La Versione di Banfi

Share this post

Il Qatargate mette in crisi l'Europa

alessandrobanfi.substack.com

Il Qatargate mette in crisi l'Europa

Maxi tangente del Qatar: un fiume di contanti per condizionare Bruxelles. Lunga confessione di Giorgi. Oggi Consiglio europeo. Sanzioni alle aziende per le bollette. Iran, nuove esecuzioni?

Alessandro Banfi
Dec 14, 2022
2
Share this post

Il Qatargate mette in crisi l'Europa

alessandrobanfi.substack.com

Maxi tangente, interrogatori, verbali secretati. La vicenda dell’euro scandalo di Bruxelles, il cosiddetto Qatargate, sembra arricchirsi ogni giorno di nuovi dettagli inquietanti. La lunga confessione resa agli inquirenti da Francesco Giorgi, il compagno della vice presidente greca Eva Kaili, sta scuotendo i palazzi delle istituzioni comunitarie. Salta fuori quello che tutti temevano: il ritratto di una pesante burocrazia politica, facilmente influenzabile da grandi lobby e da interi Paesi. Come il Qatar, e forse il Marocco. Dove i socialdemocratici europei si sono dimostrati permeabili alla corruzione, avendo perso nel tempo ogni pretesa diversità morale. Come sempre, generalizzare è sbagliato oltrechè stupido. Ma qui non si tratta di una parte politica, di un orto da difendere. In discussione ora è l’Europa in quanto tale: quella della moneta unica, della fine dei confini interni e anche della solidarietà del Recovery plan, in occasione della pandemia. Gli avversari dell’europeismo non mancano e non sono mancati. Per questo le istituzioni comunitarie devono rapidamente trovare la giusta forma di trasparenza e gli antidoti alla corruzione e alle indebite ingerenze delle lobby. Per ridare subito credibilità. Scrive il Corriere che “il Qatargate obbliga a ripensare tutto”. È vero. Ma andare col pensiero a Mosca o a Teheran oggi ci permette di mantenere il giusto equilibrio: il mondo ha ancora bisogno, e tanto, dell’Europa.

Non a caso ieri il cardinal Parolin ha ricordato lo spirito di Helsinki per la costruzione della pace. E ha rilanciato proprio l’Europa come possibile sede di un cessate il fuoco e di un negoziato per la soluzione della questione ucraina. Oggi al Consiglio d’Europa dovranno tornare sul tavolo anche i nodi dell’approvvigionamento energetico e dell’emergenza profughi. Gli ultimi dati della Fondazione Migrantes fanno giustizia delle informazioni propagandistiche sugli sbarchi. Mentre a giugno vivevano in Italia poco meno di 296 mila persone con protezione internazionale (ucraini inclusi), circa cinque rifugiati ogni mille abitanti, alla stessa data i rifugiati nella sola Francia erano 613 mila e in Germania 2 milioni 235 mila.

In Italia intanto i dati economici sui risparmi delle famiglie confermano il trend di continua crescita ed accumulo delle risorse. Clamorosa la decisione dell’Autorità della concorrenza e del mercato che ha aperto sette procedimenti  istruttori e ha deciso di adottare altrettanti provvedimenti cautelari contro le principali società fornitrici di energia elettrica e di gas naturale che rappresentano circa l'ottanta per cento del mercato italiano. Solo circa la metà degli operatori ha rispettato la legge evitando di modificare le proprie condizioni dopo il 10 agosto 2022, giorno in cui è entrato in vigore il «decreto aiuti bis», o ha revocato gli aumenti illecitamente applicati. Il caro bollette non è stato solo colpa di Putin.

E tuttavia la frenesia degli acquisti pre-natalizi tormenta le nostre città. Ieri la premier Giorgia Meloni è arrivata con mezzora di ritardo in Parlamento e si è scusata, sostenendo che aveva avuto “un motivo oggettivo di traffico” che non aveva messo in conto. Oggi Massimo Gramellini mette insieme episodi di giungla urbana. L’aggressività dilaga. Quasi come in un romanzo di Cormac McCarthy (segnalato oggi in fine Versione).  

È ancora disponibile l’episodio in cui Rosa Giolitti racconta il padre Antonio. Parlo della serie Le Figlie della Repubblica, seconda stagione. Si tratta del Podcast della Fondazione De Gasperi, realizzato per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza di vita è ancora attuale e preziosa. Il Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the storytelling agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto, oltreché sul sito di Corriere.it: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... Qui da Spreaker il link per ascoltare l’episodio disponibile da oggi. 

Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:  

LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae gli ultimi controlli al macchinario della National Ignition Facility nel Laboratorio americano di Livermore in California, dove si è realizzato l’esperimento della fusione nucleare.  

Foto: Jason Laurea del Livermore National Laboratory

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Ancora lo scandalo di Bruxelles in primo piano. Il Corriere della Sera si concentra sulla cifra: Maxi tangente: 1,5 milioni di euro. La Repubblica punta sui verbali: Qatargate, ecco le carte. La Stampa ne fa un giallo: “Tutti i segreti del Qatargate”. Per La Verità è l’occasione di dare contro all’Europa: Lo scandalo Qatar mostra il vero volto dell’Unione. Libero attacca i socialisti: Ecco Sinistropoli. Il Fatto mette nel mirino l’eurodeputata del Pd: Qatar fregato dagli Emirati. Faro sui viaggi di Moretti. Quotidiano Nazionale mette invece l’accento su: La pista dei soldi nelle valigie. Stesso taglio scelto dal Mattino: Qatargate, i soldi dello scandalo. Avvenire dedica l’apertura al rapporto della Cei sui migranti: Profughi e scartati. Il Giornale sceglie l’identico tema ma per dire: Meloni inchioda Macron: sparge migranti nella Ue. Il Domani è sull’Antitrust: Eni, A2A e le altre: «Aumenti illeciti» in bolletta per 2,6 milioni di italiani. Così come Il Manifesto che su foto di bollette gioca con le parole: Cattive compagnie. Il Messaggero rivela in anteprima: Manovra, via libera della Ue. Il Sole 24 Ore dà risalto alle buone notizie da oltre oceano: Frena l’inflazione Usa, Borse in volo.

MAXI TANGENTE DA UN MILIONE E MEZZO

Confessione fiume di Giorgi, il compagno della greca Kaili, ai giudici belgi che guidano le indagini. Sequestrati finora oltre un milione e mezzo di euro. Giuseppe Guastella per il Corriere.

«C'è un salto temporale nell'inchiesta sulla corruzione che sta facendo tremare il Parlamento europeo, uno scarto di non poco conto in cui i magistrati belgi, che pure avevano già in mano tutti gli indizi per fare il blitz, hanno deciso di restare sott' acqua e di rinviare di quasi due mesi gli arresti già programmati. Una decisione che si spiega solo con nuovi elementi, cruciali ed urgenti che hanno costretto a modificare i piani all'ultimo momento. Come possono esserlo gli sviluppi del lungo interrogatorio di Francesco Giorgi, il compagno della vice presidente Eva Kaili arrestato con lei. La coppia più glamour della politica europea è stata sorpresa con quasi un milione di euro in contanti che, sommati ai 600 mila trovati ad Antonio Panzeri, fanno salire a un milione e mezzo il frutto avvelenato della corruzione partita dal Qatar. Venerdì Giorgi deve essersi sentito crollare il mondo addosso quando la polizia giudiziaria gli ha messo le manette. Lo tenevano d'occhio e lo intercettavano, e non è da escludere che siano state proprio le sue parole al telefono con il padre della compagna a consentire agli investigatori di entrare nella bella casa della ex giornalista greca e trovare 150 mila euro in mazzette. A permettere di superare lo sbarramento dell'immunità parlamentare che proteggeva la residenza è stata la «flagranza» in cui è stato colto suo padre che usciva in fretta e furia dal lussuoso Sofitel di Bruxelles dove da alcuni giorni soggiornava con la moglie. Quando l'hanno bloccato, gli agenti hanno scoperto 600 mila euro in banconote nel trolley che trascinava. Bussando a casa della figlia e a quella di Giorgi hanno trovato le altre banconote. «Non era a conoscenza dei soldi» trovati a casa sua, dice l'avvocato della Kaili con un'affermazione sorprendente che lascia presagire uno scaricabarile. L'interrogatorio di Giorgi sabato si è protratto per una decina di ore con l'indagato che ha risposto al giudice istruttore Michel Claise il quale nel pomeriggio è stato costretto a rinviare le audizioni degli altri arrestati (oggi compariranno in udienza) al giorno dopo per dare libero sfogo al fiume in piena. Quello che emerge dall'indagine è che i magistrati stanno cercando conferma al giro delle tangenti e dei sontuosi regali che dal Qatar, e in parte anche dal Marocco, sarebbero arrivati all'ong Figth impunity, fondata nel 2019 da Panzeri e nel cui consiglio onorario sedevano, prima di dimettersi sdegnati, premi nobel, ex premier e ed ex commissari. Un giro di corruzione che arriva anche in Lombardia, dove su richiesta di Eurojust l'aggiunto Fabio De Pasquale, che guida il dipartimento affari internazionali della Procura di Milano, ha acquisito conti e perquisito abitazioni ed uffici per ricostruire il patrimonio della famiglia Panzeri e di Giorgi (a casa sua ad Abbiategrasso sono saltati fuori altri 20 mila euro). Nel decreto di perquisizione, però, è indicata una prima data, «il 19 ottobre», in cui i magistrati belgi avevano pronta la richiesta di arresti che poi è stata tenuta in caldo fino al «7 dicembre» quando, integrata da altra documentazione, è arrivata a Milano a due giorni dal blitz di Bruxelles. Questo lascia ipotizzare che le basi d'accusa gettate due mesi fa ma sono state ulteriormente arricchite fino alla vigilia degli arresti. Lungo i corridoi ovattati e attoniti della sede del parlamento di Strasburgo, dove le voci si rincorrono all'impazzata, c'è chi racconta dell'assistente di un parlamentare che avrebbe fatto partire le indagini dopo che non le era stato rinnovato il contratto in uno staff contiguo a quello in cui lavora Giorgi. Questi è attualmente un collaboratore del Pd Andrea Cozzolino (non coinvolto nell'inchiesta), ma soprattutto ex collaboratore di Panzeri che, direttamente o attraverso di lui, avrebbe corrotto Eva Kaili. Questo intreccio, che se provato sarebbe perverso, è un altro dei temi centrali dell'estenuante interrogatorio in cui il 35enne istruttore di vela ha parlato anche dei soldi passati dal «manovratore» Panzeri ad altri «membri che lavorano nel Parlamento Europeo», come li definisce l'accusa con una precisazione che fa immaginare nuovi sviluppi».

DELL’EUROPA È RIMASTO L’AFFARISMO

Oltre alle conseguenze giudiziarie, ci sono importanti conseguenze politiche dell’euro scandalo che coinvolge Bruxelles. Ne va della stessa immagine dell’Europa. Paolo Lepri sul Corriere della Sera.

