Il rosso e il nero
Faccia a faccia tra le due leader, Meloni e Schlein, sulle riforme. Ma il dialogo parte in salita. A Mosca parata sotto tono per la Vittoria. Von der Leyen a Kiev. Qin a Berlino. Via al Giubileo 2025
Parte il confronto sulle riforme istituzionali fra Giorgia Meloni e i partiti d’opposizione. E parte in salita perché Partito democratico e 5 Stelle non sembrano accettare l’impostazione del governo, che mette l’accento sul bisogno di stabilità e governabilità. Ma non c’è una linea comune delle minoranze. Giuseppe Conte si dice favorevole alla creazione di una commissione ad hoc. Mentre il Terzo Polo, che pare abbia ritrovato una certa concordia interna, si schiera a favore del premierato, con la formula del “Sindaco d’Italia”, aprendo un dialogo importante con la premier. Ma esistono anche tensioni interne alla maggioranza. Ieri si è manifestato un certo nervosismo della Lega proprio sul tema del premierato, perché viene visto come una minaccia al disegno dell’autonomia. Al punto che Riccardo Molinari ha ricordato la convergenza programmatica del centro destra sul presidenzialismo, non su altro. In genere, manca quel clima di comune volontà di riforme e dialogo fra i partiti, che pure era emerso almeno all’inizio di altri tentativi di riforma istituzionale. Si è visto, questo sì, un confronto acceso tra il rosso (il colore della giacca di Elly Schlein) e il nero (quello del vestito di Giorgia Meloni) delle due leader, dove però l’esigenza identitaria di entrambe sembra oggi essere più forte della necessità di un dialogo e di un lavoro comune. A volte mostrare troppa determinazione, il pugno di ferro, nasconde fragilità. Non è che i problemi su cui trovare convergenze manchino ma a volte si tratterebbe di accantonare la propaganda. Anni di populismo digitale hanno creato una specie di complesso a tutta la classe politica, che risulta bloccata nell’arte somma: quella del compromesso.
Sulla scena internazionale la giornata di ieri ha visto tre capitali contrapposte a distanza. A Mosca la tradizionale parata della Vittoria è stata in tono minore: un solo carro armato della Seconda guerra mondiale è sfilato sulla piazza Rossa. Vladimir Putin ha pronunciato per la prima volta, nel suo discorso, la parola “guerra”, attribuendo però all’Occidente la responsabilità di essa. A Kiev l’ex ministra della Difesa tedesca Ursula von der Leyen è stata in visita per la quinta volta, dando credito all’iniziativa di Volodymyr Zelensky che ha voluto festeggiare l’Europa (ricorrenza in ricordo del discorso fondativo di Robert Schuman) invece che la vittoria del 1945. A Berlino è arrivato il ministro degli Esteri cinese Qin Gang, alla sua prima trasferta europea, nell’importante offensiva diplomatica di Pechino per arrivare ad un cessate-il-fuoco. Commenta oggi Lorenzo Lamperti sul Manifesto: “La sensazione è che Cina ed Europa stiano studiandosi a vicenda, per capire se e come si può essere in grado di trovare un punto d’incontro sulla questione ucraina”. C’è stato un altro reporter, Arman Soldin, un giovane della France Press, a cadere sotto le bombe, ucciso mentre era “embedded” con un reparto ucraino.
Sergio Mattarella ha celebrato al Quirinale il Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi (vedi Foto del Giorno). E ha pronunciato, nell’occasione, una frase che è destinata a far discutere quando ha detto che ci sono state «gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato, e per le quali avvertiamo ancora l’esigenza, pressante, di conoscere la piena verità». Allo stesso tempo ha sottolineato come si sia parlato poco «della reazione unanime del popolo italiano. Dei servitori dello Stato, che hanno posto a rischio la propria vita per combattere violenza ed eversione. Di chi, nelle fabbriche, nelle università, nei vari luoghi di lavoro, ha opposto un no, fermo e deciso, a chi voleva ribaltare le regole democratiche».
Continuano le proteste in tutta Italia degli studenti universitari fuori sede che sono colpiti dal caro affitti nelle grandi città. Dopo Ilaria, che aveva piazzato la sua tenda davanti al Politecnico di Milano, si sono moltiplicate le manifestazioni di questo tipo. Interessante l’approfondimento che propone oggi Il Sole 24 Ore sui fondi stanziati dal Pnrr proprio per i giovani e l’Università.
A proposito di fondi, ieri sono stati per la prima volta presentati i progetti per il prossimo giubileo del 2025 a Roma. Prevedono cantieri che dovrebbero aprire presto per realizzare un sotto via nella zona di via della Conciliazione e un parcheggio sotterraneo in piazza Risorgimento. Da oggi, fra l’altro, è aperto il sito con le prime informazioni per i pellegrini e gli appuntamenti già fissati. La Versione di oggi si conclude con un articolo di Daniele Mencarelli sulla forza della parola nella cura delle nevrosi contemporanee.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ieri mattina si è recato in via Caetani per rendere omaggio alle vittime del terrorismo, nel giorno dell’uccisione di Aldo Moro.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Derby delle leader sui quotidiani, dove rimbalzano i nomi della premier e della segretaria del Pd. Il Corriere della Sera avverte: Meloni-Schlein, l’intesa non c’è. Per La Repubblica qeulla del Pd è una opposizione massiccia: Meloni, il muro di Schlein. Per La Stampa è una gara: Riforme, sfida Meloni-Schlein. Per Libero (aiutato dai colori indossati ieri, vestito nero per Meloni, giacca rossa per Schlein): Donna di cuori e donna di picche. Per il Manifesto è una passerella: Carta da parata. Per il Domani è un bluff: Le riforme di Meloni non esistono. Ma riescono a dividere Pd e M5S. Il Messaggero vede: Riforme, le aperture e i veti. Il Fatto tematizza un primo voto in sede europea sulle munizioni pagate dal Recovery: Il Pd vota con la destra per fare armi col Pnrr. La Verità esalta una denuncia di alcune femministe: Uteri in affitto alla fiera di Milano. Avvenire pubblica una statistica sulle vocazioni sacerdotali: La Messa non è finita. Mentre si occupa di economia Il Giornale: «Colpire le famiglie ricche». Il Pd vuole l’eurostangata. Mentre Il Sole 24 Ore dà una buona notizia: Banche, in tre mesi boom di utili.
MELONI APRE IL DIALOGO SULLE RIFORME
La premier Giorgia Meloni chiede un confronto con tutte le forze politiche, sostenendo che serve stabilità. No del Pd e dei 5 Stelle al premierato, che invece piace al Terzo polo. Giuseppe Conte propone una Bicamerale. Marco Cremonesi e Paola di Caro per il Corriere.
«Su un punto sono d’accordo tutti: l’instabilità dei governi «è un problema». Ma sulle soluzioni, tra maggioranza e opposizione, una visione comune non c’è. Con l’eccezione dei centristi di Azione-Iv, praticamente tutti i leader dei partiti di opposizione che sono stati ricevuti alla Camera ieri hanno posto obiezioni anche pesanti, se non no secchi, alle ipotesi di elezione diretta del capo dello Stato o del presidente del Consiglio, che Meloni ha posto sul piatto. Da una parte la premier con i vice Tajani e Salvini, i ministri Casellati e Ciriani e i sottosegretari Mantovano e Fazzolari. Dall’altra, dalle 12.30 fino a oltre le otto di sera, sono sfilati i rappresentanti di tutti i partiti. A loro Meloni ha assicurato che suo interesse non è «accentrare poteri» o coartare i diritti delle opposizioni, ma ha anche avvertito: «È importante che ci sia una condivisione mi auguro più ampia possibile, ma non a costo di venire meno all’impegno con i cittadini». Insomma, le riforme si faranno, assicura Meloni. Partendo con ogni probabilità dall’«ipotesi che incontra minore opposizione, ovvero quella dell’elezione del premier, perché non siamo innamorati di un sistema o dell’altro, tra i tanti che possono essere presi a esempio, e possiamo immaginare anche un modello italiano». Anche se «l’opposizione è molto variegata su questi temi, mi aspettavo meno». E si faranno le riforme anche perché — ha spiegato — serve un premier eletto e stabile in un sistema connesso a quello dell’Autonomia, dove i presidenti di Regione sono eletti direttamente e per 5 anni. Come agire? C’è chi chiede una Bicamerale e chi no, Meloni apre solo «se non c’è intento dilatorio». Per Salvini: «Il nostro dovere è ascoltare tutti, poi decidere». La linea dei dem La leader del Pd parte dalle critiche: «Le riforme non sono la priorità del Paese». Tantomeno lo è l’ipotesi elezione diretta, del capo dello Stato come del premier, perché la massima figura di garanzia «non si tocca» e il sindaco d’Italia «non esiste da nessuna parte». «No all’uomo o donna solo, o sola, al comando», ma c’è un’apertura: «Disponibili a migliorare stabilità e rappresentanza, non ci sottrarremo al confronto». Con proposte come «sfiducia costruttiva e conflitto di interessi». Per il leader del M5S c’è «la consapevolezza che ci sono criticità» e che l’instabilità degli esecutivi è un problema, ma è secco il no a «premierato e presidenzialismo». Nessuna elezione diretta insomma, nessun indebolimento del Parlamento. L’ex premier invece si dice «disponibile a una commissione per le riforme». Meloni apre, anche se, ribatte, «c’è già la commissione Affari costituzionali». Si vedrà. Ma per Conte «non è venuta fuori una condivisione». Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova raccontano che la premier vuole «andare fino in fondo sul mandato ricevuto» ma a loro parere non ha le idee chiare su cosa. Lei propone, dice Magi, «un’elezione diretta di qualcuno», premier o capo dello Stato, quasi indifferentemente. Per quanto riguarda +Europa «l’ipotesi del Sindaco d’Italia è un follia se non una sciocchezza con l’elezione diretta e la sfiducia costruttiva, cose che non possono stare insieme e poi creerebbe un dualismo conflittuale tra Quirinale e premier» . La posizione più dura è di Verdi e Sinistra. «Abbiamo comunicato al presidente Meloni l’indisponibilità a sostenere le riforme sul presidenzialismo. Riteniamo che vada tutelata la figura del presidente della Repubblica e su questo faremo dura battaglia», dice Angelo Bonelli. Per essere ancora più chiari, Nicola Fratoianni aggiunge: «Abbiamo espresso la netta contrarietà al presidenzialismo, al semi-presidenzialismo, al premierato. Totale contrarietà anche all’ipotesi di una Bicamerale. Difficile oggi prevedere una collaborazione con la maggioranza. Tra i (più che) possibilisti va iscritto Carlo Calenda. Perché «ho trovato una premier in ascolto e pronta al dialogo». Del resto, il leader di Azione si spinge, di suo, già parecchio avanti: «C’è un tema grande che è l’efficienza del Parlamento, oggi viviamo in un monocameralismo di fatto: noi siamo a favore di una scelta monocamerale e di una distinzione fondamentale delle due Camere». In generale, prosegue, «siamo favorevoli all’indicazione del presidente del Consiglio sul modello del sindaco d’Italia». Quanto al capo dello Stato, lì Calenda traccia la «linea rossa assoluta. Che è la figura di garanzia di unità nazionale del presidente della Repubblica», da non toccare, sarebbe «un errore grave», è «l’unica istituzione che garantisce l’unità». Da Italia viva, Maria Elena Boschi sottolinea che «una riforma della forma di governo non può essere separata dal superamento del bicameralismo paritario». E concorda sul «sindaco d’Italia», il premierato. Ma attenzione. Se Calenda aveva accennato al «fare un punto» con le altre opposizioni, Boschi è tranciante: «Noi di Italia viva riteniamo che non ci sia la necessità di un coordinamento con le opposizioni, tantomeno con i 5 Stelle». Insomma: «La proposta di Calenda impegna Azione». Dell’invito alla collaborazione aveva parlato anche Riccardo Magi di +Europa. Si parla di elezione diretta del premier, ma non è un fatto acquisito. In mattinata il capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, ricordava che «nel programma del centrodestra c’era l’elezione diretta del presidente della Repubblica. È quindi su quello l’accordo che c’è». Se invece Meloni «vuole proporre altro, la Lega chiede garanzie per il ruolo del Parlamento». Già che c’è, il capo dei deputati leghisti ricorda quello che per la Lega non si può mai dimenticare: «L’autonomia differenziata ha già un suo calendario temporale: la legge di bilancio approvata a dicembre lascia un anno di tempo per l’approvazione dei Lep». Giusto ieri, si è insediato il comitato Cassese, quello che dovrà metter nero su bianco i Livelli essenziali di prestazione (Lep), chiave di volta delle future Autonomie regionali».
SCHLEIN-MELONI, DERBY FRA IL ROSSO E IL NERO
Il primo faccia a faccia tra le due donne leader della politica italiana. La cronaca di Avvenire.
«Il primo faccia a faccia tra le due donne leader della politica italiana. Si sono sedute l’una di fronte all’altra. Per la prima volta allo stesso tavolo. Per due ore. Hanno parlato guardandosi dritto negli occhi. Con sorrisi, ma tesi. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e la segretaria del Pd, Elly Schlein, sapevano che in ballo, oltre alle riforme, c’era di più. Anche una sfida fra personalità, stili, universi diversi. Schlein aveva avvertito: «Al confronto non ci si sottrae mai, ma che sia un confronto vero e largo e non già deciso perché vogliono andare avanti a prescindere». Meloni ha ribattuto: «Guardate, questa non è una riforma che stiamo facendo per noi stessi: se dovesse andare in porto, sarebbe per entrare in vigore nella prossima legislatura, forse». Schlein ha preso nota delle parole di Meloni, usando la biro nero fornita dalla Camera. Con sé aveva una cartellina con logo Pd, piena di fogli A4 carichi di appunti. E poi la fidata borraccia nera. «Il clima è stato franco, di discussione franca sul merito delle cose», ha poi raccontato. Come a dire: non era l’occasione dei salamelecchi. A riprova, la battuta (riferita) di Schlein quando ha bocciato le ipotesi di elezione diretta: «E allora perché no una monarchia illuminata?». Dopo si sono intrattenute un po’ a parlare, saluto con stretta di mano. Infine una battuta di Schlein: «La vedo troppo preoccupata sulla stabilità del suo governo, abbia fiducia della sua maggioranza». I temi della giornata erano le riforme, gli assetti istituzionali e la Costituzione, ma sulle righe della storia è finita anche qualche nota d’abbigliamento. Per Meloni, giacca in tweed scura con bordi bianchi, stile Chanel. Schlein in camicetta bianca e tailleur di un colore che ha diviso anche quelli che hanno confidenza con l’armocromista: c’è chi lo ha definito porpora, chi magenta, chi semplicemente rosso. Nella sfida di genere, il confronto della parità lo ha vinto il Pd, almeno in proporzione. È vero che al tavolo si sono sedute due donne da una parte e due donne dall’altra. Ma la delegazione dem era composta da quattro persone - la segretaria e la capogruppo alla Camera, Chiara Braga, insieme al capogruppo al Senato Francesco Boccia e al responsabile riforme Alessandro Alfieri - mentre la formazione del governo era grande il doppio: con la presidente del Consiglio e il ministro per le riforme Elisabetta Casellati c’erano i vicepremier Tajani e Salvini, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Ciriani, i sottosegretari alla Presidenza Mantovano e Fazzolari e il costituzionalista Francesco Saverio Marini. Ma alla biblioteca del presidente, a Montecitorio, non è andato in scena il primo faccia a faccia in assoluto: c’era il precedente di metà marzo in Aula alla Camera, quando la premier Meloni ha risposto a un’interrogazione di Schlein sul salario minimo, durante il question time».
