Il Papa non si ferma
Mosca e Kiev smentiscono l'iniziativa vaticana, ma papa Francesco continua a spingere per il cessate-il-fuoco. Cina e India votano all'Onu contro l'"aggressione". Meloni e il video del Primo Maggio
È curioso notare come gli stessi giornali che nei giorni scorsi hanno completamente silenziato il Papa in Ungheria e il suo richiamo all’Europa (la sua drammatica domanda: “Dove sono gli sforzi creativi di pace?”) oggi ne parlino perché Kiev e Mosca hanno smentito che esista un “piano di pace” del Vaticano. In realtà qualcosa si muove, come conferma Stefano Zamagni al Fatto. Da Bruxelles Josep Borrell ha esaltato una risoluzione che è stata approvata nei giorni scorsi all’Onu con 122 voti favorevoli, 18 astenuti e 5 contrari e che parla di “aggressione” russa all’Ucraina: Cina e India condividono il giudizio. Il tema dell’aggressione era stato al centro della telefonata fra Xi e Zelensky. In Ucraina pare intanto imminente la controffensiva. Si registrano i primi “segnali” di attacco mentre gli ucraini dicono di essere quasi pronti. Il Papa non si stanca di chiedere dialogo, “bussando a ogni porta per cercare la pace”, come ricorda oggi Avvenire.
Anche il Concertone del Primo Maggio è stato fatalmente investito dalla polemica sulla guerra. Il fisico Carlo Rovelli ha criticato il Ministro della Difesa Guido Crosetto, chiamato “piazzista di armi”. Pochi lo ricordano ma fu la stessa espressione usata da padre Alex Zanotelli contro l’allora ministro della Difesa Giovanni Spadolini. Zanotelli perse la direzione di “Nigrizia” per quella frase. Crosetto ha risposto in maniera civile e di fatto sui giornali è già cominciato il confronto tra i due. Confronto sulla corsa agli armamenti che, diciamo la verità, è finora mancato in Parlamento e nel Paese. D’altra parte, come nota amaramente Domenico Quirico, la guerra appare oggi seduttiva, moderna, tecnologica mentre la pace sembra arcaica e fuori tempo massimo.
A proposito di Primo Maggio, il Consiglio dei Ministri c’è stato davvero nel giorno di festa e lo ha mostrato Giorgia Meloni in un video prodotto dal suo staff (vedi Foto del Giorno) in cui ha celebrato «il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». Lei lo ha preferito alla conferenza stampa, attività che invece non le piace moltissimo. Che cosa prevede in realtà il nuovo decreto? Meno tasse in busta paga ma anche meno sussidi. È polemica con opposizioni e sindacati sull’entità effettiva del taglio varato (potrebbe valere in realtà “solo” 70 euro circa). I sindacati si dicono pronti a una primavera “di lotta” contro le agevolazioni per i contratti a termine e i buoni lavoro che «aumentano il precariato». La Versione propone il rendiconto “tecnico” del Sole 24 Ore, che chiarisce i termini concreti delle nuove norme.
A proposito di piazze mobilitate, le altre notizie dall’estero ci raccontano del continuo braccio di ferro francese che oggi potrebbe avere un passaggio decisivo. Uno dei padri dell’intelligenza artificiale, Geoffrey Hinton, lascia Google e avverte che i rischi di un futuro imprevedibile ci sono eccome.
“Il giornalismo non è un crimine” è lo slogan che oggi, 3 maggio, sarà il tema di una serie di iniziative anche nelle città italiane per sottolineare il valore (e la necessità) della libertà di stampa. Libertà che è un patrimonio di tutti, non una lagna di bottega o la necessità di una categoria: l’articolo 21 riguarda la democrazia e la vita comune dei cittadini. Nella Giornata internazionale dedicata alla libertà d’informazione, è bene che tutti lo ricordino.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’istantanea di oggi è un fermo immagine del video di poco più di tre minuti (qui l’integrale), realizzato a Palazzo Chigi dallo staff di Giorgia Meloni in occasione del Consiglio dei Ministri del Primo Maggio. La premier non ha incontrato i giornalisti e non ha fatto altre conferenze stampa sulle misure decise.
Fonte: Palazzo Chigi
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera punta su una notizia non brillante per la nostra economia: L’inflazione cresce ancora. Il Sole 24 Ore la spiega così: Nuova fiammata del caro prezzi, un’arma in più per i falchi di Fed e Bce. La Repubblica sogna una sinistra sempre manifestante: Piazza Grande. Il Domani aiuta a decifrare: I sindacati mobilitano le piazze contro la propaganda di Meloni. La Stampa è ancora sulle misure del Primo Maggio: Buste paga, 100 euro in più, ma è un bonus a orologeria. Il Quotidiano Nazionale: Taglio delle tasse, le nuove buste paga. Per l’Avvenire è il: Lavoro che divide. Per il Manifesto è: Fiction. Il Fatto è sullo stesso tono: Tasse, precari, reddito: le balle del Meloni show. Per Il Messaggero ci saranno: «Meno tasse sulla tredicesima». Il Giornale polemizza con l’opposizione: I rosiconi delle tasse. Libero se la prende con Roberto Saviano: Il paladino dei fannulloni. La Verità attacca: In odio alla Meloni il Pd si sbugiarda.
PACE, IL PAPA NON SI FERMA
Nel volo di ritorno da Budapest, il Pontefice ha parlato di una missione in corso senza dare ulteriori dettagli. Kiev e Mosca negano. Chi sono gli uomini chiave della rete vaticana che potrebbero facilitare il dialogo. Iacopo Scaramuzzi per Repubblica.
«Movimenti appena percettibili e piani ancora avvolti nel mistero. Eppure, mentre la guerra continua, la diplomazia è al lavoro. Al punto che l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell ieri si è spinto fino a sottolineare che Cina e India, che finora non avevano mai condannato l’invasione dell’Ucraina, «hanno votato una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu, relativa ai rapporti tra le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa, in cui si fa esplicito riferimento alla “aggressione della Federazione russa dell’Ucraina”». In realtà il testo finale, approvato la settimana scorsa con 122 voti favorevoli, 5 contrari e 18 astensioni, ha ottenuto il voto favorevole di Nuova Delhi e Pechino che però si erano astenute sul passaggio che riguardava l’ “aggressione della federazione Russa all’Ucraina”. L’insistenza di Borrell, però, potrebbe essere la spia che qualcosa nelle diplomazie si sta muovendo. E solleva intanto curiosità, dubbi e interrogativi la «missione» a cui ha accennato papa Francesco di ritorno dall’Ungheria. Non ne sa nulla il governo ucraino, non ne sa nulla il governo russo. La "missione" a cui ha accennato papa Francesco ha sollevato curiosità, dubbi, interrogativi. "Se ci sono colloqui, stanno avvenendo a nostra insaputa", ha detto l'ufficio stampa di Zelensky. "Non si sa nulla", ha detto da parte sua il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov. Per sbrogliare la matassa di ipotesi bisogna ripartire da quanto detto da Francesco. Sul volo da Budapest a Roma, il Pontefice ha parlato, in risposta alle domande dei giornalisti al seguito, dei colloqui che ha avuto con Viktor Orban, il più filorusso dei leader europei, e con il metropolita russo Hilarion, ex ministro degli esteri di Kirill, ora a Budapest in una sorta di esilio che, però, può tornare utile tanto a Kirill, mai tanto isolato internazionalmente, quanto al Papa, da mesi alla ricerca senza posa di canali per incidere sulla pace in Ucraina. "Lei si immagina che in questo incontro non solo abbiamo parlato di Cappuccetto Rosso, no?", ha detto Francesco, sottolineando poi che "a tutti interessa la strada della pace. Io sono disposto. Sono disposto a fare tutto quello che si deve fare. Anche", ha aggiunto nel suo consueto tono colloquiale, "adesso è in corso una missione, ma ancora non è pubblica. Vediamo come ... Quando sarà pubblica la dirò". Il Vaticano in queste ore non aggiunge altro: il Papa ne parlerà quando vorrà lui. Le iniziative di un Pontefice, del resto, sono sovrane, e questo Papa, in particolare, suole muoversi con grande autonomia anche sullo scacchiere internazionale. Passa dai collaboratori, sì, ma muove anche altre pedine. Quando anni fa facilitò lo scongelamento dei rapporti tra Stati Uniti e Cuba, per dire, fece recapitare una lettera personale di Raul Castro a Barack Obama grazie al cardinale arcivescovo cubano Jaime Ortega, suo amico da lungo tempo, che con la scusa di una conferenza alla Georgetown University di Washington si presentò poi alla Casa Bianca, e riuscì ad accedere allo studio Ovale senza lasciare traccia sul registro degli ospiti... Quanto alla Russia e all'Ucraina, Bergoglio ha parlato di una "missione" in corso, non di una mediazione. È dunque ovvio che le autorità dei due Paesi non siano coinvolte. Poco prima del viaggio in Ungheria, del resto, era stato il ministro degli Esteri della Santa Sede in persona, l'arcivescovo Paul Richard Gallagher, a chiarire che "purtroppo, malgrado tutti gli sforzi del Santo Padre e della Santa Sede, ancora non si è aperto uno spiraglio utile per favorire una mediazione di pace tra la Russia e l'Ucraina". L'obiettivo ultimo, aggiungeva il presule britannico, è "l'ideale della pace e la fiducia in Dio che questa guerra finirà, anche se non sarà la fine immaginata dal Presidente Zelensky o dal Presidente Putin". Chiosa don Stefano Caprio, professore al Pontificio Istituto Orientale: "Ora si può puntare a far fermare i combattimenti, a congelare la situazione con un cessate-il-fuoco. Solo tra molti anni i tempi saranno maturi per una pace vera e propria". È in questa cornice che si va muovendo da mesi il Papa. Parla con tutti, cerca di smuovere le acque: la sua rete è estesa, anche sul campo. In Russia ci sono cinque vescovi, a partire dall'arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, monsignor Paolo Pezzi, fedele esecutore delle direttive romane. In Russia c'è anche Leonid Sebastianov, personaggio legato all'entourage putiniano al quale Bergoglio invia saltuariamente biglietti sulla pace. "Sebastianov sta al Papa come Pupo sta a Putin", taglia corto una fonte ben informata. Personalità chiave è, invece, il nunzio apostolico a Kiev Visvaldas Kulbokas, diplomatico di esperienza, abituato in questi mesi a frenare le apprensioni degli ucraini quando il Papa sembra troppo sbilanciato verso Mosca. Un mondo che il presule lituano, comunque, conosce bene: fu lui a fare da interprete tra il Papa e il patriarca russo Kirill a Cuba nel 2016. E poi da pochi mesi è entrato nella squadra del Papa monsignor Claudio Gugerotti, nuovo prefetto del dicastero per le Chiese orientali, ovviamente presente a Budapest a fianco del Papa: nunzio di carriera, ha rappresentato la Sede apostolica in Ucraina, Bielorussia, Azerbaijan e Armenia, oltre che in Gran Bretagna, conosce perfettamente russo e ucraino. Uomo riservatissimo, ha piena dimestichezza con le spiritualità orientali e le raffinatezze della diplomazia. Jorge Mario Bergoglio è "disposto a fare tutto" il possibile, pubblicamente e riservatamente, per arrivare a un cessate-il-fuoco. Anche con una "missione" che, per ora, resta una carta coperta».
