sull'essenziale». Come ha fatto san Charles de Foucauld «che, nato ricco, rinunciò a tutto per seguire Gesù e diventare con Lui povero e fratello di tutti».

IL PAPA E LA GUERRA 2. “È UN CRIMINE”

Sui giornali di oggi ci sono ancora reazioni alle importanti parole di Papa Francesco pronunciate nella bella intervista collettiva dei direttori gesuiti delle varie edizioni di Civiltà Cattolica, di cui hanno parlato ieri Avvenire e La Stampa. Trovate qui la paginata di ieri di Avvenire. La Stampa ha intervistato oggi il nunzio apostolico a Kiev Visvaldas Kulbokas, che dice: "Papa Francesco ha l'autorità morale per mediare ma agiscano tutti i leader religiosi. Letizia Tortello per la Stampa.

««Per risolvere questa guerra non vedo soluzioni diplomatiche o politiche. Si fermino le armi. Anche un bambino morto è un crimine, perché in lui tutto il mondo viene ucciso». Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico in Ucraina, è in prima linea, profondamente segnato da questi mesi di conflitto, ma da febbraio ha interrotto ogni attività collaterale per fare fronte agli impegni di un Paese che sta vivendo drammi umanitari indicibili. Accetta di parlare, perché è «importante lanciare un messaggio di verità». Ricorda le migliaia di appelli di disperazione che ha raccolto, di ucraini a cui la guerra ha tolto tutto.

Arcivescovo, crede in una possibilità di pace?
«In questo momento c'è una guerra feroce. La responsabilità è di chi l'ha scatenata. Ci possono essere anche concause, ma non è il momento di indagarle. Di fronte alle atrocità, alla disumanità che vediamo, quelle domande perdono senso, perché non c'è nessun'altra scelta che si possa giustificare se non quella di fermare le armi. Non vedo mediazioni politiche efficaci. Chi sta attaccando deve porre fine allo spargimento di sangue, ci sono centinaia, spesso migliaia di vittime civili e militari ogni giorno.
Nel mondo attuale noi rispettiamo gli animali. Mi chiedo: stiamo davvero rispettando gli esseri umani almeno allo stesso livello degli animali?».

È giusto armare Kiev, o si rischia un'escalation?
«Non spetta a me lanciarmi in discussioni di quante armi e chi dovrebbe possederle, ma è chiaro che la domanda non può riguardare solo l'Ucraina, ma, ancora prima di essa, la Russia. Tuttavia, di fronte a Dio, non è questo il fulcro. La risposta so che non deve essere mai la guerra, ma la conversione, non soltanto di chi ha cominciato la guerra, cioè dell'aggressore. Perché ogni guerra, e io ora parlo dall'Ucraina martoriata, interpella l'umanità intera. Non è giusto che nei Paesi lontani c'è chi possa pensare "Non ci riguarda"; tale atteggiamento è disumano. La Chiesa ha solo l'arma spirituale della conversione, altrimenti rimaniamo sul campo militare, con gli esiti che conosciamo».

Papa Francesco è l'unica carta per convincere Putin?
«Auspico davvero una sua mediazione. La disponibilità del Santo Padre è molto importante. Ci vuole un'autorità morale che sia un conciliatore adatto. Oserei pensare che sarebbe ancora meglio se i rappresentanti di tutte le confessioni mondiali lo facessero insieme. Ma è evidente che Papa Francesco è considerato una voce unica. Questo è il mio desiderio, ma non vedo segnali che si possa realizzare».

Domani ci saranno i tre più autorevoli leader europei a Kiev: Draghi, Scholz e Macron. La politica non può giocare un ruolo?
«Per rispondere faccio l'esempio di una cosa che mi è capitata domenica scorsa con le religiose della Nunziatura. Per le strade della capitale abbiamo notato un cartello pubblicitario che diceva "Gloria a Dio", prima ancora di "Gloria all'Ucraina, gloria agli eroi", il saluto diventato tradizionale qui.
Non vedo nessuna via d'uscita se non invocare il Signore. La politica sottopone sempre il proprio interesse economico all'interesse umanitario. Quando si parla di aiuti economici, vediamo arrivare grandi somme all'Ucraina. Ma rispetto ai bilanci commerciali, o alle spese militari dei Paesi, sono cifre ridicole. Gli interessi economici vincono sempre, ma lo ripeto, non è il mio campo, dunque potrei sbagliare».

Domenico Quirico sulla Stampa riflette sullo “scandalo” papale.

«E adesso? Adesso che il Papa dà scandalo? Le sue parole, con il travaglio dei giorni e dei mesi che passano senza pace, sulle colpe, le omissioni, i silenzi sulla guerra scottano e infiammano. E urtano. Che cosa faranno gli intellettuali immaginari, i politici, quelli che sanno tutto fin dal primo giorno e che pensano che la soluzione alla guerra scatenata dall'aggressione criminale di Putin sia solo la guerra? Metteranno in fila, a loro volta, le parole e diranno: incredibile, il Papa è diventato putiniano! ma cosa conta in fondo quello che dice? È il suo mestiere quello di essere fuori dalla Storia, di pronunciare innocue e paradossali parabole... I maestri del sospetto, i cacciatori di quinte colonne ed infiltrati, per cui ogni distinguo e ragionamento (che è «il ridurre la complessità alla distinzione tra buoni e cattivi senza ragionare su radici e interessi che sono molto complessi» come ha detto Francesco parlando ai direttori delle riviste culturali della Compagnia di Gesù) è automaticamente tradimento, diserzione, delitto, non lo attaccheranno frontalmente. Forse faranno come quando Francesco fece riferimento «all'abbaiare della Nato alle porte della Russia...» e lo striminzirono nel silenzio. Francesco procede imperterrito per la strada dei suoi ritmi: vita morte guerrieri vittime deportati e profughi. Dolore si chiama il mistero verso cui ci chiede di camminare. Dall'inizio della guerra la sola cosa che ha un significato per lui è il dolore di una terra coperta di sangue. E per questo rende omaggio agli ucraini «un popolo coraggioso che sta lottando per sopravvivere e che ha una storia di lotta». Se tutti gli uomini avessero operato per il bene e solo per il bene non ci sarebbe la guerra, neppure questa guerra. Ma questa verità al Papa impone la domanda: se questo male sono gli atti degli uomini o il non fare degli uomini di chi sono le colpe, tutte le colpe? Pronuncia parole di una tale immensità che, a ripensarle una ad una, paiono osatissime. Frusta la Russia e la sua guerra «imperiale e crudele» e cita i mercenari con cui la conduce, ceceni e siriani. Ma poi impavido sfida anche la nostra verità di Occidente, il nostro sentirci sempre automaticamente dalla parte della ragione. Un errore che ci è costato guerre perdute, vittime tradite e abbandonate al loro destino, isolamento dall'Iraq all'Afghanistan. Il 24 di febbraio è l'inizio di tutto e Putin ha imposto con la violenza questo inizio su cui dobbiamo come democrazie, obbligatoriamente, fare la nostra scelta: aiutare l'Ucraina e fermare l'autocrate. Il Papa lo conferma, non ci chiede certo di restare vuoti e inerti. Ma aggiunge: ci può bastare? Non rischiamo di «vedere solo una parte e non l'intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra che in qualche modo è stata provocata o non impedita»? Non è una domanda teologica o apocalittica, è una domanda politica. E forse è proprio questo lo scandalo. Chi critica il Papa vorrebbe una chiesa che non dà scandalo, che si accoda, che fa la crocerossina della Storia, che invia aiuti umanitari e distribuisce prediche. Le si ingiunge di essere giudiziosamente savia e non più di portare la distruzione e il sovvertimento di una verità folle, di ripetere stancamente che tutto quelle che si può fare è attendere che la grande quaresima del dispotismo , per miracolo, alla fine arrivi. La tollerante rassegnazione che rende a vita più sopportabile è il porto dove approdano, purtroppo, tutti i fallimenti anche quelli della fede. Il Papa deve imporci semmai lo Scandalo di mettere insieme nella processione russi e ucraini, di non mettere segni sulle bandiere della Nato, di incontrare chissà! gli aggrediti di Kiev e Kirill, «il chierichetto di Putin». Le scandalose parole del Papa sono una riflessione sulla natura della guerra, di questa guerra. La si può fare per odio, per desiderio di preda, per rovesciare un avversario che diventa pericoloso, per pazzia e sadismo, per amore del potere, per mestiere. Si può fare la guerra per obbedienza ,perché sei stato aggredito e non hai altra possibilità o per un progetto di unificazione e di gloria o per il desiderio di vendicare una ingiustizia. O come dice il Papa per «l'interesse di testare e vendere armi... e alla fine è proprio questo a essere in gioco». Tutte queste ragioni, prima o dopo, vi sono mescolate, si confondono e talora si corrompono reciprocamente Il Papa ci impone di ricordare che a guerra giusta non esiste, è un mito insipido che non dobbiamo condividere con le bugie dei prepotenti. E che alla fine, rende tutto, anche il dolore, insignificante».

Maurizio Belpietro sulla Verità ironizza sulle recenti liste di proscrizione dei presunti “putiniani d’Italia” e sfida il Corriere della Sera ad includere anche papa Francesco nella lista. Perché ha detto: «Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici».