RETROSCENA, SALVINI TEME PER L’AUTONOMIA
Nel retroscena di Tommaso Ciriaco per Repubblica, la giornata di incontri della premier con gli esponenti dell’opposizione. Il confronto più serrato è con Elly Schlein. Ma nella maggioranza c’è l’inquietudine di Matteo Salvini, che non vuole il premierato.
«L’incontro è finito. Hanno picchiato duro per un’ora. Nel gelo più totale. «Lei, Presidente….», «vede, onorevole… ». Adesso però Giorgia Meloni prende da parte Elly Schlein. Davanti agli altri temperatura artica, battute aspre. Nel faccia a faccia si passa al «tu». Venti minuti, forse anche di più. Colloquio fitto e segreto. Per dirsi che comunque il rispetto non deve mancare, che servirebbe restare nei binari del confronto. Ma anche per confermarsi che «le divergenze sono tante, tantissime». Insormontabili. Prima, se le sono date di santa ragione. Premierato forte, fortissimo, lascia intendere Giorgia Meloni. Sembrano quasi i pieni poteri. La presidente del Consiglio si appella continuamente al popolo, richiama il rispetto del «voto dei cittadini», invoca il «mandato popolare» per immaginare l’elezione diretta del capo dell’esecutivo. Solo così si arriverà a una «democrazia matura». Sono principi «ir-ri-nun-ci-a-bi-li». È in quel momento che Schlein si ferma, la guarda, sibila: «E allora, Presidente, perché non la monarchia illuminata?». E poi: «Diciamo no a una donna sola al comando». La leader incassa. Ripete dal primo pomeriggio una parola, soprattutto: «Stabilità». Così tanto, così tenacemente, che la segretaria dem tagliente: «Presidente, la vedo troppo preoccupata sulla stabilità del suo governo…». Gelo pubblico, dialogo privato: questo vale per Schlein. Con gli altri leader dell’opposizione il copione è diverso: premierato e battute, spaghetti con le telline e (sempre) pieni poteri. È la prima volta che Meloni da premier si confronta con l’arte della mediazione. Di solito alza i decibel nei comizi, come l’altro ieri ad Ancona. Il clima è disteso. Quando Antonio Tajani scherza con Angelo Bonelli da Ostia – «ci hai portato le ostriche?» – la presidente del Consiglio si mette in scia del leader verde e rilancia: «Va bene, Angelo, accettiamo anche gli spaghetti con le telline ». Però poi prende fiato e a tutti consiglia, caldamente consiglia di aggregarsi al percorso riformatore: «Signori, io comunque andrò avanti. Perché ho un mandato popolare». Prova a convincere le minoranze che è meglio restare al tavolo. Giura di non volerlo fare per costruire un meccanismo che le assicuri, appunto, pieni poteri: «Non lo faccio per me, lo lasceremo al prossimo governo. Penso al Paese». Ma appena qualcuno annuisce, rilancia: «E comunque, io andrò avanti, ho il dovere di dirvelo». Non raccoglie moltissimo, a ben guardare. Il sostegno del Terzo Polo sul premierato, e chissà se durerà. Potrà approvare una riforma a maggioranza, nello scenario migliore. Ma senza i due terzi del Parlamento. Significa referendum costituzionale, che preoccupa moltissimo Palazzo Chigi. Clima sostanzialmente disteso, si diceva. Lo è ancora di più con Carlo Calenda e Giuseppe Conte. A entrambi offre il «tu». Il leader di Azione – come parlasse per un attimo al posto di Matteo Renzi - prova a scherzare: «Se vuoi, possiamo darti consigli sugli errori da non commettere…». Pensa al referendum costituzionale che costò Palazzo Chigi all’ex sindaco di Firenze. «Volentieri, grazie… », replica, senza neanche simulare scongiuri. A un certo punto Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi di +Europa provano a chiederle: «Presidente, va bene quello che pensiamo noi, ma lei cosa ha in mente?». «Stabilità», ripete, mentre Tajani socchiude gli occhi stremato dalla maratona. «Ma guardi che anche Draghi era stabile, e pure popolare». «Però non era stato eletto – prende le distanze la leader – E poi tanto stabile non era, visto che è caduto». Sgambettato dagli alleati di destra, a dire il vero. Beve acqua liscia, prende appunti assieme ad Alfredo Mantovano. Fuma nella sala riservata. Poi parla alle telecamere. E Matteo Salvini? Lui tace, ostinatamente. Una sfinge. È furioso. Manda avanti i suoi. «Noi non siamo favorevoli alla bicamerale e neanche al premierato, l’intesa è sul presidenzialismo», si lascia sfuggire in Transatlantico Edoardo Rixi, salviniano di ferro. Sono gli stessi dubbi che esprime il capogruppo Riccardo Molinari: «L’accordo è sull’elezione diretta del Capo dello Stato. Se Meloni pensa al premier, vogliamo garanzie sul ruolo del Parlamento, che non può essere privato dei suoi poteri». Poche ore dopo, Meloni pretende una rettifica. La verità è che Salvini teme che parlare di premierato possa dilatare i tempi dell’autonomia, che pretenderebbe per le Europee del 2024. Due riforme, due interessi divergenti: può finire con uno scambio, oppure con la deflagrazione».
FERRARA: “NON C’È NESSUNA MINACCIA ALLA DEMOCRAZIA”
Il ciclo delle riforme costituzionali non minaccia la democrazia, ma semmai una Repubblica parlamentare che è sempre stata trasformista. E che ha fatto il suo tempo. Giuliano Ferrara sulla prima pagina del Foglio.
«Il conservatorismo costituzionale è una brutta bestia. Con il pretesto di salvare la democrazia dall’uomo solo al comando abbiamo nel tempo indebolito e poi liquidato alcune leadership importanti come Craxi, D’Alema, Berlusconi, Renzi, tutta gente di centro, di centrosinistra o schiettamente di sinistra. Napoleone III diceva alle élite del Secondo Impero: “Non abbiate paura del popolo, è più conservatore di voi”, e aveva in linea generale ragione. Diverse accozzaglie hanno impedito nei decenni di cambiare la forma di governo costituzionale, riformandola con monocameralismi premierati, ipotesi di elezione diretta dei presidenti, cancellierati e sfiducie costruttive, il loro slancio è sempre stato premiato dal voto conservatore delle maggioranze. A sorpresa l’unica riforma seria, ma incompleta, l’hanno fatta trasformisticamente i grillini (con ben due opposte maggioranze) e l’hanno fatta sotto vesti demagogiche, che sono il loro abito specifico originario: il taglio del numero dei parlamentari. Ora ci prova un governo di destra, e si avvia l’ennesimo dialogo istituzionale con sbocchi molto incerti. Tuttavia, per come si è snodata nel tempo la nostra storia repubblicana, anche il più cocciuto riformatore costituzionale, anche il più tenace avversario del conservatorismo istituzionale in purezza, dovrebbe ora farsi delle domande. E chi scrive se le fa senza complessi. Cambiano le circostanze, cambiano le opinioni, come hanno detto in molti (da ultimo Mario Draghi sulla scia di Lord Keynes). Dunque. Si ripete, è una filastrocca che copre tutte le politiche e tutte le culture o quasi, che abbiamo avuto la media di circa un governo l’anno per oltre settant’anni. Ma è sensato dedurne che siamo un paese instabile? Non direi. A pensarci bene, senza faziosità e senza malizia, è vero l’opposto. L’Italia è uno dei paesi più stabili del mondo. E la sua non è una stabilità pietrificata, è una stabilità trasformista. Dal varo della Costituzione del 1948 a oggi abbiamo integrato tutto, confessionalismi laicismi comunismi socialismi populismi e infine perfino postfascismi; abbiamo convissuto con il Vaticano nelle sue diverse incarnazioni, con i referendum di Pannella, con gli eredi di Stalin e Togliatti, con i gruppi azionisti e repubblicani, con i liberali di ogni conio, con i leghisti bossiani e poi salviniani nelle regioni e nello stato, con l’esplosivo fenomeno del berlusconismo che ci ha dato l’alternanza tra forze diverse alla guida del governo, compreso un presidente del Consiglio ex comunista, ma non le famose riforme istituzionali, con l’aggressione populista grillina, con i governi tecnocratici di emergenza e di unità nazionale, infine con un governo maggioritario guidato da eredi riformati della tradizione missina nella veste arbitrale di una giovane donna uscita dal nulla, da una minuscola gavetta con una minuscola classe dirigente che non sta facendo, un po’ di chiasso a parte, alcuno sfracello. La Repubblica parlamentare trasformista ha digerito la crisi letale dei partiti di massa e ideologici, aveva attraversato con lutti e misteri l’inferno degli anni Settanta e del terrorismo politico di sinistra e di destra. Aveva fronteggiato le conseguenze stragiste delle guerre di mafia sconfiggendo la cupola corleonese, ha ingurgitato e risputato faziosità e intolleranza, è passata dalla mela di Einaudi all’immenso delirio scespiriano di Cossiga, per finire, dopo l’azionista Ciampi e il comunista riformato Napolitano, con la compostezza assorbente e collante di Mattarella al secondo mandato. Abbiamo prodotto autorevolezza di fatto, che non se la tira, senza Grandeur, una politica estera e di difesa che celebra da un anno, con capi del governo diversi e quanto diversi, un generale consenso euroatlantico contro le ombre autocratiche che vengono da Russia e Cina. Abbiamo i problemi economici e sociali che hanno tutti, a partire dai nostri partner dell’Unione, e molti miliardi europei da spendere per tamponare alcuni derivati del nostro corporativismo e della nostra inerzia nella modernizzazione delle infrastrutture, ma ci confermiamo nel nostro posto storico di paese disordinato e coeso, capace di sviluppo e ripartizione della ricchezza sociale attraverso i servizi e il welfare e tassi a noi esclusivi di evasione o elusione fiscale, anche quella siamo stati capaci di integrare nel sistema del 110 per cento e dei bonus a sfare. Siamo parte della globalizzazione dei mercati e della sua parziale crisi di crescita, abbiamo trasformato i rischi fatali in occasioni insperate con una faccia tosta da eterni miracolati. La vera minaccia è stata l’aggressione della magistratura militante allo stato di diritto, ma anche quella minaccia è sulla via di un graduale rientro dalle spirali della demagogia anticorruzione e antimafia. Dato il contesto storico, per me inoppugnabile, direi che un nuovo ciclo di riforme costituzionali per cambiare il sistema trasformista all’italiana non minaccia la democrazia, che non corre pericoli sensibili e anzi si compie nell’antifascismo dei postfascisti liberali; minaccia semmai la inaudita e strana coesione trasformista di una società leopardianamente inesistente e priva di senso dell’onore (Magatti ieri nel Corriere): questa Italia qui, quella vera e stabile dei regimi e delle alternanze e delle accozzaglie del conservatorismo costituzionale, che purtroppo per i nostri pregiudizi liberaldemocratici di natura dogmatica, bisogna dire che funziona, o almeno che fin qui ha funzionato».
A MOSCA SFILATA IN TONO MINORE
Le notizie sulla guerra. Parata in tono minore sulla Piazza Rossa. La sfilata del Giorno della Vittoria guidata da un unico carro armato di 80 anni fa. Punti dice: “Il nostro futuro dipende dalla guerra”. Ursula Von der Leyen a Kiev dice: “Europa più vicina”. Giuseppe Agliastro per La Stampa.
«È un centro di Mosca blindatissimo quello che ieri mattina ha ospitato l'annuale parata militare sulla Piazza Rossa. Dappertutto polizia, strade transennate. Dei bandieroni rossi decorano le piazze principali, e sulle vetrine di negozi e ristoranti i manifesti con i soldati sovietici trionfanti e sorridenti e la scritta "Auguri per il Giorno della Vittoria!" si alternano a quelli che invitano ad arruolarsi nell'esercito russo di oggi: quello che ha invaso l'Ucraina scatenando una guerra che ha ucciso migliaia e migliaia di persone. Difficile pensare che sia un caso. La parata militare per celebrare la vittoria sovietica sulle truppe naziste è stata organizzata in tono minore quest'anno. Con una guerra in corso, forse Mosca non ha voluto (o potuto) sottrarre armi al fronte per il consueto sfoggio di potenza bellica a cui ci ha abituati negli ultimi anni. Ma a essere sempre di dimensioni mastodontiche è la propaganda di Putin, che ieri nel suo discorso alle truppe ha inneggiato «alla vittoria» e ha dichiarato che il conflitto in Ucraina è fondamentale per «il futuro» della Russia. «La civiltà si trova di nuovo in un momento decisivo e critico: una vera guerra è stata di nuovo lanciata contro la nostra patria», ha detto cercando ancora una volta di far apparire come una guerra difensiva l'aggressione armata che lui ha ordinato. E cercando ancora una volta di paragonare la guerra in Ucraina a quella dei soldati sovietici contro gli invasori nazisti. Con Putin, sul palco sotto le mura del Cremlino, c'erano anziani veterani e soldati che combattono in Ucraina, ma c'erano anche i leader di sette Paesi ex sovietici, tra cui Kazakhstan e Armenia. Davanti a loro hanno sfilato 8.000 soldati (3.000 in meno dell'anno scorso) e 51 mezzi militari (contro i 130 del 2022 e i 197 del 2021), ma niente carri armati moderni - solo un vecchio T34, un pezzo da museo della Seconda guerra mondiale - e niente aerei in volo. Negli ultimi tempi le autorità russe hanno denunciato diversi supposti incidenti ed esplosioni, e un presunto attacco con droni al Cremlino, e hanno cancellato per sicurezza le parate militari in oltre 20 città. La guerra intanto continua a martoriare l'Ucraina, che ieri ha accusato le truppe russe di un nuovo raid notturno e ha affermato di aver abbattuto «23 missili su 25», almeno 15 dei quali sarebbero stati lanciati contro Kiev. Diverse ore dopo, nel pomeriggio, un razzo ha ucciso un giornalista della France Presse: Arman Soldin, 32 anni, che si trovava con dei colleghi e con un gruppo di soldati ucraini a Chasiv Yar, nella zona di Bakhmut, dove ora si concentrano gli scontri più cruenti. «Tutta l'agenzia è devastata», ha dichiarato l'ad dell'Afp, Fabrice Fries, aggiungendo che la morte di Soldin «è un terribile richiamo sui rischi e i pericoli che i giornalisti devono affrontare ogni giorno coprendo il conflitto in Ucraina». Per tentare di giustificare l'attacco all'Ucraina, il leader del Cremlino ormai da tempo accusa ingiustamente di "neonazismo" il governo di Kiev. Una menzogna a cui qualcuno crede. «Oggi c'è di nuovo la liberazione dell'Europa dal nazismo come 80 anni fa: in tutto il mondo, partendo da Washington per finire con Kiev, chi sta al potere? Dei fascisti», dice un uomo sulla sessantina che passeggia nella zona di viale Tverskaya, dove a un certo punto spunta anche un quarantenne con un cappellino con la famigerata Z divenuta ormai il simbolo dell'invasione. Politicamente, nel mirino di Putin c'è anche l'Occidente. Soprattutto gli Usa, che ieri hanno promesso all'Ucraina nuove forniture militari per 1,2 miliardi di dollari per «rafforzare le difese aeree e sostenere il suo fabbisogno di munizioni». Nel suo breve intervento (circa dieci minuti), Putin si è scagliato contro quelle che definisce «le élite globaliste occidentali» accusandole di «provocare sanguinosi conflitti e colpi di Stato» e di minare «i valori tradizionali». Poi si è rivolto di nuovo ai soldati: «La sicurezza del Paese oggi dipende da voi, il futuro del nostro Stato e del nostro popolo dipende da voi».