“LA MISSIONE DEL PAPA C’È E SI VEDRÀ PRESTO”
Alessia Grossi per il Fatto intervista l’economista Stefano Zamagni, che aveva redatto un piano di pace in sette punti nel settembre scorso.
«“Il Pontefice è al lavoro continuo sulla pace da oltre otto mesi. Ma non c’è da meravigliarsi: è ovvio che sia il Cremlino che Kiev smentiscano perché non esiste ancora un documento ufficiale”. Il professore Stefano Zamagni ha lasciato da poco più di un mese la presidenza della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ma continua a “seguire” questo dossier che ha contribuito a scrivere. Per la pace in Ucraina, l’economista si è esposto firmando un piano in sette punti a settembre “volendo anticipare i tempi”. Quel piano, o quella “missione”, come l’ha definita il Pontefice, è proseguita in questi mesi ed è a questa che ha fatto riferimento Papa Francesco sull’aereo di rientro da Budapest. Questo nonostante un funzionario della presidenza ucraina abbia detto alla Cnn di “non essere a conoscenza” di una missione di pace che coinvolge il Vaticano per il conflitto con la Russia. “Se ci sono colloqui, stanno avvenendo a nostra insaputa”, ha aggiunto la fonte Dichiarazione cui ha fatto eco il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, che si è detto “non a conoscenza” di una missione di pace del Vaticano per l’Ucraina. Questo perché si tratta di “un percorso che non ha niente di ufficiale e canonico, ma che raccoglie i frutti dell’intervento di diverse persone”, spiega Zamagni al Fatto, e tra queste c’è la stessa Pontificia Accademia che alla fine dell’anno scorso ha licenziato un documento finale del workshop sul tema auspicando “la mediazione del Papa e della segreteria vaticana per far sedere le parti intorno a un tavolo”. Ora “siamo in dirittura d’arrivo – chiarisce – se non entro le prossime settimane, entro i prossimi tre mesi sicuramente si vedrà se questo lavoro per la pace da parte del Vaticano avrà ricevuto il via libera oppure arriverà il semaforo rosso”, dice Zamagni che invita a “cogliere i segnali” di un avanzamento. Secondo il professore di Economia politica dell’Università di Bologna “c’era da immaginarsi che si sarebbe arrivati a un dialogo, anche se sotterraneo, dato che “siamo a un punto in cui nulla si risolve con le armi. L’alternativa alla pace – spiega – sarebbe una guerra per esaustione”. Su chi puntare per la mediazione, Zamagni non ha mai avuto dubbi: “Solo Bergoglio in quanto super partes può fare da garante” di una pace, che non è “la pace perfetta”, e qui il professore cita Erasmo da Rotterdam – “meglio una pace iniqua che una guerra equa” –, ci dice. Tuttavia questo non esclude la mediazione cinese: “A sedersi intorno a un tavolo devono essere Biden e Xi. E il Papa ha forte ascendente su entrambi per motivi diversi, ma non è parte in causa”. Motivo per il quale secondo il professore “le due strade per il negoziato (quella cinese e quella vaticana, ndr) procedono parallelamente. È evidente, ed è conseguenza della natura del conflitto: lo scontro tra gli Stati Uniti e l’altra parte del mondo con in testa la Cina”, chiosa. Che la missione di Bergoglio esista a dispetto della ritrosia delle fazioni in guerra, lo si può evincere anche dall’incontro con il metropolita Hilarion del 29 aprile. Papa Francesco ha definito il faccia a faccia, durato 20 minuti “cordiale” e la Santa Sede ha fatto sapere che Hilarion avrebbe riportato al Papa “lo stato delle relazioni con la Chiesa cattolica e le altre confessioni cristiane”. Cosa che il metropolita, con un video sul sito della Diocesi ortodossa di Budapest e dell’Ucraina si è affrettato a smentire respingendo “le insinuazioni secondo le quali avrei incontrato Papa Francesco per dargli delle informazioni allo scopo di raggiungere alcuni accordi segreti oppure altri scopi politici. Rispondo per chi è interessato – ha aggiunto –: non c’è stato nulla che riguardi i rapporti bilaterali tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa russa. Non si è discusso su nessuna questione politica. L’incontro era di natura personale tra due vecchi amici”. Intanto l’attivismo di Bergoglio sulla pace continua e dopo aver visto la settimana scorsa il premier ungherese Orban e quello ucraino Shmyhal, punta all’incontro con il patriarca di Mosca Kirill, “sospeso”, ma che “si dovrà fare”. E anche da lì un segnale è arrivato nel giorno della Pasqua ortodossa, quando Kirill durante la celebrazione a Mosca, ha incitato il presidente russo Putin alla “pace giusta”».
CINA E INDIA CONVERGONO SULL’ “AGGRESSIONE” DI MOSCA?
Le cronache della guerra sull’Ucraina. Gli americani fanno il conto delle vittime: in cinque mesi sarebbero morti 20 mila russi e il Cremlino teme la controffensiva. Cina e India votano una risoluzione Onu che parla di aggressione. L’Ue con Borrell rilancia: lavoriamo insieme. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Gli orchi hanno paura. E sai perché hanno paura? Stanno rubando le lavatrici dalle abitazioni private per spedirle a casa», raccontano i soldati e civili ucraini sul fronte di Kherson. Per loro sono storie di buon auspicio: anche al momento del ritiro dei soldati russi dalla regione a nord di Kiev nell’aprile di un anno fa e poi dal Kherson occidentale in novembre si parlava dei camion militari russi carichi di lavatrici ed altri elettrodomestici razziati prima di fuggire. Soffrono i civili rimasti sotto il tallone russo, però per chi crede nella lotta di liberazione il segnale è inequivocabile: i russi non sono più tanto sicuri che terranno le posizioni contro l’attesa controffensiva ucraina — potrebbe scattare nelle prossime settimane — e così chi può si prepara alla ritirata rubando. «I miei cugini rimasti nella zona occupata di Melitopol ci scrivono via Telegram che sta cominciando la grande rapina. Sfondano i negozi e portano via tutto ciò che trovano, lo stesso fanno nelle abitazioni abbandonate», ci diceva tre giorni fa il 37enne Vladimir Moshalenko, che adesso fa il poliziotto a Kherson, ma prima era istruttore di ginnastica in una scuola di Melitopol. Altro segnale delle insicurezze russe sono le misure eccezionali di repressione della popolazione. Almeno sei amministrazioni regionali hanno cancellato le parate tradizionali del 9 maggio per celebrare, come ogni anno, la grande vittoria sovietica nella «guerra patriottica» contro il nazifascismo nel 1945. Dopo Belgorod, Kursk, Voronezh, Oryol e Pskov, anche la Crimea ha deciso di evitare ogni assembramento. I servizi segreti russi danno la caccia ai partigiani, il numero dei posti di blocco è salito in modo esponenziale, per muoversi sono necessari speciali lasciapassare. Ma ottenerli è diventato un terno al lotto. Il Cremlino ha appena imposto la legge sulla cittadinanza forzata: chiunque non prenderà il passaporto russo nelle regioni annesse con il referendum farsa voluto da Vladimir Putin in settembre potrà venire deportato in Russia in quanto considerato ostile, se non addirittura un «terrorista alleato del nemico» da perseguitare. In attesa dell’intensificazione dello scontro militare cresce il duello delle propagande. Ieri mattina il padrone della milizia Wagner, Yevgeny Prigozhin, aveva dichiarato che nei pressi di Bakhmut, nel Donbass, sarebbe stato ucciso il comandante dei corpi di difesa territoriale ucraini, general-maggiore Igor Tantsyura. Ma Kiev smentisce seccamente. Versioni contrastanti continuano ad annebbiare lo scenario della battaglia per la cittadina. Dopo le continue ritirate delle ultime settimane, gli ucraini adesso sostengono di aver inviato nuove brigate ben equipaggiate e addestrate, che hanno riguadagnato terreno. Mosca nega. Gli americani affermano che soltanto negli ultimi cinque mesi i russi avrebbero subito 20.000 soldati morti e 80.000 feriti, in maggioranza nel saliente di Bakhmut. Dal Cremlino replicano con numeri simili, ma riguardanti le perdite ucraine. Ieri intanto commenti molto positivi, anche dall’Unione europea, sulla decisione la scorsa settimana di Cina e India di sostenere la risoluzione Onu che parlava espressamente di «aggressione della Federazione russa» a proposito della guerra in Ucraina: «Diamo il benvenuto — ha twittato l’Alto Rappresentante per la politica estera, Josep Borrell — alla risoluzione sostenuta da 122 partner, inclusi Cina, Brasile, India e Indonesia».
LA GUERRA FREDDA (E LENTA) DEI DIRIGIBILI CINESI
Le ipotesi sul leviatano dei cieli di Pechino: un laboratorio volante per sperimentare comunicazioni quantistiche che gli Usa non possono intercettare. E conquistare così la supremazia sul Pentagono. Gianluca Di Feo per Repubblica.it.