«L'Europa che è stata costruita, realizzando obiettivi un tempo inimmaginabili come la nascita di una moneta unica e l'abbattimento delle frontiere interne, sta affrontando una tempesta che rischia di travolgerla. Non è il caso di minimizzare, ma di cercare i rimedi. Il Qatargate obbliga a ripensare tutto, perché manda in frantumi la qualità principale di un progetto condiviso: la trasparenza. Se viene meno la trasparenza tremano i valori democratici. Se entrano in crisi i valori democratici non c'è niente di scontato nel futuro di tutti. I sacchi trovati nell'appartamento della vice presidente del Parlamento europeo, la socialista greca Eva Kaili (mentre la tela della corruzione si allarga di giorno in giorno, con l'ex eurodeputato del Pd e di Articolo 1 Antonio Panzeri nella parte apparente di protagonista, rivelando la malattia di una delle grandi famiglie politiche che questo progetto hanno contribuito a realizzare) contengono dinamite, non solo denaro. Quanto è accaduto è ancora più grave perché intacca contemporaneamente la visione dei padri fondatori, il funzionamento delle istituzioni e la percezione dei cittadini. Con tutte le sue difficoltà e le sue incompletezze, l'Europa di oggi fa parte del nostro modo di vivere. Se ne rende conto in realtà anche chi la combatte o la critica sfruttando il vento della propaganda anti-regole che può attirare di volta in volta settori (che non sono maggioritari) delle opinioni pubbliche. L'Europa è indispensabile. Senza di lei qualsiasi emergenza sarebbe stata e sarebbe più distruttiva. Se tutto questo è vero, tanto più è arrivato il momento di compiere una profonda, radicale autocritica. Abbiamo abbassato la guardia. Non ci siamo accorti che il nemico, più che la burocrazia normativa, era la burocrazia politica. Non abbiamo compreso quanto stava accadendo, con la vista annebbiata proprio dalla cognizione della irreversibilità di tutto quello che è realizzato. Invece di interrogarci sul ruolo del Parlamento europeo, ormai stanchi della annosa battaglia per accrescerne le prerogative, abbiamo assistito in silenzio al suo logoramento. Le sue vetrate sono diventate oscure. I virus contenuti (e combattuti) nella politica dei Paesi membri hanno avuto vita facile per moltiplicarsi. E la loro pericolosità è stata amplificata dal confronto con l'aggressività del mondo esterno, il mondo - per intenderci - che produce i corruttori. Ma i corruttori hanno bisogno dei corruttibili e i corruttibili approfittano, come in questa vicenda, della assenza di meccanismi di verifica e di controllo politici delle loro azioni. Sentire dire che «a Bruxelles tutti sapevano» rende quanto sta accadendo ancora più intollerabile. Oltre a mettere in discussione le nostre certezze sull'Unione europea e a costringerci a riflettere più in generale su una intelaiatura pensata quando le sue dimensioni erano ben più ridotte e sui suoi meccanismi ormai superati (quanto si è discusso senza risultati decisivi, per esempio, sull'estensione del voto a maggioranza?), il Qatargate solleva questioni ineludibili, ormai epocali, sulla selezione del personale politico e sulla scelta dei rappresentanti dei cittadini. Provare a cambiare, pur essendo molto difficile, sarà vitale. Che i partiti non riescano a esprimere non solo una classe dirigente ma candidati credibili per la loro leadership o per il lavoro nelle istituzioni e a livello locale, non è una novità. Da noi come altrove. Ma l'Assemblea di Strasburgo, come ci piace chiamarla, ha subito in particolare le conseguenze di questa incapacità. Sarebbe troppo lunga la lista di eletti indicati per le ragioni più sbagliate - dalla popolarità effimera all'insuccesso in elezioni nazionali, dalla necessità di essere «collocati» alla compensazione per meriti conseguiti - e non per le semplici ragioni della competenza e dell'onestà. Si è creata così, come dicevamo, una burocrazia politica, non priva tra l'altro di privilegi, che si è alimentata dei giochi di palazzo simmetrici alle polemiche nazionali, o che peggio ancora si è dimostrata disponibile alla corruzione e al malaffare. Altrettanto assurdo, ma coerentemente con questa crisi di funzione, è il fatto che all'interno dei gruppi politici e parlamentari non ci sia la possibilità o la volontà di verificare, fin dai primi segnali negativi (che qui non mancavano, va ammesso), la correttezza dell'operato dei singoli. Non vogliamo credere, però, che la piaga della corruzione si sia allargata in maniera letale in tutta la famiglia socialista europea. Ci auguriamo che dopo qualche incertezza iniziale venga compiuta un'operazione di pulizia totale. Certo, in uno scenario dove è forte la minaccia alla vita stessa dell'Unione di ideologie illiberali come quella dell'Ungheria di Orbán, è amaro notare che le battaglie per i diritti umani e lo Stato di diritto che hanno contraddistinto l'impegno dello schieramento progressista si trovano di colpo messe in ombra - se non oggettivamente sconfessate - da un'attività criminosa, lautamente e illegalmente ricompensata, in direzione totalmente contraria. All'interno del mondo della sinistra democratica, in ogni caso, c'è stata e c'è troppa tolleranza verso l'affarismo. La questione morale di cui parlava Enrico Berlinguer è ormai un oggetto del passato. E se ne vedono i risultati. Il paradosso più terribile è che ne sta facendo le spese l'Europa».

PER FELTRI LO SCANDALO SPINGE ALL’USICTDA DALLA UE

L’editoriale di Libero, a firma Vittorio Feltri, è centrato sulla perdita di reputazione della Ue.

«In questi giorni infuria la polemica sulle mazzette che circolavano, e forse continuano a circolare, in Europa affinché le strutture di Bruxelles promuovessero il Qatar, facendolo passare per civile quanto la Svizzera, mentre è un Paese islamico con tutte le storture e le abiezioni note. È un fatto vergognoso che una valanga di quattrini in contanti sia finita in possesso di personaggi di spicco della Ue. Ma la cosa non ci deve stupire più di tanto perché la corruzione e i ladri sono categorie trasversali che operano a livello nazionale e pure internazionale. Questa vicenda è analoga a quella vissuta in Italia ai tempi burrascosi di Mani Pulite, quando ogni giorno politici di primo piano e dirigenti di azienda finivano in galera accusati di aver ricevuto o dato fior di quattrini in cambio di favori. Fu un periodo devastante per la nostra Repubblica, tutti gli equilibri istituzionali di quella triste epoca saltarono per aria, sconvolgendo la vita dei cittadini. Alcuni esponenti importanti del mondo politico si difesero dicendo di aver riscosso soldi per il partito, invece risultò che rubavano anche al partito per pagarsi ville di lusso sull'Appia antica di Roma. Le conseguenze di quel periodo funesto non si sono ancora esaurite. Ipotizziamo che il nuovo scandalo continentale non durerà lo spazio di un settimana, ma proseguirà a lungo e avrà conseguenze esiziali sul sistema europeo, se non altro sul piano della reputazione. Stavolta le mazzette sono più luride perché provengono dal Qatar, ricco sfondato ma incurante dei diritti umani come del resto accade in tutto il Medioriente, specialmente in Iran, una macelleria a cielo aperto, dove le donne contano meno delle mosche. E stendiamo un velo sulle porcherie dell'Afghanistan. Sarà difficile per Bruxelles fare le pulci alle nazioni socie visto quello che è successo nella capitale belga. La vicenda colpisce soprattutto la sinistra che sulla questione morale ha fatto delle campagne senza requie, e adesso si trova al centro di una corruzione mostruosa destinata a lordare la sua immagine. Senza contare che la sporca vicenda porta acqua al mulino della Brexit. L'Inghilterra ha un motivo in più per giustificare la sua uscita dalla Ue. E questo non è un dettaglio da trascurare perché potrebbe contagiare molte altre nazioni».

I SEGNALI DI UNA NUOVA CONTROFFENIVA UCRAINA

Le notizie dal terreno bellico. Ci sono i segnali di una possibile nuova controffensiva ucraina a Melitopol. Fabio Tonacci per Repubblica.

«Se si sta al canovaccio militare seguito dagli ucraini per la riconquista di Kherson, le odierne esplosioni a Melitopol, occupata dai russi all'inizio di marzo, suonano come i primi vagiti di una nuova controffensiva. Sarebbe la quarta, per l'esattezza, dopo quelle che hanno portato alla liberazione della regione di Kiev, di Kharkiv, e, a metà novembre, della città di Kherson. Scorrendo a ritroso gli ultimi fatti: ieri pomeriggio alle due un ordigno è deflagrato nel centro di Melitopol, vicino alla scuola di scacchi, e le autorità russe sono state costrette - la fonte è l'ex sindaco ucraino Ivan Fedorov - a bloccare le strade, qualcuno sparava col mitragliatore e un cadavere era a terra, legato con del nastro nero; lunedì notte due bombe al tritolo hanno fatto saltare il ponte sul Molochna (letteralmente: il "Fiume del latte") che collega la città a Konstyantynivka, villaggio cruciale per il trasferimento di carri armati e rinforzi verso est; quarantotto ore prima a essere colpita con missili a lunga gittata è stata una caserma dell'Fsb, il servizio di intelligence del Cremlino, provocando «decine di morti tra gli invasori e 200 feriti» (la fonte è sempre il sindaco); altri attacchi da parte ucraina si sono avuti nel borgo di Novobogdanovka, hub strategico per i rifornimenti, e una stazione radio è stata distrutta. Se si sta dunque al canovaccio della controffensiva d'autunno per Kherson - all'inizio operazioni di sabotaggio condotte dai servizi segreti con l'aiuto dei partigiani, poi la distruzione coi missili a lungo raggio delle infrastrutture logistiche e, infine, l'avvicinamento delle forze di terra - Melitopol appare oggi la priorità per il Comando ucraino. Ci sono, vedremo, motivi assai validi per Kiev per tentare di riprendersi entro l'inverno la "Città del miele", come venne battezzato il porticciolo sorto sulle rive del "Fiume del latte" e che, prima dell'annessione decisa da Putin, contava 148 mila abitanti. «Non posso né confermare né smentire che si tratti di fasi preparatorie di un'imminente controffensiva», dice a Repubblica Yuriy Sak, advisor del ministro della Difesa ucraino Reznikov. «Non riveleremo mai in anticipo i nostri piani, il segreto è parte del successo. Melitopol è la città più grande nella parte occupata della regione di Zaporizhzhia, ospita l'amministrazione militare russa, ha una stazione che è un anello fondamentale della catena dei rifornimenti sia per la Crimea sia per il Donbass. Il sentimento antirusso è forte, lo vedrete quando la libereremo». Di quel sentimento si nutrono gruppi di partigiani e sabotatori che agiscono nell'ombra a Melitopol, tanto efficaci che il comando locale dà un premio di 500 mila rubli a chiunque fornisca informazioni utili a catturarli. Sono stati i russi per primi a segnalare il raggruppamento di unità meccanizzate ucraine nei pressi di Huljajpole, a ridosso del fronte di Zaporizhzhia. «La nostra intelligence le ha individuate tutte», scrive sui canali Telegram Igor Girkin, un leader dei separatista. I generali di Putin sono preoccupati, come documenta lo spaventoso (e apparentemente privo di motivi tattici) botta e risposta di artiglieria del 9 dicembre scorso tra Huljajpole e Polony, a un centinaio di chilometri a nord-est di Melitopol. «Se è vero che gli ucraini stanno ammassando forze proprio in quel punto, potrebbe essere il segnale che la quarta controffensiva, nonostante l'arrivo dell'inverno, è imminente », scrive l'analista militare di Forbes. Zelensky, che in settimana si aspetta di ricevere la notizia della fornitura statunitense di missili Patriot per la difesa aerea (i soldati ucraini impareranno a usarli nella base Usa di Grafenwoehr in Germania), da mesi parla di riconquistare anche la Crimea, annessa dalla Russia nel 2014, e la liberazione di Melitopol né è necessaria preocondizione. Per martellare sulla catena logistica russa, Kiev può usare i sistemi Himars donati da Biden, che lanciano missili a guida satellitare con una gittata di 80 chilometri. «Le precedenti controffensive ci insegnano che rimangono avvolte nella nebbia e nell'incertezza fin quando non cominciano», ragiona Oleksiy Melnyk, condirettore del Razumkov Centre, un think tank focalizzato sulla sicurezza e le relazioni internazionali. «È possibile che Kiev lancerà la quarta aprendo il fronte verso Melitopol. Gli attacchi dei giorni scorsi sembrano proprio quelli che in gergo si chiamano small cuts: piccoli tagli, assalti minori ma costanti e tesi a distruggere depositi, munizioni, infrastrutture. Riconquistare Melitopol significa tagliare fuori i battaglioni russi posizionati sulla riva est del Dnepr, bloccare le vie dell'approvvigionamento e avere una base per puntare verso la Crimea». Il sogno di Zelensky, l'incubo di Putin».

DAGLI USA MISSILI PATRIOT A KIEV

La Conferenza di Parigi. Sul fronte negoziati si spera nel prossimo incontro (annunciato entro la fine dell’anno) fra Putin e Xi. Danilo Ciccarelli per La Stampa.