PRIGOZHIN ATTACCA PUTIN
L’analisi di Anna Zafesova per La Stampa. Il vecchio tank sovietico doveva ricordare al popolo il trionfo nel 1945, ma i nuovi carri armati russi non funzionano o sono al fronte. Nuovo attacco dell’ex fedelissimo capo della Wagner Prigozhin, che dice: “E se scoprissimo che il nonno è uno stronzo?”.
«Il vecchio carro armato T-34-85, entrato solitario in piazza Rossa, è diventato subito il simbolo di questa parata di una vittoria sempre più lontana. Costruito negli Anni 50 in Cecoslovacchia, inviato alle forze armate del Laos, rimpatriato qualche anno fa insieme ai suoi compagni come cimelio storico da utilizzare nelle riprese cinematografiche: l'anziano tank è il simbolo di un impero sovietico sparito ormai trent'anni fa, un residuato rimaneggiato come la storia che viene chiamato a rappresentare, nel tentativo di identificare la «grande guerra patriottica» conclusa vittoriosamente dall'Armata Rossa 78 anni fa a Berlino con l'"operazione militare speciale" dell'invasione dell'Ucraina. Vladimir Putin dalla tribuna parla di una "guerra sacra", ma il tentativo di presentarla come il sequel della missione storica di Mosca è efficace quanto la sostituzione delle interminabili colonne corazzate con un carro d'epoca. La parata della Vittoria, il rituale più solenne del giorno più importante del calendario putinista, non è mai stata meno scintillante e più scoraggiata. Gli appassionati del genere non hanno potuto godersi il passaggio dei mezzi pesanti, uno dei momenti culminanti delle cerimonie dai tempi sovietici: i carri in dotazione all'esercito russo sono al fronte, insieme ai blindati, agli obici e a tutto il resto dell'arsenale russo, oppure bruciati e sventrati a centinaia nei campi ucraini. Sfoggiare sotto le mura dell'antica fortezza degli zar una potenza da mostrare alle telecamere sarebbe stato un stridente contrasto con la sempre più evidente scarsità dei mezzi della "operazione militare speciale". Sono settimane che i social russi sono pieni di filmati e foto di carri armati caricati sui treni diretti in Ucraina, spesso vecchi arnesi tirati fuori dagli hangar dove erano stati parcheggiati in pensione. Mostrare in queste circostanze il T-14 Armata, che negli anni scorsi ha sfilato seppure con notevole apprensione per eventuali guasti, ma non è mai stato prodotto in serie, sarebbe stato di cattivo gusto e qualcuno al Cremlino se ne è reso conto. Se il T-34 è il simbolo di una ricostruzione storica artificiale, il T-14 è un villaggio Potiomkin sui cingolati, un monumento di 55 tonnellate alle bugie e alle ruberie di un regime. E i giganteschi missili nucleari Yars, l'unica arma pesante a sfilare in piazza Rossa, sono la rappresentazione dell'ultima risorsa strategica del Cremlino, invocata ormai quotidianamente dalla propaganda che minaccia un'apocalisse finale perché la Russia non è stata in grado di vincere una guerra convenzionale nemmeno nel Donbass. Una parata davvero simbolica, nei mezzi scarsi, nella paura dei droni ucraini che ha spinto a cancellare il passaggio dei caccia sopra la piazza Rossa (e a cancellare del tutto le sfilate militari in 24 città russe per timore di attacchi o manifestazioni di protesta), nell'imbarazzo dei leader dei Paesi postsovietici costretti all'ultimo momento a volare a Mosca per non lasciare solo Putin, a quanto pare da una gentile richiesta di Pechino. Nelle parole del discorso del presidente (e nei pettegolezzi su quanto sia davvero il presidente e non uno dei suoi sosia), un remix delle sue abituali accuse all'Occidente che vorrebbe togliere alla Russia la gloria, la potenza, e i valori tradizionali della famiglia. Nella decisione di non invitare in piazza Rossa gli ambasciatori di Usa e Regno Unito, gli "anglosassoni" ormai ufficialmente nemici, cancellando il ricordo degli Alleati che perfino i leader comunisti sovietici non riuscivano a censurare. La Seconda guerra mondiale ormai è solo russa, è della Russia contro tutti, «di nuovo», dice Putin mischiando il Terzo Reich e la Nato, gli aggressori e gli aggrediti, i liberatori e gli oppressori, in una ricostruzione storica surreale che non propone ai russi nessuna idea, nessun obiettivo, nessun significato della guerra odierna, che di conseguenza risulta priva anche di un termine, e di una "vittoria". Per il capo del Cremlino una guerra senza fine diventa anche l'unica possibilità di restare al potere, ma proprio ieri il suo diritto al trono è stato messo in discussione dal suo ormai ex fedelissimo Evgeny Prigozhin. Il capo dei Wagner non solo ha registrato un video molto polemico contro i militari russi che «stanno scappando dal fronte di Bakhmut», ma ha anche per la prima volta esteso le sue violente critiche ai generali russi anche al Cremlino. Prigozhin ha menzionato un «nonno felice che crede di essere contento». Il "nonno" nel gergo politico dei russi è Putin, non tanto per la sua età di 70 anni quanto per l'ossessione nostalgica unita a un distacco sempre maggiore dalla realtà. Ma nessuno dei putiniani ha finora osato pronunciarlo in pubblico, e chiedere con tono beffardo «come vincere la guerra se un giorno, per puro caso, dico tanto per dire, si scoprisse che il nonno è uno stronzo irrecuperabile?».
LA PARATA DI URSULA A KIEV
L’ex ministra della Difesa tedesca Ursula Von der Leyen va a Kiev per la quinta volta. E apre all’adesione del Paese alla Ue. «L’Ucraina sta lavorando instancabilmente ai passi necessari per il negoziato». Beda Romano per Il Sole 24 Ore.
«Nel giorno in cui a Mosca il presidente russo Vladimir Putin accusava l’Occidente di aver lanciato una guerra «contro la nostra patria», la presidente della Commissione europea si è recata a Kiev, per la quinta volta dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Nella capitale ucraina, segnata dall’urlo delle sirene antiaeree, Ursula von der Leyen ha aperto la porta a un prossimo negoziato in vista di una adesione del Paese all’Unione europea. La scelta finale spetterà ai Ventisette. In una conferenza stampa ieri a Kiev, l’ex ministra della Difesa tedesca ha ricordato che Bruxelles «ha definito chiaramente i sette passi che l’Ucraina deve compiere prima di poter raccomandare agli Stati membri di avviare i negoziati di adesione». Secondo la signora von der Leyen, «l’Ucraina sta lavorando instancabilmente e intensamente a questi sette passi». Ha poi aggiunto: «Desidero esprimere il mio profondo rispetto per il lavoro eccezionale» compiuto dal Paese. Gli impegni da completare prevedono tra le altre cose una riforma della giustizia, e misure di lotta alla corruzione (si veda Il Sole 24 Ore del 18 giugno 2022). Ieri, la presidente della Commissione europea ha quindi concluso: «In un Paese attaccato in modo insensato, alcuni potrebbero pensare che sia impossibile, improbabile o troppo lontano parlare di un’Ucraina libera e pacifica nell’Unione europea. Ma l’Europa rende possibile l’impossibile. E lo stesso vale per l’Ucraina». Intanto, i Ventisette stanno discutendo un nuovo pacchetto di misure contro Mosca. La signora von der Leyen ha confermato che si tratta di combattere forme di aggiramento delle sanzioni. Le proposte comunitarie prevedono sanzioni contro persone e società. La lista contiene un centinaio di nomi, soprattutto di aziende russe. Inoltre, la Commissione prevede ulteriori misure economiche, in particolare contro imprese di Paesi terzi accusate di aiutare lo sforzo bellico russo. Prese di mira sarebbero anche società cinesi. Pechino ha preannunciato ritorsioni. Sulla questione relativa alla lotta contro l’elusione delle sanzioni comunitarie, la Commissione europea ha proposto inoltre di creare uno strumento giuridico che permetterebbe all’Unione di adottare eventualmente controlli all’export nei confronti di un Paese terzo, se vi sono indicazioni che questo riesporta verso la Russia materiale europeo che poi viene utilizzato nella guerra contro l’Ucraina. Mai prima di oggi i Ventisette avevano percorso questa strada. La visita della presidente von der Leyen a Kiev, la quinta da quando è scoppiata la guerra, è giunta questa volta in una data molto particolare. Ieri si celebrava la Giornata dell’Europa, ma anche la fine della Seconda guerra mondiale per l’Unione Sovietica. Il messaggio dell’ex ministra della Difesa tedesca è stato quindi doppio, rivolto sia all’Ucraina che ambisce ad entrare nell’Unione, sia alla Russia che ha violato la sovranità del Paese vicino. La decisione se aprire negoziati di adesione sarà presa dai Ventisette, probabilmente a fine anno. Mentre i Paesi dell’Est sono molto favorevoli, quelli dell’Ovest sono più guardinghi. Bruxelles farà due analisi della situazione, a giugno e poi in ottobre. Ieri il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha esortato l’Unione europea ad aprire le porte al suo Paese: «È giunto il momento di eliminare questa artificiale incertezza politica nelle relazioni dell’Ucraina con la Ue». L’aggettivo «artificiale» è significativo. Nei fatti, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, i legami del Paese con il blocco comunitario si sono molto rafforzati. Non solo l’Ucraina può esportare verso la Ue senza versare dazi, ma la sua rete elettrica è collegata a quella comunitaria e Kiev partecipa a numerosi tavoli regionali; per non parlare degli aiuti miliardari che il Paese ha ottenuto in questi mesi da Bruxelles. I vincoli ormai sono sui due lati del confine».
REPORTER FRANCESE UCCISO DALLE BOMBE
Un altro reporter ucciso nei bombardamenti: si tratta di un giovane della France Press, che aveva iniziato la sua carriera a Roma. Marta Serafini sul Corriere.
«Niente per lui era banale». Sono distrutti i colleghi dell’ Afp di Roma. La notizia che il loro collega, il collega di tutti noi Arman Soldin è stato ucciso a Chasiv Yar, nell’Est dell’Ucraina a 10 chilometri da Bakhmut è appena arrivata. «Era proprio in Italia che Arman aveva mosso i suoi primi passi. Era stato preso per uno stage nel 2015», raccontano chiedendo di rispettare il silenzio. La crisi dei migranti, le manifestazioni degli estremisti di destra di Casa Pound. Ma anche le passeggiate nella «sua» Roma. Poi il passaggio alla sede di Londra e la tanto agognata tessera da giornalista, arrivata nel 2016, con la fototessera scattata anni prima. Avanti veloce fino all’anno scorso quando Arman viene scelto per il team in partenza per l’Ucraina fin dall’inizio del conflitto. Racconta dei bombardamenti, delle operazioni militari, sempre in prima linea. Attento a quello che accade sul campo ma anche alla vita dei civili. In trincea trova anche il tempo per salvare un riccio rimasto intrappolato nel fango, in uno degli ultimi servizi le sue immagini mostrano la sofferenza dei soldati ucraini feriti e portati in uno dei centri di stabilizzazione vicino al fronte. Quando arriva in Ucraina, Arman ha poco più di 30 anni, ma è esperto, sa come si lavora, quali sono le protezioni da indossare e cosa fare in caso di emergenza. Da settembre si era stabilito in pianta stabile in Ucraina ed era diventato coordinatore del team televisivo. Si spostava in continuazione tra Est e Sud del Paese e, come tanti reporter della sua generazione, in questo conflitto si era trovato a raccontare di una guerra in cui mai si sarebbe sognato di ritrovarsi, fatta di trincea, filo spinato e fango, come nei racconti sul primo conflitto mondiale. Ma la guerra evidentemente era scritta nel suo destino fin dall’inizio, dato che è a Sarajevo che Arman nasce l’anno prima dell’inzio dell’assedio, nel 1991. Tracce del passato, anche nei libri e nelle immagini che postava su Instagram. «Sono oggi qui al sole a Roma a leggere Le Jardinier de Sarajevo (Le Marlboro di Sarajevo)», scriveva citando Miljenko Jergovic. Fino a ieri pomeriggio verso le 16:30 ora locale, quando un Grad lo ha preso in pieno a Chasiv Yar, uno dei punti più caldi della maledetta battaglia di Bakhmut, quella che chiunque sia stato sul campo in questi mesi in Ucraina ha dovuto raccontare con la paura di finire nel «tritacarne». A restare illesi sono gli altri suoi quattro colleghi mentre sempre da Parigi fanno sapere che «il team era scortato dai soldati ucraini come previsto dalle procedure per i giornalisti che lavorano embedded con le forze armate ucraine». «L’intera agenzia è devastata dalla perdita di Arman», spiega il presidente di France Presse Fabrice Fries. «La sua morte ci mette in guardia dai rischi e dai pericoli che corrono i giornalisti che stanno coprendo la guerra in Ucraina». «Il lavoro di Arman inglobava tutto quello che ci rende fieri dei nostri giornalisti in Ucraina» ha detto il direttore del notiziario Afp Phil Chetwynd in un comunicato. «Era un giornalista pieno di energia, coraggioso ed entusiasta, pronto sempre a lavorare nei posti e nelle situazioni più difficili» ha aggiunto il direttore della Afp Europa Christine Buhagiar. Arman, 32 anni, con il sorriso gentile. Sono in tutto 11 i giornalisti uccisi nel corso della guerra, secondo Reporters sans Frontières e il Comitato per la protezione dei giornalisti. Tra loro anche Bogdan Bitik, collaboratore del collega di Repubblica Corrado Zunino, ucciso nella regione di Kherson il 26 aprile scorso».
LA DIPLOMAZIA CINESE RIPARTE DA BERLINO
Mentre Von der Leyen va a Kiev, c’è la prima trasferta europea del ministro degli esteri cinese Qin Gang. Non a caso l’offensiva diplomatica cinese inizia dalla Germania. Quanto spazio c’è per arrivare ad un cessate-il-fuoco? Lorenzo Lamperti per il Manifesto.