«Devo segnalare il nome di un altro pericoloso putiniano con cui integrare la lista compilata dal Dipartimento della sicurezza nazionale e diffusa con tanto di foto segnaletiche qualche giorno fa dal Corriere della Sera. Ai nove temibili editorialisti e influencer indicati dal quotidiano di via Solferino va infatti aggiunto Jorge Mario Bergoglio, meglio noto come papa Francesco. Il Pontefice ha incontrato i direttori delle riviste della Compagnia di Gesù e con loro ha avuto una lunga conversazione, sintetizzata da Civiltà Cattolica e pubblicata ieri dalla Stampa. Settimane fa, il vicario di Cristo si era già esposto con una frase che a molti era parsa un'accusa nei confronti dell'Alleanza atlantica e più in generale degli Stati Uniti. Dopo aver espresso solidarietà al popolo ucraino e condannato l'invasione russa, chiedendo di far tacere i cannoni, a Bergoglio era sfuggita una frase con cui non giustificava l'«operazione militare speciale», ma lasciava intendere che «l'abbaiare alle porte della Russia forse aveva facilitato l'ira» di Putin. Già questo avrebbe dovuto far sobbalzare gli estensori del rapporto sui putiniani d'Italia, ma quello che stiamo per raccontarvi fa entrare diritto il Papa nella relazione sulle persone da tenere d'occhio perché troppo vicine al Cremlino. Che dice dunque il Pontefice? Leggere per credere. Alla domanda formulata da un giornalista della Compagnia di Gesù su come si possa contribuire alla pace, Bergoglio ha risposto che «dobbiamo allontanarci dal normale schema di Cappuccetto rosso: Cappuccetto rosso era buona e il lupo era il cattivo. Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra loro». Già da queste parole si capisce dove Francesco voglia andare a parare, perché il discorso non separa i buoni dai cattivi, ma tende a sostenere che anche chi si presenta dalla parte giusta, forse non ha la coscienza immacolata. Ancor più chiaro è il resto del discorso, in cui il Papa racconta un'esperienza diretta, ossia un colloquio con un capo di Stato che egli definisce per ben due volte molto saggio. L'incontro sarebbe avvenuto mesi fa e questo politico, di cui Bergoglio non ha fatto il nome pur descrivendolo come un uomo che parla poco, gli avrebbe rivelato di essere molto preoccupato per come si stesse muovendo la Nato. «Gli ho chiesto perché», racconta ancora Francesco «ed egli mi ha risposto: "Stanno abbaiando alle porte della Russia. E non capiscono che i russi sono imperiali e non permettono a nessuna potenza straniera di avvicinarsi a loro". Ha concluso: "La situazione potrebbe portare alla guerra". Questa la sua opinione. Il 24 febbraio è cominciata la guerra». Insomma, pur criticando la brutalità e la ferocia dei russi e dei mercenari schierati da Putin, definendo tutto ciò che sta avvenendo mostruoso, il Papa sostiene che «non vediamo l'intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che (testuale, ndr) è stata in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l'interesse di testare e vendere armi. È molto triste, ma in fondo è proprio questo a essere in gioco». Ora, dimenticate per un attimo che a parlare sia il vicario di Cristo e sovrapponete le parole di Alessandro Orsini, il professore accusato sulle pagine del Corriere di essere uno degli appartenenti alla rete complessa e articolata dei putiniani d'Italia. C'è molta differenza tra ciò che dice Bergoglio e ciò che sostiene il professore? A me non pare. E forse non pare neppure allo stesso Pontefice, il quale con grande furbizia si è sentito in dovere di smarcarsi, proprio per evitare di finire dritto nelle liste di proscrizione del Corriere: «Qualcuno può dirmi a questo punto: ma lei è a favore di Putin! No, non lo sono. Sarebbe semplicistico ed errato affermare una cosa del genere. Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione fra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto più complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli». Insomma, anche il meno scafato dei lettori capisce che cosa il Papa intenda con questo discorso. Putin è l'aggressore e l'Ucraina la vittima, ma le radici di ciò che sta accadendo affondano in ciò che è avvenuto nel passato e nei molti interessi che ruotano intorno a una guerra e che sono più difficili da individuare rispetto a chi sia l'invasore e chi l'invaso. Bergoglio non è Petrocelli, il grillino rimosso dalla carica di presidente della commissione Esteri perché ritenuto troppo vicino a Putin, però un po' Orsini lo è. E oltre a questo, è anche un po' più esperto della vita, tanto da avvertire che l'entusiasmo di aiutare dopo un po' di mesi passa e le cose si raffreddano. E allora, si chiede: che ne sarà di quelle donne ucraine fuggite dalla guerra? Chi se ne prenderà cura? Infine, conclude: gli avvoltoi stanno già girando. In altre parole: il Papa semina dubbi sulla guerra giusta. E se non è un putiniano da «attenzionare» dal Dipartimento della sicurezza, e da iscrivere nella famosa lista del Corriere, per lo meno è putiniano ad honorem».

LA DIPLOMAZIA DI DRAGHI

Mario Draghi va in Ucraina, con il pensiero rivolto alla crisi del grano. Il premier in Israele spinge per una soluzione alla vigilia del viaggio a Kiev. La cronaca di Ilario Lombardo per La Stampa.

«Se i calcoli del governo italiano sono giusti, entro luglio la situazione sul campo di battaglia in Ucraina potrebbe essere a una svolta. Molto dipenderà dai tempi dell'avanzata russa, e se Mosca conquisterà una vittoria militare in Donbass a breve. A quel punto si cristallizzeranno le posizioni di entrambi e si delineeranno gli spazi dentro i quali sarà più realisticamente possibile trattare. Quale è l'obiettivo di Vladimir Putin e quanto margine avrà il presidente Volodymyr Zelensky per opporsi? Queste sono le domande a cui i leader europei vogliono cercano una risposta. Domani, Mario Draghi, Olaf Scholz ed Emmanuel Macron proveranno a trovarla direttamente a Kiev. Un viaggio che entra di fatto nella storia. Dalla capitale, poi, il terzetto si sposterà a Odessa per affrontare il tema dei corridoi del grano. L'organizzazione della trasferta affidata all'intelligence militare a poche ore dalla partenza è ancora top secret, ma basta immaginare il treno che nella notte attraverserà l'Ucraina, per portare tutti e tre assieme nella capitale, a dare il senso della sua potenza simbolica. Quello che trapela dallo staff di Draghi è infatti il significato politico del viaggio. La fotografia accanto a Zelensky nella capitale bombardata è il messaggio al mondo dell'Europa che pianifica l'ingresso di Kiev nella sua famiglia. Ma, nelle intenzioni dei tre Paesi, è anche un messaggio a Vladimir Putin e agli Stati Uniti. Vista da Palazzo Chigi, è l'Unione europea che ritrova nella compattezza dei suoi tre leader una linea di maggiore autonomia, ovviamente contro il Cremlino ma anche rispetto alla nettezza delle posizioni degli Usa. Sono sei settimane che i diplomatici e gli uomini del premier lavorano al formato del vertice. E hanno dovuto faticare non poco per ammorbidire la diffidenza cresciuta in Ucraina verso i tedeschi, percepiti come i più incerti sul sostegno a Zelensky, e i più esposti nei legami economici con Mosca. A Kiev, Draghi arriverà a meno di 48 ore dalla tappa in Israele. Al termine del bilaterale con il primo ministro Naftali Bennet, il presidente del Consiglio italiano ha assicurato che l'Italia «continuerà a sostenere in maniera convinta l'Ucraina, il suo desiderio di far parte dell'Unione Europea». Il governo, ha spiegato Draghi, «continua a lavorare perché si giunga quanto prima a un cessate il fuoco e a negoziati di pace - nei termini che l'Ucraina riterrà accettabili». L'inciso finale è molto importante per capire su quali fragili equilibri si tengono i colloqui in queste ore. Ed è importante che sia stato ribadito qui, a Gerusalemme, dove anche si interrogano sulle volontà di Kiev, come premessa necessaria per provare a persuadere Putin.  Capire cosa vuole Zelensky vuol dire capire a che punto fissare un traguardo diplomatico. Armi, mezzi e uomini per sminare i porti e liberare le rotte del grano, infine: come e se avviare un percorso che porti al cessate il fuoco. Le triangolazioni tra le cancellerie servono a porre le basi per studiare il perimetro e la fattibilità dei negoziati. Ogni Paese può contribuire facendo leva sulla forza delle proprie relazioni e dei propri interessi geopolitici. In Israele, Draghi è venuto a sondare le intenzioni di Bennett e a cercare la sponda di uno dei partner più ascoltati da Putin. Il premier ha ringraziato il governo israeliano «per il suo sforzo di mediazione» in questa crisi. Dopo la visita allo Yad Vashem, il mausoleo dell'Olocausto di Gerusalemme, Draghi si è appartato con Bennett per un colloquio senza gli staff durato più di un'ora. Una buona parte del confronto è stata dedicata al gas e al grano, e alle preoccupazioni che tormentano il primo ministro israeliano: Tel Aviv dipende per metà del suo fabbisogno dal frumento che arriva dall'Ucraina e dalla Russia, e come per altri Paesi affacciati sul Mediterraneo, la crisi comincia a pesare, anche nella litigiosa maggioranza di governo. Per evitare la "catastrofe alimentare", dovuta al blocco dei porti del Mar Nero, «dobbiamo operare con la massima urgenza dei corridoi sicuri per il trasporto del grano. Abbiamo pochissimo tempo - è l'allarme lanciato da Draghi - perché tra poche settimane il nuovo raccolto sarà pronto e potrebbe essere impossibile conservarlo». Con i tre leader e Zelensky, domani a Kiev ci sarà anche il presidente romeno Klaus Iohannis. Lo ha voluto Macron, anche in rappresentanza dei Paesi dell'Est che si trovano pericolosamente alla frontiera con Putin. Ma la sua presenza ha fatto pure ipotizzare che da Kiev possa arrivare l'annuncio di una prima, parziale soluzione al blocco dei porti. Ieri il presidente americano Joe Biden ha reso noto che gli Usa costruiranno silos temporanei al confine con l'Ucraina per facilitare l'export del grano. E un possibile passaggio alternativo sarebbe proprio il trasporto via terra e l'utilizzo degli scali in Romania».

NUOVA GIORNATA NERA PER IL PREZZO DEL GAS IN EUROPA

Diminuisce l’afflusso di gas dalla Russia e dagli Usa e il prezzo scatta a 100 euro. Le sanzioni ostacolano alcune manutenzioni del Nord Stream e la Gazprom riduce del 40% il flusso verso la Germania. Sissi Bellomo per il Sole 24 Ore.