«Solamente per i bisogni energetici dell'Ucraina, il presidente Volodymyr Zelensky chiedeva 800 milioni di euro. «Faremo tutto il possibile per far fronte al blackout e al terrore energetico», diceva il presidente ucraino aprendo in collegamento la conferenza internazionale di Parigi. Alla fine, l'ammontare totale degli aiuti per Kiev ha superato il miliardo, anche se della somma complessiva la parte prevista per il settore energetico ha raggiunto i 415 milioni, mentre resta da decidere la destinazione degli altri 493. Ma la promessa di Emmanuel Macron è stata chiara: adesso la priorità consiste nell'aiutare gli ucraini a «superare l'inverno» mentre la Russia «vigliaccamente» cerca di «far cadere nell'oscurità e nel freddo» la popolazione. Per questo, dopo gli incontri di Lugano, Berlino e Varsavia, l'inquilino dell'Eliseo ha fatto appello all'intera comunità internazionale: 70 delegazioni di Paesi e organizzazioni internazionali (nonostante la scarsa presenza di capi di Stato e di governo) hanno risposto presente ritrovandosi a Parigi. Il presidente francese si posiziona così al centro del dossier, con il benestare di Kiev: la Francia e Macron «hanno preso la leadership sui punti di preparazione della pace», ha riconosciuto il premier ucraino Denis Shmygal. Per l'Italia era presente il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha annunciato un aiuto iniziale da 10 milioni, prima di ricordare l'impegno di Roma nei confronti di Kiev: «Abbiamo inviato decine e decine di tonnellate di materiale elettrico, di trasformatori, di commutatori, per permettere all'Ucraina di avere una rete elettrica funzionante durante l'inverno e anche per favorire il riscaldamento della popolazione civile». Ma su una via d'uscita dalla crisi, il titolare della Farnesina è stato chiaro: la pace «purtroppo non è vicinissima» e l'importante è «lavorare e fare tutto affinché la Russia comprenda che non può continuare una guerra folle». In quest' ottica, la Cina svolge un ruolo da "protagonista", secondo il ministro, che spera nell'intervento di Xi per convincere Putin. I due leader dovrebbero avere un colloquio in videoconferenza entro la fine dell'anno, secondo quanto riportato da quotidiano russo Vedomosti. Ma i nervi del capo del Cremlino difficilmente si distenderanno se gli Stati Uniti invieranno a Kiev i missili per la difesa aerea Patriot, come riportato dalla Cnn. L'annuncio ufficiale è previsto questa settimana. Intanto, sebbene la risoluzione del conflitto appaia lontana, già si pensa alla ricostruzione. Almeno a Parigi, dove nel pomeriggio, dopo la conferenza multilaterale, al ministero dell'Economia è andato in scena un incontro bilaterale franco-ucraino, che ha riunito circa 700 aziende d'Oltralpe. Secondo Macron, «sono le imprese che metteranno in atto le loro soluzioni per aiutare il risanamento» del Paese. Risultato: accordi nei settori agricolo e delle infrastrutture per 100 milioni di euro. Un pragmatismo, quello del presidente francese, orientato sul lungo periodo».

MELONI: “SUL GAS FAREMO DA SOLI”

Meloni riferisce prima del Consiglio europeo. Centrodestra compatto ma applausi tiepidi in alcuni passaggi, con la Lega che al Senato critica Occidente, Usa e Nato. M5S isolato sullo stop ai nuovi invii di armi. Barbara Fiammeri per Il Sole 24 Ore.

«Ancora una volta energia e Ucraina i temi centrali. Oggi in Parlamento, domani al Consiglio europeo. Su entrambi i fronti Giorgia Meloni è lapidaria: la proposta per fronteggiare il caro gas messa a punto dalla Commissione europea e che domani sarà il primo punto all'ordine del giorno a Bruxelles è «insoddisfacente e inattuabile». Quanto alla guerra, l'Italia continuerà ad inviare tutto il sostegno possibile a Kiev, armi comprese. La premier lo ribadisce nelle sue comunicazioni alla Camera in vista del summit europeo e lo sottolineerà con ancora maggior forza nel corso della replica mentre in contemporanea anticipa che - come già il precedente governo - la lista degli equipaggiamenti sarà secretata. Il prossimo provvedimento arriverà comunque nel 2023, conferma Meloni. «Assistere il popolo ucraino, implica che l'Italia contribuisca anche sul piano militare al sostegno europeo e internazionale», sentenzia la premier, che bolla come «propaganda» quanti continuano a parlare di pace «sulla pelle di Kiev». Tra questi c'è Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 Stelle che nella risoluzione presentata in Parlamento chiede di arrestare «immediatamente» l'invio di armi. Una posizione isolata perché non condivisa né dal Pd né dal Terzo polo, le cui mozioni sono infatti passate grazie all'astensione della maggioranza. I partiti che sostengono il governo formalmente nel voto sono compatti ma i tiepidi applausi in alcuni passaggi sono eloquenti di sensibilità diverse di cui del resto si sono fatti portavoce in diversi momenti sia Silvio Berlusconi che Matteo Salvini. Ieri distinguo non ci sono stati ma certo quando il capogruppo del Carroccio a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo, attacca sostenendo che l'Occidente, gli Usa e la Nato «non hanno una strategia» il solco ancora una volta è parso evidente. Anche per questo Meloni usa toni perentori che non lasciano margini. «Se oggi c'è una possibilità di stallo è solo perché la comunità internazionale è intervenuta» e deve continuare a farlo con un ruolo sempre «più incisivo» perché solo così si può costringere l'invasore a sedersi al tavolo per trattare una «pace giusta», «non una resa dell'Ucraina». Meloni poi mette l'accento sugli effetti della guerra e sul peso delle sanzioni. Rivendica la decisione del Governo di «salvare 10mila posti di lavoro» intervenendo a Priolo dopo la fine del rapporto con la russa Lukoil, «uno dei tanti dossier finora irrisolti», sottolineando che «difendere l'interesse nazionale vuol dire anche non scaricare sui cittadini i costi delle sanzioni». La priorità resta venire incontro alle difficoltà di famiglie e imprese. Lo slogan coniato dalla presidente del Consiglio è «piuttosto che più Europa in Italia, più Italia in Europa». Un invito a Bruxelles a concentrarsi sulle grandi questioni, a partire dal caro energia. Tema finora rimasto senza soluzione anche per le posizioni intransigenti di quei Paesi «considerati non sovranisti» mentre «la maggioranza dei 27», Italia compresa, chiede da tempo «un tetto dinamico al prezzo del gas e dell'energia». Sono peraltro in parte gli stessi Paesi che si sono mossi (vedi la Germania) con «logiche unilaterali» sfruttando il loro «maggiore spazio fiscale». Ma «andare in ordine sparso, pensando che ci è più forte possa salvarsi» è pura «illusione». Una critica che per ragioni non così diverse viene rivolta anche agli Stati Uniti, all'Inflation reduction act voluto dall'amministrazione Biden che rischia di penalizzare fortemente le imprese europee. Non poteva mancare ovviamente il tema migranti. La premier ancora una volta ripete che l'Italia non può essere trasformata «nell'unico porto di sbarco in europa» e che il fallimento dei ricollocamenti impone un approccio diverso, fondato sulla distinzione tra migranti regolari e non e su «un'incisiva azione di prevenzione e di contrasto di quelli irregolari, fermando le partenze e aumentando i rimpatri».

PROFUGHI, SOMMERSI E SALVATI

Le due facce dell’Europa. Grande accoglienza per gli ucraini, stop a tutti gli altri. Nei primi sei mesi dell'anno, i richiedenti asilo nell'Ue sono stati 365mila, contro i 201mila del 2021. Solo il 38% delle domande esaminate ha avuto un esito positivo. Paolo Lambruschi per Avvenire.

«Solidali con gli ucraini, ma respingenti e discriminanti con tutti gli altri profughi. È la grande contraddizione di Italia ed Europa che hanno viaggiato su due binari in termini di accoglienza nell'anno più drammatico del secolo che sarà ricordato «come quello in cui sono definitivamente esplose tutti i nodi irrisolti che hanno caratterizzato lo sviluppo del nostro sistema di accoglienza». Lo sostiene il Rapporto 2022 sul Diritto d'asilo della Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Cei, presentato ieri. Sotto il cielo d'Europa abbiamo creato profughi di serie A e di serie B. «Per qualcuno le frontiere sono aperte, mentre per altri non lo sono nemmeno i porti dopo un naufragio. A essere a rischio è lo stesso diritto d'asilo e persino lo stato di salute delle nostre democrazie. In questo quadro di pesanti trattamenti discriminanti sia internazionali che nazionali si aprono interrogativi scomodi: i bambini sono davvero tutti uguali? Godono tutti degli stessi diritti?» si domandano nell'introduzione le curatrici Mariacristina Molfetta e Chiara Marchetti. I numeri della ricerca smentiscono anzitutto i tanti sostenitori della tesi trasversale che l'Italia non può fare tutto da sola nell'accoglienza. Ma l'Europa la sta facendo da anni. Mentre a giugno vivevano nel Belpaese poco meno di 296 mila persone con protezione internazionale (ucraini inclusi), circa cinque rifugiati ogni mille abitanti, alla stessa data i rifugiati nella sola Francia erano 613 mila e in Germania 2.235.000. Altro dato che fa riflettere. Il rapporto sottolinea che «l'Europa ha saputo accogliere milioni di profughi senza perdere un decimale in benessere e sicurezza». Ha infatti registrato oltre 4.400.000 persone per la protezione temporanea fino a inizio ottobre. In Italia sono arrivati 171 mila profughi dall'Ucraina (e ci ha salvati dall'emergenza la generosa "auto-accoglienza" della comunità ucraina con tanti italiani). In crescita anche le altre domande di asilo nella Ue. Il primo semestre 2022 vede già 365 mila richiedenti, contro i 201 mila dello stesso periodo del '21. Solo il 38% delle domande processate per la prima volta nella Ue nel 2021 e solo il 33% dei ricorsi presentati hanno avuto esito positivo. In Italia sono state vagliate nel 2021 51.931 domande d'asilo e di queste il 58% è stata respinta. All'Afghanistan va il maggior numero di riconoscimenti di status di rifugiato con Somalia e Venezuela. All'estremo opposto le domande sottoposte alle autorità da persone provenienti dalla Tunisia, con l'89% di dinieghi, Egitto, con l'83% e Bangladesh, con l'81%. La percentuale generale di dinieghi in Italia è comunque diminuita. Tre anni fa ammontavano all'81%, mentre sono stati il 76% nel 2020 e il 58% nel 2021. Alla fine di ottobre 2022 si trovavano in accoglienza in Italia 103.161 fra richiedenti asilo, rifugiati e migranti in crescita rispetto alle 78.421 persone accolte l'anno scorso. Contemporaneamente, alle diverse frontiere, l'Unione e i suoi membri hanno «fatto di tutto per tener fuori dai propri confini, direttamente o per procura, decine di migliaia di migranti e rifugiati altrettanto bisognosi di protezione». Verso la fine di ottobre 2022 la stima dei rifugiati e migranti morti e dispersi nel Mediterraneo era di poco inferiore alle 1.800 unità. A pagare il tributo più pesante coloro che tentano la traversata del Mediterraneo centrale dove si sono contati 1.295 morti e dispersi. Il 2021 è stato poi l'anno record per le intercettazioni di migranti e rifugiati della cosiddetta Guardia costiera libica, e ricondotti nei lager: 32.400 persone contro le 11.900 del 2020. A partire dal 2017, anno del "memorandum Roma-Tripoli", i "deportati di Libia" (precisa il report) sono ormai 104.500. Cresce nuovamente il flusso sulla "rotta balcanica". Gli ultimi anni hanno visto in netta crescita soprattutto gli attraversamenti "irregolari" delle frontiere esterne dell'Ue dai Balcani occidentali: dai 5.900 del 2018 ai 106.400 dei primi nove mesi del 2022, anche se la cifra, nel complesso, riflette i tentativi compiuti dai singoli. Ma l'Oim conta 252 rifugiati e migranti che hanno perso la vita su questa rotta in azioni realizzate dalle autorità europee e denunciate dai sopravvissuti come respingimenti fra il 2021 e l'ottobre 2022. Per la prima volta, Migrantes descrive anche la situazione della cosiddetta "rotta italiana" - proseguimento della rotta balcanica o degli sbarchi - alle quattro frontiere di terra con Slovenia, Austria, Svizzera e Francia con gli "irregolari" in crescita ovunque. Per esempio gli oltre 4.800 rintracciati dalla polizia di frontiera di Trieste e Gorizia fino a metà settembre 2022, il 12% in più rispetto allo stesso periodo del '21, mentre quelli respinti dal la Francia sono 27.301. Lungo la frontiera italo- francese i morti quest' anno sono in tutto già sei, contro i tre del '21 e uno del '20. «La "militarizzazione" della frontiera franco-italiana - si legge nel rapporto - ha prodotto un mercato illegale su cui lucrano trafficanti e passatori soprattutto a Ventimiglia e ha causato tra i migranti almeno 34 morti dal 2016 ai primi di novembre 2022». Sono infine 18.800 i minori non accompagnati, il doppio rispetto al 2021. La Fondazione Migrantes conclude rilanciando le parole di papa Francesco: «Costruire il futuro con tutti i migranti e i rifugiati, non solo con quelli che ci piacciono».