«C’è un’atmosfera misteriosa e arcaica dietro il proliferare di aerostati e mongolfiere che spuntano dagli arsenali cinesi, come se un pugno di scienziati folli cercasse di ridare vita al fascino dei romanzi di Jules Verne. Ma neppure lo scrittore visionario sarebbe riuscito a concepire una creatura così insolita come quella scoperta dai satelliti nel deserto della Cina nord-occidentale. Secondo le foto analizzate dalla Cnn è stato costruito un hangar di 274 metri destinato a ospitare un dirigibile altrettanto lungo. Un “leviatano volante” senza precedenti. Per avere un termine di paragone, quello della Goodyear riapparso sulla testa dei lombardi lo scorso anno si ferma 75 metri. Il leggendario Zeppelin “Hindenburg”, che volava dalla Germania agli Stati Uniti, arrivava al primato di 246 metri e “l’Italia” con cui Umberto Nobile ha sfidato i ghiacci del Polo Nord era solo di 105 metri. Negli Anni Trenta erano state proprio le tragedie di queste due aeromobili - l'Hindenburg prese fuoco all’approdo negli States, il Roma si spezzò sulla banchisa artica con l’odissea dei superstiti nella "tenda rossa” - a chiudere l’era dei dirigibili, facendo tramontare la speranza di linee per trasferire passeggeri e merci attraverso i continenti. Perché oggi i tecnici di Pechino hanno deciso di resuscitare queste navi del cielo in grado di solcare anche gli strati più alti dell'atmosfera? La domanda sta tormentando tutti gli analisti delle intelligence occidentali e in particolare quelli americani. La processione di palloni spia Made in China sorpresi a sorvegliare le basi top secret del Pentagono ha scatenato un’ondata di psicosi che prosegue da due mesi. Con un’unica certezza: i cinesi hanno realizzato un mezzo semplice, economico e di grande efficacia. Una mongolfiera teleguidata, che può veleggiare tra le correnti per raggiungere la rotta desiderata e ha il vantaggio della lentezza: si sposta piano sopra gli obiettivi permettendo di captare tutte le frequenze che emettono e decifrarne "l’identikit elettronico", raccogliendo le informazioni su radar, reti di comunicazione, sistemi di contromisure. Anche i satelliti possono farlo ma con minore precisione e costi mille volte superiori: hanno a disposizione pochi secondi per puntare i sensori sui bersagli, poi bisogna attendere il passaggio successivo dell’orbita. L’allerta per i palloni non è finita: la scorsa settimana i caccia americani sono decollati per intercettarne un altro, sospeso sopra le Hawaii a 12 mila metri di altezza. Dopo averlo controllato, si è ritenuto che non fosse una minaccia e hanno evitato di abbatterlo: distruggerli infatti si è rivelato complicato e ha richiesto spesso l’impiego di due missili aria-aria, con una spesa parecchie volte più cara del prezzo delle mongolfiere. Adesso però è emerso quest’altro enigma. Ancora più inquietante. Gli occhi elettronici dei satelliti privati BlackSky lo scorso novembre hanno fotografato l’hangar colossale, una pista di un chilometro e accanto parcheggiato un dirigibile di trenta metri, che si ritiene sia un prototipo in scala ridotta dell’aeronave che stanno progettando. Finora le ricerche in questo settore erano state condotte da istituzioni universitarie, mentre questa installazione è senza dubbio di natura militare. E nell’ultimo periodo diversi modelli di dirigibili sono stati brevettati - come ha dichiarato alla Cnn Eli Hayes, un esperto del settore – dall’unità 63660, il reparto più segreto dell’Esercito Popolare. Cosa uscirà dall’enorme capannone? Gli esperti pensano a un veicolo sperimentale, capace di spostarsi nella stratosfera e trasportare grandi quantità di equipaggiamenti. Un’ipotesi è che si tratti di un laboratorio delle strumentazioni per scovare i sottomarini in immersione, l’elemento chiave della deterrenza nucleare statunitense: già ai tempi della Guerra Fredda gli scienziati sovietici avevano tentato invano di escogitare apparati per scrutare sotto la superficie del mare e vanificare la supremazia americana nei battelli dotati di missili intercontinentali. Ora i cinesi starebbero muovendosi sulla stessa direttrice, usando la capacità dei dirigibili di pattugliare lentamente l’Oceano e concentrare le ricerche su una zona specifica. A Repubblica però è stata formulata un’altra ipotesi, che fa riferimento agli studi top secret condotti dal Pentagono. Nel 2011 la Darpa, l’organizzazione militare che gestisce i piani sperimentali, annunciò il programma “Blue Devil”, che prevedeva la costruzione di un dirigibile lungo 127 metri per testare un sistema di comunicazione innovativo: raggi laser avrebbero collegato aerei e comandi terrestri o navi, garantendo la trasmissione sicura di masse di dati pari a quelle trasferite con i cavi a fibra ottica. In pratica, si trattava della premessa per concretizzare una rete di connessioni quantistiche che non possono essere intercettate né hackerate: il Graal di cui tutte le potenze oggi vogliono impadronirsi. Il progetto “Blue Devil” si basava su un dirigibile telecomandato con un volume di un milione e 400 mila metri cubi e sei motori per gestire spostamenti a una media di ottanta chilometri orari e 1.100 chili di carico. Il prototipo in dimensioni più piccole però è stato afflitto da numerosi problemi ed è stato considerato un flop: un dossier degli ispettori militari nel 2013 lo ha definito “un fallimento costato 149 milioni di dollari”. E non se ne è più parlato. C’è però chi ritiene che in questo caso, come per altre tecnologie quantistiche, gli Stati Uniti abbiano amplificato le carenze per dissuadere gli altri Paesi dalle ricerche, proseguendo i loro studi dietro una cortina di silenzio. Impossibile avere certezze. Quello che è sicuro sono i massicci investimenti di Pechino in questo settore, che gli hanno permesso di conquistare il primato nelle reti di comunicazioni quantistiche anche nello spazio: una supremazia che potrebbe rendere la Cina immune dallo spionaggio americano. E che potrebbe presto trovare nel “leviatano volante” lo strumento per ampliare lo studio delle applicazioni quantistiche anche all’interno dell’atmosfera, estendendo le connessioni “intrinsecamente protette” anche allo scambio di dati tra velivoli, navi e reparti terrestri. E trasformare così i dirigibili venuti dal passato in apparecchi da fantascienza».
CONCERTO PRIMO MAGGIO, PARLA CROSETTO
Al Concertone del Primo Maggio ha fatto irruzione il dibattito su pace e guerra. Il fisico Carlo Rovelli ha accusato dal palco il ministro della Difesa Guido Crosetto, che ora si difende. Monica Guerzoni per il Corriere della Sera.
«Porgo l’altra guancia e gli mando un abbraccio».
Si sta sforzando di avere una reazione pacifista, ministro Guido Crosetto?
«Non è una reazione da pacifista, perché io faccio il ministro, non faccio il pacifista.È che non sono un rissaiolo come lui ed altri. Per questo ho detto che porgo l’altra guancia».
«Lui» è Carlo Rovelli, il fisico che l’ha attaccata dal palco del Concertone del Primo Maggio, dandole in sostanza del guerrafondaio.
«Lunedì sera quando Rovelli ha parlato in piazza San Giovanni io non l’ho sentito, dovevo partire alle tre del mattino per l’Iraq».
Quindi solo al mattino, una volta atterrato in Medio Oriente, ha scoperto di essere il protagonista della polemica del giorno?
«Esatto. Non ne sapevo nulla, me l’hanno detto da Roma appena sotto atterrato a Baghdad».
Il ministro risponde al cellulare dalla capitale irachena, dove è andato in missione per salutare il personale italiano e per fare alcuni incontri istituzionali. Ha visto, tra gli altri, l’omologo Thabet Mohammed Saeed al Abbasi per parlare di cooperazione. Al telefono il tono di voce del ministro è stanco e un filo spazientito, più che arrabbiato.
Rovelli le ha dato del «piazzista di morte» e ha messo in relazione i suoi rapporti passati con Leonardo e gli aiuti militari dell’Italia all’Ucraina. Quando glielo hanno riferito, che cosa ha pensato? Ci è rimasto male?
«Mi ha fatto male, certo, come può succedere tutte le volte che le persone parlano senza conoscere. Io non parlerei mai di fisica e lui non può parlare di cose di cui non sa nulla. Purtroppo ha voluto personalizzare, facendo una cosa violenta e ad personam e abusando del mezzo pubblico».
Davvero è disposto a invitarlo a cena per «conoscersi, chiarirsi» e spazzare via le scorie della polemica?
«Non ho alcun problema a incontrarlo per conoscerci di persona, posso invitarlo a pranzo o a cena, fa lo stesso. Io non ho un approccio ideologico e lui dovrebbe applicare lo stesso criterio».
Rovelli è stato durissimo con lei, anche senza nominarla. L’ha inclusa tra i «piazzisti di strumenti di guerra» che costruiscono armi «per ammazzarci l’un l’altro».
«Un’accusa totalmente ridicola, lascia il tempo che trova. Come dice il Vangelo, dai loro frutti li riconoscerete».
Un albero buono non può produrre frutti cattivi né un albero cattivo produrre frutti buoni...
«Esatto. Io sono tranquillo e deve stare tranquillo anche Rovelli. E non dico stia sereno, che magari la prende male».
In che senso, il fisico può stare tranquillo?
«Perché questo governo lavora per la pace. Lui si dice pacifista e spero che studiando l’Ucraina non sbagli la parte per cui lavorare, perché normalmente chi è pacifista poi è per i russi. Invece in questo governo siamo tutti per la pace in Ucraina. E vorrei aggiungere una cosa che ritengo molto importante».
La aggiunga.
«Attaccare il ministro della Difesa in un momento così, con una guerra sanguinosa alle porte dell’Europa, è una delle cose più gravi che si possano fare. Io sto lavorando anche per loro».
CONCERTO PRIMO MAGGIO, PARLA ROVELLI
Cristina Benenati della Stampa ha invece intervistato Carlo Rovelli, che si dice sorpreso dei tanti messaggi di sostegno ricevuti.
«L'uomo del giorno, dal palco del Primo Maggio, aveva previsto quasi tutto: «Ogni volta che provo a dire qualcosa di politica, qualcosa che riguarda l'interesse di tutti noi, c'è subito qualcuno che mi grida: "Taci Rovelli, occupati della tua scienza, lascia perdere la politica!"». È andata esattamente così e adesso, racconta il fisico al telefono, «sono subissato di messaggi». Colpa di quelle parole pronunciate al concertone dal divulgatore scientifico che la rivista Foreign Policy ha inserito tra i cento migliori pensatori globali: «È ragionevole che in Italia il ministro della Difesa sia stato per anni legato a una delle più grandi fabbriche di armi del mondo, Leonardo? E sia stato presidente della Federazione dei costruttori di armi? Il ministero della Difesa serve per difenderci dalla guerra o per aiutare i piazzisti di strumenti di morte?». Risposta, neppure troppo gelida, di Crosetto: «Quando avrà tempo lo inviterò a pranzo così gli faccio conoscere la persona, e dorme tranquillo. Ne approfitterò per farmi spiegare la fisica di cui sono un grande appassionato».
Professor Rovelli, immaginava si scatenasse un finimondo del genere?
«Sono arrivati centinaia di messaggi, sono stato subissato. Insieme a tantissimi messaggi positivi, anche qualche insulto, pure forte, come è ovvio che sia. Ma quello che è importante è che la politica ascolti, che stia a sentire queste parole: questo è quello che conta. Invece di usare le nostre risorse per fare ospedali, scuole, musica, lavoro, le cose buone del mondo, le usiamo per fare armi per ammazzarci l'un l'altro. Si può essere più stupidi di così?».
Accetterà l'invito del ministro Crosetto?
«Ho apprezzato molto i modi eleganti e signorili del ministro. Però non si tratta di una questione personale, ma di una questione politica che vorrei discutesse il Paese».
Dunque, niente incontro?
«Se avrà piacere di incontrarmi, non dico di no. Non mi tiro mai indietro se si tratta di un incontro e un confronto con chi si dimostra intelligente e interessante. Ripeto, però, non è una questione personale e vorrei se ne discutesse nel Paese, non a cena in due. Qualche giorno fa il ministro ha parlato di un suo gesto cortese di aiuto a una signora mentre si trovava in farmacia, questo mi è piaciuto molto».
Resta il messaggio politico…
«Stiamo andando verso una guerra che cresce e invece di cercare soluzioni i Paesi si sfidano, invadono, soffiano sul fuoco della guerra e la tensione internazionale non è mai stata così alta come adesso. Tutti dicono "pace", ma poi molti aggiungono che prima bisogna vincere. Volere la pace, ma dopo la vittoria, significa volere la guerra, ovviamente. Ci sono decine di migliaia di bombe nucleari pronte a esplodere, puntate sulle teste di tutti, da una parte e dall'altra e non siamo mai stati così vicino ad una catastrofe nucleare come adesso. È una follia».
Nel suo intervento ha parlato direttamente ai giovani: «Le cose del nostro mondo che amiamo sono state costruite nel passato da giovani che hanno saputo sognare un mondo migliore – ha detto – anche a costo di rovesciare tutto qualche volta. Attaccare la Bastiglia, bruciare il Palazzo d'Inverno». E ancora: «Il pianeta voi potete cambiarlo. Non da soli, ma insieme sì».
«L'invito è a impegnarsi per le questioni serie e a lunga distanza. Ho parlato anche di clima, di catastrofe ecologica, di diseguaglianze».
E allora cosa chiede ai ragazzi?
«L'invito è a prestare attenzione, a non trascurare quello che sta succedendo. Ribadisco: sono assolutamente sorpreso dalle reazioni di affetto e interesse che hanno suscitato le mie parole».
LA PACE È ARCAICA, LA GUERRA SI AGGIORNA
Bisogna “far guerra alla guerra”. Mentre “è infame che le diplomazie invece di creare le condizioni di una conclusione onorevole, si lascino inghiottire dal silenzio o dal mito torbido della vittoria che annienta il nemico anche in quanto ha di civile”. L’analisi amara di Domenico Quirico sulla Stampa.
«Combattere contro la guerra. Perché il male è il male, l'idiozia è l'idiozia, il massacro è il massacro. Questo è il pacifismo. La sua virtuosa perennità si radica proprio nel ritenere che nessuna ragione al mondo consente di farsi spettatori passivi, propagandisti o peggio ancora complici della guerra e dei suoi riferibili orrori. Era così ai tempi della battaglia di Romain Rolland e di un altro pugno di uomini celebri e oscuri che si batterono, invano, nel 1914 contro l'inutile strage della Grande Guerra. La gloriosa battaglia dei pacifisti per fermare l'inutile strage in Ucraina (e un'altra guerra mondiale), più di un secolo dopo, appare altrettanto tragicamente destinata alla sconfitta, il doloroso spasimo a vuoto di una impotenza. Con la differenza che oggi non si vedono in giro, al loro fianco, neppure gli intellettuali capaci di resistere almeno con un po' di ossificata letteratura ai fanatismi e agli interessi, che provino vergogna di invadere perfino la pace; e ricordino che, se bisogna battersi poiché non si può fare diversamente, allora, non bisogna darvisi del tutto, a quella necessità, e pensare al mondo del dopo. Ecco: il gigantesco, devastante tradimento dei chierici. Una premessa per chiarire. Per pacifisti intendo coloro che invocano una conclusione senza vinti né vincitori, non certo quelli che si camuffano dietro la parola pace per dar dignità a disfattismi ripugnanti o invitano a diserzioni, aperte o larvate, rispetto alle responsabilità del Prepotente del Cremlino. Intendo non cenacoli pacifisti da salotto o da editoriale. O che vogliono lucrare qualche preferenza elettorale distinguendosi dal coro degli schierati, dei senza dubbi, dei devoti alle pressioni padronali della atlantica superpotenza. Intendo i non iscritti a niente, umili cittadini, famiglie, gli antichi uomini di buona volontà; come coloro, per esempio, che da 57 sabati, da quando è iniziata la guerra, si ritrovano nel centro di Torino per un raduno di testimonianza. Ebbene: il numero non supera mai la cinquantina, l'attenzione che i passanti dedicano loro, in particolare i giovani, è distratta, indifferente, infastidita. Come nel 1914, con il riscaldarsi degli animi, chi è contro la guerra è solo, svillaneggiato dai fanatici della vittoria, accusato di essere filo putiniano, un codardo o peggio ancora al redditizio servizio delle autocrazie criminali. Perché la pace non riempie le piazze? La risposta è nell'esser rimasto, il suo partito, virtuosamente arcaico, santamente immobile, di ispirazione religiosa o laica che sia: in fondo pre-moderno nella convinzione che l'essere pacifisti è un dovere morale quanto essere buoni, un perbenismo malinconico. Incapace nemmeno di svincolarsi dal marchio che risale alla prima Guerra fredda, quando il pacifista spesso scendeva in piazza solo a comando, a senso unico, per i sovietici e contro l'imperialismo. Di non aver, come Putin, assimilato la lezione del Muro e dell'89. La guerra e i suoi alchimisti invece hanno fatto enormi progressi non solo nella tecnologia della morte, ma anche nei sortilegi propagandistici, nel renderla accettabile, giusta, sacrosanta, inevitabile, democratica, redditizia. Dalla campagna della «guerra al terrorismo» a «la Russia dopo Kiev vuole arrivare a Lisbona» la comunicazione bellicista continuamente si aggiorna, si modella su nuove necessità, sa meticolosamente occultare la dannazione dell'uccidere e il grande affare che si cela dietro ogni conflitto, ad ogni lucroso aggiornamento tattico dell'arte occidentale di vincere: dal drone al redditizio revival del carro armato, dal super cannone all'antimissile che non erra, tutto passa come pedigree di infallibile modernità occidentale. La dialettica degli entusiasti, politici, analisti, armaioli di tutte le stazze, non soffre timidezze, cammina su binari inflessibili la cui stazione finale è la guerra permanente. Sono riusciti ad imporre una deforme religione collettiva e indiscutibile, una forma di detestabile superbia senza reticenze che entrando dappertutto lascia solo deboli margini alla civiltà abbandonata. Invitano gli intellettuali a starsene quieti nel loro studiolo, a scriver versi o a rimirar le stelle invece di spandere sillabe al vento su «cose di cui non sanno nulla». Ne è un esempio la polemica innescata dalle parole del fisico Carlo Rovelli al concerto del primo maggio sui «piazzisti di strumenti di guerra», e sul ministro della Difesa Crosetto «vicinissimo a una delle più grandi fabbriche di armi del mondo, Leonardo». Il pacifismo invece è rimasto all'epoca della sfilata di rassegnata testimonianza, allo striscione con i colori arcobaleno, alle colombe più o meno picassiane, ai buoni sentimenti, alla evidenza della santità della pace e dell'orrore della guerra come morte. Le ragioni del rifiuto non sono avanzate molto oltre alla evangelica opportunità di essere buoni e che uccidere è male. E invece bisogna cambiar metodo, diventare aggressivi, incalzanti, far guerra alla guerra con gli stessi metodi totali, tenendo conto che siamo in tempi di miserabile avarizia morale. Gridar chiaro e tondo che, poiché l'intelligenza non ha impedito lo scoppiare della guerra ed è giusto che ci si batta per il proprio popolo, il pacifismo esige che la guerra non sia né fanatica né totale e che anche coloro che sono sul campo di battaglia, soprattutto loro, mantengano ben salda la cittadella della intelligenza. E che è infame che le diplomazie invece di creare le condizioni di una conclusione onorevole, si lascino inghiottire dal silenzio o dal mito torbido della vittoria che annienta il nemico anche in quanto ha di civile. Bisognerebbe denunciare sugli striscioni i nomi e i fatturati da un anno a questa parte delle industrie della «sicurezza» che invece si maneggiano come riguardose arcadie produttive, americane, russe, cinesi, italiane, francesi, ucraine, gli stipendi dei loro manager, spiattellare i misteri dei dividendi, i collegamenti con la politica la finanza il malaffare. Ricordare che, esaurite sul campo ucraino senza esiti mirabolanti offensive e controffesive, verrà il momento in cui non potremo accontentarci di guardarli i campi di morte, alimentando l'eroismo dei buoni, dovremo fornire anche uomini, uomini per alimentare il massacro e allora sarà troppo tardi. Chiedere, poiché siamo democrazie, di contare chi è maggioranza e non con i sondaggi: contare i dubbiosi di questa partita senza fine e i favorevoli alla guerra fino alla vittoria».
DECRETO PRIMO MAGGIO. IL TAGLIO DELLE TASSE
Giorgia Meloni non ha fatto conferenze stampa, ha preferito un messaggio diretto, non mediato. Ma che cosa ha deciso il governo davvero? Lo ricostruiscono Claudio Tucci e Giorgio Pogliotti per il Sole 24 Ore: in busta paga arriveranno fino a 100 euro di aumento per sei mesi. Il governo prevede un mese in più, il taglio del cuneo fiscale sale a 7 punti fino a 25mila euro di reddito e a 6 fino a 35mila. Cambiano i contratti a termine.
«Con poco più di 4 miliardi il governo Meloni conferma per il 2023 l’ulteriore intervento sul cuneo contributivo di quattro punti. In questo modo, per le retribuzioni annue lorde fino a 25mila euro la riduzione dei contributi a carico del lavoratore sale a 7 punti complessivi (i nuovi 4 + 3 punti già previsti con la manovra 2023). Nella fascia retributiva tra 25 e 35mila euro la sforbiciata cresce fino a 6 punti totali (i nuovi 4 + i 2 punti già previsti da gennaio). Questo maxi sconto, che vale fino a 100 euro al mese - sommando il nuovo taglio a quello attualmente in vigore -, per le retribuzioni fino a 25mila comporterà, ha spiegato ieri il ministro del Lavoro, Marina Calderone intervenuta a Radio24, «una riduzione di circa il 70% del prelievo contributivo. Per chi ha fino a 35mila euro di reddito siamo al 60%». Calderone ha poi confermato l’impegno del governo «a lavorare per creare le condizioni per rendere strutturale questo intervento», seppur in un quadro di prudenza e di attenzione ai conti pubblici (si veda anche l’articolo a pag. 7). Un comunicato stampa del ministero dell’Economia, diffuso il 1° maggio al termine del Cdm sul lavoro, ha evidenziato che l’aumento in busta paga (fino a 100 euro) avverrà «nel periodo luglio-dicembre», anche se nell’ultima bozza di Dl Lavoro, datata 1° maggio, si fa ancora riferimento «ai periodi di paga dal 1° luglio 2023 al 30 novembre 2023». Anche la premier Giorgia Meloni, al termine del Cdm del 1° maggio, ha parlato di aumenti fino a dicembre. L’ultima bozza di testo conferma, sempre in chiave anti rincari, 142 milioni per innalzare fino a 3mila euro (dagli attuali poco più di 258 euro), per tutto il 2023, il limite di non imponibilità dei fringe benefit dati ai lavoratori dipendenti con figli a carico, tra le prestazioni è incluso il pagamento delle utenze domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica e del gas naturale. Cambia ancora la norma sui contratti a termine, che manda in soffitta il decreto Dignità. Si riscrivono le causali: i contratti a termine potranno salire da 12 a 24 mesi nei casi previsti dai contratti collettivi (nazionali o aziendali), o in sostituzione di altri lavoratori, oppure, in caso di mancata previsione nella contrattazione collettiva, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti entro il termine del 30 aprile 2024. Calderone ha difeso l’intervento, che non apre a nuova precarietà: «Il 97% dei contratti a tempo determinato durano meno di 12 mesi - ha ricordato il ministro del Lavoro -. Il cambiamento riguarda meno del 3% dei contratti». Sempre nell’ultima versione della bozza del Dl è comparsa anche la previsione, per i lavoratori a termine con contratto di 24 mesi sottoscritto successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, con l’eccezione delle attività stagionali, di una “una tantum” a titolo di welfare di 500 euro, se al termine della durata il contratto di lavoro non è trasformato a tempo indeterminato. Il limite di 24 mesi non si applica ai contratti a tempo determinato stipulati dalle pubbliche amministrazioni, dalle università private, incluse le filiazioni di università straniere, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l’innovazione, ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica. Nella nuova bozza entra anche un mini pacchetto Cigs. Per le aziende (Ilva) che non hanno potuto completare il piano di riorganizzazione si autorizza una nuova dose di cassa integrazione straordinaria fino al 31 dicembre per salvaguardare l’occupazione (13 milioni quest’anno). Proroga di ulteriori sei mesi di Cigs anche per i lavoratori di Alitalia in amministrazione straordinaria. La Cigs potrà proseguire anche successivamente alla conclusione dell’attività del commissario e in ogni caso non oltre il 30 giugno 2024, anziché il 31 dicembre 2023. La proroga dei trattamenti è riconosciuta nel limite di 193,6 milioni per il 2023 e di 135,1 milioni per il primo semestre del 2024. Tra gli ultimi ritocchi anche la norma sul contratto di prestazione occasionale nel settore turistico e termale. Si prevede di far salire il compenso da 10mila a 15mila euro per gli utilizzatori che operano nei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi divertimento. Sempre solo in questi settori posso utilizzare lo strumento gli utilizzatori che hanno alle proprie dipendenze fino a venticinque lavoratori subordinati a tempo indeterminato».
DECRETO PRIMO MAGGIO, GIORGIA E IL VIDEO DEGLI STUCCHI
Massimiliano Panarari sulla Stampa commenta la decisione di Meloni di realizzare un video per spiegare le misure dell’esecutivo. “Un punto di non ritorno sulla strada della disintermediazione”.
«Non si è trattato del «taglio di tasse maggiore da decenni». Di sicuro, però, il videointervento della presidente del Consiglio sulla riduzione del cuneo fiscale costituisce un unicum. Nel senso di un punto di non ritorno sulla strada della disintermediazione. Va da sé che tutti i primi ministri operano – esclusi quelli tecnici – in un'ottica di rafforzamento del loro consenso, ma in questo caso la sovrapposizione tra comunicazione istituzionale e propaganda politica è totale anche nella scelta del mezzo e nel codice narrativo. A un tale grado, giustappunto, da segnare l'ennesima svolta, dal momento che nelle istituzioni la sostanza passa anche per la forma, e qui siamo invece dalle parti di una specie di House of Cards "in superotto", con finale ammiccante in presa diretta da una riunione del Consiglio dei ministri. Insomma, la politica-spettacolo direttamente dentro la sala del CdM, come non si era mai visto finora, portando così alla ribalta un'altra tappa dell'incessante rincorsa (e "scalata al cielo") della comunicazione populista. A conferma di come il riflesso condizionato dei politici neopopulisti verso il comunicare secondo certi registri risulti più irresistibile di qualunque sobrietà istituzionale. Meloni, si sa, non ama particolarmente le conferenze stampa – e qui si ritrova in buona e trasversale compagnia di tante e tanti che calcano la scena politica odierna –, prediligendo l'armamentario della comunicazione istantanea e "per direttissima" (come ha mostrato anche con la rubrica social de Gli appunti di Giorgia). La sua strategia, evidenziata ripetutamente, non è soltanto quella di ribattere colpo su colpo a qualunque attacco comunicativo che le venga mosso, ma consiste soprattutto nell'occupare quanto più possibile il dibattito collettivo (e la sfera pubblica). «Tu chiamala, se vuoi», egemonia – perché, in effetti, proprio di un disegno complessivo di questo tipo si tratta. L'obiettivo, dopo il 25 aprile, era dunque quello dello scippo con "destrezza" (si potrebbe dire, nella fattispecie, in senso letteralpolitico...) del Primo maggio. Alimentando uno schema di polarizzazione affettiva – e anche ideologica – con il segretario della Cgil Maurizio Landini, il rapporto con il quale («una rondine non fa primavera») non ha preso la direzione sperata della non eccessiva belligeranza all'indomani dell'invito al XIX congresso di Rimini del marzo scorso. E, dunque, pur non reinventandosi «presidente operaia» come un suo noto predecessore (sdoganatore e poi competitor), Meloni si è presentata in una versione "lavorista", alla ricerca di una finestra di opportunità per continuare a tentare di posizionarsi dentro gli spazi comunicativi tradizionalmente di pertinenza della sinistra e del mondo sindacale. Con la finalità di neutralizzarli e convertirli in quelli che potremmo chiamare dei "momenti interscambiabili" (una cosa assai differente dal conseguimento di una memoria condivisa) all'interno di quella lettura revisionista della storia del Paese (o, per meglio dire, della nazione) che costituisce un perno del disegno di egemonia culturale di questa destra "afascista" che rifiuta di dirsi antifascista. Di qui il video "documentaristico" del Primo maggio girato con la tecnica del piano sequenza, e la premier che incede davanti a una telecamera ravvicinata. Fino a quel colpo di teatro finale che rappresenta appunto un nuovo vertice della «comunicazione populista di palazzo». Dopo avere accompagnato il pubblico lungo le sontuose stanze e i lunghi corridoi, e aver pronunciato un'esortazione a ritornare al lavoro (in contrapposizione alla sospensione della festa dei lavoratori), ecco – sorpresa! – che fa entrare lo spettatore direttamente all'interno del Consiglio dei ministri che licenzierà il «decreto Lavoro» appena illustrato. E dopo avere dato via alla seduta suonando la campanella, Meloni si gira e "sfonda la quarta parete", guardando di nuovo dritto in camera e sorridendo con aria complice. Pura Politica-Fiction, in un tripudio inusitato di disintermediazione, con i ministri trasformati in comparse di una sorta di political drama. Anzi, di un reality della politica: tra «Casa Giorgia» e una rinnovata edizione del «Grande Fratello Palazzo Chigi».
Ecco come invece spiega la scelta il capo della comunicazione social della premier. Sempre dalla Stampa.
«1 Tommaso Longobardi, capo della comunicazione social di Giorgia Meloni, perché il Primo maggio si è deciso un video al posto della conferenza stampa?
«Per le lamentele dei sindacati e per rispetto ai giornali chiusi. Il presidente ha proposto di fare un video per spiegare il Consiglio dei ministri e chiacchierando con lei abbiamo sviluppato quel format».
2 Quando lo avete deciso?
«Nella stessa mattinata».
3 Perché ambientarlo a Palazzo Chigi tra tutti quelli stucchi? Non c'è un effetto boomerang?
«È la sede del lavoro del presidente, non credo esista luogo più iconico per raccontare le misure del governo. La presidenza attuale ha reso più sobrio l'ambiente e i damascati in linea con i tempi, rimane la volta affrescata, ma non credo si possa coprire. . .».
4 Qual è la strategia social della premier?
«Genuinità: ovvero valorizzazione reale e non artificiosa di Giorgia».
5 Com'è cambiata l'immagine da premier?
«Un linguaggio e un tipo di comunicazione più istituzionale, senza però perdere l'originalità e la spontaneità trasmesse da Giorgia».
QUALCHE POSTO DI LAVORO IN MENO…
Proprio in questi giorni il World Economic Forum annuncia che verranno persi 93 milioni di posti di lavoro. Il commento di Mattia Feltri in prima pagina sulla Stampa.
«Proprio nelle ore in cui Giorgia Meloni annunciava con qualche enfasi di troppo il taglio del cuneo fiscale, e mentre qui si cominciava a calcolare se l'aumento in busta paga, per i prossimi sei mesi, fosse di sessanta o ottanta o cento euro, comunque somma benvenuta, e mentre Elly Schlein in un'ampia intervista a La Stampa parlava di salario minimo e più contrattazione collettiva e abolizione degli stage gratuiti e limite ai contratti a termine, e mentre ci si batteva sul come e il quanto del reddito di cittadinanza, mentre cioè qui ci si spendeva con buona volontà sui rimedi ai guasti del mercato del lavoro, il World Economic Forum avvisava che da quest'anno e nei prossimi tre verranno perduti nel mondo ottantatré milioni di posti di lavoro. Un po' la transizione ecologica, un po' la guerra, soprattutto l'incedere inarrestabile dell'innovazione tecnologica con l'arrivo dell'intelligenza artificiale. Ottantatré milioni di posti di lavoro saranno perduti e altri sessantanove saranno recuperati, ma quelli perduti saranno lavori generici e a bassa specializzazione, quelli guadagnati lavori che richiederanno alta preparazione: nel 2027, il 42 per cento delle attività aziendali, quelle più elementari e ripetitive, saranno automatizzate. Se non saremo pronti, e siamo già in ritardo, e il ritardo si aggiunge a quello storico sulla rivoluzione digitale, saranno molti i posti che perderemo e pochi quelli che guadagneremo. Aumenteranno i poveri e aumenteranno le disuguaglianze, e continueremo ad accapigliarci su quale dito vada infilato nel tubo che perde. Il nostro nemico non è l'intelligenza artificiale, siamo noi».