«Giornata nera sul mercato del gas in Europa, con prezzi che sono tornati a bucare la soglia dei 100 euro per Megawattora al Ttf, con punte di rialzo superiori al 20% nel pomeriggio. A risvegliare il rally è stato un ulteriore crollo delle forniture russe, stavolta dovuto a "problemi tecnici" che riguardano il Nord Stream, l'unico gasdotto di cui finora Gazprom aveva sfruttato per intero la capacità, con flussi verso la Germania che si erano sempre mantenuti non solo abbondanti ma anche regolari. E siccome le disgrazie non vengono mai sole, anche dagli Stati Uniti è arrivata nel frattempo una pessima notizia: le riparazioni al terminal Freeport Lng - responsabile di un quinto delle esportazioni di gas liquefatto «made in Usa» (e del 10% di quelle verso l'Europa, stima Rystad) - dureranno almeno 90 giorni anziché le tre settimane ipotizzate mercoledì scorso, subito dopo l'esplosione e l'incendio che hanno messo ko l'impianto. Nella nota diffusa ieri la società afferma di non essere ancora riuscita a capire la causa che ha scatenato l'incidente, ma di aver accertato che l'estensione dei danni è limitata ad una condotta che collega l'area di stoccaggio del Gnl al molo dove vengono caricate le metaniere: un aggiornamento che non cancella del tutto il sospetto di un sabotaggio. A scatenare teorie complottiste, come si può ben immaginare, è però soprattutto la vicenda del Nord Stream che di fatto comporterà un «taglio» del 40% delle forniture di gas russo alla Germania. Capire quanto ci sia di volontario da parte di Gazprom e quanto invece sia da imputare a cause di forza maggiore è un esercizio retorico che lascia il tempo che trova: le due componenti molto probabilmente ci sono entrambe. I problemi - a livello pratico - nascono dalle sanzioni occidentali contro la Russia, che impediscono a Siemens Energy, multinazionale tedesca, di far arrivare da una sua fabbrica in Canada una turbina che le è indispensabile per completare una riparazione ai compressori del gasdotto nel Mar Baltico. Una seconda turbina invece non può essere inviata oltre Oceano per manutenzioni. «Abbiamo informato il Governo canadese e quello tedesco e stiamo lavorando a una possibile soluzione», si è giustificata Siemens Energy. Gazprom in precedenza aveva denunciato il ritardo nell'esecuzione dei lavori, che limita il funzionamento della stazione di compressione di Portovaya (in territorio russo) e annunciato che per questo motivo sarà stata costretta a ridurre i flussi di gas nel Nord Stream a non più di 100 milioni di metri cubi al giorno rispetto ai 167 milioni che aveva programmato. L'idea che Mosca possa sfruttare le difficoltà per esercitare pressioni sulla Germania non è del tutto peregrina. Il Governo tedesco ieri ha confermato l'intenzione di mantenere a lungo in amministrazione controllata Gazprom Germania, che verrà ricapitalizzata (secondo i rumor con 10 miliardi di euro prestati dalla banca statale KfW) e ribattezzata "Securing Energy for Europe GmbH": un esproprio in piena regola, anche se formalmente non viene definito tale contro il quale Gazprom potrebbe essersi vendicata. Il ministero dell'Economia tedesco fa sfoggio di tranquillità di fronte alla riduzione dei flussi via Nord Stream e afferma che la sicurezza degli approvvigionamenti è «attualmente garantita». Ma c'è grande incertezza su quanto potrà accadere nei prossimi giorni e sul possibile impatto anche oltre i confini della Germania. Il Nord Stream peraltro si fermerà del tutto tra l'11 e il 20 luglio, quando Gazprom ha pianificato la manutenzione annuale (che ha sempre fatto, anche in tempi non sospetti). E dal 21 al 27 giugno per motivi analoghi si fermerà il TurkStream, altro gasdotto russo, che raggiunge la Turchia attraverso il Mar Nero. Mosca nel frattempo ha smesso definitivamente di esportare gas via Polonia con la pipeline Yamal-Europe. E i transiti di gas russo in Ucraina sono più che dimezzati (a circa 40 milioni di metri cubi al giorno) dopo che il gestore della rete locale ha dichiarato lo stato di forza maggiore sulle forniture che passano da uno dei due punti di accesso al Paese: quello di Sokhranivka, che si trova nella regione Luhansk, occupata dai russi. Ce n'è abbastanza, insomma, per tenere il mercato con il fiato sospeso. Il timore è che l'offerta di gas in Europa possa ridursi al punto da costringerci a mettere mano alle scorte prima ancora di aver completato le iniezioni estive negli stoccaggi: sia in Italia che a livello europeo siamo appena a metà dell'opera, anche se il processo da qualche settimana è in accelerazione».

LA BCE ORA PROMETTE: “IMPEGNO SENZA LIMITI”

Vertice di emergenza del Consiglio direttivo della Banca centrale europea questa mattina, convocato per discutere la situazione di tensione sul mercato dei titoli di Stato di questi giorni. La Bce prova a rassicurare i mercati, promettendo un "impegno senza limiti". Mentre lo spread è a 249 punti, nell'asta del Tesoro volano i rendimenti. Mutui per la casa al 2 per cento. Vittoria Puledda per Repubblica

«La Bce prova a rassicurare i mercati e a tagliare le unghie alla speculazione. Dopo un'altra giornata difficile per i rendimenti dei titoli di Stato italiani (lo spread tra Bund e Btp si è allargato ancora, a 249 punti base), in serata è arrivato il discorso di Isabel Schnabel, membro del comitato esecutivo della Bce. Che ha ribadito l'impegno a combattere la "frammentazione" dei mercati (in pratica, l'esplosione degli spread per alcuni Paesi), spiegando che l'impegno della Bce «non ha limiti» e che è pronta ad agire rapidamente. Con tutti gli strumenti a disposizione, anche inediti: «Non c'è dubbio che, se e quando sarà necessario, possiamo progettare e implementare nuovi strumenti». Basterà ai mercati? «Sul monitoraggio e la disponibilità ad agire siamo allo stesso punto della riunione Bce di giugno. Manca la sensazione di un piano già approntato da attivare in brevissimo tempo, al di la della flessibilità sui reinvestimenti» dei titoli in scadenza, sostiene Antonio Cesarano, Global strategist di Intermonte. Oggi parleranno Joachim Nagel, presidente della Bundesbank tedesca, e nel pomeriggio Christine Lagarde, che ritornerà domani ad esporre la posizione della Bce su tassi e spread ai ministri finanziari dell'Eurogruppo. E sempre oggi la Fed scioglierà le riserve sull'aumento di giugno (qualcuno scommette su 75 centesimi di punto, i 50 centesimi sono scontati), seguito da un nuovo rialzo in luglio. Quando sarà la volta anche della Bce, seguita da un'altra a settembre. I falchi, come il consigliere olandese Klaas Knot premono per un rialzo da mezzo punto a settembre, e a seguire una stretta a ottobre e una a dicembre.
Ma nel frattempo i nervi sono a fior di pelle, in Europa come negli Usa, mentre continua senza sosta la corsa dei rendimenti dei Btp. Ieri sono stati collocati titoli a 3, 7 anni e 30 anni, con rialzi superiori ai 100 punti base. Il rendimento del triennale è salito di 152 centesimi, attestandosi al 3,04%, ai massimi da luglio 2012. Per la terza tranche del Btp a 7 anni il rendimento è salito di 136 centesimi rispetto al mese scorso, al 3,75%, mai così alto da quando è nato (nel 2014), mentre il trentennale è stato assegnato al 4,20%. Di buono, sottolinea Francesco Maria Di Bella, Fixed Income strategist di UniCredit, c'è che «il Tesoro è riuscito ad allocare l'intero ammontare offerto e la domanda è stata più o meno in linea con le aste precedenti; elemento sicuramente positivo in un contesto di elevata volatilità». Corrono anche i tassi medi dei mutui: secondo la fotografia dell'Abi in aprile i nuovi finanziamenti in maggio sono arrivati all'1,93% contro l'1,81% di aprile. Ma considerando tutte le spese e commissioni, il Taeg, per Bankitalia già in aprile erano al 2,15% e la corsa continuerà. Così come continua a crescere lo spread del decennale italiano rispetto a quello tedesco: ieri è salito ancora, a 249 punti, al top 2020, mentre il rendimento del decennale ha toccato sul mercato secondario il 4,16%, ai massimi dal 2013. Anche il il Bund è a sua volta salito all'1,73% e ormai la curva dei tassi tedeschi sulle varie scadenze è la più "piatta" da metà degli anni Novanta (negli Usa il giorno prima è diventata per un breve periodo persino negativa). Segno che i mercati si aspettano forti rialzi dei tassi nel breve periodo. E che non prevedono niente di buono per l'economia sul lungo termine».

BTP COME 10 ANNI FA, CI COSTANO 6 MILIARDI IN PIÙ

I tassi di interesse dei Btp tornano ai livelli di 10 anni fa. Il costo medio all'emissione per il Tesoro sale da 0,10% del 2021 a 0,71%: a questi livelli in 12 mesi lo Stato italiano avrà 6 miliardi in più di spesa pubblica. Maximilian Cellino per il Sole 24 Ore.