HELSINKI ISPIRA IL VATICANO: SIA LA UE SEDE DI PACE

Gli accordi di Helsinki ispirano il Vaticano che indica l'Europa come sede ideale per la pace. L’intervento di Parolin all’incontro di Limes. Francesco Peloso per il Domani.

«Giunti ormai quasi al decimo mese di conflitto, «ancora assistiamo agli errori e agli orrori della guerra in Ucraina che ha avuto inizio con l'aggressione perpetrata dall'esercito della Federazione Russa. Di fronte alle immagini che ogni giorno, ormai dal 24 febbraio scorso, ci vengono proposte, c'è il rischio dell'assuefazione. Finiamo quasi per non fare più caso alle notizie della pioggia di missili distruttivi - le armi intelligenti non esistono - dei tanti morti civili, dei bambini rimasti sotto le macerie, dei soldati uccisi, degli sfollati di un paese disastrato dalle città semi distrutte senza energia elettrica, dell'ambiente devastato». Così il cardinale Pietro Parolin ha aperto il suo intervento al convegno "L'Europa e la guerra, dallo spirito di Helsinki alle prospettive di pace", promosso dall'Ambasciata italiana presso la Santa sede in collaborazione con la rivista di geopolitica Limes e i media vaticani. Il cardinale ha lanciato la proposta di una grande conferenza di pace promossa dall'Europa, sul modello di quella che a Helsinki portò a un accordo generale sulla distensione nei rapporti fra blocco occidentale e Unione sovietica. Una nuova distensione, insomma, per ricostruire il tessuto dei rapporti internazionali oggi lacerato dai tanti conflitti che percorrono il mondo a cominciare dalla guerra in Ucraina. Già nei giorni scorsi il cardinale era tornato a offrire la mediazione del Vaticano fra Mosca e Kiev, in quanto soggetto neutrale rispetto alla contesa in atto. «Siamo disponibili - aveva affermato Parolin - credo che il Vaticano sia il terreno adatto. Abbiamo cercato di offrire possibilità di incontro con tutti e di mantenere un equilibrio. Offriamo uno spazio in cui le parti possano incontrarsi e avviare un dialogo». Ma dal Cremlino arrivava un rifiuto netto all'offerta della Santa sede. Bruciano ancora, infatti, le parole dette di recente dal papa alla rivista dei gesuiti America con le quali Francesco accusava lo «stato russo» dell'invasione, mentre le maggiori crudeltà sul terreno, aggiungeva, erano state commesse da buriati e ceceni. Un'affermazione che mandava su tutte le furie l'entourage di Vladimir Putin perché coglieva un punto debole del Cremlino. Smontava infatti il mito dell'unica nazione russa composta da compagini etniche poste su un piano di uguaglianza e fraternità, e raccontava implicitamente un'altra verità: quella di una guerra combattuta con ferocia da minoranze già emarginate e impoverite (non a caso una di fede musulmana l'altra buddista, non proprio il modello del cristianesimo nazionalista propagandata dal patriarca Kirill) e ora mandate a fare il lavoro sporco in Ucraina. Non a caso la proposta di Parolin è stata respinta al mittente dalla portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, che ha commentato: «Temo che i fratelli ceceni e buriati, oltre a me, non lo apprezzerebbero. Per quanto ricordo, non ci sono state parole di scuse dal Vaticano». Le relazioni fra Mosca e la Santa sede, del resto, si sono raffreddate non poco da quando il papa ha assunto una posizione di condanna più esplicita dell'aggressione russa, senza per questo rinunciare a compiere ogni sforzo diplomatico possibile per aprire un negoziato. Due fattori hanno accentuato questo passaggio: in primo luogo la Santa sede ha cominciato a registrare, attraverso i propri canali, le atrocità commesse dai russi in Ucraina (nella lettera indirizzata al popolo ucraino il papa parla apertamente di «terrore scatenato da questa aggressione»), al contempo i bombardamenti di queste settimane mirati a lasciare al freddo e a buio la popolazione per indurla a fuggire, non potevano passare inosservati in Vaticano, pena il rischio di un silenzio che avrebbe potuto pesare anche in futuro. Non c'è dubbio, inoltre, che a guidare la reazione della chiesa di Roma verso il conflitto sia stato sempre di più il segretario di Stato Parolin che ha collocato la posizione del papa di netta contrarietà alla guerra e di denuncia di una possibile escalation nucleare, all'interno di una solida cornice diplomatica, evocata ancora ieri quando ha chiesto «di recuperare lo spirito di Helsinki». «Torniamo a rileggere - ha detto - la Dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti che venne inserita nell'atto finale. Un decalogo che prevedeva rispetto dei diritti inerenti alla sovranità, non ricorso alla minaccia o all'uso della forza, inviolabilità delle frontiere, integrità territoriale degli Stati, risoluzione pacifica delle controversie, non intervento negli affari interni, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione e credo, uguaglianza dei diritti e autodeterminazione dei popoli, cooperazione fra gli Stati, adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale». Una serie di richiami che hanno fatto fischiare le orecchie principalmente a Mosca e qualcosa pure a Kiev. Altro aspetto importante sollevato da Parolin nel suo intervento, infine, è quello relativo al ruolo autonomo dell'Europa, della società civile e dei movimenti per la pace nella promozione di una grande conferenza per riscrivere i principi su cui fondare nuove relazioni internazionali; «L'Europa torni ad essere faro di una civiltà fondata sulla pace, sul diritto e sulla giustizia internazionale», ha detto il cardinale».

L’AGENDA VUOTA DELLO ZAR

Vladimir Putin ha l'agenda vuota: niente conferenza di stampa di fine d’anno, né ricevimento al Cremlino, né telefonate col pubblico. Non è previsto nessun evento in diretta (e non sono state date spiegazioni ufficiali). Fabrizio Dragosei per il Corriere della Sera.

«Prima una settimana di continue apparizioni televisive in circostanze diverse, ma sempre tra persone più che fidate, dalle quali non ci si poteva attendere alcuna domanda imbarazzante. Poi gli annunci di appuntamenti canonici cancellati senza una spiegazione ufficiale: niente conferenza stampa di fine anno, nessun ricevimento al Cremlino. Non ci sono comunicazioni sull'annuale linea diretta con le telefonate del pubblico, ma pare proprio che anche in questo caso l'agenda di Vladimir Putin risulterà troppo piena. Rimane per ora in programma, anche se la data del 27 dicembre non è confermata, il discorso alle Camere riunite che il presidente russo è obbligato a tenere in base alla Costituzione.
Che succede? I critici del Cremlino non hanno dubbi: Vladimir Vladimirovich vuole evitare le occasioni nelle quali potrebbe trovarsi di fronte a dichiarazioni o domande «fuori dalla linea» sull'Operazione militare speciale in Ucraina o, addirittura, scomode. Questo perché gli eventi di cui abbiamo parlato venivano tradizionalmente tenuti in diretta. Ma bisogna dire che in ogni caso sarebbe assai semplice per i collaboratori del presidente organizzare il tutto in maniera da evitare brutte sorprese. Come in realtà avviene spesso. Nella conferenza stampa annuale, alla quale si accreditano centinaia e centinaia di giornalisti, la parola viene quasi sempre data unicamente a reporter che chiedono quello che non è sgradito ai vertici del Paese. E le telefonate in diretta dei cittadini russi (maratone che in genere durano quattro ore) sembrano accuratamente filtrate. Negli ultimi giorni, d'altra parte, si è visto che il presidente può tranquillamente partecipare a manifestazioni pubbliche senza correre alcun rischio. A fine novembre, ad esempio, c'è stato l'incontro trasmesso dalla tv con le madri dei soldati. Solo che dall'evento sono state escluse le rappresentanti della principale associazione che da anni si occupa del destino dei giovani coscritti. E che erano pronte a fare domande per lo meno difficili sullo scarso addestramento delle reclute e sulla carenza di equipaggiamento. Mercoledì scorso Putin ha riunito il Consiglio per il rispetto dei diritti umani. Però pochi giorni prima i membri dell'organismo che avevano espresso la volontà di confrontare il presidente sulla condizione delle carceri russe erano stati rimossi con un decreto presidenziale. Giovedì altro appuntamento «tranquillo» con gli ufficiali ai quali ha consegnato la stella d'oro di Eroe della Russia. Il presidente è stato ripreso anche mentre chiacchierava informalmente con i neodecorati. Nessuno di loro, naturalmente, poteva avere nulla di spiacevole da dire a Putin. Infine, la settimana si è chiusa venerdì con una conferenza stampa a margine di un vertice regionale in Kirghizistan. Ma i giornalisti russi erano quelli del cosiddetto pool del Cremlino, inviati selezionati che seguono sempre i viaggi del presidente. Forse prima della fine dell'anno Putin incontrerà nuovamente questi reporter per far vedere che parla con la stampa. Infine, ci sarà con ogni probabilità il solito messaggio di fine anno. Cinque minuti alle 23.55 del 31 dicembre per fare gli auguri ai russi. Nessuna conferma invece all'ipotesi di una qualche malattia del presidente avanzata da qualcuno. Al Cremlino oramai non smentiscono nemmeno. Negli anni a Putin sono stati attribuiti malanni di ogni genere».

IRAN 1, ORA SI TEME PER IL RAPPER

In Iran altra raffica di condanne a morte, e carcere fino a dieci anni, per almeno 400 persone. Vandalizzata la casa di Majidreza Rahnavard, il giovane impiccato lunedì. E ora si teme l'esecuzione del cantante rapper. Camille Eid per Avvenire.