«La Cina tesse la tela, anche se l’Europa dà qualche segnale di volerla disfare. Due mesi e mezzo dopo il "grand tour" di Wang Yi, il capo della diplomazia del Partito comunista cinese, questa settimana il protagonista è Qin Gang, alla sua prima trasferta europea da ministro degli Esteri. L’accoglienza per lui non è stata delle migliori, visto che l’Ue è in procinto di proporre sanzioni contro 8 aziende cinesi che avrebbero in qualche modo supportato la Russia durante la guerra in Ucraina. Sarebbe la prima volta. Il governo e i media di Pechino hanno espresso la loro opposizione per qualsiasi azione che usi le relazioni sinorusse come «pretesto per danneggiare la cooperazione commerciale». Per la Cina, un totale «accordo sulla crisi in Ucraina non dovrebbe essere un prerequisito per le relazioni con l’Ue». Le paventate ritorsioni di Pechino in risposta alle sanzioni rischierebbero di interrompere il processo di dialogo riavviato negli ultimi mesi, quando una serie di leader europei si è presentata da Xi Jinping. A partire da Olaf Scholz. Non è un caso che il viaggio di Qin sia cominciato proprio dalla Germania, dove ha incontrato ieri l’omologa Annalena Baerbock. La ministra tedesca ha chiesto alla Cina di scegliere da che parte stare: «La neutralità si riduce a schierarsi con l’aggressore», ha dichiarato. Richiesta respinta da Qin, che la ritiene controproducente: «La questione ucraina è molto complessa e la semplificazione e l’emozionalizzazione non servono: l’unica via d’uscita è rimanere calmi e razionali per creare le condizioni per una soluzione politica». Eppure, diversi segnali lasciano intendere che tra Europa e Stati Uniti stia crescendo la voglia di un congelamento del conflitto su condizioni favorevoli a Kiev, dopo l’attesa controffensiva. E non si esclude più il coinvolgimento della Cina al tavolo negoziale. Non lo fa da tempo, anzi lo auspica, Emmanuel Macron. Ora non chiude più nemmeno Antony Blinken, che è in attesa di riprogrammare il viaggio in Cina. Maggiori speranze dopo l’incontro tra Qin e l’ambasciatore americano a Pechino, Nicholas Burns, nel quale il diplomatico cinese ha definito «imperativo» stabilizzare le relazioni. La sensazione è che Cina ed Europa stiano studiandosi a vicenda, per capire se e come si può essere in grado di trovare un punto d’incontro sulla questione ucraina. Anche se gli entusiasmi per la telefonata tra Xi e Zelensky hanno lasciato posto alla consapevolezza che Pechino non ha interesse a mollare Mosca. Nel frattempo, la Cina cerca di convincere i Paesi europei che non conviene inasprire i rapporti. Qin ha provato anche a spegnere la polemica per il rinvio della visita del ministro delle Finanze Christian Lindner, richiesto in extremis per «altri impegni» dell’omologo cinese. Il partito di Lindner (Fdp) è la componente più scettica della coalizione tedesca sui rapporti con Pechino. E di recente la sua ministra della Ricerca Bettina Stark-Watzinger è stata a Taiwan. Le altre tappe di Qin sono Francia e Norvegia, porta d’accesso all’Artico. Anche il vicepresidente Han Zheng è in Europa: si è spostato dal Regno unito al Portogallo e andrà poi nei Paesi bassi. A complicare una vera distensione c’è però anche il nuovo scontro fra Cina e Canada. Ottawa ha espulso il diplomatico cinese Zhao Wei, accusato di intimidazioni verso un parlamentare canadese. Pechino ha risposto espellendo Jennifer Lynn, console a Shanghai. Se ne parlerà al G7 di Hiroshima, che si sovrapporrà in parte al primo summit fisico tra Xi e i 5 presidenti delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. A Xi’an non ci sarà Vladimir Putin».
IL PNRR PER I GIOVANI
I dati del Consiglio nazionale Giovani sull’attuazione del Pnrr. Entro dicembre va speso il 28% delle risorse del quinquennio, in ritardo nel primo trimestre il piano per estendere il tempo pieno e le mense. A rischio il progetto per 264mila nuovi posti negli asili nido. Il punto di Giorgio Pogliotti per Il Sole 24 Ore.
«Il 2023 è l’anno cruciale per la messa a terra degli interventi destinati ai giovani dal Pnrr: vanno realizzate misure per 1,6 miliardi - a fronte degli 1,2 miliardi spesi lo scorso anno - che corrispondono al 28% delle risorse programmate nell’arco temporale 2021-2026 per le nuove generazioni. Ma già emergono i primi motivi di apprensione: è in ritardo il piano di estensione del tempo pieno e mense - nel primo trimestre è scaduta l’aggiudicazione degli appalti - mentre il governo ha acceso i fari sui rischi legati al completamento del piano asili nido e scuole materne (la prossima scadenza è fissata nel secondo trimestre dell’anno). Questo è il quadro che emerge dal monitoraggio effettuato dal Consiglio nazionale dei giovani sullo stato d’attuazione nel 2023 del Pnrr che destina complessivamente il 4,98% dello stanziamento complessivo ai giovani, cioè 9,5 miliardi di euro. In attesa che la Commissione Ue comunichi lo sblocco della terza rata da 19 miliardi legata agli obiettivi del secondo semestre 2022 del Pnrr, con lo sguardo rivolto al 2023 sono tre le milestone per i giovani: anzitutto con 960 milioni si finanzia il Piano di estensione del tempo pieno e mense, ma la scadenza del primo trimestre non è stata centrata, e l’aggiudicazione degli appalti è stata riprogrammata dallo scorso marzo al prossimo settembre. Inoltre con 4,6 miliardi concessi dal Pnrr a fondo perduto si finanzia il Piano per 2.190 tra asili nido e scuole materne e servizi di educazione e cura per la prima infanzia: va avviata entro il secondo trimestre l’aggiudicazione dei contratti per la costruzione, la riqualificazione e la messa in sicurezza di asili nido, scuole dell’infanzia e servizi di educazione e cura della prima infanzia. Questo obiettivo rientra tra i 27 da centrare entro il 30 giugno, e tra i target che sono stati annunciati oggetto di confronto con la Commissione Europea. «L’investimento ha un target conclusivo al quarto trimestre 2025, per il quale si auspica non vi siano slittamenti - evidenzia il Cng - con l’intenzione di creare 264.480 nuovi posti per servizi di educazione e cura per la prima infanzia, nella fascia 0-6 anni». L’obiettivo del piano non riguarda solo la costruzione, ma anche la riqualificazione degli spazi per adibirli ad asili nido e potenziare così il servizio educativo locale. La milestone di giugno è sotto osservazione del ministro Raffaele Fitto, che ha la delega al Piano. Il governo è consapevole che non tutti gli enti locali riusciranno a centrare l’obiettivo concordato con la commissione Ue di aggiudicare tutti i lavori entro giugno. Tra le opzioni sul tavolo, in previsione del negoziato con Bruxelles c’è la richiesta di un rinvio del termine (probabilmente a fine settembre), o una riduzione del numero degli interventi. Come terzo intervento del 2023, sono a disposizione 60 milioni per il servizio civile digitale: la scadenza è al II trimestre per l’approvazione del secondo bando per la raccolta dei progetti (l’approvazione del primo bando è avvenuta puntuale a giugno 2022). Sempre quest’anno sono in scadenza nel quarto trimestre due investimenti per i giovani: con 650 milioni a fondo perduto si finanzia il servizio civile universale, con l’obiettivo di aumentare il numero di giovani tra i 18 e i 28 anni che accedono ad un percorso di apprendimento del Scu con l’obiettivo a dicembre 2023 di arrivare a 170 mila partecipanti complessivi nell’arco del triennio 2021-2023. È un target, che secondo il Cng non presenta particolari criticità, contando che le organizzazioni di servizio civile hanno potenziato recentemente la presentazione di programmi e progetti per un numero di posti compreso tra 60mila e 70mila. Poi con 500 milioni a fondo perduto si sostiene l’assegnazione di borse di studio per l’accesso all’università per passare da 256mila ad almeno 300mila studenti, dunque ampliando il numero di studenti beneficiari attuali di circa 40mila e aumentando di 700 euro in media l’importo della borsa (arrivando ad un valore di circa 4mila euro per studente). Il 30% di queste risorse sarà destinato alle regioni del Mezzogiorno. Si offre l’opportunità di ridurre il divario tra la percentuale di studenti con una borsa di studio in Italia (pari al 12%) e la media Ue (circa il 25%). «I giovani in Italia sono sempre di meno e soprattutto contano sempre di meno - commenta Maria Cristina Pisani, presidente del Consiglio nazionale dei giovani- anche se studiano hanno difficoltà a trovare un lavoro che garantisca loro pienamente autonomia, non hanno fiducia nelle istituzioni, sono più soli, fragili dei loro genitori e vivono un malessere anche psicologico sempre maggiore. Non possiamo e non dobbiamo permetterci assolutamente di farci scappare alcuna scadenza del Pnrr. Ancora di più quest’anno, un 2023 cruciale per la caduta a terra degli interventi pari al 28% di tutte le risorse indirizzate ai giovani programmate dal 2021 al 2026. Rispettare le tappe è una promessa intergenerazionale e un’enorme responsabilità, dato che gli investimenti per il rilancio della nostra economia ricadranno in gran parte sulle spalle della presente e futura generazione».
STUDENTI, LA PROTESTA DELLE TENDE
Caro affitti per gli universitari: tende e proteste in tutta Italia. Dopo quella di Ilaria a Milano davanti al Politecnico mobilitazione negli atenei italiani. Diana Romersi e Valentina Santarpia per il Corriere.
«In principio fu Ilaria: la studentessa del Politecnico di Milano che ha piantato la tenda davanti all’ateneo per «accendere una luce sul problema del caro affitti» ha scatenato un effetto valanga. Da Milano a Roma, e poi passando per Firenze, Bologna, Pavia, Cagliari, Torino, Bari: «Sono una decina le città dove gli studenti si stanno attivando per piantare le tende, una protesta per allertare l’attenzione delle istituzioni sulle difficoltà dei fuorisede — spiega Niccolò Piras, responsabile organizzativo dell’Unione degli universitari (Udu) —. Sono 700 mila in Italia, mentre i posti letto censiti solo 40 mila. Assurdo». Ma quanti avrebbero bisogno di un alloggio perché non sono in grado di pagarselo? È difficile risalire alla cifra esatta, perché le graduatorie sono gestite dagli enti regionali per il diritto allo studio. Ma certo è che tutte le grandi città, per motivi diversi, soffrono della stessa piaga. In quelle a trazione commerciale come Milano, il segmento studentesco è solo uno dei tanti che affitta, insieme a un buon numero di lavoratori che gli fa concorrenza, facendo salire i prezzi. Nelle città più piccole come Perugia, Modena, Ferrara, c’è bassa disponibilità di alloggi. In quelle d’arte come Roma e Firenze i B&B «drogano il mercato». Il risultato è sempre lo stesso: «I prezzi insostenibili», come racconta Mirko Giuggiolini, 19 anni, al I anno di Giurisprudenza alla Sapienza. Mirko, che viene da Ronciglione (50 km da Roma), ha provato a fare il pendolare: «Con il pullman Cotral arrivo fino a Saxa Rubra, poi il treno fino al Flaminio e la metro. Mi sveglio alle 5 per andare a lezione alle 8. Sto cercando casa, ma va malissimo: ho provato a Torpignattara o Casal Bertone, ma sono quartieri mal collegati. Ho visto una casa con 9 camere in poco più di 100 mq vicino alla metro B, 600 euro a stanza spese escluse, due bagni. Come si fa?». Per questo Mirko ha deciso di dormire in tenda, ed è lì che è tornato ieri dopo aver preso 30 e lode in diritto pubblico. Elettra Luna Lucassen, 21 anni, al terzo anno in Scienze dell’educazione alla Sapienza, una «casa» ce l’ha: in zona Re di Roma, una stanza in un appartamento con altre 4 persone, dove paga 400 euro più le spese. «Sono stata tre mesi a cercare — racconta — ma nei quartieri limitrofi all’università non ho mai trovato a meno di 550 euro. Ho cercato di evitare l’affitto in nero, terrorizzata dall’esperienza dei miei amici: c’è chi senza contratto è stato cacciato con il preavviso di sole due ore». Una giungla che le istituzioni conoscono: «Che il problema affitti ci sia è indubbio ma siamo al lavoro con il ministro dell’Università Anna Maria Bernini, abbiamo già realizzato 8 mila nuovi posti — spiega il presidente della Conferenza dei rettori (Crui), Salvatore Cuzzocrea —. La soluzione è riconvertire edifici per dare subito alloggi a prezzi più bassi agli studenti nelle residenze». I posti di cui parla la Crui sono la prima tranche degli alloggi previsti dal Pnrr: ma l’obiettivo fissato è 60 mila posti letto entro il 2026. Ne mancano 52 mila, il ministero sta lavorando su due fronti: ha istituito il gruppo di lavoro per fissare prezzi calmierati, e ha dato mandato di aprire una manifestazione di interesse a vari enti pubblici per sapere quali sono gli immobili pubblici non utilizzati dove realizzare nuovi studentati. Basterà? Il sindacato Udu resta perplesso: «Bisogna uscire dalla logica dell’eccezionalità — dice Piras — mettere 50 milioni nel fondo affitti statale, fissare un tetto agli aumenti, e cambiare la politica fiscale sulla casa».
PARLA PICHETTO FRATIN: “PNRR, CI VUOLE REALISMO”
Fabrizio Goria intervista sulla Stampa Gilberto Pichetto Fratin, Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica. Che dice: “Sul Pnrr meglio spostare alcuni progetti ai fondi di sviluppo e coesione: adesso si può rinunciare a qualcosa, l'occasione è storica e bisogna avere più razionalità”.
«Serve più realismo nel portare sulla terra il Pnrr. Gilberto Pichetto Fratin lo dice con garbo, aprendo di fatto alla necessità di lasciare fuori qualcosa dal tavolo rispetto al carro del NextGenerationEu troppo caricato dall'Italia. «C'è bisogno di più razionalità», concede il ministro per l'Ambiente e la sicurezza energetica, e ammette di essere disposto a rinunciare a qualcosa mentre risponde alle domande rivoltegli dal vicedirettore de La Stampa, Marco Zatterin, e da quello dell'Huffington Post, Alessandro De Angelis, durante la piattaforma streaming di dialogo promossa da Pwc Italia sul tema "Italia 2022: Persone, Lavoro, Impresa". Lo crucciano soprattutto i piccoli comuni e un riorientamento dei fondi europeo gli pare necessario. «È meglio spostare qualche progetto verso i fondi di sviluppo e coesione», afferma. Aiuterebbe lo sviluppo del Paese e il cammino verso la sostenibilità dell'economia.
Ministro, siamo di fronte a un cambio di paradigma. Uno sviluppo verde non solo orientato al profitto, insomma. Come siamo messi in Europa?
«È in corso una rivoluzione. Molto forte. Legata a diversi cambiamenti, spinti dal Covid-19 e da una guerra a due passi da noi. C'è un cambio completo di quelli che erano i rapporti fino a due o tre anni fa. Parlare di sostenibilità non era all'ordine del giorno. Oggi la sostenibilità è il tema liquido. Sia per quanto riguarda la percezione finale del consumatore. Sia per l'evoluzione tecnologica. Il percepire "green" è un cambiamento di pelle probabilmente figlio del Covid e dell'essere stati rinchiusi per un certo periodo di tempo».
Lei pensa che possiamo arrivare al 2050 senza affanno?