«Nella macchina del tempo in cui sembrano entrati i mercati obbligazionari le lancette si sono spostate indietro di addirittura 10 anni ieri per i BTp, per tornare fino ai tempi della crisi del debito. Bisogna infatti risalire a tanto per incontrare rendimenti simili in un'asta del Tesoro, che ieri ha collocato titoli di Stato a 3, 7 e 30 anni per un ammontare complessivo di 6 miliardi di euro. Nell'operazione sono stati assegnati titoli con scadenza agosto 2025 per 2 miliardi e a un tasso di interesse lordo del 3,032%, più o meno raddoppiato rispetto al precedente collocamento di strumenti con pari durata; con scadenza giugno 2029 per 2,5 miliardi al 3,751% e ulteriori 1,5 miliardi suddivisi fra titoli con scadenza settembre 2049 e settembre 2052 e rendimenti rispettivamente del 4,193% e del 4,225 per cento. Per tutti la domanda è stata decisamente sostenuta, ed è questo il lato positivo della vicenda per il Tesoro italiano, con un rapporto di copertura che ha raggiunto addirittura 2,2 per le scadenze più lunghe e redditizie.
Spread inarrestabile Inutile forse sottolineare come il dato fosse atteso, vista la marcia al rialzo innestata dai rendimenti obbligazionari di tutto il mondo e l'accelerazione in particolare dei nostri BTp. Ieri il decennale si è attestato al 4,28% per un differenziale nei confronti del corrispettivo Bund tedesco che si è spinto fino a 252 punti base. Gli investitori seguono evidentemente la direzione indicata dalle Banche centrali: dalla Bce e anche dalla Federal Reserve, che questa sera potrebbe alzare i tassi addirittura di 75 punti base. Nel caso specifico italiano e dei Paesi della «periferia» europea conta pure l'assenza di dettagli sul possibile meccanismo di contenimento degli stessi spread per evitare la temuta frammentazione in Europa. Di certo, il rincaro dei tassi in sede di collocamento, unito all'aumento delle cedole da versare sui titoli indicizzati all'inflazione (circa il 10% dello stock complessivo italiano) inizia a farsi sentire nelle casse del Tesoro, che già nei primi 5 mesi del 2022 ha visto moltiplicarsi sette volte rispetto allo scorso anno (dallo 0,10% allo 0,71%) il costo medio all'emissione per quello che però si rivela purtroppo un bilancio provvisorio. «Se i tassi si confermassero a questi livelli, il rialzo dei rendimenti costerebbe circa 6 miliardi in più al nostro paese nei primi 12 mesi, 12 miliardi nel secondo anno e 18 miliardi nel terzo», stima Gianni Piazzoli, responsabile degli investimenti di Vontobel Wealth Management, facendo tuttavia anche notare che «l'inflazione gonfia anche le entrate fiscali».
Borse in stallo Dopo l'ondata di svendite delle sedute precedenti, sui listini azionari si è invece vissuta una giornata di sostanziale attesa per quello che sarà il responso Fed di questa sera. Da annotare restano quindi le prove di assestamento per Wall Street e per l'Europa, dove Piazza Affari ha chiuso in flessione dello 0,32%, facendo comunque meglio di Parigi (-1,2%), Madrid (-1,43%) e Francoforte (-0,91%). L'impressione generale è che i mercati abbiano già in gran parte scontato una mossa più aggressiva (all'80% secondo i future sui Fed Funds), ma che non siano al tempo stesso ancora molto convinti sul futuro. Una conferma in tal senso arriva da una delle banche d'affari più influenti a livello globale, quella BlackRock che ritiene ancora prematuro dare il via alle classiche operazioni di buy the dip, gli acquisti cioè che si effettuano dopo una rapida discesa delle quotazioni. Tre sono essenzialmente le ragioni addotte dalla casa di investimenti statunitense: le valutazioni che ancora non sono secondo loro tornate a buon mercato, il rischio che la Fed sia più aggressiva del dovuto sui tassi e le pressioni in crescita sui margini delle imprese. La azioni Usa hanno sperimentato sulla propria pelle il peggior avvio di anno dagli anni 60, ma per BlackRock non è evidentemente ancora arrivato il momento di prendere rischi: il consiglio è di rimanere «neutrali» almeno per i prossimi 6-12 mesi».

SCONFITTI 1. I PIANI DI SALVINI

Il primo turno del voto amministrativo di domenica ha provocato un terremoto nel sistema politico. La fibrillazione è data soprattutto dagli sconfitti, Lega e 5 Stelle. Matteo Salvini reagisce al voto annunciando una guerriglia sulla riforma del CSM e nel governo. Liana Milella per Repubblica.

«È ancora in salita - ma è noto che Marta Cartabia sia una provetta scalatrice di montagne - il sentiero che tra oggi e domani dovrebbe consentire al governo di portare a casa la riforma del Csm. Proprio quella sollecitata da Mattarella. Con tanto di standing ovation quando l'ha chiesta alla Camera il giorno della rielezione. Ma Salvini ha deciso di rovinare la festa, scatenando la sua donna per la giustizia, l'avvocato Giulia Bongiorno, che tra i piedi di Cartabia ha confermato i suoi 60 emendamenti vecchi di un mese. Come tanti soldatini, i leghisti del Senato, da Ostellari a Pillon, si sono messi all'opera. Vogliono votare le modifiche per rispettare «i 10 milioni di voti degli italiani messi nell'urna dei referendum». E a nulla sono valsi gli appelli al senso di responsabilità verso la maggioranza, ma pure il richiamo alla coerenza, visto che alla Camera, il 27 aprile, la Lega ha detto sì alla stessa riforma. Ma tant' è. La sconfitta congiunta - le amministrative da una parte, che consegnano alla storia il successo a destra della Meloni che scavalca la Lega, il flop dei referendum dall'altra, che si fermano al 20% dei votanti - ha spinto la Lega ad alzare il prezzo sulla giustizia. Anche se - come conferma la stessa Bongiorno a Repubblica quando ormai sono le 21 - alla fine in aula la Lega voterà sì alla legge perché «noi siamo costruttivi, il nostro obiettivo è migliorarla. Avete capito? L'ho detto in dozzine di interviste, anche a voi. Noi vogliamo migliorarla, adesso invece è una riforma blanda, noi la vorremmo più incisiva ». In questa partita a scacchi, alla fine dovrebbe vincere Cartabia. Anche se Iv e Lega oscurano la festa. Perché nel film di ieri la Lega parte lancia in resta contro la ministra della Giustizia che, in una riunione della maggioranza, chiede a tutti di ritirare gli emendamenti. Sono 257, e giacciono in commissione Giustizia dal 24 maggio. Avrebbero potuto già essere votati, ma la Lega ha chiesto di non farlo prima del referendum, per non farle fare brutta figura. Perché se chiedi agli italiani di sopprimere del tutto i passaggi da pm a giudice (e viceversa) rispetto ai quattro possibili oggi, poi sembra brutto che voti per consentirne uno solo. Cartabia acconsente. Il voto slitta dopo il referendum. E che fa la Lega? Come dice Bongiorno, a questo punto, «portiamo avanti i nostri emendamenti, e votiamo oltre che i nostri, anche tutti quelli in linea con i temi referendari. Proprio come abbiamo già fatto alla Camera». E ancora: «Barra dritta. Forti dei 10 milioni di Sì, arriveremo alla vera riforma che sarà fatta dal centrodestra ». La mossa irrita il Pd. Tant' è che a sera s' arrabbia Enrico Letta: «Sono colpito dal fatto che la reazione della Lega rispetto a un referendum che ha voluto e che ha perso, sia quella di continuare a rendere impossibile la riforma in Parlamento. Lo dico al premier e al governo: se continua così, l'unico modo per fare la riforma sarà mettere la fiducia al Senato e poi di nuovo alla Camera». Le ore passano, e la Lega finisce all'angolo. Iv, con Giuseppe Cucca, pensa di ritirare i suoi 86 emendamenti, ma un altolà di Renzi lo ferma. «Sì, li stiamo votando» conferma Cucca dalla commissione. Assieme ai 92 dei meloniani. Il forzista Giacomo Caliendo era stato il primo di mattina a dire che avrebbe rinunciato alle sue quattro modifiche. Piero Grasso, che pure teneva molto ai suoi sette emendamenti, li ritira in chiave anti Lega. Molti punti della riforma non lo convincono, come la riduzione dei passaggi tra giudice e pm, ma trova insopportabili i giochetti di Salvini. M5S, obtorto collo, rinuncia a fatica alle sue otto modifiche, ma Giulia Sarti, la responsabile Giustizia, non si trattiene dal dire che «questa riforma non è adeguata alle aspettative, e sui temi dirimenti non è corretto che rimangano le posizioni di Lega e Iv. Stiamo tutti al governo. E se qualcuno vuole ancora giocaredopo la bocciatura dei referendum, la finisca». Gli emendamenti ieri sono stati tutti respinti. Oggi, alle 15.30, si va in aula. Voto finale giovedì. Con il sì della Lega».

SCONFITTI 2. I PIANI DI CONTE

L’altra instabilità è data dal malcontento nel Movimento 5 Stelle. Si apre una fase due per il leader Giuseppe Conte, che studia alcune mosse fra cui: voto sulla regola dei due mandati e fuori i Di Maio-boy dal Movimento. Luca De Carolis per Il Fatto.