«Sentenze a raffica per i manifestanti in Iran. La magistratura ha dichiarato di aver emesso altre 11 condanne capitali. Non solo: i tribunali della provincia di Teheran hanno condannato 400 persone a pene detentive fino a 10 anni per il loro coinvolgimento nelle manifestazioni antigovernative innescate dalla morte, a metà settembre, di Mahsa Amini. Lo ha annunciato il capo della magistratura iraniana, Ali Alghasi-Mehr, citato dal sito web Mizan Online della magistratura. Facendo il punto sui processi che si sono svolti nella provincia di Teheran, Alghasi-Mehr ha reso noto che 160 persone sono state condannate a pene tra i cinque e i dieci anni di carcere, 80 persone sono state condannate a pene tra i due e i cinque anni di carcere e altre 160 a pene fino a due anni di carcere. L'annuncio segue la condanna della comunità internazionale per l'esecuzione, di due manifestanti, entrambi di 23 anni, a distanza di pochi giorni: Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard, impiccati rispettivamente l'8 e il 12 dicembre, perché giudicati colpevoli di quello che nella sharia islamica si chiama "moharebeh", ovvero "inimicizia contro Dio". Prima delle due esecuzioni, la magistratura iraniana aveva annunciato la condanna a morte di 11 persone per le proteste, ma secondo gli attivisti un'altra decina di persone rischierebbe attualmente la pena capitale. Ma non basta. Il pugno di ferro del regime di Teheran si è abbattuto anche su altri tre detenuti accusati di reati comuni, messi a morte ieri. Amnesty International ritiene imminente l'esecuzione del rapper Saman Seydi, noto come Yasin, le cui canzoni sono farcite di critiche contro la corruzione e la repressione esercitata dalle autorità della Repubblica islamica. Il trasferimento del ragazzo dal famigerato carcere di Evin della capitale a quello di Raja' i Shahr di Karaj mostra che le autorità starebbero preparandosi a eseguire la condanna a morte emessa, secondo la Ong, in seguito a una confessione estorta con la tortura. «La sua condanna a morte - denuncia Amnesty - viola il diritto alla vita nell'ambito del diritto internazionale che vieta la pena di morte per crimini che non siano relativi all'omicidio intenzionale». Una petizione che ha raccolto migliaia di firme è stata lanciata un mese fa per salvare la vita al rapper ritenuto colpevole di "moharebeh" per avere sparato con una pistola in aria durante una manifestazione e sostenuto le proteste attraverso messaggi sui social media. Il giudice in questione è Abolqasem Salavati, noto come il "giudice della morte", famoso per aver pronunciato, dopo processi lampo che talvolta durano pochi minuti, diverse condanne capitali e lunghe pene detentive. Salavati è a capo della 15esima sezione della corte rivoluzionaria che persegue in particolare gli oppositori ideologici del regime ed è considerata dalle ong connessa con il ministero dell'Intelligence e i pasdaran. A Mashhad, l'abitazione della famiglia di Majidreza Rahnavard, il giovane manifestante impiccato lunedì scorso, è stata vandalizzata, mentre la cerimonia in suo ricordo è stata ostacolata dalle forze di sicurezza. All'ingresso dell'abitazione sono apparse scritte in rosso come «questa è la casa di un assassino». Le finestre sono state rotte e i muri imbrattati di vernice. Anche la casa della nonna di Majidreza è stata attaccata lunedì notte, mentre suo zio e suo fratello sono stati fermati per alcune ore. Gli autori dell'aggressione, che non vengono specificati, hanno portato via striscioni e fiori preparati per la commemorazione del ragazzo. A Parigi, il ministro degli Esteri francese Catherine Colonna ha reso noto di aver convocato l'incaricato d'affari iraniano in Francia per protestare contro il pugno di ferro del regime. Dal 16 settembre, quando sono scoppiate le proteste nel Paese, migliaia di persone sono state arrestate. Dei circa 70 giornalisti iraniani finiti in carcere, almeno 35 risultano ancora detenuti, secondo l'Associazione dei giornalisti iraniani».

IRAN 2, IL GIUDICE DELLE IMPICCAGIONI

Ritratto del giudice Abolghassem Salavati, a capo della sezione 15 del tribunale rivoluzionario di Teheran. Gabriella Colarusso per Repubblica.

«A Teheran lo chiamano "il giudice delle impiccagioni", una fama oscura di cui si torna a parlare con terrore nei giorni in cui la magistratura iraniana esegue le prime condanne a morte per le proteste.
A decidere l'impiccagione di Moshen Shekari, 23 anni, il primo manifestante giustiziato, è stato lui, Abolghassem Salavati, il giudice a capo della sezione 15 del Tribunale rivoluzionario islamico di Teheran. Del suo passato si sa pochissimo: nessuna notizia su dove sia nato o su quale formazione legale abbia. A essere certa è la drammatica conta delle sentenze di condanna a morte o di lunga prigionia che portano la sua firma.
Secondo la ong United for Iran, al 15 settembre 2020 Salavati «aveva emesso 25 condanne a morte e condannato 250 imputati a un totale di 1.277 anni di carcere e 540 frustate ». L'organizzazione conta «229 imputati nei suoi casi a cui è stato negato l'accesso all'assistenza legale, non meno di 166 messi in isolamento prolungato, e almeno 104 a cui non sono state consentite visite familiari o telefonate». Vicino all'attuale capo della magistratura Gholam-Hossein Mohseni- Ejei, il suo nome divenne tristemente noto all'opposizione iraniana dopo le grandi proteste del 2009 contro la vittoria alle elezioni di Ahmadinejad, quando il giudice presenziò diversi processi a carico dei manifestanti, anche in quel caso comminando sentenze pensantissime. Il 29 ottobre davanti alla sua corte sono finiti in un processo collettivo sei manifestanti, Mohammad Ghobadlou, il rapper Saman Seydi (Yasin), Saeed Shirazi, Mohammad Boroughani, Abolfazl Mehri Hossein Hajilou e Mohsen Rezazadeh Gharagholou, tutti accusati di moharebeh , "guerra contro Dio", o di "corruzione sulla terra", reati per cui è prevista la pena capitale. Almeno due sentenze di morte, secondo Amnesty, quelle di Ghobadlou e Boroughani, sono state già decise. In aula, alle spalle di Salavati campeggiava la scritta "tribunale per trattare le accuse contro i recenti rivoltosi". Uno striscione che «rivela la posizione fortemente prevenuta verso gli imputati e che mina la presunzione di innocenza», denuncia Amnesty.
Salavati è il giudice che condannò a morte anche il giornalista e attivista Ruhollah Zam, ideatore di un canale di informazione indipendente seguitissimo in Iran, Amadnews : fu impiccato esattamente due anni fa, accusato di aver fomentato le proteste del 2017 e del 2018: "corruzione sulla terra". Ma Salavati è anche il giudice che ha presieduto i processi di numerosi cittadini con doppia nazionalità, considerati dalle organizzazioni per i diritti umani non equi e politicamente motivati. Da lui fu condannato per "spionaggio" anche il giornalista iraniano-americano Jason Rezaian, corrispondente da Teheran del Washington Post , che ha passato 544 giorni in carcere. «In aula, dove c'erano le telecamere della tv di Stato, Salavati manteneva un profilo basso. Fuori dall'aula l'ho incontrato tre volte ed era molto intimidatorio », racconta Rezaian a Repubblica . «Non ho potuto avere un mio avvocato di fiducia e quando incontravo quello assegnatomi Salavati era presente. Immagina che sei sotto processo e vuoi preparare la difesa con il tuo avvocato e il giudice e il magistrato sono lì a ogni incontro, è contro ogni legge». Rezaian ha raccontato la sua esperienza in un libro e in un podcast. Prima del processo, ricorda, «mi disse: "Perché state perdendo tempo? Ti condannerò a morte, tu sei una spia americana"». I tribunali rivoluzionari furono creati da Khomeini nel 1979 e negli anni sono stati accusati di pesanti violazioni degli imputati, privati di una giusta difesa, di avvocati di fiducia, tenuti in isolamento e giudicati in processi senza prove o contraddittorio. «Non sono veri tribunali, ma corti ideologiche», dice Rezaian. Nel 2011 Salavati è stato sanzionato dall'Unione europea insieme ad altre 22 persone e nel 2019 anche il dipartimento di Stato Usa l'ha inserito nella lista delle persone sotto sanzioni per violazione dei diritti umani».

IRAN 3, LA CRISI È NEL CLERO SCIITA

In un interessante approfondimento Martino Masolo per Oasis (lo trovate qui) analizza la crisi del sistema politico iraniano, che riguarda anche il clero sciita.