«Sono ottimista. Specialmente sull'accelerazione che possiamo avere noi. Siamo un Paese che ha una certa genialità. La quale, ogni tanto, porta a un certo tipo di imprese e consumatori che vanno a ricercare il meglio. Certo poi c'è anche il "greenwashing" (ovvero spacciare per sostenibile ciò che non lo è, ndr). Ma quando c'è un prodotto "taroccato"... bisogna stare attenti».
Un conto è l'innovazione sul campo e un altro è la normativa. Il bicchiere è più mezzo pieno o mezzo vuoto?
«Da liberale dico che per fortuna le imprese stanno andando avanti velocemente nonostante la politica e la parte regolamentare. È chiaro che abbiamo un problema di adeguamento delle norme nazionali. Ma abbiamo anche una questione a livello europeo: si sta lavorando a nuovi modelli di tassonomia, anche adeguandoli a quello che è il cambiamento stesso. Le faccio un esempio».
Prego.
«Per esempio il gas non era nell'elenco delle tassonomie utilizzabili fino a un anno e mezzo fa. Il nucleare non era nell'elenco delle energie utilizzabili. Entrambi sono entrati nella tassonomia. Un equilibrio fra la politica e la tecnologia, anche valutando le esigenze dei singoli. Ecco cosa significa adeguamento all'evoluzione naturale del sistema».
Le aziende chiedono molto?
«Non si tratta di intervenire a finanziare le imprese. Si tratta di dare quanto serve prima delle regole, che siano raggiungibili dal sistema imprenditoriale, che siano la garanzia per le aziende stesse. Proprio perché sono loro che fanno il passo innovativo. La regola non è questo passaggio, la regola è la garanzia. È qui che risiede la sfida vera e propria. Bisogna avere ambizione. E anche avere fiducia in quello che è un cambiamento significativo. Quando parliamo di regole ambiziose. Pensiamo al riuso e al riciclo».
Ovvero?
«Abbiamo in corso una trattativa a livello europeo sulla questione riuso e riciclo, in questo caso l'Italia è il Paese più avanzato nella Ue: abbiamo una gamba dell'economia che è nata dal sistema del riciclo, che è avanzatissimo. La valutazione che portiamo avanti a Bruxelles è: non siamo noi che dobbiamo fare un passo indietro per avere uniformità a livello Ue, dobbiamo avere un sistema di regole che permetta di raggiungerla o in un modo o in un altro».
Riciclare è comunque un incentivo alla produzione. Il riuso è diverso…
«Quando parliamo di sistema di regole bisogna vedere cosa riciclo. E in quel caso bisogna valutare la capacità di ciò che riciclo e come. Bisogna tenere conto di cosa riciclo, devo valutare la capacità del mio sistema produttivo di riciclare altrimenti corro il rischio di esasperare alcune situazioni che hanno un rovescio della medaglia: il riuso di alcuni contenitori alimentari è praticamente impossibile, come le bottigliette che vanno in tutto il mondo, come vado al riuso in quel caso? Più valido il ragionamento del riciclo».
Arriviamo al Pnrr. Nel Recovery la parola "tassonomia" non c'è. Come si spiega questa assenza?
«Il Recovery è stato costruito in un'epoca lontanissima, quella del post-Covid. Bisogna fare una riflessione sui piccoli interventi che si ribaltano su migliaia di comuni, dove a volte c'è anche la difficoltà a fare le necessarie delibere. Bisogna essere realistici. Ci sono misure che vanno in migliaia di rivoli degli enti locali. Ora si è in fase di verifica di ciò che è attuabile e ciò che non lo è, ciò che è opportuno mantenere e ciò che non si può mantenere. Non me la sento di dire che era sbagliato allora».
E allora?
«Oggi, con un quadro geopolitico completamente cambiato. E con una sensibilità da parte del consumatore che è molto diversa da quella di tre anni fa. Assicuro che nel giro di pochissimi giorni verrà proposto cosa andrà nel Pnrr e cosa nel RePowerEU. Deve chiudersi tutto il cerchio».
La focalizzazione su cosa dovrebbe essere?
«Rispetto al dialogo con Bruxelles, chiederei di concentrarsi sui grandi investimenti per infrastrutturare il Paese anche forzando rispetto ad alcuni meccanismi di grandi investimenti perché credo che sia un'occasione storica».
Quindi rinuncerebbe a qualche cosa?
«Nello specifico è difficile da dire. Ma sui fondi che hanno un ribaltamento sui comuni più piccoli - io abito in un Paese da 120 abitanti, che peraltro non usufruisce del Pnrr (sorride) - c'è bisogno di più realismo e più razionalità».
In passato non si sono saputi spendere i fondi di coesione, però.
«Noi dobbiamo fa combaciare i fondi del Pnrr, 192 miliardi di euro, con quelli del fondo complementare, circa 30 miliardi, e 80 miliardi dei fondi strutturali 2021-2027. Più 70/80 miliardi dei fondi di coesione. Quello che è necessario costruire in questo mosaico bisogna capire che cosa si riesce a fare entro il 2026. Alcune possono andare nel Pnrr, altre possono andare in altri strumenti. Ho spiegato al ministro Fitto che forse, in alcuni ambiti, è meglio spostare qualche progetto verso i fondi di sviluppo e coesione».
MATTARELLA SUL TERRORISMO: “GRAVI DEVIAZIONI DELLO STATO”
Alla cerimonia in occasione della Giornata della memoria per le vittime del terrorismo Sergio Mattarella ha invitato tutti ad una memoria condivisa. Ma ha accusato «le gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato». Angelo Picariello per Avvenire.
«Il presidente alla giornata per le vittime del terrorismo: «Loro, non i terroristi hanno scritto la storia» E ricorda anche i fratelli Mattei, figli di un dirigente del Msi morti nel “rogo di Primavalle”, e Paolo Di Nella, militante del Fdg Roma In Italia ci sono stati «troppi episodi di sangue che hanno ferito una giovane Repubblica, che si è trovata a fare i conti con il terrorismo politico; con le stragi, talvolta compiute con la complicità di uomini da cui lo Stato e i cittadini avrebbero dovuto ricevere difesa; con la violenza politica, tra giovani di opposte fazioni che respiravano l’aria avvelenata di scontro ideologico». Sergio Mattarella celebra al Quirinale il Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi. Parla di «gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato, e per le quali avvertiamo ancora l’esigenza, pressante, di conoscere la piena verità». Ma sottolinea anche come si sia parlato poco «della reazione unanime del popolo italiano. Dei servitori dello Stato, che hanno posto a rischio la propria vita per combattere violenza ed eversione. Di chi, nelle fabbriche, nelle università, nei vari luoghi di lavoro, ha opposto un no, fermo e deciso, a chi voleva ribaltare le regole democratiche». Ma, soprattutto, «ancor meno si è parlato del dolore, indicibile e irrecuperabile, delle famiglie a cui la lotta armata o i vili attentati hanno strappato un coniuge, un figlio, un genitore, un fratello o una sorella. Eppure sono state queste persone, non i terroristi, a fare la storia italiana». In prima fila ad ascoltare ci sono, insieme ai familiari delle vittime, fra le autorità istituzionali, anche Giorgia Meloni e Ignazio La Russa. Le immagini in diretta mostrano, in alcuni passaggi, gli ampi cenni di assenso della presidente del Consiglio alle parole di Mattarella. Quest’anno ricorre il 45esimo anniversario della morte di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse al termine di 55 giorni di sequestro. Mattarella, che si era recato nel luogo del ritrovamento del corpo in una Renault rossa, in via Caetani, per deporre una corona davanti alla lapide che lo ricorda (con lui La Russa, il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, presenti poi anche al Quirinale e il sindaco di Roma Roberto Gualtieri) definisce Moro «un uomo pervaso dall’amore e dal rispetto per la democrazia e per lo Stato, animato da spirito di libertà e di solidarietà». Poi ricorda le cifre impressionanti di quella lunga scia di sangue: «Quasi 400 vittime. Appartenenti alle forze dell’ordine, magistrati, militari; uomini politici e attivisti; manager e sindacalisti; giornalisti; ignari passanti, tra cui donne e bambini. Ciascuno di loro fa parte, a pieno titolo, della storia repubblicana. Mai più violenza politica, mai più stragi», invoca Mattarella. Perché «la ferita inferta ai familiari dei caduti è una ferita inferta al corpo della Repubblica, fondata sulla nostra Costituzione ». Ma, insieme ai «terroristi e i loro complici» rimarca anche il ruolo negativo svolto dai «cattivi maestri che hanno sostenuto e propagandato la violenza politica». Meloni, che alla fine si intratterrà per qualche minuto (insieme a La Russa) con il capo dello Stato, fermandosi anche circa un quarto d’ora in fitto colloquio con i parenti delle vittime, mostra visibilmente di apprezzare lo spirito di una cerimonia svoltasi all’insegna di una memoria condivisa. Fra le tante vittime “minori” Mattarella ricorda anche quelle del cosiddetto “rogo di Primavalle”, i fratelli Stefano e Virgilio Mattei, di 22 e 8 anni, figli di un esponente del Movimento sociale italiano, alla cui casa fu appiccato il fuoco da militanti di Potere Operaio. Come ricorda, Mattarella, anche l’attivista del Fronte della Gioventù Paolo Di Nella, colpito alla testa da un gruppo di Autonomia operaia mentre stava affiggendo manifesti per chiedere l’espropriazione di Villa Chigi. In precedenza erano intervenuti la giornalista Benedetta Tobagi, a nome delle famiglie delle vittime, e lo storico Guido Formigoni. L’attrice Valentina Cervi aveva letto alcuni brani di scritti di vittime come Walter Tobagi (ricordando le sue prime inchieste, da giovane giornalista di Avvenire), Marisa Russo, Giampaolo Mattei, Eugenio Occorsio e Aldo Moro. Su incarico di Mattarella, il consigliere del Colle Francesco Saverio Garofani ha poi deposto una corona di fiori sulla tomba di Moro a Torrita Tiberina».
UNA MOSTRA A TORINO SU LIVATINO
Ieri ricorreva il secondo anniversario della beatificazione del magistrato Rosario Livatino, assassinato dalla mafia nel 1990. Ecco come ne ha parlato il vescovo ausiliare di Torino, Alessandro Giraudo, all'inaugurazione della mostra sulla sua figura in corso al Palagiustizia di Torino fino a sabato 13 maggio per iniziativa della Libera Associazione Forense.
«Rosario Livatino è per la Chiesa un modello di santità, non solo per il martirio che ha subito, ma per quella testimonianza, martirio quotidiano, che nella sua vita è stato l’essere credibile come uomo, come credente e come giudice. In questo ci ricorda che la beatitudine non è altro che rimanere nell’abbraccio di Dio, sotto il Suo sguardo, certi che la carità e la giustizia sono i luoghi dove ancora oggi e sempre possiamo sperimentare la ricchezza di quel bene che è più forte del male. Rosario Livatino è, allora, una pagina vivente del Vangelo perché lo ha incarnato nella sua vita, nella profonda e affascinante unità della sua vita. Un Vangelo che non è contraddizione dell’umanità, ma che anzi ne vuole essere la piena consapevolezza perché ci chiede di accogliere e vivere ciò che siamo come donne e uomini immersi nel tempo e nella storia. Anche per questi motivi, la vita di Rosario Livatino vuole parlare a ciascuno di noi, in ciò che ci accomuna e in ciò che ci differenzia. Lo dico prima di tutto per me, senza voler insegnare nulla: personalmente ritengo che sarò capace di ascoltare e di dialogare con Rosario e la sua vicenda, solo se, come lui, anch’io sarò capace di non arrendermi davanti a tutte le forme con cui il male ci illude sottilmente di essere la soluzione giusta, così da spendere invece il dono della vita perché altri possano scoprirne la ricchezza quando è vissuta fino in fondo».
I CANTIERI PER IL GIUBILEO DEL 2025
Corsa contro il tempo per le opere romane che riguardano il sottovia di Piazza Pia e il parcheggio interrato di Piazza Risorgimento. Pronto il secondo Dpcm con il quadro di tutti gli interventi. Primi cantieri dall’estate. Il sindaco Gualtieri dice: «Non possiamo perdere un minuto». La cronaca del Sole 24 Ore di Manuela Perrone.
«Il quadro generale è quasi servito. A breve sarà formalizzato il secondo decreto del presidente del Consiglio che conterrà la mappa completa e aggiornata di tutti gli interventi previsti a Roma per il Giubileo 2025: gli 87 «essenziali e indifferibili» già varati con il primo Dpcm di dicembre e gli ulteriori 97 «essenziali», per un totale di 184 opere da 2,909 miliardi complessivi, di cui 1,286 miliardi di fondi giubilari. Al pacchetto si aggiungono i 335 interventi del progetto Pnrr “Caput Mundi” su oltre 200 siti archeologici e culturali, che valgono 500 milioni: da Invitalia sono partite le prime gare da 359 milioni. Comprensibili, alla luce di questi numeri, i timori sul rischio che la Capitale possa trasformarsi in un enorme cantiere a cielo aperto, con tutti gli impatti sulla viabilità e i possibili ritardi annessi, a maggior ragione in un momento che vede le imprese gravate dal caro materiali e dalla carenza di manodopera. Timori che serpeggiano di qua e di là del Tevere, anche se le riunioni periodiche della cabina di regia a Palazzo Chigi sotto la guida del sottosegretario Alfredo Mantovano (la prossima sarà il 23 maggio) stanno garantendo il coordinamento tra tutti gli attori coinvolti. E anche se il sindaco di Roma e commissario straordinario Roberto Gualtieri sta illustrando con puntualità lo stato di avanzamento degli interventi e le modifiche concordate. «Il Giubileo rappresenta una straordinaria opportunità di rilancio dell’intera città e Roma vuole farsi trovare pronta a questo grande appuntamento spirituale», spiega Gualtieri al Sole 24 Ore. «È una sfida difficile e impegnativa nella quale non possiamo più perdere nemmeno un minuto, ma con il Governo e tutte le strutture siamo impegnati pancia a terra per realizzare le infrastrutture pubbliche necessarie, capaci di migliorare la Capitale per accogliere decine di milioni di pellegrini. Parliamo di tranvie, autobus green, stazioni metro e ferroviarie riqualificate, monumenti e piazze storiche valorizzati, centinaia di chilometri di strade rimesse a nuovo e strutture dedicate ai più fragili, in coerenza con il messaggio di fratellanza di Papa Francesco». Presentando ieri in Vaticano il calendario degli eventi (da oggi è attivo il sito www.iubilaeum2025.va), l’arcivescovo Rino Fisichella, delegato da Papa Francesco per l’organizzazione dell’Anno Santo, ha riconosciuto che «il percorso è impegnativo», ma si è detto ottimista sul rispetto della tabella di marcia: «A luglio i cantieri partiranno, molti lavoreranno sulle 24 ore. Abbiamo la fiduciosa certezza che l’8 dicembre del 2024 i lavori più grandi saranno conclusi». Con il decreto Pnrr-ter, sono state introdotte semplificazioni e procedura negoziata per far marciare velocemente le opere principali. Due sono a ridosso del Vaticano. Si tratta del sottovia di Piazza Pia (70 milioni di euro), che rafforza l’asse pedonale tra Castel Sant’Angelo e San Pietro. È attesa venerdì la delibera della Regione Lazio per concludere la conferenza dei servizi, approvando il progetto di fattibilità predisposto dall’Anas, e consentire l’avvio dei lavori a luglio. Poco lontano, si avvierà la riqualificazione di Piazza Risorgimento con la realizzazione di un parcheggio interrato: il 2 maggio è stata indetta la conferenza dei servizi. Partirà sempre tra luglio e agosto il primo lotto dell’intervento su Stazione Termini, Piazza dei Cinquecento e aree adiacenti, diventato unico e affidato sempre ad Anas, con conclusione prevista a ottobre 2024. I cantieri saranno poi sospesi e riprenderanno per il secondo lotto da gennaio 2026. Sono in gioco 30 milioni. La preoccupazione che i lavori possano sovrapporsi all’Anno Santo, con i suoi 32 milioni di pellegrini attesi, è alta. Anche perché andranno al restyling pure strade (il 22 maggio comincerà la manutenzione straordinaria delle grandi arterie, con lavori da 200 milioni), marciapiedi, ponti, tratti del Lungotevere. E, oltre all’area eventi a Tor Vergata con i primi interventi anti-degrado sulle Vele di Calatrava-Città dello sport, dovrà nascere un polo del sociale a Pietralata, con un centro per persone con disabilità (7,5 milioni) e uno per l’accoglienza dei senza fissa dimora (5,2 milioni). Una corsa contro il tempo».
DA OGGI IL PORTALE IN NOVE LINGUE
Il sito è attivo da oggi. Avvenire avverte che grazie ai supporti digitali sarà facile iscriversi agli eventi del Giubileo e si avrà accesso a tante informazioni personalizzate. Da settembre sarà attiva anche la App.
«Il sito del Giubileo è attivo da oggi al link www.iubilaeum2025.va. Il portale in 9 lingue è stato presentato ieri da monsignor Graham Bell, sottosegretario della prima sezione de Dicastero per l’evangelizzazione. «Si tratta di una finestra sul Giubileo agile e facilmente utilizzabile da tutti, ragazzi, giovani e adulti», ha spiegato il prelato scozzese. Nella home page c’è già un video di presentazione, preparato da Rai Vaticano, mentre a partire da settembre, cliccando sul pulsante “Partecipa” sarà già possibile iscriversi agli eventi e al pellegrinaggio verso la Porta Santa. Nel sito sono già disponibili le informazioni sulla Porta Santa di San Pietro e le altre Basiliche, come pure i segni del Giubileo e tutte le notizie in corso di aggiornamento quotidiano. Così si possono consultare le ultime notizie sulla fase preparatoria del Giubileo e i nomi dei delegati per le diocesi d’Italia e le Conferenze episcopali internazionali. Viene offerta anche la possibilità di organizzare il proprio pellegrinaggio all’interno della città, con tre pellegrinaggi proposti: quello tradizionale di San Filippo Neri con le Sette chiese; il pellegrinaggio sulle chiese dedicate alle Donne dottori della Chiesa e patrone d’Europa; l’Iter Europaeum, cioè le 28 Chiese che richiamano a 27 Paesi europei, più la chiesa che intende rappresentare l’Unione europea. Monsignor Bell ha informato che da settembre sarà attiva l’Area del pellegrino, la pagina personale a cui si accede dopo aver effettuato l’iscrizione. All’atto dell’iscrizione, il pellegrino, dopo aver inserito i dati richiesti, riceverà la “Carta del pellegrino”, in versione digitale, con un Qr code personale necessario per avere accesso agli eventi giubilari e per organizzare il pellegrinaggio verso la Porta Santa. La Carta del Pellegrino avrà anche una seconda funzione. Con una piccola offerta il pellegrino potrà acquistare la Carta del pellegrino che offrirà alcuni servizi, permettendo di usufruire di particolari sconti per il periodo del pellegrinaggio. In questi mesi si stanno perfezionando alcuni servizi nell’ambito dei trasporti, della ristorazione, dell’accoglienza, con le rispettive categorie di riferimento. In fine Bell ha spiegato che da settembre saranno ufficialmente attive e disponibili anche le pagine social e la nuova App del Giubileo 2025, iubilaeum2025. Dall’applicazione, che sarà scaricabile per iOs e android, si potrà accedere a tutte le notizie già presenti sul sito web, ma l’interfaccia dell’app renderà più semplice e rapida l’iscrizione agli eventi giubilari, con la possibilità di ricevere informazioni personalizzate. L’utente potrà salvare gli eventi a cui è interessato, accedere più velocemente alla propria area personalizzata, disporre del Qr code per i tempi del pellegrinaggio alla Porta Santa e, ovviamente, nel caso sia stata acquistata la Carta Servizi, per accedere alle opportunità offerte. L’app, in pratica, consentirà al pellegrino una più rapida acquisizione delle informazioni sul Giubileo, faciliterà il procedimento dell’iscrizione e renderà più veloce l’organizzazione dei pellegrinaggi interni alla città, oltre a consentire la comunicazione diretta tra il pellegrino e il Dicastero».
GIÀ FISSATI TUTTI I GRANDI EVENTI
Presentato il calendario. Il primo appuntamento sarà quello con il mondo della comunicazione il 24 gennaio 2025. Mancano ancora le date di apertura e di chiusura, ma sono già molti gli appuntamenti fissati. Gianni Cardinale per Avvenire.
«La data di apertura e di chiusura del Giubileo verrà ufficialmente formalizzata con la Bolla di indizione del Giubileo, che verrà pubblicata secondo tradizione per la festa dell’Ascensione, il 9 maggio del prossimo anni, 2024. Da parte delle autorità civili coinvolte si è detto che sarà l’8 dicembre del 2024, ma ovviamente si tratta di una affermazione che ancora non può avere il carattere dell’ufficialità. Almeno per la Santa Sede. Ieri l’arcivescovo Rino Fisichella ha comunque confermato che il Giubileo ordinario inizierà con l’apertura della Porta Santa della Basilica di San Pietro nel mese di dicembre 2024. Allo stesso tempo la Sezione del Dicastero per l’evangelizzazione da lui guidata come pro-prefetto, e che ha avuto l’incarico da Papa Francesco di preparare e celebrare l’importante evento ecclesiale, ha diffuso ieri il calendario riguardante i “grandi eventi giubilari”. Di quegli eventi cioè, «che per loro natura attirano un grande concorso di popolo a Roma». Come il Giubileo dei giovani, dei movimenti, confraternite, catechisti, del mondo del lavoro, della scuola. In pratica quello rilasciato ieri è il calendario dei momenti che richiedono «una preparazione più dettagliata per consentire uno svolgimento coerente con l’esperienza di fede». Oltre a questi eventi che «coinvolgeranno verosimilmente milioni di pellegrini da tutto il mondo», nel calendario non vengono segnalate le centinaia di manifestazioni giubilari che invece vedono coinvolte le diocesi, i gruppi parrocchiali, le singole associazioni e i singoli pellegrini. Monsignor Fisichella ha precisato che ai pellegrini comunque sarà sufficiente iscriversi sulla piattaforma a cui si accede dal sito www.iubilaeum2025. va per interloquire con il Dicastero e avere accoglienza. E per facilitarne l’organizzazione il presule ha specificato che ai gruppi molto numerosi, come ad esempio le diocesi, e per garantire l’accoglienza, sarà richiesto di contattare direttamente il Dicastero. Ma veniamo al calendario dei “grandi eventi giubilari”. Si comincia il 24 gennaio 2025, memoria liturgica di San Francesco di Sales, con il Giubileo del mondo della comunicazione. A febbraio abbiamo quelli di Forze armate, Polizia e di sicurezza (8/9), degli artisti (15/18), dei diaconi permanenti (21/23). A marzo sarà la volta del Mondo del volontariato (8/9), delle 24 ore per il Signore (28), e dei Missionari della Misericordia (29/30, Domenica Laetare). Ad aprile sono fissati il Giubileo degli ammalati (5/6), dei cresimandi (25/27), delle persone con disabilità (28/30). A maggio quello dei lavoratori (1°/4), degli imprenditori (4/5), delle bande musicali (10/11), delle Confraternite (16/18), di chi celebra la prima comunione (23/25), delle famiglie (30 con il 1° giugno). A giugno poi si susseguono quello dei movimenti e associazioni (7/8), della Curia romana e dei nunzi (9), dello sport (14/15), dei governanti (21/22), dei seminaristi (23/24), dei vescovi (25), dei sacerdoti (26/27), delle Chiese orientali (28). Il 13 luglio ci sarà il Giubileo dei detenuti e il 28 luglio-3 agosto quello dei giovani. A settembre sarà la volta del Giubileo della Consolazione (14/15), degli operatori di giustizia (20/21), dei catechisti (26/28). A ottobre quello dei nonni (4/5), della vita consacrata (8/9), della spiritualità mariana (18/19), del mondo missionario (18/19) e di quello educativo (28 e fino al 2 novembre). Infine a novembre il Giubileo delle persone socialmente escluse (15/16) e quello dei Cori e delle corali (21/23). Monsignor Fisichella ha anche informato che a partire da giugno nei locali di via della Conciliazione 7, sarà inaugurato il Centro Pellegrini - Info Point. Un punto di riferimento aperto a quanti desiderano essere informati sull’Anno giubilare».
DUE GIORNI DI DIALOGO COI COPTI
Papa Francesco e Tawadros II, papa d’Alessandria e leader della Chiesa ortodossa copta, celebreranno insieme a Roma il cinquantesimo anniversario dello storico incontro dei loro predecessori, san Paolo VI e Shenouda III.
«Due giorni di intenso dialogo ecumenico. Oggi e domani, come ricorda il Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, papa Francesco e Tawadros II, papa d’Alessandria e leader della Chiesa ortodossa copta, celebreranno insieme il cinquantesimo anniversario dello storico incontro dei loro predecessori, san Paolo VI e Shenouda III, avvenuto nel maggio 1973. In particolare oggi Tawadros parteciperà all’Udienza generale mentre domani dopo un momento di preghiera con il Vescovo di Roma visiterà il Dicastero per l’unità dei cristiani. Inoltre, spiega una nota, sabato 13 maggio alle 18 il patriarca incontrerà presso la Basilica di San Giovanni in Laterano i fedeli della comunità copta residenti a Roma e celebrerà una Liturgia eucaristica domenica 14 maggio presso la medesima Basilica alle 9. A sottolineare la grande importanza di questa due giorni ecumenica, papa Francesco e Tawadros firmano insieme la prefazione al volume, edito dalla Libreria editrice vaticana, “ The Catholic church and the Coptic orthodox church. 50th anniversary of the meeting between pope Paul VI and pope Shenouda III” (1973-2023), cioè “Chiesa cattolica e copta ortodossa nel 50° anniversario dell’incontro tra papa Paolo VI e papa Shenouda III”. Allora, si trattò di un evento assolutamente storico, il primo, dopo 1500 anni tra un vescovo di Roma e il leader della Chiesa copto ortodossa. Il risultato fu la risoluzione comune firmata il 10 maggio 1973. Quel testo, oltre a respingere ogni forma di proselitismo e istituire una Commissione congiunta per guidare lo studio comune nei più diversi campi di azione della Chiesa, indicava le linee da seguire per arrivare alla comunione. «Cattolici e ortodossi – si legge – devono sforzarsi di approfondire la carità e di sviluppare le consultazioni reciproche, la riflessione e la cooperazione nei campi sociale e intellettuale, e debbono umiliarsi davanti a Dio, supplicandolo affinché, come ha cominciato la sua opera in noi, così la porti a compimento».
A MILANO UN SALONE DELLA FECONDAZIONE ASSISTITA
Francesco Borgonovo sulla Verità rilancia una denuncia partita da Marina Terragni su Feministpost. Non si può parlare apertamente di maternità surrogata, ma il tema resta sullo sfondo della Fiera. Ci sarà una protesta di femministe.
«Al solito, la proposta è molto allettante e suggestiva. Arriva tramite una invitante email: «Sia che abbiate appena iniziato il vostro viaggio verso il diventare genitore», leggiamo, «sia che sentiate di avere utilizzato ogni possibilità, nel nostro evento Wish for a baby potrete incontrare gratuitamente i migliori esperti di fertilità di tutto il mondo. Con un’esperienza larga alle spalle di più di dieci anni, il nostro team ha riunito il gruppo più completo di medici e cliniche disponibili, pronti a consigliarvi e informarvi durante questo weekend in un posto unico e impareggiabile per creare la speranza e l’apprendimento positivo». Il posto «unico e impareggiabile» è, appunto, Wish for a baby, la «fiera della fertilità» che si terrà a Milano il 20 e 21 maggio, in via Mecenate. Gli organizzatori ci invitano a partecipare (basta richiedere un biglietto gratuito) e ci spiegano che potremo «visitare la zona terapeutica, avere molti incontri diretti, assistere a seminari e partecipare a sessioni di domande e risposte». In un’era di gelido inverno demografico, un bell’evento dedicato alla natalità dovrebbe senz’altro essere accolto con entusiasmo. Eppure, nel tono delle email che abbiamo ricevuto, qualcosa ci ha insospettito. All’inizio si è trattato semplicemente di una sensazione negativa. Purtroppo è bastato indagare un po’ per trasformare la sensazione in qualcosa di ben più concreto. Sul sito ufficiale di Wish for a baby gli organizzatori spiegano che, nel corso della fiera, «relatori ed esperti esploreranno argomenti come la Pcos, l’endometriosi, la fertilità maschile e le implicazioni emotive dei problemi di fertilità. Spiegheranno i diversi approcci per aumentare la fertilità, compresi i metodi di trattamento disponibili sia a livello locale che in tutto il mondo. Wish for a Baby», aggiungono, «è uno spazio di incontro e di approfondimento in un ambiente sereno, ricco di consigli e informazioni preziose fondate su prove cliniche». Interessante, come no. Ma ci domandiamo: che bisogno c’è di una grande fiera, per altro a ingresso gratuito, se chiunque può chiedere informazioni sulla procreazione al proprio ginecologo e può essere indirizzato senza problemi lungo il percorso più adatto? Non è che dietro questa kermesse si nasconde altro e, cioè, la possibilità di entrare in contatto con cliniche o società che si occupano di procreazione con metodi illegali in Italia tipo l’utero in affitto? Il dubbio è molto forte, del resto non sarebbe la prima volta che a Milano si organizzano rassegne o incontri più o meno privati con professionisti stranieri della surrogazione per coppie omo e etero. Qualche domanda se la sono poste intellettuali e attiviste femministe come Marina Terragni. Dopo aver fatto richiesta di un biglietto gratuito, ha ricevuto, sempre via mail, precise informazioni su come dovrà comportarsi chiunque voglia visitare la fiera. Si tratta, ha scritto Marina su Feministpost, di «un rigoroso e dettagliato codice di comportamento imposto a chi parteciperà a Wish for a baby, salone della fecondazione assistita. Badge strettamente personale, divieto di filmare e di distribuire volantini, minaccia di espulsione, addirittura abbigliamento consono, perquisizione delle borse e scanner. E poliziotti in divisa o in borghese a vigilare. Perché tante cautele? Non si tratta di un semplice evento informativo sulle varie tecniche? Forse si parlerà anche di utero in affitto, la cui propaganda in Italia è reato?». Già: il livello elevatissimo di sorveglianza e tutte le limitazioni indicate fanno pensare che ci sia qualcosa sotto. Va bene tutelare la privacy dei partecipanti, come no. Ma per le fiere, di solito, si può girare liberamente, senza timore che la vigilanza controlli borse e valigette. In ogni caso, a fare chiarezza sono direttamente i portavoce di Wish for a baby: è bastato scrivere a loro per avere risposte piuttosto dettagliate. Una nostra fonte ha inviato una email ai responsabili dell’evento chiedendo se ci sarebbe stata la possibilità di avere informazioni sulla maternità surrogata. La risposta è stata rapida e gentile: «Non ci saranno informazioni sua surrogata perché è proibita in Italia. In ogni caso si possono avere informazioni nei nostri show tedeschi». E qui sta il nodo della questione. Wish for a baby non si svolge soltanto in Italia ma anche in altre nazioni europee. Quasi sempre il discorso sull’utero in affitto resta in ombra o non è richiamato, ma come vedete basta chiedere e si ottiene un link al sito della kermesse tedesca. Apriamo la pagina ed ecco che cosa leggiamo: «Vuoi fondare o allargare una famiglia? Wish for a baby copre argomenti come l’inseminazione artificiale, la maternità surrogata, l’adozione, il congelamento sociale, l’infertilità maschile, la gravidanza dopo i 40 anni, l’endometriosi, la Pcos, la donazione di sperma, il coaching sulla fertilità, le opzioni terapeutiche alternative, le opzioni per la comunità Lgbtq+ e molto altro». Visto quanto è facile? È sufficiente domandare e veniamo informati di tutte le opzioni. Ci sono servizi dedicati alle coppie etero ed è stata creata, a Berlino, una splendida «Rainbow seminar room (sponsorizzata con amore da California fertility partners e Same love surrogacy). Quest’area speciale della fiera fornirà informazioni importanti per coppie e single Lsbt*q per due giorni. Gli argomenti presentati nella sala seminari arcobaleno offrono informazioni per tutti coloro che desiderano creare o espandere una famiglia. Incoraggiamo tutti a venire a vedere di cosa si parla». (…) Questo è il poco piacevole contesto in cui si inserisce Wish for a baby a Milano. Una manifestazione che certo non si presenta come promozionale della surrogata, ma che si inserisce in una rete che della surrogazione si occupa eccome. E come per noi è stato facile ottenere informazioni sulla pratica dagli organizzatori, viene da pensare che lo possa essere anche per quanti parteciperanno all’evento di Milano. Per il 20 maggio gruppi di attiviste femministe hanno organizzato un presidio pacifico (dalle 9 alle 13 in via Mecenate, vicino allo spazio in cui si svolge la fiera) per protestare contro la commercializzazione della vita».
TRUMP CONDANNATO IN SEDE CIVILE
Le altre notizie dall’estero. Donald Trump ieri è stato giudicato colpevole di abusi sessuali nei confronti della giornalista Carroll: nel procedimento, solo civile, è stato fissato un risarcimento da 5 milioni di dollari. Il tycoon dice: “Verdetto vergognoso”. Incombe anche l'inchiesta su Mar-a-Lago. Alberto Simoni per La Stampa.
«Donald Trump ha aggredito sessualmente e diffamato, definendola pubblicamente una «bugiarda», la scrittrice ed ex columnist di Elle, E. Jean Carroll, 79 anni, ed è stato condannato a pagare un indennizzo di 5 milioni di dollari. Dopo meno di tre ore di camera di consiglio, la giuria del tribunale di Manhattan – composta da sei uomini e tre donne – ha condannato l'ex presidente ma l'ha assolto dall'accusa di stupro. Il giudice Lewis Kaplan ha chiesto dapprima ai giurati di decidere se Trump avesse stuprato, sessualmente abusato, o toccato contro la sua volontà la donna. Ognuna di queste opzioni avrebbe rispettato la denuncia formalmente avanzata, di violenza sessuale; quindi, il giudice Kaplan ha invitato i giurati di valutare la diffamazione. Il processo contro il tycoon era una causa civile e non ci sono conseguenze criminali, la donna aveva chiesto un risarcimento. Sono una dozzina le donne che negli ultimi anni hanno denunciato Trump o sono uscite allo scoperto rivelando di essere state molestate. Due hanno deposto in questo processo. Ma l'unica vicenda arrivata in aula è quella di E. Jean Carroll, 79 anni, che nel 2017 sull'onda del movimento #MeToo aveva trovato il coraggio di raccontare quanto era accaduto in un camerino dei grandi magazzini Bergdorf Goodman a Manhattan a inizio 1996, dove Trump l'aveva bloccata e le aveva fatto violenza. Il processo è stato possibile grazie all'Adult Survivor's Act, una legge di New York del 2022 che consente alle vittime di violenza di presentare una denuncia una tantum anche con decenni di ritardo. L'ex presidente, 76 anni, ha sempre negato e ha rifiutato di deporre e testimoniare nel processo. L'unico elemento è stato un suo video di ottobre in cui aveva anche negato di riconoscere la donna dicendo poi che «non era il suo tipo» e che negava di conoscerla. L'impianto dell'accusa si è basato sulla lunga testimonianza della vittima. Aveva raccontato che conosceva Trump e che lo aveva incontrato mentre stava lasciando il negozio. Le chiese di provare un indumento per lui. «Mi ha convinta a entrare in un camerino, poi ha chiuso la porta, mi ha spinto contro un muro e mi ha tolto i collant. Mi sentivo soffocare e ho provato a respingerlo. Le sue dita sono entrate nella mia vagina, è stato doloroso, poi ha inserito il suo pene», ha raccontato alla giuria. La difesa, guidata dall'avvocato Joe Tacopina, non ha presentato alcun testimone. La strategia è stata quella di provare a dipingere l'accusatrice come bugiarda e la storia completamente inventata per poter vendere copie del suo libro di memorie uscito nel 2019. Tacopina ha fatto leva su alcune falle nella memoria della donna, come la data dell'aggressione. Missione fallita, la giuria è stata unanime nel condannare Trump. Che ieri ha definito il verdetto «una vergogna. È una continuazione della più grande caccia alle streghe di tutti i tempi». È la prima condanna per Trump che ha altre inchieste pendenti. La prima è quella sui soldi pagati a Stormy Daniels per comprarne il silenzio su una relazione nel 2006. Per questo Trump è stato incriminato a fine marzo. La seconda udienza del processo sarà in dicembre. Sono politicamente e penalmente più rilevanti invece gli altri casi. Un procuratore speciale, Jack Smith, indaga sia sui documenti classificati trovati a Mar-a-Lago l'agosto scorso sia sul ruolo di Trump nell'assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Una decisione invece sull'incriminazione è attesa fra luglio e inizio settembre nella vicenda delle interferenze elettorali in Georgia: il tycoon è accusato di aver fatto pressioni sui funzionari per alterare l'esito delle elezioni del 2020. L'interrogativo è se la vicenda Carroll avrà un impatto sulle elezioni. Trump guida il pool dei candidati repubblicani con il 51% secondo un sondaggio del Washington Post e ABC. Il sondaggio è stato condotto dopo la deposizione di Carroll. «Gli elettori anti-Trump non cambiano idea. E nemmeno lo fanno i pro-Trump. E non credo che nemmeno gli incerti troveranno in questo caso motivo per spostarsi», ha commentato alla Reuters Charlie Gerow, stratega repubblicano in Pennsylvania».
TURCHIA, L’INCOGNITA DEL VOTO
Turchia. Alla vigilia del voto il presidente Erdogan, indietro nei sondaggi, ha paura di perdere e raddoppia gli stipendi ai dipendenti. Il salario minimo nel settore pubblico sale a 700 euro. La cronaca di Avvenire.
«Erdogan gioca l'ultima carta, forse non sufficiente per recuperare i consensi persi: l'aumento del salario minimo per i lavoratori impiegati nel settore pubblico. Lo stipendio verrà aumentato del 45 per cento arrivando a 15 mila lire turche, poco meno di 700 euro. Secondo la stampa locale, il provvedimento riguarda 700mila lavoratori ed è stato annunciato a cinque giorni dalle elezioni, in programma domenica prossima. Probabilmente non basterà a placare gli animi degli insoddisfatti che - almeno secondo i sondaggi - rappresentano la maggior parte dei cittadini. Come hanno dimostrato ampiamente le elezioni amministrative del 2019, non è la religione a spostare i voti in Turchia, ma l'economia. Gli anni floridi del Duemila sono un ricordo lontano, la classe media si è impoverita drasticamente negli ultimi anni e l'allargamento della forbice sociale è preoccupante e ben visibile, soprattutto nella metropoli sul Bosforo. L'Akp sa bene che è la crisi economica e sociale in cui versa il paese, almeno dal 2018, può sancire la fine del ventennio dorato dell'attuale presidente turco. Stando ai dati ufficiali, l'aumento dei prezzi su base annua è recentemente calato restando comunque sopra il 43 per cento mentre alla fine del 2022 l'inflazione aveva raggiunto i livelli più alti degli ultimi 25 anni superando l'80 per cento. Nell'agenda elettorale a pochi giorni dal voto entra anche la questione dei rifugiati siriani: quasi quattro milioni di persone arrivate in Turchia dopo l'inizio del conflitto in Siria crea frustrazione e malumore tra la popolazione turca. Mentre si moltiplicano le promesse elettorali del capo di Stato, i sondaggi mostrano ancora un Paese molto diviso tra chi sostiene Erdogan e chi vorrebbe al timone il principale candidato dei partiti di opposizione, Kemal Kilicdaroglu. Il 74 anni, presidente del partito socialdemocratico e laico Chp guida una coalizione formata da forze di orientamento molto diverso, dalla destra alla sinistra, fino al centro liberale e all'islamismo. Non c'era mai stato - negli appuntamenti elettorali del passato - un fronte così ampio e unito per contrastare Erdogan. Bisognerà aspettare le prossime ore per capire dove andrà il paese: se verso un nuovo inizio o verso futuro forse già scritto».
OPERAZIONE “SCUDO E FRECCIA” IN ISRAELE: 15 CIVILI UCCISI
Nella caccia al Jihad Islami, Israele fa una strage di civili: 15 uccisi. Operazione a Gaza, tra le vittime anche donne e bambini. Le fazioni palestinesi promettono: «Risponderemo». Michele Giorgio sul Manifesto.
«Nel clima cupo che annuncia una nuova guerra, sanguinosa e distruttiva, tanti a Gaza ieri hanno versato lacrime vere per la morte di un uomo stimato da tutti, morto lunedì notte con la moglie Mervat e il figlio maggiore Yusef nel bombardamento israeliano della loro casa nel centro di Gaza city. Non si tratta di uno dei comandanti del Jihad islami – Jihad al Ghanam, Khalil al Bahtini, Tareq Ezzedin – presi di mira e uccisi nella prima fase dell’operazione israeliana «Scudo e Freccia». Bensì un medico stimato, un dentista, Jamal Khaswan, 52 anni, palestinese in possesso di un passaporto russo ottenuto durante gli studi di medicina fatti nella ex Urss. Khaswan, che lascia altri due figli orfani, ha avuto il «torto» di abitare con la sua famiglia nell’appartamento sottostante a quello di Ezzedin, le cui sorelle, Dania e Iman, di 19 e 14 anni sono state trovare senza vita sotto le macerie. Senza dimenticare i quattro bambini, sui 15 palestinesi uccisi fino a ieri sera, che hanno pagato a caro prezzo il fatto di essere figli o parenti dei bersagli dell’attacco israeliano. Nel corso del bombardamento contro la casa di Al Bahtini, è morta anche la figlia di cinque anni, Hajar, rimasta uccisa con la cugina Laila. Nell’attacco a Tareq Ezzedin, sono rimasti uccisi i suoi figli di nove e i dieci anni, Ali e Mayar el Din. Nell’attacco contro Ghannam è stata uccisa la moglie Wafa. Tra i feriti tre bambini e sette donne. Il bilancio salirà nei prossimi giorni. L’attacco a sorpresa su Gaza conduce inevitabilmente a un conflitto più ampio, non solo con il Jihad ma anche con Hamas e le altre fazioni armate palestinesi. Si teme anche con Hezbollah in Libano. Ieri sera tutti si attendevano la risposta delle fazioni armate palestinesi, rimaste riunite per ore nella «war room» di Gaza. I media israeliani sostenevano che il governo Netanyahu vorrebbe tenere fuori dal conflitto Hamas, principale forza militare a Gaza. Ma di fronte a un attacco tanto ampio e sanguinoso il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha fatto subito sapere che «il nemico ha fatto un errore nelle sue stime e pagherà il prezzo del suo crimine» e che «l’aggressione ha preso di mira tutto il nostro popolo e la resistenza è unita nell’affrontarla». Netanyahu, dando il via libera a «Scudo e Freccia», sapeva che avrebbe scatenato una nuova guerra. Lo provano le sue dichiarazioni. «Siamo nel bel mezzo di una campagna e siamo pronti a qualsiasi possibilità», ha affermato Netanyahu pronto a una «guerra su più fronti», anche con l’Iran. «Dal giorno in cui sono stati lanciati i razzi la scorsa settimana, ho incaricato, insieme al ministro della Difesa, di preparare un’operazione per sconfiggere i leader terroristi. Di fatto, i vertici dell’organizzazione terroristica sono stati decapitati». Lo conferma anche la decisione del governo israeliano di procedere oggi all’evacuazione di 4.500 civili dalla città di Sderot, a pochi chilometri da Gaza, in previsione della pioggia di razzi che quasi certamente si abbatterà sul sud di Israele. Nel resto di Israele, tra Tel Aviv e Bersheeva, la popolazione si prepara al conflitto aprendo i rifugi. Ospedali in stato di allerta. Potrebbe essere coinvolta anche quella che vive a nord, se Hezbollah scenderà in campo. In ogni caso l’ex premier Yair Lapid e l’ex ministro nella difesa Benny Gantz hanno dato la loro approvazione allo scontro. Lo scorso agosto Lapid diede l’ordine di attaccare Gaza e la Jihad islamica nel quadro di offensiva militare che ricorda quella cominciata lunedì notte e che fece una cinquantina di morti. A Gaza due milioni e 300mila civili palestinesi non hanno alcun rifugio dove cercare riparo da bombe e missili e nemmeno ospedali attrezzati in grado di assistere nel migliore dei modi la massa di feriti che tutti si aspettano. Dalle guerre del 2008, 2012, 2014 e 2021, Gaza è uscita devastata oltre a subire migliaia di morti e feriti. Le conseguenze saranno altrettanto catastrofiche se avrà inizio un nuovo conflitto. Per ora l’offensiva israeliana non raccoglie gli applausi del mondo. Il coordinatore speciale Onu per il Medio Oriente, Tor Wennesland, ha condannato l’uccisione di civili a Gaza: «È inaccettabile. Esorto tutte le parti interessate a esercitare la massima moderazione e a evitare un’escalation. Rimango impegnato nel tentativo di evitare un conflitto più ampio con conseguenze devastanti per tutti». La Francia ha ricordato «gli obblighi di protezione dei civili e del rispetto del diritto internazionale umanitario che incombono su Israele». Pronta la replica del ministro israeliano della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che ha attaccato l’Europa dopo la decisione di annullare il ricevimento in occasione della «Giornata dell’Europa» di ieri per impedirgli di partecipare come rappresentante di Tel Aviv».
SUDAN, 700 MILA PROFUGHI SCAPPANO DALLA GUERRA
Allarme dell’Oim, l’organizzazione per le migrazioni, sul Sudan: «Oltre settecentomila i civili sfollati». Matteo Fraschini Koffi per Avvenire.
«Continua la disperata fuga dei civili per salvarsi dalle conseguenze della crisi in Sudan. A quasi un mese dall’inizio degli scontri, sono aumentati radicalmente i profughi mentre i negoziati vengono giudicati «fasulli» da molti osservatori. «Il numero di sfollati interni è raddoppiato nell'ultima settimana», ha riferito a Ginevra il portavoce dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), Paul Dillon. «Il totale degli sfollati dal 15 aprile 2023 è salito ad oltre 700mila. Secondo gli ultimi dati dell'Oim – ha precisato Dillon –, gli sfollati erano circa 340mila martedì scorso». Dall’inizio delle violenze il 15 aprile – afferma l’Oms – già 604 persone sono morte e 5.127 ferite . Le scorte di cibo sono state saccheggiate e gran parte degli operatori umanitari locali e internazionali se ne sono andati. «Stiamo cercando altri 445 milioni di dollari per far fronte a un previsto esodo di 860mila persone entro ottobre – ha dichiarato ieri l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) –. La gente scappa verso Ciad, Egitto, Etiopia, Eritrea, Sud Sudan e Repubblica Centrafricana». Intanto sono in corso a Gedda, in Arabia Saudita i negoziati promossi dagli Stati Uniti. Gli analisti della regione hanno giudicato «una farsa» tale processo che non sta riuscendo neanche a unire intorno a un tavolo i rappresentanti del presidente, Abdel Fattah al-Burhan, e del rivale, Mohamed Hamdan Dagalo, leader delle Forze paramilitari di supporto rapido (Fsr). «Inutile continuare a dialogare mentre i combattimenti stanno andando avanti – ha commentato ieri al-Burhan –. Non ci sarà comunicazione tra le parti fino a quando non verrà rispettata una tregua». Numerose tregue, infatti, sono state violare pochi minuti dopo la loro proclamazione. Entrambi i belligeranti hanno abbastanza forza militare per aggravare un conflitto civile che, secondo gli Usa, «si protrarrà per anni».
LA MESSA NON È (ANCORA) FINITA
Uno studio del Seminario: nel 2040 la Chiesa di Milano non avrà sacerdoti con meno di 30 anni. Nel 1998 i presbiteri erano 2.200, mentre oggi sono scesi a 1.694 e il calo prosegue. Sempre meno Battesimi e matrimoni. Anche la frequenza a Messa diminuisce. Enrico Lenzi per Avvenire.
«Sacerdoti sempre meno giovani (solo il 10% ha meno di 40 anni, ma con più di 30 anni), con una forte presenza di preti con più di 75 anni (attorno al 30%), più parrocchie che condividono lo stesso parroco, la maggior presenza dei laici nella gestione ordinaria. Ecco come, alla luce della situazione attuale, si presenterà la Chiesa di Milano nel 2040. È lo scenario (neppure il più pessimista) elaborato da Andrea Bonanomi e Giulia Rivellini, docenti di demografia e statistica all’Università Cattolica, nell’ambito del dossier pubblicato da La scuola cattolica, la rivista teologica del Seminario arcivescovile di Milano, coordinato da due docenti di teologia dogmatica al Seminario don Paolo Brambilla e don Martino Mortola. Una proiezione, a dire il vero, che parte dall’ascolto e dallo studio dell’attuale situazione, che già di suo non è proprio confortante con un costante e progressivo calo dei Battesimi (dai 35mila del 1995 ai 10mila del 2022), dei matrimoni religiosi e anche della frequenza a Messa. Nel 1998 l’arcidiocesi ambrosiana aveva attorno ai 2.200 sacerdoti, che progressivamente si sono ridotti arrivando al 2020 alla cifra di 1.737 (quasi 500 unità in meno), ma siamo già scesi in soli due anni a 1.694. Molteplici le cause, ma di certo il calo delle vocazioni e il progressivo invecchiamento dei sacerdoti sono tra le più incisive. E proprio da questa analisi, i responsabili della ricerca hanno provato, come detto, a ipotizzare alcuni scenari futuri scegliendo la data del 2040. Scenari basati sia su ipotesi di possibili ingressi (anche alla luce di quanto avvenuto negli ultimi vent’anni) sia su una formula matematica (un’equazione di bilancio), che individua il possibile numero di preti in un determinato anno partendo «dal numero dei presbiteri dell’anno precedente (P), cui vanno aggiunti presbiteri ordinati in quell’anno (O), a cui togliere i presbiteri che potrebbero abbandonare il ministero (A) e anche quello dei defunti (M). La cifra ottenuta va poi sommata al risultato dell’operazione che calcola i preti “incardinati” nell’arcidiocesi, cioè provenienti da altre Chiese, e quelli che sono andati in altre diocesi (“gli escardinati”). Se la formula matematica ha una validità certa, ovviamente i risultati sono determinati dalle ipotesi che i curatori del dossier hanno messo in campo. Quattro gli scenari proposti, legati ovviamente a differenti ipotesi evolutive sulla variabile delle possibili ingressi in Seminario, mentre per abbandoni e morti il riferimento è alla media degli ultimi 20 anni d’osservazione. Il primo scenario - definito “ottimistico” - ipotizza 17 ordinazioni annue. Il secondo “realistico” - ne prevede 12, mentre il terzo - “pessimistico” - ne indica solo 7 all’anno. Il quarto si basa su un modello statistico che si adatta all’andamento degli ultimi trent’anni, che ha visto un percorso altalenante: dai 32 del 1998 ai 23 del 2004 e ai 12 del 2007, per risalire ai 25 del 2014 e ridiscendere ai 9 del 2017. Cifre lontane anni luce dalle 77 ordinazioni del 1909, dalle 74 del 1955 o dalle 47 del 1976. Qualunque sia lo scenario scelto il risultato è identico: il numero dei preti ambrosiani è destinato inesorabilmente a ridursi, nel caso ottimistico a 1.147 (quasi 600 unità in meno), in quello pessimistico a 958, mentre lo scenario realistico e statistico si attestano attorno a 1.050 preti per 1.107 parrocchie presenti in arcidiocesi. Pochi e anziani, visto che dei 1.050 sacerdoti dello scenario più realistico, 283 avranno più di 75 anni, 767 saranno sotto quell’età e solo 94 saranno quelli sotto i 40 anni. A Milano città gli under 40 nel 2040 saranno soltanto 14. Insomma scompariranno i preti giovani, quelli che in passato siamo stati abituati a vedere negli oratori. Ma se la Chiesa del 2040 presenta profonde criticità nella propria organizzazione, anche quella del 2023 mostra difficoltà e affanni. Il calo delle vocazioni è costante da moltissimi anni e già ora la Chiesa di Milano fatica a garantire un parroco per ogni comunità. Ne è segno evidente il fatto che ben 660 parrocchie sulle 1.107 sono coinvolte nelle comunità pastorale, cioè più parrocchie che condividono lo stesso parroco. Il dossier pubblicato su La scuola cattolica e presentato ieri al Seminario arcivescovile a Venegono in occasione della tradizionale “Festa dei fiori” (dedicata ai candidati al sacerdozio nell’anno, che quest’anno sono 15), dedica proprio uno dei contributo al tema delle comunità pastorali, raccogliendo opportunità, fatiche e potenzialità che sono al proprio interno e che vedono i laici in una posizione di maggior corresponsabilità proprio per l’assenza costante di un sacerdote. Tutto da studiare anche il ruolo dei diaconi permanenti, uomini consacrati, spesso sposati e padri di famiglia, che però decidono di svolgere un ministero nella Chiesa. Attualmente nell’arcidiocesi ambrosiana ce ne sono 155 e il loro numero nel 2040 viene dato in aumento variando tra i 180 e i 220. Un cammino, quello delle comunità pastorali, iniziato da tempo e che ancora oggi mostra criticità, a iniziare proprio dalla difficoltà di un rapporto quotidiano con il proprio sacerdote. Un tema, quest’ultimo, che inquieta anche gli stessi preti, formati per stare in mezzo alla gente e con loro condividere un cammino. Significativo che il contributo affidato a Davide Lampugnani, ricercatore della Cattolica, sottolinei che «quello che non può mancare per la vitalità d una comunità cristiana è il cosiddetto “prete per chiacchierare” », citato dalla famosa canzone Azzurro di Adriano Celentano. Dunque un dossier destinato ad aprire una riflessione all’interno della Chiesa ambrosiana, ma anche in quella italiana, che già da tempo si interroga sul proprio futuro organizzativo cercando soluzioni, come dimostra la narrazione di alcune buone pratiche messe in campo in alcune Chiese locali. E proprio di “prospettive pastorali” parla la seconda parte del dossier che, tra i contributi, ha anche quello dell’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, che riflette sulle prospettive del ministero episcopale e di quello presbiterale. Contributi per progettare il futuro, osservando con onestà il presente».
LE PAROLE CURANO LA NEVROSI
Repubblica propone un intervento dello scrittore Daniele Mencarelli tratto dalla rivista "Vita e pensiero", in edicola dall'11 maggio, sulla parola che guarisce le nevrosi. L’esplosione della malattia psichica è ormai un fenomeno trasversale. Tocca nonni e nipoti. Per superarla, riscopriamo il confronto. E le arti.
«Vivo coltivando certezze. Ho sconfitto la morte. O, almeno, l'ho ridotta a fatto sì inevitabile, ma totalmente distaccato dalla mia vita. Quando arriverà, arriverà. Punto. Ma la morte è lontana, per fortuna. E non mi interessa. Non ha niente da dirmi. Anche il dolore è sconfitto. Pure lui non ha nulla da dirmi. Posso vivere evitando qualsiasi fonte di male, mi può inchiodare una malattia o un incidente, certo, ma il dolore, quello interiore, è stato addomesticato e piegato. Se soffro, mi curo. Soffrire è semplicemente sbagliato. Sbagliato perché inutile. A sconfiggere Dio ci hanno pensato le generazioni prima di me. Dio è un anacronismo, una parola che rimanda a una credenza lontana che nulla ha a che fare con la mia vita. Sono altre le certezze. So che posso ambire al meglio. Posso puntare qualsiasi obiettivo, e arrivarci, devo soltanto concentrare tutto il mio potenziale (...). Non sono una persona per male. Il mio 5 per mille lo destino sempre alle associazioni del caso. Almeno due o tre volte l'anno mi capita di mandare sms per le varie raccolte fondi, perché nel mondo c'è sempre qualche povero o calamità naturale o altro. Una volta ho fatto anche un bonifico dopo aver visto uno spot di bambini malati. Un giorno, come sono nato, morirò. Tornerò a essere quello che ero. Nulla. Nulla di nulla. Il pensiero non mi infastidisce. È la natura, la nostra natura. Non è l'identikit di un personaggio distopico, magari calato dentro qualche futuro ancora lontano. È, messo nero su bianco, il sentire che anima tante persone del nostro tempo. È la visione dominante di ciò che siamo, di quello che ci aspetta, un nichilismo privo di qualsiasi moto contrario, privo anche di rassegnazione, una confutazione messa agli atti della storia, non più discutibile. Se questo è il punto di partenza, drammatico, non deve allora stupire la progressiva nevrotizzazione dell'uomo contemporaneo. È tale il corto circuito provocato tra il nostro essere profondo, che vive comunque in barba ai nostri intendimenti, e la nostra percezione di ciò che siamo da rendere naturale l'esito del disturbo psicologico, che sia dell'umore o di natura ansiosa. Una nevrotizzazione ormai trasversale, che parte dalla generazione dei nonni per finire a quella dei nipoti (...). Questo assunto non vuole competere con la lettura scientifica che vuole l'esplosione della malattia psichiatrica un fatto concreto e certificato. Semplicemente, intende offrire una chiave di lettura a ritroso che parta dall'effetto: il dato patologico, sino ai suoi eventi scatenanti. Le cause profonde. Perché un individuo, e questo lo dicono per primi i medici che si occupano di cura in ambito mentale, non è la sua patologia. È molto di più, è altro. La domanda, retorica, è questa: come può l'uomo vivere in sua assenza? E ammesso che sia possibile, quale motivo può rendere questa assenza in vita un fatto benigno per l'uomo stesso? Forse, sarebbe più interessante capire chi e come ha avuto interesse a riempire il vuoto creato da tanto nichilismo... A questa domanda non si può che rispondere con una constatazione che da più parti inizia a essere percepita, e condivisa. Occorre tornare alla complessità dell'umano, che chiede, da sempre, un molteplice approccio per entrare in dialogo con se stesso. Dialogo inesauribile e per sua natura inquieto, urlato in alcuni casi, forse più corretto definirlo ininterrotto monologo di interrogativi fatti per non trovare approdo risolutivo. Ma che sia dialogo o monologo, che rimanga o meno nell'alveo della normalità o sconfini nel patologico, questo esercizio fondamentale ha bisogno di riconsacrare al presente quelle discipline, arti, che permettevano all'uomo di guardarsi con maggiore precisione e profondità. A partire dallo strumento primo e imprescindibile. La parola. Nelle sue forme più alte e indagatorie. Occorre riaccendere di passione viva le lingue che da sempre hanno avuto la responsabilità di formare il nostro immaginario riguardo ciò che è nato con noi. La poesia. La filosofia. La religione. Lingue oggi cristallizzate, fossilizzate, ridotte a reperto da studiare ma in assenza di pregnanza rispetto al nostro tempo, come se l'uomo contemporaneo non ne avesse più bisogno, come se la loro capacità di rappresentarci fosse tramontata per sempre. Senza queste lingue, l'uomo è destinato a spegnersi definitivamente, a diventare oggetto di studio per la scienza, l'unica lingua che, viaggiando a braccetto con la tecnologia, non risente del tempo ma anzi ne viene esaltata (...). Non è un caso che a chiedere sempre più spesso testimonianze letterarie, corsi di scrittura e lettura, sono proprio quelle strutture sia pubbliche che private impegnate nella cura del disagio psicologico. A pensarci bene, il fatto che questa richiesta nasca nei luoghi della malattia mentale è un dato assolutamente logico, lineare. L'uomo riscopre il bisogno della bellezza laddove tocca con mano il baratro dell'orrore. In questo senso (si perdoni la retorica bellica in questo tempo di vecchie e nuove guerre) i luoghi di cura della malattia mentale, oggi, sono proprio quella linea di confine, la trincea dove l'uomo si oppone al disumano, da lui stesso creato. Ma il dato che fa più sperare è un altro. È l'arte dell'incontro, con oltre sessantamila ragazzi di scuole superiori. Sono loro, i nostri figli, nipoti, con la loro libertà a cogliere sempre più consapevolmente il bisogno di parole altre, di testimonianze diverse. In loro c'è il seme di un futuro nuovo, un futuro scevro dalle cappe ideologiche del Novecento, che saprà guardare con sguardo critico, e lucidissimo, il pericolo di un mondo digitale dove l'isolamento sarà la vera spina nel fianco da combattere. Anche se connessi con il mondo intero».
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