«L'avvocato trascorre la notte più lunga ad aggiungere e cancellare nomi. Lima i ruoli con cui vorrebbe ridare un po' di carne al suo Movimento che nelle urne di domenica si è mutato in fantasma. E tra una telefonata e una correzione decide che è tempo di annunciare il voto sul nodo dei nodi, il vincolo dei due mandati: l'ultimo Rubicone da varcare. Così nel martedì dopo la disfatta fatta di percentuali da 2 per cento e qualcosa, Giuseppe Conte prova a rilanciare. Giocandosi le carte che ha in una conferenza stampa, per presentare "la fase 2 del Movimento" come la chiama con necessario ottimismo. Partendo con i nomi dei 20 referenti regionali. La struttura tanto promessa, in cui compaiono solo uno o due dimaiani (uno in Piemonte). Per il resto nulla, neppure in Campania. A conferma che la distanza con il ministro degli Esteri rimane un oceano. Ma visto che c'è, l'avvocato rilancia ancora più forte, annunciando entro fine giugno il voto degli iscritti sul web sui due mandati. "Ma io non mi esprimerò per non influenzare la votazione, è una regola identitaria", precisa. E subito in molti sospettano che speri, in cuor suo, in un no dalla base. Anche se Conte nei ragionamenti privati spiega da giorni di voler concedere una terza corsa a una ristretta rosa di big, tramite deroghe. Nell'attesa teorizza: "Far saltare il vincolo del tutto sarebbe troppo, non credo sia nello spirito dei 5Stelle aprire a un numero di mandati indefiniti perché la politica non può diventare un mestiere". Annunci e scelte per provare a voltare pagina. Ma le macerie delle Amministrative sono lì, fumanti. Così diversi grillini sotto voce invocano il taglio di teste, puntando il dito contro i vicepresidenti. E riaffiorano certe voci soffocate da tempo, contro i dem. "È ora di prendere coscienza che questa alleanza con il Pd conviene solo al Pd", twitta il M5S Roma, sul suo profilo ufficiale. E il collegamento immediato è con l'ex sindaca Virginia Raggi, distante dall'ex premier, antica fautrice dell'autarchia a 5Stelle che fu. È grosso modo la linea di Alessandro Di Battista, cercatissimo dai suoi ex colleghi in queste ore. A sostenere quella voglia di passato, i numeri. Perché per tutto il giorno nelle chat rimbalza lo schema definitivo con i voti nei Comuni. E in diversi notano: "L'altra volta, da soli, avevamo preso di più quasi ovunque". Quanto potrà incidere sulla rotta di Conte? A occhio poco o nulla. L'avvocato non vuole assolutamente cambiare direzione, il suo orizzonte resta "il fronte progressista". Anche se certi contiani aspettano l'ennesima ordinanza da Napoli quasi come una liberazione: "Se ci 'congelassero' ancora, forse Giuseppe si deciderebbe a fare un suo partito". Però Conte vuole provarci, ancora, con il M5S. "Il nostro marchio non è usurato, è garanzia di qualità, e io non ho velleità di sostituire al brand del Movimento il mio cognome" assicura. Certo, concede, "se non riusciamo a comunicarlo, probabilmente non siamo riusciti a lavorare a contatto coi cittadini. Se è così abbiamo sbagliato e dobbiamo rimboccarci le maniche". E il governo Draghi? L'ex premier insiste: "Da Nord a Sud, la richiesta di uscire dal governo è continua, il nostro elettorato soffre". Ma la soluzione non è uscire, assicura: "Forse non sappiamo spiegare perché siamo nell'esecutivo, e cioè che non ci sentiamo di voltare le spalle ai cittadini con una spirale recessiva alle porte. Però non rimaniamo dentro stando zitti e buoni". Conte saluta. Nel M5S, le voci di dentro segnano umore nero: "Ha nominato come referenti molti di quelli che sui territori hanno gestito questa campagna elettorale. E i due mandati li vuole tenere". Sarà un'altra estate lunga, per il M5S».

VINCITORI 1. I PIANI DELLA MELONI

Ragiona sul futuro e prepara piani anche chi ha vinto. Come Giorgia Meloni. I vertici di Fratelli d’Italia pensano ora a ricostruire la coalizione, il tema della leadership è rinviato. Antonio Rapisarda per Libero.

«In via della Scrofa il day after delle Amministrative sembra un giorno come gli altri. «Siamo al lavoro. Pancia a terra sui ballottaggi», assicura all'ingresso della sede nazionale Giovanni Donzelli. Eppure questo 14 giugno per Fratelli d'Italia non è solo un martedì caldissimo (34° all'ombra a Roma) di campagna elettorale: segna l'inizio ufficiale di quel percorso - direzione Palazzo Chigi - verso il quale Giorgia Meloni ha stabilito, galvanizzata dai numeri concreti sul campo, di essere «la forza trainante» del centrodestra. Se n'è accorto il Pd che ha ricominciato con la batteria "resistenziale" della caccia all'uomo nero: «Sleali e vigliacchi», spiega il deputato nonché responsabile dell'Organizzazione. «Provano sempre a delegittimare l'avversario perché sanno che sono perdenti sui contenuti come nelle urne». I tic del Nazareno non guastano comunque l'umore. La soddisfazione dei big meloniani come dei quadri è evidente: per i sindaci della "cantera" riconfermati (Biondi a L'Aquila, Tommasi a Pistoia), per i nuovi (Sinibaldi a Rieti), per le città strappate alla sinistra come Palermo, per le affermazioni della coalizione a Genova, Gorizia e Belluno. Il sorpasso All'incrocio con Palazzo Madama è Giovanbattista Fazzolari, senatore fedelissimo della Meloni, a spiegare l'exploit di FdI sopra la linea del Po: «È la dimostrazione che la classe produttiva del Nord, soprattutto in Lombardia, ci vede ormai come partito di riferimento». La scommessa di chi fa impresa, assicura con una battuta l'organizzatore del programma, è la stessa «di chi, votandoci per un governo di centrodestra, ha messo il suo voto in cassaforte. Ecco, è come se una grossa fetta del ceto produttivo ci abbia affidato, politicamente, i propri risparmi». E il sorpasso sulla Lega? Spostandoci alla Camera, la linea ufficiale è uguale a quella ufficiosa: «Non cambia niente». Come no? «La sfida a chi nel centrodestra prendeva un voto in più non ci ha mai appassionato», affermano i deputati nei capannelli. Difficile a credersi: «Diciamo che si poteva vedere anche alle Politiche...». È capitato adesso. E qualcosa, dunque, è cambiato. «Sì», ammettono, «in termini di responsabilità. Visto che - speriamo almeno sia così - ormai è stato stabilito un nuovo equilibrio, la preoccupazione deve essere comporre una maggioranza stabile». La nuova parola d'ordine in casa FdI, insomma, è mettere in sicurezza il bacino elettorale dell'intera coalizione. L'altra curiosità è come cambiano i rapporti con il partito di Matteo Salvini: se ci sarà o meno un riequilibrio al Nord. A partire dalle prossime Regionali. A parlare in chiaro con Libero è Francesco Lollobrigida: «Noi eserciteremo lo stesso ruolo che nel passato: lavorare per la scelta migliore per il governo delle Regioni». Per il capogruppo a Montecitorio la regola degli uscenti, in Sicilia per Nello Musumeci come in Lombardia per Attilio Fontana, non cambia: «Come non abbiamo posto alcun aut-aut ai nostri alleati così non lo subiremo. Di certo se non c'è lealtà non c'è alleanza». A proposito di alleanza, c'è ancora un'intesa nazionale da ricostruire. Sul punto, il tema della leadership non è l'urgenza: «Per noi la concorrenza interna ha una rilevanza ma è senza dubbio meno importante che la ricostruzione di una coalizione che abbia le idee chiare ed alcuni punti di riferimento certi, tra i quali l'alterità alle sinistre e al M5S». Posizionamento Si può chiedere la luna agli alleati? Ossia prendere atto dell'implosione delle larghe intese? «Abbiamo un Parlamento che non è più allineato, nemmeno lontanamente, a quello che è il dato reale del consenso nella Nazione...», insiste Lollobrigida. Ma la vera prova del nove sarà un'altra: le regole, il posizionamento, la chiarezza: «Ciò che ha premiato FdI». Da questo punto di vista nulla è scontato. «Se, come auspichiamo, il centrodestra corrisponderà alle aspettative dell'elettorato, come è avvenuto negli ultimi trent' anni, sarà possibile riproporre la coalizione classica». In caso contrario? Se dovessero mandare i presupposti di chiarezza? «Non potremmo far altro che prenderne atto, restando su ciò che riteniamo aderente a questo auspicio e garantendo in ogni caso ai cittadini un riferimento che, ne siamo certi, verrebbe premiato con ulteriore consenso».

VINCITORI 2. I PIANI DI CALENDA

Carlo Calenda pensa di andare al voto da solo alle prossime Politiche e di candidarsi a Roma. Fra le idee dei centristi anche una convention a settembre a Milano per la volata elettorale e l'idea di un seggio a Letizia Moratti. Matteo Renzi vuole puntare su Giuseppe Sala come federatore della nuova area. Lorenzo De Cicco per Repubblica.