«Prima ancora di essere scosso dalle manifestazioni innescate dalla morte di Mahsa Amini, il sistema politico iraniano stava attraversando una fase critica. L’età avanzata e lo stato di salute dell’Ayatollah Khamenei sollevavano interrogativi sulla successione della “Guida della rivoluzione”. Il clero sciita, uno dei pilastri della Repubblica islamica ma anche uno dei principali bersagli di chi oggi scende in piazza per contestare il regime, da tempo mostrava segni di debolezza. In particolare, l’amministrazione statale osservava con apprensione il problema del ricambio generazionale all’interno dell’establishment, specialmente ai livelli più alti e nelle figure dei mojtahed (“coloro che praticano l’ijtihād”, l’interpretazione originale della shari‘a). Questi ultimi stanno in gran parte avviandosi verso i novant’anni di età. Il più anziano, Hossein Vahid Khorasani, nato nel 1921, ha 101 anni. Negli ultimi anni sono morti alcuni ayatollah illustri, quali Muhammad Taqi Misbah Yazdi, uno dei più importanti teorici della velāyat-e faqih (la dottrina su cui si fonda la Repubblica islamica[1]), deceduto nel 2021 all’età di 86 anni, e Ali Naseri, spentosi nell’agosto del 2022. Lo stesso Khamenei, il cui vacillante stato di salute è discusso nei media da diversi anni, ha ormai 83 anni. Si tratta di un problema non secondario se si considera la struttura dello Stato iraniano. Nella Repubblica Islamica, democratica sulla carta ma non nella sostanza, chi ricopre il ruolo di Guida Suprema della Rivoluzione (Rahbar-e Mo‘azzam-e Enqelāb) ha costituzionalmente l’ultima parola nel processo decisionale. Subito sotto di lui vi è il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, formato da dodici chierici – sei faqih (esperti in legge islamica) e sei giuristi – nominati in parte dalla Guida Suprema e in parte dalla magistratura, per poi scendere alle istituzioni del Parlamento (Majles) e della Presidenza della Repubblica, nelle quali si trovano anche dei religiosi. Anche la carica di “rappresentante del Vali-e Faqih”, occhi e orecchie della Guida Suprema in ciascuna delle trentun province (ostān) in cui è diviso il Paese, è prerogativa esclusiva dei mojtahed. Ad aggravare ulteriormente questa situazione delicata è il fatto che molti marja‘ (“fonte di emulazione”, il più alto grado di autorità nel mondo sciita) non sono completamente allineati con Khamenei e con i principi della rivoluzione: alcuni preferiscono concentrarsi solo su questioni strettamente religiose, altri invece sono in contrasto sempre più aperto con le politiche dello Stato e con le decisioni della Guida Suprema, anche sul tema scottante delle proteste delle ultime settimane. È il caso per esempio di Alavi Boroujerdi, o della lettera aperta ai chierici iraniani del teologo in esilio Abdol-Karim Soroush. Ma già nel marzo scorso, dunque prima dello scoppio dell’ultima ondata di proteste, l’Ayatollah Seyyed Ja’fari Sadr Qaemi aveva apostrofato il regime con parole al vetriolo: «Basta ingannare il popolo, soffocatevi con il sangue, vergognatevi svergognati, scomunicati, irreligiosi. [...] Venite, venite a prendermi domani mattina. Sono pronto». Solo un marja‘ ha il potere di proclamare nuovi mojtahed, e ciò pone Khamenei in ancora maggiore difficoltà, non solo in campo religioso ma anche politico. Per capire le strategie con le quali il sistema stava cercando di affrontare queste sfide occorre concentrarsi su Qom, capitale intellettuale dell’Iran, definita da Khamenei «il centro e la madre della Rivoluzione [Islamica]» in un discorso del 9 gennaio 2019. La città santa sciita, nella quale Khomeini e tanti altri dignitari della Repubblica islamica hanno compiuto i loro studi, è sede del più importante centro iraniano per la formazione di chierici sciiti: il seminario, o howze ‘elmiyye, fondata dallo shaykh Abdul-Karim Haeri-Yazdi nel 1922. Per la sua centralità nella formazione di figure fedeli alla causa dello Stato teocratico, la howze di Qom può giocare un ruolo chiave nella sopravvivenza della Repubblica Islamica o nel suo definitivo tracollo. Nelle parole dello stesso Khamenei: «se i seminari non rimarranno rivoluzionari, tutto il sistema rischia di deviare dalla rivoluzione». Anziano e sulla difensiva, l’attuale Guida della Rivoluzione vede pericoli ovunque, anche all’interno del clero: in un discorso alla howze di Qom, ha chiesto ai rappresentanti ufficiali presenti di «scommettere sulla gioventù», perché «conservi il suo coraggio rivoluzionario». La sua scommessa non è solo creare un numero abbastanza consistente di nuovi ayatollah, in modo da garantire una copertura adeguata delle posizioni di potere, ma anche assicurarsi che questi rimangano fedeli ai principi della rivoluzione e non si facciano contaminare dalle idee liberali, viste dal governo teocratico come la prima arma di hybrid warfare dispiegata dall’onnipresente nemico americano. Il “secolarismo” che avanza, infatti, spaventava i mullah già da qualche anno, prima ancora di prendere la forma di un rifiuto sistematico e violento dello status quo. Per esempio, secondo l’hojatoleslam (“autorità dell’Islam”) Ahmad Vaezi, capo dell’Ufficio di Propaganda Islamica del Seminario di Qom, «l’essenza del secolarismo, nel senso di razionalità secolare, non è una minaccia per i seminari. Ma le sue conseguenze, la separazione della religione dalla politica e l’indifferenza [del clero] verso tematiche politiche e sociali, [...] costituiscono un pericolo». Parole che hanno un riscontro nei fatti, se si scorrono le notizie della stampa persiana. Negli ultimi anni, alcuni esponenti del clero sono stati arrestati, un evento certamente significativo. Vahid Heroabadi è stato incarcerato nell’agosto scorso per aver difeso la causa degli iraniani Baha’i. Già nel 2019 il chierico aveva presto parte a proteste contro il regime ed era stato espulso dall’università, dove svolgeva attività di “missionario culturale”. Si è allora messo a vendere oggetti e dolciumi per le strade di Teheran, rimanendo molto attivo sui social. Non è l’unica voce di un nuovo clero iraniano che cerca di prendere le distanze dallo status quo e desidera un minore coinvolgimento dei mullah nelle attività repressive per cui questi sono tristemente famosi nel mondo. La formazione che viene impartita a Qom punta tra le altre cose a evitare fenomeni simili. Da questo punto di vista le parole pronunciate in un discorso del 2016 dall’Ayatollah Alireza Arafi, classe 1956 e membro del Concilio Supremo della Rivoluzione Culturale, sono molto significative: «Se non c’è il riconoscimento del nemico nell’anima dello studente, questi non andrà da nessuna parte». Arafi non s’interessa soltanto alla formazione scientifica dei circa 50.000 studenti della howze, ma anche al loro coinvolgimento in politica e al loro allineamento agli ideali della Rivoluzione, in modo da evitare che qualcuno, come Heroabadi, insinui una nuova mentalità nel cuore del sistema di potere della Repubblica Islamica, il clero. Per questo, il “Centro per la gestione delle scuole religiose”, un organo statale che fa capo allo stesso Arafi, sta spingendo verso una sempre maggiore standardizzazione del tradizionale sistema di insegnamento nelle varie howze del Paese. Il nuovo sistema, volto a limitare la libertà dei marja‘ in altri istituti, è stato oggetto di lamentele per la sua superficialità e per aver dato l’impressione di un tentativo frettoloso di accrescere il corpus clericale. La sezione internazionale del Seminario, l’Università Internazionale Al-Mustafa – di cui Arafi è stato direttore fino all’anno scorso – gode di enormi finanziamenti da parte del governo centrale. Questi punta a concorrere con l’Arabia Saudita per la formazione in loco di chierici internazionali (anche sunniti), in modo da incrementare il soft power di Teheran. A conferma della valenza politica (e geopolitica) delle istituzioni religiose iraniane, tra i beneficiari di questo programma figura la Cina, che in tempi pre-Covid aveva più di 700 studenti a Qom. Se a Qom si cerca di preservare il ruolo e il primato dei chierici, altri attori politici potrebbero succedere a Khamenei, sempre che le proteste non finiscano per scardinare del tutto il sistema della Repubblica islamica. Tra le ipotesi in campo, vi era già prima delle proteste l’assunzione delle redini dello Stato da parte di una giunta militare guidata dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), conosciuti in Iran come Sepah. Questa organizzazione, fedelissima a Khamenei, è un vero e proprio “esercito parallelo”, che riceve molti più fondi dell’esercito regolare. Qualche anno fa non sarebbe stato impensabile immaginare il generale dei Sepah Qassem Soleimani, ucciso nel gennaio del 2020 da un drone americano, come futuro leader del Paese, in una forma diversa da quella religiosa del Rahbar. I Sepah costituiscono già oggi uno dei vertici del triangolo del potere in Iran, oltre a quelli rappresentati dalla Guida Suprema e dal Governo. Hanno inoltre un grande peso economico, dal momento che controllano industrie chiave del sistema produttivo iraniano. Intanto l’attuale presidente, Ebrahim Raisi, che in passato è stato capo del sistema giudiziario iraniano e negli anni ’80 era definito “il macellaio” per la sua ferocia nella tortura e nell’uccisione dei prigionieri politici, ha recentemente raggiunto il grado di ayatollah. Lo stesso ha fatto il figlio del Rahbar Mojtaba Khamenei, suscitando lo sdegno dei più autorevoli marja‘, i quali considerano la sua preparazione giuridica e teologica (come del resto quella del padre) del tutto inadeguata. In ogni caso, nessuna di queste ipotesi risolve il problema di fondo del ricambio generazionale del clero. Tra i chierici più giovani, consapevoli che il modello di società incoraggiato dall’establishment è diventato irrealizzabile, si sta infatti diffondendo un rifiuto nei confronti dell’ideologia della rivoluzione. I manifestanti, che dopo aver incendiato la casa natale di Khomeini hanno preso di mira anche un luogo simbolico come la howze di Qom, hanno espresso chiaramente il loro desiderio di cambiamento».

SVOLTA SCIENTIFICA, LA FUSIONE È CONVENIENTE

L'annuncio in Usa. Prodotta più energia di quella usata. L'uso commerciale avverrà “in pochi decenni”. Paolo Mastrolilli per Repubblica.

«D'accordo, il risultato scientifico è una pietra miliare. Ma quando potremo usare l'energia prodotta dalla fusione nucleare per accendere la luce in casa e ridurre l'inquinamento? Le stime su questo variano, perché nessuno ha davvero una risposta precisa. L'ottimismo però è condiviso, e va dai «pochi decenni » previsti dalla direttrice del Livermore Lab Kim Budil agli 8-9 anni su cui scommettono Eni e Mit. La segretaria all'Energia Jennifer Granholm, annunciando ieri che nel laboratorio militare della California sono riusciti per la prima volta a produrre con la fusione più energia di quella usata per innescare l'esperimento, non ha scelto toni modesti: «È una delle imprese scientifiche più impressionanti del XXI secolo. Passerà ai libri di storia». E ha spiegato perché: «Questa pietra miliare ci avvicina di un passo significativo alla possibilità di un'abbondante energia da fusione, a zero emissioni di carbonio, che alimenti la nostra società». Il consigliere scientifico della Casa Bianca, Arati Prabhakar, le ha fatto eco: «È uno straordinario esempio di ciò che la perseveranza può ottenere. Una meraviglia ingegneristica oltre ogni immaginazione». Il presidente Biden ha puntato invece al concreto: «Guardate cosa sta venendo dal dipartimento all'Energia sul fronte nucleare. Ci sono un sacco di buone notizie all'orizzonte». Stephane Dujarric, portavoce del segretario generale dell'Onu, ha aggiunto che anche Guterres guarda con speranza alla svolta che ne potrebbe derivare per la lotta ai cambiamenti climatici, a patto di non abbassare la guardia sulle altre misure per contenere l'emergenza. Sul piano tecnico, gli scienziati hanno confermato le anticipazioni di lunedì. Usando i 192 potentissimi laser della National Ignition Facility al Lawrence Livermore National Lab, all'una del mattino del 5 dicembre scorso gli scienziati sono riusciti a riprodurre la fusione che avviene in maniera naturale nel Sole, generando più energia di quanta ne è servita per condurre l'esperimento. Per la precisione 3 megajoule, con un guadagno netto di 1,5. I laser hanno riscaldato palline di deuterio e trizio, isotopi dell'idrogeno, e l'implosione ha fuso l'idrogeno in elio, completando il processo. Per tradurre dal linguaggio scientifico a quello pratico, il professore della Rochester University Riccardo Betti ha spiegato all'Ap che il risultato equivale a quando gli esseri umani capirono che raffinando il petrolio in benzina si poteva accendere un motore: «Il motore però ancora non c'è, e quindi non puoi dire di avere un'automobile». La domanda diventa quanto ci vorrà per costruirla, in modo da poter usare su scala industriale questa fonte di energia pulita, economica e inesauribile, perché in sostanza per produrla basta l'acqua. La risposta di Kim Budil è che restano «ostacoli molto significativi» per arrivare all'uso commerciale, ma la buona notizia è che i progressi degli ultimi anni dimostrano chee questa tecnologia potrà essere impiegata in «pochi decenni», anzichè nei 50-60 anni stimati finora. L'Eni, che sta lavorando sulla tecnica del confinamento magnetico con il Commonwealth fusion systems, spin-out del Massachusetts institute of technology, è più ottimista. Spera di realizzare il prototipo pilota Sparc entro il 2025, e rendere operativo l'impianto Arc intorno al 2030, per iniziare ad immettere il prodotto nella rete. La corsa dunque è cominciata, verso un potenziale futuro di energia pulita, economica e rinnovabile, libera dai ricatti dei dittatori che controllano le fonti fossili».

L’INFLAZIONE CALA NEGLI USA

Prospettive migliori per l’economia americana. A novembre si è registrato il minore aumento dei prezzi da quasi un anno. La Federal Reserve verso un ritocco più graduale dei tassi, a 50 punti base. Marco Valsania per il Sole 24 Ore.

«La corsa dell'inflazione negli Stati Uniti rallenta al passo meno rapido da quasi un anno. I prezzi al consumo sono tuttora aumentati del 7,1% nei dodici mesi a novembre, ma si è trattato dell'incremento minore dal dicembre 2021 e di un andamento significativamente inferiore sia del 7,7% del mese precedente che del 7,3% previsto. In frenata è risultato anche l'indice core, depurato delle componenti volatili energetica e alimentare, fermatosi al 6% annuale invece dell'atteso 6,1 per cento.
L'andamento dà nuovo credito alla tendenza a un raffreddamento della marcia dei prezzi che a giugno, con il 9,1%, aveva fatto segnare record da 40 anni. Ed è stato salutato con soddisfazione dal presidente Joe Biden, che nel carovita vede la minaccia più grave per l'economia e per la sua leadership alla Casa Bianca. «L'inflazione - ha dichiarato - sta scendendo in America. Abbiamo lavoro da fare ma la situazione sta migliorando». Il dato è stato inizialmente il benvenuto anche a Wall Street in una seduta molto volatile. La frenata dell'inflazione dovrebbe consentire alla Federal Reserve di archiviare la stagione di interventi restrittivi ultra-aggressivi. La Banca centrale Usa appare pronta al settimo rialzo dei tassi di interesse del 2022 al termine oggi di due giorni di riunione al vertice. Come già suggerito dal chairman Jerome Powell, dovrebbe però ridimensionare la sua azione a 50 punti base, portando il costo del denaro al 4,25%-4,50%, dopo quattro maxi-mosse consecutive da 75 punti base. Le piazze future hanno scommesso su almeno l'80% di probabilità di un'azione da 50 punti. La minore aggressività della Banca centrale, agli occhi degli operatori, è destinata a proseguire l'anno prossimo: la decelerazione ulteriore delle strette a 25 punti base ha il 55% di probabilità al prossimo vertice di febbraio, mentre i rialzi potrebbero concludersi del tutto a marzo (o saltando quell'appuntamento a maggio) a un tasso finale del 4,75%-5%, al di sotto dei precedenti pronostici. I future hanno inoltre segnalato potenziali svolte Fed verso tagli dei tassi da settembre, che potrebbero totalizzare mezzo punto entro fine 2023. Un continuo rallentamento dell'inflazione, verso target ideali ancora lontani del 2%, e ammorbidimenti della manovra restrittiva sui tassi possono aumentare le chance di atterraggio morbido dell'economia statunitense, di evitare cioè gravi crisi o recessioni. Ma tra gli analisti gli inviti alla cautela e a temperare l'ottimismo restano diffusi. I recenti dati, ha indicato Andrew Hollenhorst di Citigroup, «non rappresentano una prova conclusiva che l'inflazione stia strutturalmente rallentando». Il dato, ha aggiunto Moody' s, «offre rassicurazioni sul fatto che il peggio della fase inflazionistica è alle spalle, ma la Fed non è fuori pericolo, con la famiglia americana tipo che deve spendere 396 dollari in più al mese per gli stessi beni e servizi di un anno fa». L'incremento dei prezzi alla produzione sempre a novembre, del 7,4% e superiore alle previsioni, ha inoltre tradito il persistere di pressioni sui costi. La nuova lettura dei prezzi al consumo ha tuttavia nell'insieme sorpreso positivamente. A novembre rispetto a ottobre il consumer price index è lievitato solo dello 0,1% anziché dello 0,3% ipotizzato e lontano dallo 0,4% di ottobre. Il core index mensile è aumentato dello 0,2%, a sua volta meno dello 0,3% anticipato. In maggior dettaglio, i prezzi dell'energia sono scivolati dell'1,6% nel mese, trainati da cali del 2% nella benzina, anche se nell'ultimo anno rimangono in aumento del 13,1 per cento. Nei servizi, l'assistenza sanitaria ha mostrato declini mensili dello 0,7%, fermando l'aumento annuale al 4,4 per cento. Una retromarcia particolarmente evidente è stata ingranata dai veicoli usati, in passato protagonisti di rincari drammatici. I loro prezzi sono scesi del 2,9% nel mese e del 3,3% nell'anno. Ancora saliti invece i prezzi alimentari, dello 0,5% a novembre e del 10,6% nell'anno. E soprattutto i costi abitativi, un terzo dell'indice: hanno marciato dello 0,6% nel mese e del 7,1% su base annuale».