L’INFLAZIONE ACCELERA DI NUOVO IN ITALIA
L’inflazione torna a crescere in Italia: +8,3% ad aprile. A pesare la nuova accelerazione dei beni energetici, mentre frena la corsa di quelli alimentari. Inflazione acquisita per il 2023 a +5,4%. Carlo Marroni per Il Sole 24 Ore.
«I prezzi rimbalzano. E ancora in misura molto evidente. In aprile secondo le stime preliminari dell’Istat l’inflazione ha visto risalire la china, portandosi all’8,3% annuo, con una variazione mensile del +0,5%: i dati si confrontano con il 7,6% di marzo, mese in cui i prezzi al consumo erano scesi dello 0,4%. La causa di questa battuta d’arresto della parabola discendente dell’inflazione è la nuova accelerazione dei beni energetici, il cui andamento, nonostante la flessione dello 0,8% su base congiunturale, sconta un “effetto base” sfavorevole con lo scorso anno (-5,8% il congiunturale di aprile 2022). In sostanza sono risaliti benzina e gasolio, ma anche altri fattori hanno influiti nelle bollette, come la reintroduzione degli oneri di sistema. Nel settore alimentare, i prezzi dei prodotti lavorati, come anche quelli dei beni non lavorati, evidenziano un’attenuazione della loro crescita su base annua, che contribuisce alla stabilizzazione dell’inflazione di fondo (ferma al +6,3%). Si accentua, infine, la frenata su base tendenziale dei prezzi del “carrello della spesa”, che ad aprile si attestano a +12,1%. Quindi, come detto, l’accelerazione del tasso di inflazione si deve, in prima battuta, all’aumento su base tendenziale dei prezzi dei beni energetici non regolamentati (da +18,9% a +26,7%) e, in misura minore, a quelli dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +6,3% a +6,7%) e dei servizi vari (da +2,5% a +2,9%). Tali effetti sono stati solo in parte compensati dalla flessione più marcata dei prezzi degli energetici regolamentati (da -20,3% a -26,4%) e dal rallentamento di quelli degli Alimentari lavorati (da +15,3% a +14,7%), degli Alimentari non lavorati (da +9,1% a +8,4%), dei Servizi relativi all’abitazione (da +3,5% a +3,2%) e dei Servizi relativi ai trasporti (da +6,3% a +6,0%). L’”inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, resta stabile a +6,3%, così come quella al netto dei soli beni energetici (a +6,4% come registrato a marzo). Si accentua la crescita su base annua dei prezzi dei beni (da +9,7% a +10,6%) e, in modo più contenuto, dei servizi (da +4,5% a +4,7%), portando il differenziale inflazionistico tra il comparto dei servizi e quello dei beni a -5,9 punti percentuali, da -5,2 di marzo. I prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona mostrano un nuovo rallentamento in termini tendenziali (da +12,6% a +12,1%), mentre quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto accelerano la loro crescita (da +7,6% a +8,2%). L’aumento congiunturale dell’indice generale si deve principalmente all’aumento dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti e degli energetici non regolamentati (entrambi a +2,4%), degli alimentari lavorati (+1,1%), dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (+0,9%) e dei beni non durevoli (+0,6%); tali effetti sono stati solo in parte compensati dal calo dei prezzi degli Energetici regolamentati (-19,3%). L’inflazione acquisita per il 2023 è pari a +5,4% per l’indice generale e a +4,6% per la componente di fondo. In base alle stime preliminari, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) aumenta dell’1,0% su base mensile e del 8,8% su base annua (in accelerazione da +8,1% di marzo). L’aumento congiunturale dell’IPCA, più accentuato rispetto a quella del NIC, è spiegato dalla fine dei saldi stagionali prolungatisi in parte anche a marzo (di cui il NIC non tiene conto); i prezzi di abbigliamento e calzature aumentano sul mese del +4,8%. Come detto, quindi, l’inflazione torna a crescere, dopo quattro mesi di calo. Il picco era stato raggiunto a ottobre e novembre con un +11,8% congiunturale: dopo è via via iniziata una fase discendete, generata dal progressivo calo dei prezzi energetici e in particolare del gas: 11,6% di cembre, 10% a gennaio, 9,1% a febbraio e 7,6% a marzo. Per il centro studi di Confcommercio la ripresa dell’inflazione registrata nel mese di aprile, «pur consolidando i timori di un percorso di rientro non privo di ostacoli e non immediato, non va letta con eccessivo allarme. Il dato italiano si inserisce, inoltre, in un contesto europeo in cui il rallentamento delle dinamiche inflazionistiche, seppure avviato, mostra analoghi elementi di difficoltà, con temporanee interruzioni e andamenti non omogenei tra Paesi».
MIGRANTI. LA DEPORTAZIONE CHE PIACE A MELONI
Nell’editoriale per Avvenire Maurizio Ambrosini torna ad occuparsi di quanto detto da Giorgia Meloni sulle misure del premier inglese Rishi Sunak sulla controversa deportazione dei migranti in Ruanda.
«La premier Giorgia Meloni a Londra ha manifestato piena sintonia con l’approccio al diritto di asilo sostenuto dal premier conservatore Rishi Sunak, e prima di lui da Boris Johnson: deportazione in Ruanda per chi arriva nel Regno Unito spontaneamente, anche se proviene da un Paese in guerra, è perseguitato per ragioni etniche o religiose, appartiene a una minoranza oppressa. Per entrambi i leader, la sacralità dei confini nazionali conta più dei diritti umani universali, ossia in definitiva della sacralità della vita delle persone in pericolo. La posizione del Ruanda nell’indice dello sviluppo umano, al 165° posto su 191 Paesi in classifica, ossia uno dei luoghi al mondo in cui si vive peggio, non scalfisce questa granitica linea di sbarramento. Anzi, Meloni è andata all’attacco preventivo, tacciando di razzismo chi solleva dubbi sull’idoneità del Ruanda a proteggere, dietro pagamento, le persone trasferite a forza dal Regno Unito. Vedremo che cosa ne pensa la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), che nel giugno dello scorso anno ha decretato la sospensione della discussa iniziativa britannica, vigorosamente contestata, fra le molte voci, accanto all’accorato appello di papa Francesco, anche dall’arcivescovo di Canterbury e da decine e decine di vescovi della Chiesa anglicana. Nel frattempo, però, il Parlamento europeo, dopo lunghe negoziazioni e sofferte mediazioni, ha dato il via libera a prudenti, ma importanti proposte di modifica delle regole su immigrazione e asilo. Comincia ora una trattativa con il Consiglio, ossia con i governi nazionali, che sarà almeno altrettanto complicata. Più che prevedibile l’opposizione di Budapest e Varsavia, forse di altre capitali dell’Est. Ma intanto qualcosa si è mosso, le istituzioni europee dopo anni di stallo hanno assunto l’iniziativa e partorito un’idea di riforma che suscita speranze. Nella sostanza i legislatori europei, pur ribadendo un quadro di controlli sugli accessi e di precauzioni securitarie, propongono di attenuare le rigide regole delle convenzioni di Dublino, come auspicato da anni dall’Italia. Per esempio, si valorizzano i legami familiari: se un richiedente asilo ha un parente che risiede in uno Stato membro, quello Stato dovrebbe assumere la responsabilità di vagliare la domanda di asilo. Anche nel caso di minori non accompagnati, la competenza dovrebbe seguire i legami di parentela. La responsabilità del primo Paese di approdo, dunque dell’Italia per gli arrivi dal corridoio centrale del Mediterraneo, dovrebbe diventare residuale, e cessare del tutto dopo dodici mesi. Nel caso, inoltre, di arrivi improvvisi e massicci, dovrebbero scattare meccanismi di solidarietà tra gli Stati membri: aiuti aggiuntivi a chi accoglie, e soprattutto trasferimenti obbligatori verso altri Paesi, insieme a procedure più veloci per il riconoscimento della protezione internazionale. Il punto è dirimente, perché apre al passaggio da una solidarietà volontaria, finora assai reticente, a una condivisione obbligatoria dell’onere dell’accoglienza. Netta la posizione del relatore della proposta, il deputato spagnolo Juan Fernando Lopez Aguilar, secondo cui il nuovo regolamento assicura una «vera solidarietà tra gli Stati membri, attraverso un meccanismo di ricollocazione prevedibile ed obbligatorio». Il governo italiano dovrebbe salutare come una vittoria il voto del Parlamento europeo e rimboccarsi le maniche per convincere gli altri governi ad approvare le nuove misure, a partire dai sodali politici del gruppo di Visegrad. Peccato però che a opporsi alla riforma a Strasburgo non siano stati soltanto i deputati sovranisti dell’Europa dell’Est, ma anche quelli italiani. Questo, purtroppo, rende chiaro che a chi fa delle migrazioni e dell’asilo dei perseguitati uno strumento di propaganda, le soluzioni non interessano. Serve di più tenere aperto il tema dell’«invasione», alimentare il contenzioso con Bruxelles e continuare a biasimare la sordità dell’Europa».
“FERMATE L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE”
Geoffrey Hinton, padre della tecnologia da cui è nata ChatGPT, lascia Google e denuncia: “Presto l'intelligenza artificiale diventerà più capace di noi, voglio poterne denunciare i difetti". Per La Stampa Alberto Simoni.
«Geoffrey Hinton ha 75 anni ed è ritenuto il pioniere dell'intelligenza artificiale. Nel 2018 ha vinto il Premio Turing e se negli ultimi anni c'è stato un boom di AI (Artificial Intelligence) lo si deve anche al suo ingegno e alla dedizione del suo gruppo. Nel 2012 insieme a due studenti dell'Università di Toronto - uno di questi è Ilya Sutskever, oggi attivo per OpenAI - creò la tecnologia su cui i colossi dell'hi tech si basano per sviluppare software di AI con ChatGPT. Hinton, origini britanniche e passaporto canadese, lavora a Google dal 2013 quando la sua società venne comprata dal colosso di Mountain View ingolosito dal software di deep learning (quelli alla base della catena che ha al culmine gli applicativi come ChatGPT e Bard) che consentiva di identificare oggetti semplici analizzando una mole di foto. Il professor Hinton ha lasciato la casa madre Alphabet il mese scorso. Il 27 aprile ha incontrato il ceo Sundar Pichai e gli ha detto che era tempo di fare un passo indietro. Forse toccando con mano le potenzialità dell'AI, Hinton ha deciso di denunciare con un megafono privo di condizionamenti i pericoli per il mondo dello sviluppo a tappe forzate degli strumenti dell'intelligenza artificiale. «Voglio poterne parlare senza preoccuparmi dell'impatto che le mie parole avranno su Google», ha detto in un'intervista al New York Times. Quello che spaventa Hinton è quanto già altri intellettuali - come Yuval Harari, uscito pubblicamente con un saggio sul New York Times il mese scorso - e ricercatori hanno denunciato: ovvero una corsa sfrenata al rialzo fra le aziende allo sviluppo di un sistema che potrebbe creare segni e codici in numero maggiore rispetto a quelli generati dagli uomini. E stravolgere così, con un linguaggio nuovo e criptico, un impianto valoriale ed etico, impedirci di distinguere il vero dal falso e gettare il mondo in un caos primordiale da cui uscirebbero vive solo le macchine guidate dall'AI. L'incubo è quello che il 29 marzo lo scrittore Eliezer Yudkowsky su Time aveva riassunto con «estinzione del genere umano» proponendo la drastica soluzione: «Il mondo per affrontare l'Intelligenza artificiale? Chiuderla». «La distruzione della civiltà» è anche una delle preoccupazioni di Elon Musk anche se il patron di Tesla e di Twitter è impegnato nello sviluppo della tecnologia. Il 14 aprile ha annunciato infatti la creazione di una società, X.AI. Corp, dopo che nel 2015 aveva co-fondato OpenAI prima di lasciare la compagnia nel 2018. Nell'azienda che avrà sede in Nevada lavorerà Igor Babuschkin, già a DeepMind, il braccio di Alphabet attivo nella IA. La rapidità con cui questo scenario catastrofico si realizzerebbe è l'elemento di novità più marcato. Al New York Times, lo scienziato ha detto che «anch'io anni fa pensavo che l'intelligenza artificiale potesse diventare più intelligente di noi, ma, come altri studiosi, la ritenevo una possibilità remota: credevo comunque mancassero dai 30 ai 50 anni, forse di più. Ma non è così». Il processo di dominio è ritenuto rapido, fulmineo rispetto alle previsioni, ma avviene comunque per tappe: la prima è la sostituzione di alcuni lavori; quindi, l'intelligenza artificiale si sostituirà all'uomo persino nella scrittura di codici e algoritmi che la alimentano diventando in pratica auto-sussistente, un Super Uomo capace di schiacciare il genere umano. Alcuni gradini di questa «discesa agli inferi», sono già stati calpestati. Il direttore esecutivo di IBM, Arvind Krishna, ha detto che la società intende non assumere più persone per ricoprire ruoli e fare cose che possono essere fatte dalle macchine a guida IA. In un'intervista a Bloomberg Krishna ha fornito anche dei numeri: ci sono 26mila ruoli dentro IBM che non implicano un contatto con il cliente, il 30% di questi nell'arco di 5 anni verranno chiusi e al loro posto saranno "assunti" dei software».
FRANCIA, PROTESTE E DISORDINI
Veniamo alle altre notizie dall’estero. Non solo Primo Maggio, in Francia è protesta continua. L’intersindacale lancia la data del 6 giugno per la prossima manifestazione. Anna Maria Merlo per il Manifesto.
«Oggi c’è un appuntamento importante nel braccio di ferro sulla riforma delle pensioni: è atteso il giudizio del Consiglio Costituzionale sulla seconda domanda di Rip (referendum) presentata dalla sinistra contro la legge passata senza voto all’Assemblée nationale, grazie al ricorso al 49.3 (fiducia rovesciata) e promulgata a metà aprile subito dopo la sentenza di costituzionalità dei saggi. Una prima domanda di Rip, per abolire i 64 anni, era stata respinta il 16 aprile, perché mal formulata giuridicamente. L’approvazione del Rip cambierebbe le carte in tavola, ma è una possibilità che resta ipotetica e che, comunque, aprirebbe una sequenza lunga politicamente, perché è necessaria la raccolta di 4,5 milioni di firme di cittadini nell’arco di nove mesi. Intanto, dopo la giornata riuscita del primo maggio, la tredicesima protesta contro la riforma che non è stata per nulla un canto del cigno sindacale, con 300 cortei in tutta la Francia e una partecipazione eccezionale per la giornata della festa dei lavoratori (in linea però con le cifre delle precedenti manifestazioni contro la legge dei 64 anni), l’intersindacale ha deciso per un altro appuntamento: sarà il 6 giugno. Non ha a che vedere con l’anniversario dello sbarco in Normandia, ma è due giorni prima del voto previsto all’Assemblée nationale sulla proposta di legge del gruppo Liot (deputati dell’oltremare) per abrogare la riforma. Il governo non ha la maggioranza assoluta al Parlamento e per questo ha fatto ricorso al 49.3, perché non aveva i numeri per far passare la riforma ma l’opposizione neppure, almeno per il momento, perché troppo eterogenea. A sinistra, c’è però la speranza che la proposta emessa dal gruppo Liot possa diventare consensuale tra gli oppositori, perché non connotata ideologicamente, come nel caso di une legge presentata dal Rassemblement national o dalla Nupes. Ieri, sono gonfiate le polemiche sulle violenze del primo maggio, soprattutto a Parigi e in alcune grandi città di provincia. Da un lato le azioni dei black bloc, dall’altro la gestione repressiva del mantenimento dell’ordine, per la prima volta sono stati utilizzati dei droni per individuare i violenti (salvo in alcune città dove la giustizia ha bocciato questa novità). Per la prima ministra, Elisabeth Borne, è stato raggiunto «un nuovo stadio di violenza» nel corteo della capitale, con un poliziotto ustionato dal lancio di una molotov e un edificio in costruzione incendiato. Il prefetto Laurent Nunez ha affermato che a Parigi c’erano 1.200-1.500 violenti, venuti anche dall’estero. All’Assemblée nationale è stata respinta una domanda di dibattito sulla dissoluzione della Brav-M, i poliziotti in moto, già oggetto di una petizione contraria di cittadini, anch’essa rifiutata dalla commissione delle leggi. Il ministro degli Interni, Gérald Darmanin, ha contato 406 poliziotti feriti e 540 fermi (305 a Parigi). I manifestanti rispondono che i feriti tra di loro sono il doppio dei poliziotti. L’associazione della piccola e media impresa chiede un fondo di indennizzo per i danni causati dalle azioni violente. Marine Le Pen spera di passare all’incasso: no ai 64 anni e ritorno all’ordine. Emmanuel Macron ha proclamato i “cento giorni” (fino al 14 luglio, festa nazionale) per voltare pagina. Anche Elisabeth Borne ha fretta di passare ad altro, «inizia una nuova fase di azione, tutte le buone volontà sono benvenute». Borne intende invitare i sindacati a discutere sulle condizioni lavorative, in vista dei decreti di attuazione della riforma, che dovrebbe entrare in vigore a settembre (ma per i regimi speciali - Sncf, Ratp ecc. - la data è già stata spostata al 2025). I sindacati riformisti potrebbero tornare al tavolo dei negoziati, mentre la Cgt non intende cedere. Il governo è in un’impasse, senza maggioranza. Per Mathilde Panot, capogruppo della France Insoumise, non ci sarà «ritorno alla normalità» all’Assemblée nationale «se non verrà ritirata la legge». L’ecologista Sandrine Rousseau promette «una guerriglia continua» a Palais Bourbon. Per il governo, la difficoltà è non solo di trovare delle maggioranze a tema per continuare a legiferare, ma anche trovare una rotta chiara, dopo un primo anno del secondo mandato di Macron che ha dato l’impressione di brancolare nel buio, senza direzione».
PALESTINESE MUORE IN CELLA DOPO 86 GIORNI DI DIGIUNO
Muore dopo 86 giorni di digiuno Khader Adnan, detenuto senza processo. Vicino al Jihad, era in carcere in Israele in detenzione amministrativa. Michele Giorgio per il Manifesto.
«Khader Adnan non era il leader del Jihad islami come hanno detto e scritto in tanti. Piuttosto era diventato un simbolo di sumud (resilienza) per la sua organizzazione e tutti i palestinesi. Più di ogni altra cosa, Adnan era uno dei mille palestinesi – su un totale di circa 5mila prigionieri politici – incarcerati in Israele che non subiranno un processo e non conosceranno il motivo ufficiale del loro arresto. Khader Adnan, 45 anni, di Arrabe (Jenin), padre di nove figli, è morto nella notte tra lunedì e martedì nella prigione di Nitzan (Ramle) dopo un lungo sciopero della fame: 86 giorni. Per lui ieri, tra i palestinesi, gli aggettivi si sprecavano: eroe, martire, combattente. Ma alla storia Adnan passerà per la sua battaglia contro la detenzione amministrativa praticata da Israele che lo scorso 5 febbraio lo aveva costretto ancora una volta a entrare in una cella senza processo. Contro questa forma di «custodia cautelare», potenzialmente a tempo indeterminato, eredità del Mandato britannico sulla Palestina (1917-48) che Israele continua a impiegare quasi esclusivamente contro i palestinesi sotto occupazione militare, Adnan ha speso gli ultimi anni della sua vita. E lo ha fatto usando l’unica protesta possibile, lo sciopero della fame. Per ben cinque volte: 25 giorni nel 2004; 67 nel 2012; 54 nel 2014; 25 nel 2021. Martedì è diventato il primo prigioniero politico palestinese a morire per uno sciopero della fame in Israele dal 1992. Altri sei detenuti, aggiungono fonti palestinesi, erano morti in circostanze simili nel 1970, all’inizio degli anni ‘80 e nel 1992. Per giustificare la detenzione di Adnan, le autorità israeliane insistono sulla sua appartenenza al Jihad islami e i media israeliani aggiungono che il detenuto aveva espresso in maniera pubblica sostegno alla lotta armata. Ma Khader Adnan stavolta come in precedenza non è stato processato. Contro di lui non sono state mosse accuse precise in linea con una forma di detenzione che mira prima di tutto a «togliere dalla circolazione» per mesi, in alcuni casi anni, un palestinese ritenuto scomodo o pericoloso senza che l’intelligence produca prove di suoi «reati». Contro la pratica che i britannici e poi gli israeliani hanno impiegato contro i palestinesi – molto rari i casi di cittadini israeliani in detenzione amministrativa – si sono espressi nei decenni attivisti, giuristi, personalità di spicco, centri per i diritti umani internazionali e locali senza ottenere risultati. La salute di Adnan era peggiorata rapidamente nelle ultime settimane. La famiglia aveva avvertito che stava morendo e che era a rischio di un infarto a causa dei suoi passati scioperi della fame che lo avevano portato più volte sull’orlo della morte. Le autorità israeliane si sarebbero rifiutate di trasferirlo in ospedale ad aprile, dopo che si era aggravato, sebbene avesse bisogno immediato di terapie mediche. E sostengono che il detenuto «aveva rifiutato di sottoporsi a esami clinici». Il tribunale militare di Salem aveva sommariamente esteso per due volte l’ordine di detenzione amministrativa di Adnan e il 23 aprile gli ha negato la libertà su cauzione. Il 1° maggio, il giudice d’appello del tribunale militare ha rinviato la sua decisione per altri 10 giorni. Il Consiglio delle organizzazioni palestinesi per i diritti umani (Phroc) parla perciò di «lenta uccisione» e di «omicidio premeditato» di Khader Adnan. La moglie Randa Musa attacca non meglio precisate parti palestinesi che «non avrebbero fatto nulla di concreto per fermare la lenta morte» del marito. Parole che, con ogni probabilità, sono rivolte all’Autorità nazionale palestinese (Anp) che non si è attivata per far liberare Adnan. Da parte sua il primo ministro dell’Anp Muhammad Shtayyeh ha accusato le autorità israeliane di aver «commesso un assassinio» e il ministero degli esteri ha chiesto una indagine internazionale sulle circostanze del decesso del prigioniero. Il Jihad islami ha avvertito che la morte di Adnan non resterà impunita. Le ore successive alla morte del detenuto sono state una lenta e sempre più ampia escalation militare. I lanci di razzi da Gaza verso Israele da parte del Jihad, Hamas e altre organizzazioni, sono stati prima sporadici poi più continui. 22 in totale fino a ieri sera, alcuni caduti a Sderot e in altri centri abitati senza fare danni alle persone. Israele ha colpito Gaza con artiglieria e aviazione, poi attraverso i suoi comandi ha annunciato che la reazione si sarebbe fatta più dura con il passare delle ore. Poco alla volta i tamburi di guerra hanno preso il sopravvento e della detenzione amministrativa, condannata dal diritto internazionale perché viola i diritti umani, non ha parlato quasi più nessuno».
NIGERIA, NUOVO RAPIMENTO DI DUE SACERDOTI
Nigeria, altri due preti cattolici rapiti. Matteo Fraschini Koffi per Avvenire.
«Continua la lunga serie di preti cattolici sequestrati in Nigeria. Padre Chochos Kunav e padre Raphael Ogigba sono stati rapiti nella zona di Agbaro-Otor, vicino alla località Warri, nello Stato meridionale del Delta. Le autorità hanno lanciato le indagini per ritrovare i due religiosi e portarli in salvo. « Padre Chochos lavora a Ibadan, nello Stato di Ogun, ed era in visita al suo collega presso la diocesi cattolica di Warri – ha spiegato ieri alla stampa il sacerdote Okereke Kizito –. Poi sono andati insieme a trovare un altro sacerdote nei pressi di Agbaro-Otor e sulla via del ritorno sono stati rapiti». Padre Chochos è membro della congregazione dell'Istituto secolare dei padri di Schoen-statt, mentre padre Ralph Ogigba è il parroco della chiesa di San Francesco ad Agbara Otor. «Siamo sulle tracce dei rapitori – ha confermato un portavoce della polizia locale, Edafe Bright –. Il comando sta gestendo con il massimo impegno la situazione per garantire che i due religiosi vengano rilasciati illesi». I sequestri di sacerdoti sono un fenomeno molto comune in un Paese dove il divario tra ricchi e poveri sembra aumentare in maniera esponenziale. La maggior parte delle volte questi tipi di sequestri vengono organizzati per ottenere un riscatto. Per quanto riguarda questi due sacerdoti non si conoscono ancora i dettagli che hanno portato al sequestro avvenuto in un periodo postelettorale molto teso per il Paese con la più importante economia del continente africano. Il presidente uscente, Mohammadu Buhari, aveva promesso «il ripristino della sicurezza» in varie zone del Paese colpite da violenze di criminali e dall’ondata jihadista presente soprattutto nel nordest del territorio. « Abbiamo bisogno che le autorità statali si sforzino per garantire la sicurezza di sacerdoti e fedeli – è l’appello espresso di frequente dall’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) – . Banditi e estremisti prendono di mira i religiosi perché li considerano un bersaglio facile». Spesso, però, i preti rapiti rimangono nelle mani dei loro sequestratori per alcuni giorni. Il 15 aprile scorso è stato rapito padre Michael Ifeanyi Asomugha, parroco della chiesa di San Paolo a Okigwe, nello Stato meridionale di Imo. Il sacerdote è stato liberato dai suoi rapitori nove giorni dopo sebbene non siano state rese pubbliche le ragioni del rapimento e le dinamiche del rilascio. Nel peggiore dei casi, invece, i religiosi vengono uccisi. « Almeno 145 sacerdoti cattolici nigeriani sono stati uccisi e altri 30 sono stati rapiti – affermano gli esperti –. Queste cifre si riferiscono a 39 attacchi terroristici avvenuti solo nel 2022».
SPAGNA, LA MORSA DELLA SICCITÀ
Sara Gandolfi per il Corriere della Sera racconta la Spagna nella morsa di una siccità senza precedenti.
«L’economia di Siviglia, il più grande produttore di riso della Spagna, rischia di affondare per mancanza d’acqua. «La semina e il raccolto non sono garantiti», ha detto il presidente della Confederazione idrografica del Guadalquivir, il «fiume grande», dall’arabo wadi al-Kabir, che in condizioni normali dà linfa ai campi d’Andalusia. Il livello delle sue acque ha raggiunto minimi storici sotto il Puente de Triana dove perfino i canoisti hanno paura a scivolare e le risaie sull’Isla Mayor arrostiscono sotto un sole che ha già fatto toccare i 40° al suolo. I cereali sono forse perduti e sono a rischio pure ortaggi, olive, avocado, mango... Dal 5 marzo non cade una goccia nel Sud del Paese. Record superato dalla Catalogna che da 32 mesi non vede una pioggia degna del suo nome. Le «spruzzate» dell’ultimo fine settimana sono state «positive ma insufficienti», dicono le autorità. La peggiore siccità degli ultimi settant’anni sta prosciugando i bacini idrici, in alcuni casi già sotto il 25% della loro capienza, e minacciando la fornitura di acqua alla popolazione. Un quarto del Paese è in stato di allerta e le previsioni meteo non danno molte speranze: fino a metà maggio non pioverà su gran parte della penisola e anche nei mesi successivi le precipitazioni saranno probabilmente scarse e sporadiche. Tanto che le autorità della Catalogna preannunciano che l’area di Barcellona, con oltre sei milioni di abitanti, potrebbe entrare in «emergenza» entro settembre. Soltanto il nord del «forno iberico» sta per ora evitando il peggio. Il governo spagnolo ha chiesto alla Commissione europea di sbloccare gli aiuti del fondo di crisi agli agricoltori. Per l’opposizione, però, non basta. La siccità è ormai uno dei temi più caldi dello scontro politico, in vista delle elezioni amministrative e regionali del 28 maggio e delle elezioni generali di dicembre. Particolarmente violenti gli attacchi di Juan Manuel Moreno, presidente regionale del Partito Popular (centrodestra) e della Giunta in Andalusia, contro il premier socialista Pedro Sánchez. «Qui abbiamo un brutale problema idrico», ha avvertito domenica, sottolineando che «senz’acqua non c’è agricoltura né allevamento; senz’acqua non ci sono posti di lavoro e molte città dell’interno moriranno». Quindi, ha esortato Sánchez a «prendere sul serio» il problema. Da parte sua, il premier e leader del Psoe ha riconosciuto in Parlamento che «la siccità sarà uno dei temi su cui si focalizzerà il dibattito politico e territoriale nel nostro Paese nei prossimi anni». Le tensioni sono evidenti soprattutto in Andalusia, che è stata a lungo una roccaforte del Psoe, in particolare negli anni di governo del sivigliano Felipe González (1982-1996), ma che alle ultime elezioni ha dato la maggioranza assoluta al Partito popolare e dove è forte anche la presenza del partito di estrema destra Vox. Pure il «toro bravo», o da combattimento, simbolo della Spagna e «protetto» dei conservatori, rischia l’estinzione a causa della siccità. «Di questo passo, scompariremo», denunciano gli allevatori. «È orribile, gli animali hanno già mangiato la poca erba che c’è nel campo e siamo costretti a comprare a caro prezzo mangime e foraggio per nutrirli», ha denunciato la presidente della Asociación de Ganaderías de Lidia».
MARKELL È IL NUOVO AMBASCIATORE USA A ROMA
Il presidente Joe Biden ha nominato il nuovo ambasciatore Usa a Roma: un finanziere diventato poi governatore del Delaware.
«Il presidente Joe Biden ha scelto il nuovo ambasciatore americano a Roma. Dopo molti mesi di riflessione l’indicazione è caduta su Jack Markell, ex governatore del Delaware, e quindi assai vicino anche sul piano personale al capo della Casa Bianca, che è stato per oltre trent’anni senatore del suo Stato. Quando verrà ufficializzata la nomina, comincerà il complicato percorso della conferma al Senato, ma Markell è ambasciatore presso la Organization for Economic Cooperation and Development (Oecd), e quindi ha già superato questo esame. La sede di Roma è rimasta vuota più a lungo di tutte le altre principali capitali europee, probabilmente perché ci si aspettava che Nancy Pelosi sarebbe andata a Via Veneto, se avesse perso la posizione di Speaker della Camera dopo le elezioni midterm del novembre scorso. Lei però ha deciso di restare in Congresso, anche per accudire il marito Paul, ferito in un attacco nella loro casa di San Francisco, e quindi la corsa si è riaperta. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ad ogni incontro o conversazione recente con il segretario di Stato Blinken gli ricordava che «a Roma Villa Taverna è vuota». Ora la Casa Bianca lo ha ascoltato e ha deciso di colmare la mancanza, favorendo così anche il rilancio delle relazioni bilaterali con l’Italia e il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni. Entro l’estate la premier dovrebbe venire in visita a Washington, preceduta da una missione proprio di Tajani. Markell viene dal mondo del business. Si era laureato alla prestigiosa Brown University con un Bachelor of Arts in economia, e poi era andato a fare il Master of Business Administration (Mba) alla University of Chicago Booth School of Business. Nonostante quella fosse la città dove aveva insegnato Milton Friedman, lui aveva preferito una visione più vicina a quella dei democratici. Aveva iniziato a lavorare nel 1982 come bancario alla First Chicago Corporation, e poi nel 1986 era passato come consulente alla McKinsey & Company. In politica ci è arrivato nel 1998, con l’elezione a Treasurer del Delaware, battendo l’incumbent repubblicana Janet Rzewnicki. Dieci anni dopo aveva fatto il salto sulla poltrona di governatore, dove è rimasto per due mandati, dal 2009 al 2017. Qui aveva sviluppato il rapporto con Biden, che lo ha prima mandato come ambasciatore a Parigi presso l’Oecd, e ora a Roma».
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