«Con Enrico Letta, racconta lui, non si sentono da tre mesi. Con Matteo Renzi da maggio. E anche l'ultimo scambio col senatore di Firenze non è stato proprio una corrispondenza d'amorosi sensi. Che ha in testa quindi Carlo Calenda, dopo il buon risultato delle amministrative che segue quello di autunno a Roma? Fare da sé, al solito. Un terzo polo, senza renziani, ma aggregando le liste civiche che hanno portato i candidati appoggiati da Azione al 14% a Palermo, al 13% a Parma, addirittura al 23% a L'Aquila. Non sono tutti voti suoi, ma appunto la sfida è questa: assemblare quello che sta in mezzo ai due «bi-populismi», come da slogan. Alle Politiche il bersaglio da centrare, in termini percentuali, è sotto la doppia cifra: «Mi va bene l'8%», confida Calenda quando fa il modesto (altrimenti spara il doppio: «Punto al 15!»). E però è innegabile che l'esperienza romana, la corsa in solitaria per il Campidoglio, in quel caso sponsorizzata anche dal leader di Iv, non sia stata uno sparo nel buio. Lo dicono le urne scoperchiate domenica. Ora la scommessa è bissare i test locali alle elezioni politiche dell'anno prossimo. Difficile, ma chissà. Calenda all'alleanza col Pd non ci crede. È quasi sicuro che Letta non si sfilerà dall'abbraccio col Movimento di Conte, per quanto esca da questa tornata con le ossa rotte. E un matrimonio Azione-5Stelle, ripete, «è impossibile». Andare da soli quindi. Calenda studia le mosse. Almeno tre. La prima: una convention del Terzo polo. C'è già la location, Milano (per mille significati: il mondo produttivo, il leghismo stanco di Salvini, i forzisti in cerca di riscatto, etc). I tempi: fine settembre. Manca solo la data. Ma l'idea è quella di ricreare l'atmosfera di febbraio, quando al primo congresso di Azione il Palazzo dei Ricevimenti dell'Eur a Roma si trasformò per un giorno nell'epicentro della politica italiana, con Enrico Letta e Antonio Tajani a sfilare e Giancarlo Giorgetti in video-call. Telecamere e taccuini assicurati. Si tenta il bis, allora, per dare il via alla corsa del 2023, con la speranza che l'8% basti a minare la vittoria di uno dei due poli e a dare lunga vita al governo Draghi. Poi ci sono le mosse prettamente elettorali. Per trainare la lista che nascerà con i radicali di Più Europa, Calenda punterà sul voto d'opinione nelle grandi città. Tenterà quindi di cavalcare di nuovo l'effetto Roma. Ecco l'idea: si candiderà nel collegio uninominale Roma 1 per la Camera dei deputati. Bacino elettorale: 190mila voti. Nel centro di Roma alle comunali dello scorso ottobre scavallò il 30%. L'obiettivo è ripetersi o almeno avvicinarsi. L'altro grande bacino elettorale in cui gettare reti è quello della Lombardia. Calenda ieri ha lanciato per le regionali il nome di Carlo Cottarelli (che ha subito precisato: nessuno mi ha chiamato). Ma è più un modo più per mettere in crisi il centrosinistra, che difficilmente sponsorizzerà la corsa dell'ex Fmi. Sottotraccia, Calenda sta provando in tutti i modi a convincere Letizia Moratti a candidarsi governatore. Quando l'ha elogiata qualche gio rno fa non era una boutade. E non era un modo per agganciarsi al centrodestra. Semmai il contrario: candidare l'ex sindaca di Milano come presidente di Regione. Nel segno del Terzo polo. Con Moratti, Calenda si è sentito. Ma non è detto che lei accetti. Quanto a Renzi, le nozze elettorali rimangono difficili. I più, in Azione, le escludono: «Ci porta meno voti di quelli che ci toglie». Lo stesso ex premier studia un piano B: una lista centrista capitanata dal sindaco di Milano, Beppe Sala. Apprezzato da Grillo. Forse l'unico modo per far digerire al Movimento l'ingresso dell'odiato Renzi nel campo largo. Ma è una carta buona anche per mettere in difficoltà proprio Calenda, se le porte del centrosinistra rimanessero sbarrate e il Terzo polo si facesse troppo sfilacciato. Lo spazio politico c'è? «Queste amministrative mostrano che la lista di Calenda vale molto se si presenta da sola mentre vale poco quando si presenta in coalizione col centrosinistra», spiega Antonio Noto, direttore scientifico di Noto sondaggi. «Per esempio a Piacenza, Verona e Monza ha avuto percentuali basse (1-2%) presentandosi col Pd, mentre ad Alessandria e Palermo, con candidati autonomi, ha raggiunto la doppia cifra. E dai flussi risulta che dove ha avuto un quoziente alto i suoi candidati hanno preso voti sia a destra che a sinistra».

IN SIRIA NUOVA CATASTROFE UMANITARIA?

Le altre notizie dall’estero. In Siria l’Onu prevede una catastrofe umanitaria. Qualsiasi decisione prendano Erdogan e Putin. Luca Gambardella per il Foglio.

«Qualsiasi decisione prenda Erdogan, che intenda attaccare o meno il nord-ovest della Siria, qualsiasi scelta faccia Putin, concedendo o no il suo placet all'intervento turco, e qualunque resistenza voglia opporre Assad, milioni di siriani saranno vittime di una "catastrofe umanitaria". A definirla così è stata l'Onu, che ha ricordato che il tempo stia per scadere: entro il 10 luglio si dovrà trovare un'intesa in seno al Consiglio di sicurezza per mantenere aperto l'ultimo valico di frontiera che dalla Turchia permette l'accesso agli aiuti umanitari diretti ai siriani. Già due anni fa, Cina e Russia sono riuscite a fare chiudere due valichi - quelli di Bab al Salam e di al Yarubiyah - lasciandone aperto uno solo a Bab al Hawa. Tutti gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite diretti a più di 4 milioni di siriani - il 70 per cento dei quali è costituito da sfollati e l'80 per cento da donne e bambini - passano da quest' unica via d'accesso. Paulo Pinheiro, presidente della commissione d'inchiesta dell'Onu sulla Siria, ha detto che il fatto stesso che una questione del genere, da cui dipende la vita di milioni di persone, dopo 11 anni di guerra e con una crisi alimentare senza precedenti debba essere messa ai voti per approvare una risoluzione è "un abominio morale". Da Bab al Hawa arriva di tutto: cibo, medicine, vaccini. Consegne che già nell'ultimo anno sono diminuite drasticamente, un po' perché i gruppi armati usano gli aiuti umanitari come moneta di scambio, bloccandoli per alcuni villaggi e facilitandoli per altri, un po' per l'opposizione di Mosca e Pechino, che invece dicono che serve il permesso del regime per fare entrare i camion dell'Onu in Siria. "Dobbiamo trovare il consenso e arrivare a un accordo come fatto l'hanno scorso", si è augurata l'ambasciatrice Linda Thomas-Greenfield, rappresentante americana alle Nazioni Unite. Ma secondo gli esperti, le possibilità di un'intesa con la Russia al momento sono prossime allo zero. Si spera nel ruolo di mediatore che - ancora una volta - potrebbe giocare la Turchia, che ha un interesse diretto nell'impedire un disastro umanitario a ridosso dei suoi confini. L'occidente si aspetta che nei dossier affrontati in queste settimane dai ministri degli Esteri di Turchia e Russia, Mevlüt Cavusoglu e Sergei Lavrov, rientri oltre all'Ucraina anche il capitolo degli aiuti umanitari in Siria. Ankara però ha un'agenda ben precisa in Siria e, va da sé, per nulla condivisa dagli americani. Da una parte, si sta preparando a un'operazione militare nelle aree di Tal Rifaat e Manbij contro i curdi dell'Ypg, sodali dei terroristi del Pkk. Sembra che le operazioni siano imminenti. I miliziani di Hayat Tahrir al Sham, la milizia jihadista sostenuta dai turchi e che controlla Idlib, ha condotto in questi giorni delle esercitazioni militari per farsi trovare pronta quando Ankara darà l'ordine di muoversi. Nei piani di Erdogan, l'operazione dovrà smantellare i curdi a ovest dell'Eufrate per creare una zona sicura dove rimandare indietro circa 3 milioni di profughi siriani che in questi anni si erano riversati in Turchia. E qui entra in gioco la partita interna. Con le elezioni del 2023, l'immigrazione è in cima all'agenda della campagna elettorale di Erdogan. Al ridosso del confine meridionale monta l'insofferenza nei confronti dei profughi, accusati di fornire manodopera a basso costo a spese dei turchi. Sull'urgenza di rimpatriare i siriani spingono forte i partiti nazionalisti, come il Partito della Vittoria. Erdogan si ritrova quindi a dovere rispondere a tono. La settimana scorsa il governo ha annunciato una legge dal pugno di ferro che per larghi tratti ricalca le misure restrittive già applicate da alcuni paesi europei, come Svezia e Danimarca. I siriani che lasciano il paese non potranno più tornare indietro. L'identità di chiunque lascerà la Siria per entrare in Turchia sarà controllata con molto più scrupolo e chi arriverà da Damasco sarà respinto, perché la capitale è considerata "luogo sicuro". Inoltre, la popolazione straniera in alcuni quartieri non potrà superare la quota del 20 per cento. "Non dobbiamo dimenticarci dei siriani", è stato l'appello rivolto dall'ambasciatrice Thomas-Greenfield di ritorno da un recente viaggio al confine con fra Turchia e Siria. Il riferimento non è solo al disastro umanitario, ma anche alle sue implicazioni per la sicurezza. Secondo le milizie curde sostenute dagli americani, nel nord della Siria sempre più giovani si arruolano dietro alla promessa di denaro da una parte o dall'altra degli schieramenti opposti, che sia lo Stato islamico o i combattenti filo turchi di Hayat Tahrir al Sham».

INTANTO IN AFRICA TORNA IL JIHAIDISMO

Il mondo è “distratto” dalla guerra, come lo fu dalla pandemia. Così i miliziani islamisti tornano ad impadronirsi di territori in Africa. Paolo M. Alfieri per Avvenire.

«La dinamica è quella che già si era vista ai tempi del Covid: con il mondo "distratto" dalla pandemia, i jihadisti avevano fatto terra di conquista nel Sahel. Ora, con la guerra in Ucraina e il contemporaneo ritiro dalla regione della missione europea in Mali, i miliziani islamici tornano ad impadronirsi di fette di territorio, nell'immensa terra di nessuno che si estende dallo stesso Mali al Burkina Faso, dal nord del Togo alle province del Niger. In cerca di risorse e con l'obiettivo di indebolire le fragili strutture politiche locali, i jihadisti assaltano villaggi, si scontrano con gli eserciti locali, mettono in fuga migliaia di perso- ne già vittime delle carestie e del cambiamento climatico. Di più: i gruppi armati stanno ora estendendo il loro raggio d'azione, minacciando anche Paesi costieri come Costa d'Avorio, Ghana, Benin e Togo. L'ultimo assalto, sabato notte, nel distretto settentrionale di Seytenga, in Burkina Faso, vicino al confine con il Niger. Qui un commando di uomini armati ha ucciso, secondo il bilancio ufficiale, 79 persone (altre fonti parlano di 100 vittime), mentre circa 3mila persone hanno dovuto lasciare il distretto, arrivando nella zona di Dori, dove si trovano la agenzie umanitarie. Nessuna rivendicazione, al momento, ma l'attacco ha avuto luogo in un'area in cui milizie legate ad al-Qaeda e al Daesh hanno già compiuto molti raid, provocando migliaia di morti e milioni di sfollati a partire dal 2015. L'assalto è inoltre arrivato a due giorni da un raid jihadista contro le forze governative, in cui erano stati uccisi 11 uomini della polizia militare, raid cui era seguita un'offensiva dell'esercito nei confronti degli islamisti. I sopravvissuti di Seytenga hanno però denunciato di essere stati lasciati soli: «Venerdì la gendarmeria, scortata dall'esercito che era arrivato per rinforzo, si è ritirata a Dori», hanno raccontato. Aggiungendo: «Noi avevamo dato l'allarme, chiedendo che ci fosse almeno un rinforzo per provvedere alla sicurezza di persone senza difesa». Lo scorso gennaio un gruppo di militari ha preso il potere in Burkina Faso con un colpo di Stato, destituendo il presidente Marc Roch Christian Kaboré, che era stato eletto per un secondo mandato nel dicembre del 2020. L'insicurezza legata all'aumento delle violenze jihadiste, unita alle disuguaglianze sociali, alla corruzione e a una crescente insofferenza contro la presenza militare francese, ha aggravato le divisioni nel Paese, garantendo sostegno popolare alla giunta militare del colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba. I militari, che hanno proclamato tre giorni di lutto nazionale dopo l'ultimo assalto jihadista, hanno citato la situazione dell'insicurezza in cui versa il Paese per garantirsi 36 mesi al potere prima del ritorno alla democrazia. Anche più a sud, in Togo, le popolazioni locali vivono l'incubo dei raid jihadisti. Ieri il governo di Lomé ha dichiarato lo «stato di emergenza della sicurezza» per tre mesi al confine con il Burkina Faso, con l'obiettivo di dare alle forze armate maggiore flessibilità (e quindi mano libera) contro la minaccia degli attacchi. A maggio otto soldati sono rimasti uccisi in una città vicino alla frontiera in un attacco rivendicato dal gruppo islamista Jnim, che ha la propria base in Mali. Lo stato di emergenza riguarderà la regione di Savannah, che copre la maggior parte delle province settentrionali del Togo».

MIGRANTI 1, IL PASTICCIO DI BORIS

Gran Bretagna. Si arena il «piano Ruanda», perché sono stati accolti i ricorsi degli irregolari pronti per essere deportati. Luigi Ippolito per il Corriere della Sera.

«È finito in un vicolo cieco il piano di Boris Johnson di deportare in Ruanda i migranti che arrivano illegalmente in Gran Bretagna attraverso la Manica. Un fuoco di sbarramento legale ha fatto deragliare il progetto: e ieri sera il primo volo diretto verso il Paese africano è rimasto bloccato sulla pista di decollo in seguito a una raffica di appelli dell'ultimo minuto. Il governo di Londra aveva stretto due mesi fa un accordo col Ruanda per poter spedire in Africa quei disperati che sfidano sempre più numerosi le acque della Manica per passare dall'Europa alla Gran Bretagna: solo ieri ne sono sbarcati 270, portando il numero complessivo dall'inizio dell'anno a 10.500. Per Johnson gli sbarchi erano diventati un serio problema politico: la Brexit era stata condotta in porto con la promessa di «riprendere il controllo» delle frontiere, ma in realtà stava accadendo il contrario. Boris sentiva il fianco esposto alle critiche da destra: e già il redivivo Nigel Farage, l'uomo che aveva imposto all'agenda politica l'uscita dalla Ue, stava battendo la grancassa dell'immigrazione illegale. Ma la soluzione drastica escogitata da Downing Street è finita sommersa dalle critiche. Perfino il principe Carlo ha detto privatamente che trovava il piano di deportazione in Ruanda «spaventoso»; e i vescovi della Chiesa anglicana, guidati dall'arcivescovo di Canterbury, hanno scritto una lettera in cui definivano lo schema «una politica immorale che getta vergogna sulla Gran Bretagna». Ma sono soprattutto gli avvocati che hanno messo i bastoni fra le ruote. Un primo tentativo di bloccare il volo era stato respinto lunedì da una corte d'appello e ieri anche dalla Corte suprema: ma all'ultimo minuto sono scattati gli appelli individuali, caso per caso, basati sulla Convenzione europea per i diritti umani. Dei 130 migranti che erano all'origine destinati a essere imbarcati su quel primo aereo, ieri sera ne erano rimasti solo pochissimi a rischiare la deportazione: un numero infine ridotto a zero. Johnson ha accusato gli avvocati di «complicità» con le gang criminali che organizzano le traversate della Manica: e ha fatto capire che la Gran Bretagna potrebbe addirittura decidere di abbandonare la Convenzione sui diritti umani. Parlando ai suoi ministri, il capo del governo ci ha tenuto a sottolineare la differenza fra le vie legali e quelle illegali per l'ingresso in Gran Bretagna: «Facciamo una chiara distinzione - ha detto - fra l'immigrazione legale attraverso vie sicure e legali, che noi sosteniamo e proteggiamo perché comprendiamo i benefici che porta, e l'immigrazione illegale e pericolosa attraverso la Manica, che intendiamo fermare». Perché qui sta il paradosso: dopo la Brexit la Gran Bretagna, anziché chiudersi in se stessa, ha conosciuto un boom dell'immigrazione: e mentre sono diminuiti gli arrivi dall'Europa, sono esplosi quelli dall'Asia e dall'Africa, al ritmo di centinaia di migliaia di persone l'anno. Ma questo è il punto: l'opinione pubblica non è affatto contraria all'immigrazione in quanto tale, è piuttosto contro l'idea di frontiere aperte e senza controlli. Quindi sì agli arrivi regolati, anche di massa, no agli sbarchi illegali. Tanto più che la nuova immigrazione post-Brexit è fatta di personale qualificato che contribuisce largamente all'economia e alla società britanniche. A farne le spese, purtroppo, sono i tanti disperati che fuggono da guerre e carestie».

MIGRANTI 2, POLEMICHE IN GRECIA

Le Ong hanno denunciato i respingimenti nell'Egeo. Le conseguenze? Accuse dal governo greco e minacce di morte nei confronti dei soccorritori di migranti. Giansandro Merli per il Manifesto.

«Una pugnalata alle spalle contro uomini e donne della guardia costiera greca in un momento di tensione con la Turchia. Il portavoce del governo di Nea Dimokratia Giannis Oikonomou ha definito così le critiche ai respingimenti nel mar Egeo mosse da Iasonas Apostolopoulos, esperto soccorritore impegnato con diverse Ong nel Mediterraneo orientale e centrale, durante un intervento all'europarlamento del 10 maggio scorso. Il post di Oikonomou è stato pubblicato su Facebook e Twitter una settimana fa. Immediatamente siti e giornali vicini alla maggioranza di governo e le principali televisioni elleniche hanno preso di mira il 38enne di Atene. Il ragazzo è stato chiamato da alcuni deputati «anti-greco», come fosse un traditore della patria, e continua a essere minacciato di morte da account anonimi sui social network. A Strasburgo Apostolopoulos aveva partecipato al fianco di Stelios Kouloglou, eurodeputato di Syriza, a un incontro organizzato da una campagna internazionale di solidarietà con Mohamad, Amir e Akif, tre rifugiati condannati a pene tra 50 e 142 anni di carcere perché avrebbero guidato la barca con cui sono arrivati sulle isole greche. Nella sua relazione Apostolopoulos ha usato parole dure contro le politiche europee e degli stati costieri di Italia, Malta e Grecia. In particolare ha puntato il dito contro l'agenzia Frontex, il cui direttore Fabrice Leggeri si è dimesso recentemente per le accuse di violazioni dei diritti umani, che avrebbe coperto i respingimenti della guardia costiera greca. Accusata anche di «buttare in acqua i rifugiati intercettati» invece di salvarli. Non si tratta di fantasie, ma di episodi documentati da inchieste condotte da testate come The Guardian, Der Spiegel e dal consorzio di giornalismo investigativo Lighthouse Reports. In un report di febbraio scorso l'Unhcr ha denunciato 540 episodi di «respingimenti informali» avvenuti nei due anni precedenti lungo le frontiere di mare e di terra tra Grecia e Turchia. «Il governo mi accusa di essere un traditore perché è alla ricerca di nemici interni da sbattere in prima pagina», afferma Apostolopoulos. «L'agenda politica è stata deviata dai problemi quotidiani che affliggono la popolazione, come l'aumento di inflazione e povertà e la perdita di potere d'acquisto, alle retoriche nazionaliste in funzione anti-turca. Sostengono che criticare questo governo significhi tradire la Grecia, come se loro fossero il paese, come se non esistesse il diritto a dissentire», continua. Tra Atene e Ankara si registrano crescenti tensioni per lo status quo del mar Egeo. Giovedì scorso, alla fine di un'esercitazione militare nei pressi di Izmir, Recep Tayyip Erdogan ha detto: «Invitiamo la Grecia a smettere di armare le isole che hanno uno status non militare e di agire secondo gli accordi internazionali». E ha aggiunto: «non sto scherzando. Parlo seriamente. Questa nazione è determinata». Accuse di tradimento sono state rivolte anche a Syriza per aver votato contro l'acquisto dei caccia Rafale dalla Francia e al deputato dello stesso partito Yannis Bournos per aver nominato la presenza di armamenti sulle isole».

COREA DEL SUD, SCIOPERO DEI CAMIONISTI

Mobilitazione in Corea del Sud. I camionisti sono fermi da 8 giorni per protestare contro i costi elevati e i salari bassi. Serena Console per il Manifesto.

«Motori spenti e braccia incrociate. Migliaia di camionisti sudcoreani sono in sciopero da più di otto giorni, paralizzando l'economia del paese. La contestazione minaccia pesanti ripercussioni sulle catene di approvvigionamento globale, già alle prese con ostacoli come Covid, guerra in Ucraina e i lunghi lockdown in Cina. La decisione degli autotrasportatori è già costata al settore industriale della Corea del Sud più di 1,2 miliardi di dollari in perdita di produzione e consegne non effettuate. Ma le ripercussioni economiche non preoccupano i camionisti, intenzionati ad andare avanti dopo il flop di quattro tornate negoziali con il governo. A pagarne le spese sarà soprattutto la produzione di chip e di componenti base nel settore hi-tech, di cui Seul è tra i principali leader al mondo. L'ultimo allarme è di ieri. La Korean International Trade Association ha reso noto che una società coreana che produce alcol isopropilico, sostanza chimica usata nella pulizia dei wafer dei chip, ha incontrato difficoltà nella spedizione a una compagnia cinese che a sua volta fornisce wafer ai produttori di chip: circa 90 tonnellate di prodotto, pari a una settimana di spedizioni, sono state consegnate in ritardo. L'impatto sui produttori di chip, secondo alcuni analisti citati dalla Reuters, sarà comunque limitato: i colossi dei semiconduttori Samsung e SK Hynix hanno riserve di materiali sufficienti per più di tre mesi.
Rischia anche la catena di approvvigionamento dei settori del cemento, petrolchimico, acciaio e automotive. I colossi nazionali automobilistici hanno interrotto l'attività in alcuni stabilimenti per la carenza di materiale o per un eccesso di prodotti finiti. Nello stabilimento della casa automobilistica di Hyundai, nella città meridionale di Ulsan, la produzione è scesa di circa il 60% il 10 giugno: l'interruzione dell'attività del sito, che assembla 6mila veicoli al giorno, è costata al colosso 254 milioni di dollari.
Suona invece come una preghiera la richiesta dei portuali della città di Busan, il settimo porto per container più grande del mondo che rappresenta l'80% del traffico nazionale. A gran voce hanno chiesto ai camionisti di porre fine alla protesta, per evitare che le piccole e medie imprese subiscano tragiche conseguenze economiche. Ma l'appello è caduto nel vuoto. La Cargo Truckers Solidarity, il sindacato che conta 22mila camionisti, è intenzionato a portare avanti la mobilitazione generale. Per ora non c'è alcuna marcia indietro dal sindacato, che punta il dito contro il ministero dei Trasporti per non essere «né disposto a parlare né in grado di risolvere la situazione attuale». Alla base della protesta c'è l'impennata dei prezzi del carburante e la richiesta di garanzie salariali minime. I camionisti hanno avanzato una richiesta specifica: la proroga del «Sistema di tariffe di trasporto sicuro», che scade il 31 dicembre e che garantisce tariffe minime sui costi dei carburanti per i camionisti che trasportano container e prodotti in cemento. Da qui, l'altra istanza: estendere a tutta la categoria la misura introdotta dall'ex presidente democratico Moon Jae-in nel 2020, in piena pandemia. Lo scontro è politico, ma Yoon Suk-yeol, insediatosi al governo solo il mese scorso, vuole tenersi lontano dalla disputa sindacale. Il premier, che in campagna elettorale aveva criticato i sindacati, sembra minimizzare il problema che potrebbe travolgere e l'economia mondiale».

ADDIO AD ABRAHAM YEOSHUA

È scomparso all’età di 85 anni lo scrittore Abraham B. Yehoshua. Molto amato in Italia (Il signor Mani è un long seller nelle nostre librerie) e anche lui grande amante del nostro Paese, nel quale ha ambientato la sua opera di congedo. L’articolo per Repubblica è di Wlodek Goldkorn.

«Il suo ultimo libro, specie di congedo da questo mondo, è stato un libro d’amore per l’Italia, Paese che Abraham B. Yehoshua, scomparso a Tel Aviv all'età di 85 anni, considerava la seconda patria. La figlia unica, un romanzo breve o "una novella italiana"  come diceva l'autore, ambientato fra Venezia e Padova, è anche un omaggio a una delle due identità dello stesso scrittore. In questa caso: l'identità che lui definiva mediterranea. La prima era, ovviamente, quella dell'israeliano. Israeliano, a sua volta, significava "pienamente ebreo", al contrario dei confratelli e consorelle della diaspora, divisi fra l'attaccamento al ricordo mitologico di Gerusalemme e la vita nei luoghi in cui abitano, e per questo nevrotici. Yehoshua, sionista convinto, teorizzava la necessità degli ebrei di essere una "nazione normale", con un territorio, una sovranità e una lingua: l'ebraico moderno. Valga un ricordo personale. Era gennaio 2011. Sul display del telefono appare il nome con cui lo chiamavano gli amici, Buli. "Sono ad Auschwitz", dice. Racconta le sue emozioni e poi: "Ho un'idea in proposito". Quell'idea, semplificando e radicalizzando, era: la Shoah è stata la conseguenza del rifiuto degli ebrei di misurarsi con la categoria della Patria. Scrittore che con le parole sapeva fare qualunque cosa (ci torneremo), il fascino che Yehoshua esercitava da persona su chi l'abbia conosciuto da vicino, era dovuto alla sua genuina curiosità: non smetteva di porre domande, era impaziente ad avere le risposte; a un certo punto, dell'Italia voleva sapere tutto, e stava sognando di prendere per un certo periodo una casa, in Toscana o in Umbria; e poi la sua generosità, il senso dell'amicizia: dava moltissimo ma chiedeva altrettanto, soprattutto esigeva onestà e senso critico  ("dimmi cosa non ti piace", esortava, "non mi devi confermare nella mia capacità di scrivere") e potrei continuare. Yehoshua amava presentarsi come "quinta generazione nata a Gerusalemme", a sottolineare il suo radicamento nella Terra degli antenati. Il padre, Yaakov, discendente di una famiglia originaria di Salonicco, era un orientalista, aveva molti rapporti con gli arabi palestinesi della città, verso la fine della  vita scrisse un'opera di dodici volumi sulla comunità sefardita locale. La madre Malka Rosilio, veniva da una famiglia di rabbini del Marocco, adorava la cultura, la lingua francese, l'Europa. Ecco, Yehoshua, qualche volta raccontava che l'idea di scrivere Il signor Mani, un romanzo che narra appunto cinque generazioni di ebrei sefarditi e il loro rapporto forte con Gerusalemme e con l'identità di famiglia, considerato il suo capolavoro, gli venne in mente durante i funerali del padre. Che volle che il luogo del suo eterno riposo fosse un vecchio cimitero, quasi caduto in disuso, fra lapidi divelte. Sostenitore della "normalità" sinonimo della "sovranità", come si diceva, Yehoshua era anche un uomo pieno di meravigliose (perché foriere di creatività) contraddizioni. E così, nel 1967, al ritorno di una lunga permanenza a Parigi, assieme alla moglie Rivka, psicoanalista saggia, intelligente e bellissima, che gli amici chiamavano Ika e di cui era follemente innamorato fino alla fine degli ultimi giorni di lei (nel 2016, da quel lutto non era mai uscito, e il rapporto con lei lo raccontò, sublimato, in Il tunnel), tornati dunque da Parigi, i due decisero di stabilirsi a Haifa. Haifa è una città laica, porto di mare, raffinerie e forte presenza di residenti arabi. Non avevano alcuna intenzione di abitare in una Gerusalemme, la cui parte orientale, compreso il Muro del Pianto, era stata appena conquistata da Israele. "Troppi simboli, troppa religione, troppo pesante il passato", spiegava. E del resto, a un certo punto, Yehoshua cominciò a teorizzare la necessità dell'oblio, come fatto psico-politico. La troppa memoria degli ebrei e dei palestinesi, paralizzava ogni sforzo di trovare la soluzione al conflitto. Quale soluzione? Uno Stato binazionale, ebrei e arabi insieme, perché altrimenti l'occupazione si sarebbe trasformata in apartheid. Si è detto che nessuno come lui sapesse usare le parole in ebraico. La sua padronanza della lingua sfiorava la perfezione, così come l'architettura dei  romanzi. Su incipit lavorava per settimane, qualche volta mesi, perché nelle prime pagine doveva esserci il Dna di tutta la storia. Fatto questo, i protagonisti conquistavano una certa autonomia rispetto all'autore.  Diceva: "Sai, quello (e  faceva il nome del protagonista inventato) mi ha sorpreso, ha fatto il contrario di quello che mi sarei aspettato". Oppure: "Volevo farlo morire  ma si è rifiutato". E rideva. E per tornare alla scrittura, in ogni romanzo cambiava registro e ogni protagonista aveva una voce diversa, originale e difficile da imitare. Anche nei romanzi meno riusciti, ci sono pagine e pagine di vero virtuosismo, con una maniacale attenzione ai dettagli, quasi tecnici. Lui citava l'influenza che subì di Faulkner e di Kafka ("per me la martora animale antico, del racconto Nella nostra sinagoga, di Kafka, è l'essenza dell'ebraismo") e ricordava quanto da giovane fosse affascinato da surrealismo. Dopo un lungo periodo a Haifa, si trasferì a Tel Aviv per essere vicino ai nipoti. Abitava in una casa luminosa. Quando sentì dire che sapeva descrivere la luce come pochi altri, forse solo come Camus la luce algerina, rispose di non essere bravo a descrivere gli oggetti e allora si fa aiutare dalla luce. Fra i romanzi che resteranno a lungo: Un divorzio tardivo, L'Amante, Viaggio alla fine del Millennio, Cinque stagioni, Ritorno dall'India. Ma ha scritto pure saggi e opere teatrali. Lodatore della normalità era invece maestro nel raccontare l'impossibilità di essere normali e i disastri della vita familiare. Eppure, ripeteva: "Sono l'ultimo difensore della famiglia". Nell'estate sempre del 2011, Yehoshua, assieme a Ika, era a Pietrasanta. Gli proposi di venire a Sant'Anna di Stazzema. Mi chiese perché. Gli risposi che  volevo fargli vedere un luogo di dolore altrui. Raccontare la sua commozione durante la visita richiederebbe la sua penna. Quelle vittime, italiane, assassinate dai nazisti, erano fratelli e sorelle, parte della famiglia».

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