L’ANTITRUST E LE BOLLETTE INGIUSTE

Istruttoria dell’Autorità garante della concorrenza contro alcune aziende energetiche. Colpite 7 milioni di famiglie con il caro bollette. Roberto Ciccarelli per il Manifesto.

«Sono 2,66 milioni i consumatori che hanno già subito aumenti ingiustificati dei prezzi delle bollette di gas ed elettricità da parte di Enel, Eni, Hera, A2a, Edison, Acea e Engie. E altri 4 milioni e 879.836 cittadini potranno ricevere brutte notizie nelle loro bollette. Ad essere danneggiate dal caro bollette registrato nel primo anno dell'economia di guerra potrebbero essere in totale 7 milioni 546.963 persone. Lo sostiene l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che ha avviato sette procedimenti istruttori e ha deciso di adottare altrettanti provvedimenti cautelari contro le principali società fornitrici di energia elettrica e di gas naturale che rappresentano circa l'ottanta per cento del mercato italiano. Provvedimenti analoghi sono stati già adottati contro le società Iren, Dolomiti, E.On e Iberdrola e sono l'esito di un'indagine svolta su 25 imprese da cui è emerso che solo circa la metà degli operatori ha rispettato la legge evitando di modificare le proprie condizioni dopo il 10 agosto 2022, giorno in cui è entrato in vigore il «decreto aiuti bis», o ha revocato gli aumenti illecitamente applicati.
Le imprese dovranno sospendere l'applicazione delle nuove condizioni economiche, mantenendo o ripristinando i prezzi praticati prima di quella data. Alle imprese è stata contestata la mancata sospensione delle comunicazioni di proposta di modifica unilaterale delle condizioni economiche, inviate prima di agosto e, quelle che hanno aggiornato o rinnovato i prezzi di fornitura, di carattere peggiorativo. Cambiamenti che sono stati giustificati sulla base di una scadenza delle offerte a prezzo fisso. Ad Acea in particolare è stata anche contestata la modifica unilaterale del prezzo di fornitura perché è stata inviata prima dell'entrata in vigore del «Decreto Aiuti bis» e non è stata «perfezionata» prima della stessa data. Entro sette giorni, le imprese potranno difendersi e l'Autorità potrà confermare o meno i provvedimenti cautelari. A quel punto dovranno sospendere l'applicazione dei nuovi prezzi, mantenendo o ripristinando quelli praticati prima del 10 agosto 2022. Inoltre dovranno comunicare all'Autorità le misure che adotteranno. La risposta delle aziende non si è fatta attendere. Edison sostiene di non avere mai fatto modifiche unilaterali e che l'interpretazione del decreto è «illegittima». Così ieri hanno fatto Hera e A2a. Quest' ultima sostiene di avere permesso un risparmio «di circa 520 milioni di euro rispetto ai prezzi del mercato tutelato nei primi 9 mesi del 2022».
Le associazioni dei consumatori ieri sono entrate in ebollizione dopo l'annuncio. Assoutenti ha chiesto di chiarire quali potrebbero essere le modalità di un eventuale rimborso e ha posto il problema dell'organizzazione del mercato capitalistico dell'energia. Per capire il senso di questa notizia bisogna partire dalla distinzione tra fornitori e venditori. Le imprese interessate dai provvedimenti dell'Autorità sono i venditori che «hanno comprato l'energia ad un determinato prezzo più caro e lo hanno venduto sottocosto qualora abbiano obblighi contrattuali a tariffe fisse» sostiene il presidente di Assoutenti Furio Truzzi. «Tale richiesta però - aggiunge - è immotivata in presenza di scadenze contrattuali sopravvenite senza obbligo di rinnovo automatico. Abbiamo bisogno di uscire dalla confusione e dagli annunci clamorosi». A Truzzi risulta che alcuni dei casi esaminati dall'Autorità potrebbero rientrare nella seconda ipotesi. E questo potrebbe portare a un contenzioso infinito con gli utenti senza alcun vantaggio per questi ultimi, a cominciare dagli indennizzi a chi ha subìto l'aumento delle tariffe in maniera unilaterale. Dunque, l'intervento andrebbe fatto anche alla fonte, sui produttori di energia, e non solo sui venditori. «Non basta» sostiene il Codacons che ha annunciato di avere presentato un nuovo esposto a 104 procure per accertare se le pratiche adottate possano configurare «fattispecie penalmente rilevanti, dalla truffa all'appropriazione indebita fino all'interruzione del servizio pubblico». Nel frattempo si resta in attesa anche della decisione del Consiglio di Stato per il 20 dicembre che dovrebbe pronunciarsi sul blocco di tutti gli aumenti di luce e gas nel 2022 e tornare alle tariffe precedenti. Chiesta anche un'istruttoria all'Arera sui «super-profitti» delle aziende e sul reale prezzo pagato per acquistare gas e energia rivenduti ai consumatori a tariffe stratosferiche». Le imprese «dovrebbero mettere in atto le decisioni del Garante sostiene Altroconsumo - È bene che gli utenti inviino un reclamo al proprio operatore con un modulo predisposto dall'associazione. Per l'Unione nazionale consumatori il codice di condotta dell'Arera prevede un preavviso non inferiore ai tre mesi. Dunque, visto che la legge è entrata in vigore il 10 agosto, ogni comunicazione delle variazioni dei prezzi successivo al primo maggio «non è più valido». Federconsumatori ha infine ricordato che il blocco delle variazioni contrattuali è ancora valido fino al 30 aprile 2023».

ORBÁN HA CEDUTO ALLA UE

Accordo fra Ungheria e Ue su Pnrr e mancato rispetto dello stato di diritto. La cronaca del Foglio.

«Il premier ungherese, Viktor Orbán, ha tolto il suo veto sulla tassazione minima delle multinazionali e sui pacchetti di aiuti finanziari all'Ucraina. In cambio il Consiglio dell'Ue ha approvato il Pnrr ungherese e ridotto dal 65 al 55 per cento i fondi di coesione sospesi per il meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto. In sintesi: Orbán ha ceduto per ottenere i soldi dell'Ue. Se il Pnrr ungherese non avesse ottenuto il via libera entro la fine dell'anno, il premier avrebbe definitivamente perso i quattro miliardi di euro del Recovery fund. Orbán ha ottenuto anche un miliardo di euro di sconto sulla sanzione per il mancato rispetto dello stato di diritto: il Consiglio ha deciso di sospendere 6,3 miliardi di euro di fondi della coesione invece dei 7,5 miliardi proposti dalla Commissione. Come abbiamo più volte detto, questi soldi servono eccome al premier ungherese per evitare, almeno per ora, un aggravamento della crisi finanziaria. Per garantirseli Orbán ha dovuto di fatto ammettere che i soldi europei valgono più della sua parola, rendendo i suoi veti meno credibili. In ogni caso i soldi non arriveranno subito: i 4 miliardi del Recovery e i circa 6,5 miliardi della coesione saranno sbloccati soltanto se il governo di Budapest attuerà una serie di misure correttive per il rispetto dello stato di diritto. Per l'Ue il guadagno è evidente: il leader più ostile del gruppo è stato politicamente sconfitto; gli aiuti all'Ucraina saranno sborsati con rapidità e verrà adottata la tassazione minima alle multinazionali, che è un risultato storico. La compattezza europea ha avuto la meglio, dimostrando ancora una volta che l'ostilità del singolo viene disinnescata nel momento in cui gli altri operano in sincrono. Una menzione speciale va alla Repubblica ceca, che ha la presidenza di turno dell'Ue e che è riuscita a isolare Orbán, nonostante il premier ceco Petr Fiala sia un conservatore e nonostante il legame privilegiato che ha sempre unito i paesi di Visegrád (legame ammaccato da quando Putin ha invaso l'Ucraina). Questo accordo toglie anche la premier italiana Giorgia Meloni dall'imbarazzo di dover scegliere pubblicamente in un voto al Consiglio tra Orbán e lo stato di diritto».

GRECIA, SOSPETTI DI RAZZISMO SULLA POLIZIA

In Grecia, da Atene e Salonicco esplode la protesta contro la polizia, dopo la morte del ragazzo rom colpito dagli agenti con una pallottola alla testa. Dimitri Deliolanes per il Manifesto.

«Si chiamava Kostas Frangoulis e aveva 16 anni. È morto ieri mattina in un ospedale di Salonicco con una pallottola nel cervello. Era ricoverato dal 5 dicembre ma fin dall'inizio i medici erano molto scettici sulle possibilità di recupero. Il vero problema del giovane Kostas era di essere rom. Per questo i poliziotti hanno decretato per lui la pena di morte per un furto di cui si è reso colpevole nella mattinata del 5 dicembre. In quella data Frangoulis era andato con il suo furgoncino agricolo a mettere carburante presso un benzinaio nei dintorni di Salonicco. Una volta versato nel serbatoio carburante per 20 euro, il giovane ha messo in moto ed è scappato senza pagare. Il benzinaio ha inveito contro di lui ma presto ha lasciato perdere. Per lui la storia era finita lì. Purtroppo alla scena hanno assistito quattro poliziotti del gruppo Dias che pattugliano in moto. Malgrado le sollecitazioni del benzinaio di lasciar perdere, i quattro sono montati sulle moto e hanno iniziato l'inseguimento del furgone. La corsa nei sobborghi della città è durata parecchi minuti, finché a un certo punto uno dei poliziotti ha tirato fuori la pistola d'ordinanza e si è messo a sparare verso il fuggitivo fino a quando una pallottola non ha attraversato il finestrino e si è conficcata nella parte posteriore della testa del guidatore. La cosa sarebbe stata taciuta se non la avessero resa nota gli uomini dell'ambulanza che hanno soccorso il giovane. È subito intervenuto il procuratore della repubblica che ha raccolto le testimonianze dei poliziotti, piene di lacune, contraddizioni e vere e proprie menzogne. Lo sparatore ha prima sostenuto che il furgoncino faceva manovre pericolose e aveva tentato di speronare le moto, versione crollata subito, quindi il poliziotto ha ammesso di aver sparato una volta per intimidazione ma la cattiva situazione del manto stradale avrebbe fatto deviare la pallottola. Quando è stata scoperta una seconda pallottola è diventato ovvio che almeno un poliziotto aveva sparato più volte decretando la pena di morte per un furto di 20 euro. Oppure, più verosimilmente, per odio razziale verso i rom. Fin dal primo momento i rom greci hanno interpretato l'uccisione del giovane come un esecuzione razzista. Pochi mesi prima ad Atene un altro giovane rom è stato ucciso dai poliziotti durante un inseguimento di una macchina rubata. Anche in quel caso i poliziotti hanno raccontato menzogne a tutto spiano, che avrebbero ricevuto colpi, che stavano per speronarli, tutte smentite sul momento. Anche in quel caso, si è trattato di un'esecuzione a sfondo razziale. Malgrado le durissime proteste dei rom in tutta la Grecia (l'autostrada Atene- Patrasso è rimasta bloccata per un giorno intero per le proteste della numerosa comunità della provincia di Corinto), alla fine l'indagine si è persa in qualche anfratto della giustizia e l'assassinio è rimasto impunito. Anche questa volta il ferimento, di fatto l'uccisione, vista la gravità della ferita in testa, di Frangoulis ha provocato la durissima risposta della comunità rom in Grecia. Per molti giorni tutte le città greche, perfino i centri più piccoli, hanno visto grandi manifestazioni di famiglie rom che protestavano. A Salonicco migliaia di rom e cittadini solidali hanno attraversato i viali centrali per molti giorni, mentre un tentativo della polizia di isolare la borgata in cui vivono è sfociato in una vera e propria rivolta che ha costretto gli agenti a ripiegare in fretta e a non farsi più vedere. Le manifestazioni più dure si sono svolte nei quartieri periferici di Atene, con barricate, incendi e violentissimi scontri con la polizia, proseguiti per molti giorni. Ad Atene ci sono state anche sparatorie tra polizia e manifestanti, qualcuno dei quali ha risposto ai colpi dei poliziotti con la doppietta caricata di cartucce. Un manifestante è morto in questa sparatoria. Negli ultimi giorni le acque si erano relativamente calmate anche grazie all'inusuale severità con cui il procuratore di Salonicco si sta comportando verso il poliziotto sceriffo, da ieri imputato di omicidio colposo. Secondo informazioni provenienti dalla procura di Salonicco, il suo arresto è questione di ore. In Grecia nessun poliziotto è stato mai in galera. Sono amorevolmente protetti non solo dall'attuale governo di destra ma anche dalla magistratura. Perfino il poliziotto fascista Korkoneas che ha sparato a sangue freddo e ha assassinato il 15enne Alexis Grigoropoulos nel 2008 a Exarchia, è stato sì condannato a 13 anni di prigione ma ora circola libero perché gli è stata concessa la sospensione della pena. Il severo procuratore di Salonicco rischia quindi non solo la carriera ma anche la vita. Malgrado fosse ampiamente prevedibile, l'annuncio della morte del giovane rom ha innescato nuove proteste. Già nel sobborgo di Atene Aspropyrgos i manifestanti hanno invaso le strade e bloccato le rotaie. A Salonicco si sono registrati scontri. In serata migliaia di giovani si sono riuniti davanti ai Propilei, al centro di Atene. Il governo ha ritenuto che fosse il momento giusto per far approvare in parlamento un bonus di 600 euro ai poliziotti e intanto ha messo in allarme tutte le forze dell'ordine e questo tradotto significa nuovi pestaggi, granate stordenti e altre barbarie».

CINA-INDIA, IL CONFINE SI INFIAMMA

Dopo due anni torna la tensione lungo il confine fra India e Cina. La cronaca è di Avvenire, a firma di Luca Miele.

«Torna a infiammarsi il confine indo-cinese. Le truppe di New Delhi e Pechino si sono scontrate sul conteso confine himalayano lungo 3.379 chilometri: è il primo episodio del genere tra le due potenze asiatiche dai violenti scontri del 2020 nella Galwan Valley del Ladakh che provocarono decine di morti, rompendo la pax al confine che durava dalla guerra del 1962. Il ministero della Difesa indiano ha dichiarato che i soldati di entrambe le parti hanno riportato ferite minori nello scontro, avvenuto venerdì nel settore di Tawang, nel territorio dell'Arunachal Pradesh, nel nord-est dell'India, una regione remota che confina con la Cina meridionale. Inevitabile lo scambio di accuse tra i due Paesi, entrambi potenze nucleari. Secondo New Delhi la Cina vuole «cambiare unilateralmente lo status quo» sul confine himalayano conteso. A sua volta, un portavoce dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese ha accusato l'esercito indiano di aver attraversato «illegalmente» il confine. «Esortiamo la parte indiana a controllare e frenare le truppe in prima linea e a collaborare con la Cina per mantenere la pace e la sicurezza al confine», ha aggiunto. I due Paesi affermano rivendicazioni contrastanti sul territorio dell'Himalaya orientale, amministrato dall'India come Stato dell'Arunachal Pradesh ma rivendicato dalla Cina come Tibet meridionale. L'area contesa ospita oltre un milione di persone e occupa un'area di circa 90mila chilometri quadrati. Tra i motivi di attrito più violenti tra India e Cina - nonostante le relazioni commerciali "galoppanti" tra i due Paesi: il valore del commercio tra India e Cina è cresciuto dell'83% tra il 2012 e il 2022 - c'è la questione della gestione delle risorse idriche. Il Brahmaputra è il più importante dei fiumi che attraversano il confine sino-indiano. Sia per l'India che per la Cina, il Brahmaputra è essenziale per il lo sviluppo socioeconomico. Il fiume rappresenta quasi il 30 percento delle risorse di acqua dolce dell'India e il 40 percento del suo potenziale idroelettrico totale. Per la Cina, il ruolo del Brahmaputra nell'approvvigionamento totale di acqua dolce è limitato, ma il fiume svolge un ruolo significativo nelle industrie agricole ed energetiche del Tibet. Come ricorda l'Ispi, «l'India e la Cina sono spesso viste come i due "giganti" asiatici, ma le differenze di sviluppo tra i due Paesi sono notevoli. Oggi il Pil cinese è circa 6 volte e mezzo più grande di quello indiano. Le sole esportazioni cinesi valgono quanto l'intero Pil dell'India. Anche in termini militari le differenze sono enormi: il budget per la difesa cinese è circa il triplo di quello indiano».

LA GIUNGLA PRE NATALIZIA DEL TRAFFICO

Anche la premier Giorgia Meloni ha avuto un ritardo di mezzora ieri in Parlamento, “causa traffico”. Le vacanze natalizie sono fatalmente precedute da giorni di follia urbana. Massimo Gramellini sul Corriere di oggi.

«Il medico aggredito con un'accetta nel parcheggio del Policlinico di San Donato Milanese si era permesso di protestare con lo sconosciuto che aveva tamponato la sua auto in sosta. Nelle nostre vite sorvegliate e blindate, gli incontri più pericolosi ormai si fanno al volante, una delle poche situazioni in cui ci capita ancora di incrociare degli estranei. E una categoria particolarmente insidiosa di estranei, benché sembri un paradosso, sono certi vicini di casa: l'assassino di Fidene che fa una strage in assemblea, quello di Chioggia che uccide un pensionato per un pestone involontario. Tra ingorghi e pianerottoli ciascuno di noi ha un'esperienza da raccontare, sebbene dall'esito meno drammatico. Tempo fa, un'auto mi ha tagliato platealmente la strada. Non ho nemmeno imprecato (avevo i bambini a bordo), mi sono limitato ad allargare le braccia e a ridere. L'automobilista ha inchiodato ed è sceso correndo verso la mia macchina con un bastone di ferro in mano, lasciandomi appena il tempo di imboccare una viuzza laterale. Poi si scopre che l'aggressore del medico era un pregiudicato, che lo stragista condominiale non aveva mai superato la morte del figlio. C'è sempre una ragione che tenta di spiegare tutto, dopo. Ma prima? In attesa di idee migliori, cercherò di attenermi al consiglio che la mamma di «Wonder» consegna al suo bambino: «Tra la ragione e la gentilezza scegli sempre la gentilezza». Anche se, talvolta, neppure quella riesce a spegnere la suscettibilità di un ego malato».

DUE NUOVI ROMANZI DI CORMAC MCCARTHY

Giulio Meotti sul Foglio racconta che lo scrittore americano Cormac McCarthy è uscito dal suo riserbo per parlare di due nuovi romanzi: The Passenger e Stella Maris.

«L'ultima intervista che concesse, nel 2007, fu nel salottino di Oprah Winfrey. Stavolta Cormac McCarthy, che Harold Bloom definì uno degli ultimi grandi della letteratura americana, che non parla mai con i giornali e non va ai cocktail, ne ha rilasciata un'altra al fisico Lawrence Krauss. Per parlare di scienza, la grande passione dell'autore de La strada e Non è un paese per vecchi e che domina i suoi due nuovi romanzi. "Saremo ancora qui fra centomila anni, ma abbiamo tutte le possibilità per autodistruggerci", dice McCarthy a Krauss. "Anche se la maggior parte delle persone non è interessata a niente". Se c'è un messaggio in The Passenger, il primo romanzo di McCarthy in sedici anni, è che le cose sono finite molto peggio di quanto pensiamo. "Quando l'inizio della notte universale sarà finalmente riconosciuto come irreversibile, anche il più freddo cinico sarà stupito dalla rapidità con cui ogni regola e restrizione che sostiene questo edificio scricchiolante viene abbandonata e ogni aberrazione abbracciata". In un'epoca in cui il filone dominante della letteratura è la borghesia laureata, trendy e progressista di Annie Ernaux, i racconti di McCarthy sono totalmente altro. Sempre da The Passenger : "Siamo un po' a pezzi. Ciò che ci minaccia non è la società giusta, ma quella in decomposizione. I veri guai non iniziano in una società finché la noia non è diventata la sua caratteristica generale. La noia guiderà anche le persone tranquille su strade che non avrebbero mai immaginato". Nella conversazione con Krauss, McCarthy consiglia di leggere Oswald Spengler ("Ha detto che ci rimarrà la scienza quando tutto il resto sarà finito"). The Passenger e Stella Maris seguono una coppia di fratelli ebrei, Bobby e Alicia Western, il cui padre era un fisico che ha lavorato con J. Robert Oppenheimer alla bomba atomica. Alicia è un genio della matematica che si suicida. C'è anche un figlio afflitto da difetti alla nascita e che nel romanzo si chiama "Talidomide", dal nome del farmaco che ha reso migliaia di bambini disabili alla fine degli anni 50 e 60 (fu inventato da ex scienziati nazisti). Ciò che tiene insieme i due romanzi di McCarthy è la sensazione che la scienza sia magnifica, come dice a Krauss, ma anche terribile. "Auschwitz e Hiroshima sono gli eventi gemelli che hanno suggellato per sempre il destino dell'occidente". Alicia afferma: "Il mondo non ha creato alcun essere vivente che non intenda distruggere". Se ne La strada il ragazzino, alla fine, porta con sé la luce del divino e la fiamma dell'umano (il mondo può essere riparato? C'è un disegno intelligente?), i nuovi romanzi danno una risposta decisamente austera e disillusa a entrambe le domande. In un mondo illuminato dal "sole malvagio" dell'invenzione nucleare, tutta la storia, pensa Bobby, non è altro che "una prova per la propria estinzione". E, quando il mondo finalmente si ucciderà, non rimarrà nulla: né la scienza, né Dio e nemmeno il Diavolo. Ma sebbene a Krauss McCarthy confermi di essere un "materialista", pur nutrendo qualche dubbio sulla vulgata atea dell'evoluzione, c'è un passaggio in Stella Maris in cui la terapeuta di Alicia le chiede: "Quale pensi sia l'unico dono indispensabile?". Alicia risponde: "La fede"».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 14 novembre:

Articoli di mercoledì 14 novembre

Share this post

Il Qatargate mette in crisi l'Europa

alessandrobanfi.substack.com
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing