La Versione di Banfi

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Il virus ha creato più ingiustizia

alessandrobanfi.substack.com

Il virus ha creato più ingiustizia

Dopo due anni di pandemia aumenta la disuguaglianza fra ricchi e poveri. Lo dice l'Oxfam. Mossa di Salvini sul Colle: farò una mia proposta. Record di vaccini. Angoscia per le isole Tonga

Alessandro Banfi
Jan 18, 2022
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Il virus ha creato più ingiustizia

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I numeri della pandemia sono incoraggianti. Su due fronti: la curva dei contagi e la campagna vaccinale. L’analisi matematica della diffusione di Omicron dà segni di un possibile imminente calo, anche rapido. In sette giorni abbiamo dimezzato i contagiati. La settimana conclusa domenica scorsa è stata poi la settimana in cui si è vaccinato di più in Italia dall’inizio della pandemia. Ci sono anche le dosi pediatriche e i richiami, ma mai eravamo arrivati a più di 4 milioni e mezzo di somministrazioni in sette giorni. In totale siamo a 120 milioni di iniezioni, un numero impensabile anche solo 6 mesi fa. Il lato drammatico della pandemia è quello dell’aumento delle disuguaglianze. Oggi Avvenire apre giustamente il giornale su questo argomento, purtroppo in solitudine. L’Oxfam denuncia: in questi 2 anni i dieci uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni. Nello stesso periodo si stima che 163 milioni di persone siano cadute in povertà. Ha ragione il direttore del Domani Stefano Feltri: la sfida per ogni futuro governo, anche del nostro Paese, è la lotta alla disuguaglianza. Economica e sociale.

La stampa italiana, a sei giorni dal primo voto a Montecitorio per il Quirinale, è invece tutta concentrata sulla mossa di Matteo Salvini. Ieri il capo della Lega ha messo fretta a Berlusconi sulla conta dei numeri e ha annunciato una sua “proposta”. Tre i nomi trapelati: Letizia Moratti, Elisabetta Casellati e Marcello Pera. Prosegue intanto la discussione sulle schede segnate e i grandi elettori contagiati: Roberto Fico dovrà presto prendere delle decisioni. Se il centro destra è in grande agitazione, non sono tranquilli nemmeno i giallo rossi: domani c’è l’incontro Letta-Conte-Speranza. Vedremo. Intanto Draghi si deve occupare delle emergenze che non sono affatto finite. Oltre alla pandemia c’è l’emergenza rincari, legata anche ai prezzi dell’energia. Giovedì è previsto un Consiglio dei Ministri.

Dall’estero: la diplomazia è ancora al lavoro sull’Ucraina, mentre Xi Jiping apre il Forum di Davos, anche quest’anno in forma virtuale. C’è angoscia per il silenzio dalle isole di Tonga nel Pacifico, dopo l’eruzione del vulcano e il conseguente tsunami. Non si ancora nulla delle vittime e dei danni.  

Da stamattina è disponibile il primo episodio di un nuovo Podcast, che viene lanciato in queste ore con la mia voce narrante. Si chiama Le Figlie della Repubblica. È un Podcast della Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo primo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Maria Romana De Gasperi, figlia di Alcide. Il racconto riporta tutta la forza di una vita ricca di grandi ideali e povera di risorse, centrata sulla responsabilità di credente e di cittadino italiano. Alcide De Gasperi è stato un patriota, per usare un termine oggi tornato di moda, che ha lottato tutta la vita per il bene del suo Paese. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... Ecco la prima puntata.

https://www.corriere.it/podcast/le-figlie-della-repubblica/

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

Trovate questa VERSIONE di nuovo nella vostra casella di posta domani mattina. L’appuntamento orario resta intorno alle 8. Alla fine della rassegna trovate tutti gli articoli citati in pdf. Vi consiglio di scaricarli se siete interessati perché restano disponibili in memoria solo 24 ore.

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Fra trenta giorni, dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

La mossa del leader della Lega sul Quirinale catalizza l’attenzione dei titolisti. Il Corriere della Sera non usa le virgolette e sintetizza: Salvini: ho un piano per il Colle. Più diretto ancora Libero: Salvini: decido io. Per Il Fatto: Salvini ritenta la fuga da B. (ma poi rientra). Il Quotidiano Nazionale invece sottolinea: Salvini-Berlusconi il grande freddo. Sulla stessa linea Il Mattino: Colle, tensione Salvini-Berlusconi. Per La Repubblica è già consumato: Lo strappo di Salvini. La Stampa ne fa una questione di distanze: Salvini allontana Berlusconi dal Colle. Il Manifesto illustra con queste parole una foto di Berlusconi: Conta che ti passa. L’allusione è al numero dei grandi elettori che possono sostenere il Cav. Il Giornale polemizza col presidente della Camera, restio a permettere le schede segnate: La foglia di Fico. Mentre il Domani elenca dei nomi: Mattarella, Draghi e Amato: tre vie di Letta per fermare Berlusconi. Avvenire è l’unico giornale che dà risalto agli incredibili dati sulla disuguaglianza amplificata dalla pandemia: Ingiustizia virale. La Verità vuole dimostrare che non c’è emergenza: I veri numeri sugli ospedali in crisi. Il Messaggero tematizza i rimborsi agli esercizi commerciali: «Locali chiusi, ristori per 3 mesi». Il Sole 24 Ore fa il punto sulle nuove tecnologie: Pnrr, digitale fermo al 43%.

I NUMERI E LE REGIONI, IL PUNTO SULLA PANDEMIA

Coronavirus, il punto sulla situazione della pandemia da coronavirus nel nostro Paese. Numeri che fanno sperare, record dei vaccini. Ma dagli ospedali dicono: «Ci sono troppi pazienti positivi da operare», mentre le Regioni non vogliono più il regime dei colori. Viviana Daloiso per Avvenire.

«Se i numeri sono la bussola di questa pandemia, come appena qualche giorno fa Istituto superiore di sanità e Cts sono tornati a ribadire con forza difendendo la quotidianità e la forma attuale del Bollettino, i numeri adesso promettono bene. Non solo quelli registrati Oltremanica, in Inghilterra, dove la tempesta di Omicron s' è abbattuta con un paio di settimane d'anticipo rispetto a quanto accaduto in Italia e già si sta ritirando, lasciando spazio a cieli quasi sereni (appena 84mila i contagi registrati ieri, da giorni ormai assestati sotto il 100mila, in un Paese sostanzialmente privo di restrizioni o controlli di alcun tipo). Adesso ci sono anche i nostri, di dati, che segnano un cambio di passo. Quelli di ieri, confrontati con quelli di lunedì scorso, sono a dir poco eloquenti: sette giorni fa avevamo contato oltre 155mila contagi in un giorno, a fronte dei pochi tamponi della domenica (circa 600mila), per un tasso di positività al 16,6%; ieri quei contagi sono crollati a 83mila (quasi la metà), a fronte di 541mila tamponi, per un tasso di positività giù al 15,4%. Come atteso - e ampiamente annunciato dagli statistici esperti di Rt e affini - la curva insomma sta piegando la sua testa. E potrebbe farlo in fretta, molto più in fretta di quanto avvenuto con le ondate precedenti: una buona notizia per gli ospedali, che contano i giorni per iniziare a vedere una flessione anche nei ricoveri (ieri ancora in crescita sia in terapia intensiva che nei reparti ordinari); una spina nel fianco per il governo, che già in queste ore deve tenere a bada le fughe in avanti sempre più decise delle Regioni su test, quarantene e colori (visto che la Valle d'Aosta, tanto per fare un esempio, avrebbe già numeri da rosso). Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha annunciato presto un confronto: «Nelle prossime ore apriremo un tavolo tecnico per affrontare le questioni che hanno proposto». E il capo del Cts, Franco Locatelli, si è spinto anche oltre, spiegando che «il sistema della colorazione delle Regioni è stato elaborato in maniera concertata tra Ministero e Regioni in un'epoca diversa. Che si possa arrivare a una riconsiderazione sta nella logica delle cose. Detto questo - ha però proseguito - non dimentichiamo che esiste un carico di gestione nelle strutture ospedaliere anche per gli asintomatici che devono essere tenuti separati. Così come non facciamo l'errore che gli asintomatici non possano contagiare». La dichiarazione è un assist per la Società italiana di Anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva, che lancia un nuovo allarme: la crescita dei casi sta infatti facendo emergere una nuova criticità, proprio quella di pazienti Covid asintomatici che devono essere operati (ad esempio per un tumore, una frattura o un'ernia) ma che risultano positivi al virus al momento dell'ingresso in ospedale. «Si tratta di una popolazione in crescita esponenziale in questi giorni - spiegano - per la quale servono protocolli e spazi dedicati che oggi non sono codificati. Il risultato è che ogni azienda si organizza come meglio crede». Con gli ospedali, già sotto pressione, che finiscono nel caos. E mentre esperti e virologi dettano le loro ricette - per lo più: basta test, basta isolamenti, basta terrorismo con dati poco obiettivi sugli ospedalizzati - ecco che intanto l'Italia segna il record assoluto di vaccini: 4 milioni e mezzo in 7 giorni, col 90% della popolazione a una dose. La battaglia più importante contro Omicron prosegue».

Domani nuovo DPCM: che cosa cambia nel punto di Sarzanini e Guerzoni per il Corriere.

«Alimenti, farmaci e prodotti medicali, giornali, carburante, articoli per gli animali: il governo trova l'intesa sui negozi dove si potrà entrare dal 1° febbraio senza avere almeno il green pass base. Alcuni dettagli dovranno essere ancora messi a punto, ma la linea è decisa e le eccezioni riguarderanno pochissimi esercizi commerciali. Dopo giorni di trattative tra il ministero della Pubblica amministrazione guidato da Renato Brunetta e quello per lo Sviluppo economico retto da Giancarlo Giorgetti, la lista è pronta. Oggi, al massimo domani, il premier Mario Draghi firmerà il Dpcm che consentirà anche a chi deve affrontare questioni urgenti di giustizia - presentazione di una denuncia o testimonianza in un processo - di poter entrare negli uffici senza dover esibire la certificazione. Nei prossimi giorni il ministro della Salute Roberto Speranza incontrerà i governatori per valutare, «sia pure con la massima prudenza», l'allentamento di alcune regole, comprese quelle che portano alla divisione dell'Italia per fasce colorate. La lettera di convocazione è partita ieri sera, eventuali modifiche saranno studiate analizzando l'andamento della curva epidemiologica. Il green pass base Per entrare nei negozi non è necessario essere vaccinati o guariti, basta avere il pass base che si ottiene con un tampone antigenico negativo (valido 48 ore) oppure molecolare (valido 72 ore). I negozi alimentari Non servirà la certificazione verde per acquistare generi alimentari sia nei negozi al dettaglio sia nei supermercati. Ingresso libero anche per i negozi che vendono surgelati e bevande, le pescherie, i grossisti di prodotti ittici e di carne. I mercati all'aperto Niente green pass base per fare shopping nei mercati all'aperto. Il governo è orientato a consentire gli acquisti anche a chi non ha alcuna certificazione. Farmaci e cosmetici Nelle farmacie e nelle parafarmacie non bisognerà esibire il green pass e dunque si potranno acquistare medicinali e prodotti per la cura e l'igiene del corpo, compresi deodoranti, bagnoschiuma, shampoo. Nella lista di chi ha ottenuto la deroga ci sono anche gli ottici. Esclusi invece i negozi che vendono cosmetici, dove si potrà entrare soltanto mostrando il certificato. Edicole no, librerie sì Niente certificato base per fare acquisiti di giornali e periodici nelle edicole all'aperto (i chioschi), mentre servirà nei negozi al chiuso che vendono giornali o articoli di cartoleria. Green pass base obbligatorio anche per entrare nelle librerie. I tabaccai Dal tabaccaio servirà il green pass base. Durante il lockdown del 2020 questi negozi erano rimasti aperti perché avevano ottenuto la deroga. Adesso il governo ritiene invece che non possano essere inseriti nella lista degli esercizi commerciali esenti perché gli articoli in vendita non rientrano tra quelli «essenziali per la cura della persona», ma anche perché in molti di questi negozi ci sono slot machine e altri apparecchi per il gioco. I prodotti per animali Niente pass anche nei negozi che vendono generi alimentari e per la cura degli animali. I carburanti Per fare rifornimento di carburante per moto, auto e altri veicoli presso le pompe di benzina, ma anche per comprare combustibili per la casa - compresa la legna, il pellet oppure il cherosene e gli altri prodotti per stufe e camini - non sarà necessario avere alcuna certificazione. Le nuove regole La lettera del ministro Speranza per affrontare con i governatori il possibile cambio di alcune regole è stata inviata. I presidenti di Regione chiedono di eliminare la divisione per fasce di colore o comunque di valutare l'incidenza del Covid sulla base di parametri sui ricoveri in ospedale diversi da quelli attuali».

OXFAM ACCUSA: IL VIRUS HA AUMENTATO LE DISUGUAGLIANZE

È il lato sociale della pandemia. Oxfam accusa: la «variante miliardari» accresce le disuguaglianze mondiali. In 2 anni i 10 uomini più ricchi del mondo hanno più che raddoppiato i loro patrimoni (da 700 a 1.500 miliardi di dollari). Nello stesso periodo si stima che 163 milioni di persone siano cadute in povertà. Eugenio Fatigante per Avvenire.

«Sono gli altri numeri della pandemia. Il rovescio della medaglia: da un lato vaccinati e ricoverati, dall'altro chi - alcuni colossi, vecchi e nuovi, farmaceutici e delle biotecnologie - producendo quei vaccini salva vite umane, ma accresce anche le proprie fortune. E così, accanto al Covid, il virus storico delle disuguaglianze ha ripreso a galoppare dopo un 2020, il primo anno dell'era Coronavirus, di relativa stasi. Se per molti la lotta alla pandemia (con le annesse chiusure di attività economiche) ha comportato un impoverimento finanziario, in questi 2 anni i 10 uomini più ricchi del mondo hanno però più che raddoppiato i loro patrimoni, passati da 700 a 1.500 miliardi di dollari, al ritmo di 15mila dollari al secondo. Nello stesso periodo si stima che 163 milioni di persone siano cadute in povertà (vivono cioè con meno di 5,50 dollari al giorno) rispetto al periodo pre-pandemico. E le proiezioni dicono che, senza radicali interventi, è verosimile che si torni alla situazione antecedente non prima del 2030. Le differenze socio-economiche si sono aggravate anche in Italia: nei 21 mesi di pandemia intercorsi fra marzo 2020 e novembre 2021 il numero dei miliardari italiani presenti nella 'lista Forbes' è cresciuto di 13 unità, passando da 36 a 49. Al primo posto si conferma la famiglia dei Ferrero (cioccolata), seguiti da Leonardo Del Vecchio, con Berlusconi 'solo' quinto, preceduto al terzo posto da quello Stefano Pessina che molti faticherebbero a riconoscere e che è uno degli azionisti di Walgreens Boots Alliance, colosso della distribuzione di farmaci. A indagare su queste clamorose differenze sociali è come ogni anno Oxfam, la confederazione internazionale di Ong impegnata nella lotta alle disuguaglianze che, in occasione dell'apertura dei lavori del World Economic Forum, ha pubblicato ieri il rapporto "La pandemia della disuguaglianza". Dall'inizio dell'emergenza Covid-19, ogni 26 ore un nuovo miliardario si è unito ad una élite composta da oltre 2.600 super-ricchi, le cui fortune sono aumentate di ben 5mila miliardi di dollari, in termini reali, sempre nei 21 mesi presi in esame. Fra questi Paperoni si sono aggiunti alcuni produttori di vaccini, denuncia Oxfam che già a luglio 2021 aveva parlato di " The great vaccine robbery" e ora parla di 'variante miliardari': i monopoli detenuti da Pfizer, Biontech e Moderna hanno permesso loro di realizzare utili per 1.000 dollari al secondo e hanno creato 5 nuove realtà miliardarie. La disuguaglianza prolunga però il corso della pandemia: solo meno dell'1% dei loro vaccini ha raggiunto finora le persone nei Paesi a basso reddito. La percentuale di persone con Covid-19 che muore a causa del virus in questi Paesi è circa il doppio di quella delle nazioni ricche, mentre ad oggi è stato vaccinato appena il 4,81% della loro popolazione. «La disuguaglianza non è una fatalità, ma il risultato di precise scelte politiche - ha detto Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam International che per questo ripropone l'idea di una tassa sui più ricchi -. Non è mai stato così importante intervenire sulle sempre più marcate ingiustizie e iniquità». Invece accade che aziende come Pfizer/Biontech e Moderna facciano pagare una dose fino a 24 volte il suo costo di produzione, in una tenaglia che vede anche bloccare gli sforzi dei Paesi in via di sviluppo per derogare alle norme sulla proprietà intellettuale dei relativi brevetti nella sede dell'Organizzazione mondiale del commercio ( Wto). La conseguenza è che la mancanza di accesso ai vaccini sta ampliando ancor più il divario fra Paesi ricchi e poveri e finisce col ritardare la ripresa globale. Eppure, denuncia sempre Oxfam, tutto questo è tutt' altro che inevitabile: basterebbero una deroga al Wto e un'iniezione finanziaria che potrebbe costare meno di 10 miliardi di dollari. Un niente ad esempio per Jeff Bezos, il gran capo di Amazon, che durante la pandemia da solo ha cumulato un surplus patrimoniale pari a più 81,5 miliardi di dollari, che equivale al costo completo stimato della vaccinazione (due dosi e booster) per l'intera popolazione mondiale. «Già ora i 10 super-ricchi detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio dei 3,1 miliardi di persone che sono il 40% più povero della popolazione mondiale - afferma ancora Bucher -. Se anche vedessero ridotto del 99,993% le proprie fortune, resterebbero comunque membri titolati del top-1% globale». Il virus della disuguaglianza colpisce in particolar modo anche le donne che, oltre ad aver perso nel complesso 800 miliardi di dollari di redditi nel 2020, devono far fronte a un aumento significativo del lavoro di cura non retribuito, che ancora oggi ricade prevalentemente su di loro. «Le banche centrali hanno pompato miliardi di dollari nei mercati per salvare l'economia, ma gran parte di queste risorse sono finite ai miliardari che hanno cavalcato il boom del mercato azionario», conclude Bucher. Anche in Italia, la ricchezza netta complessiva dei miliardari nostrani ammontava a novembre 2021 a 185 miliardi di euro, cresciuta del 56% (66 miliardi) dal primo mese del Covid. E i 40 più ricchi posseggono oggi l'equivalente della ricchezza netta del 30% degli italiani più poveri (18 milioni di adulti)».

PATTO DI STABILITÀ, SI APRE LA DISCUSSIONE IN EUROPA

Si apre il dibattito sulla riforma del patto di stabilità. L’Europa parte divisa: l'Austria vuole regole di bilancio più severe mentre Berlino non si schiera. Tonia Mastrobuoni per Repubblica.

«Il primo Eurogruppo del 2022 si è risolto in un semplice posizionamento delle truppe. Alla vigilia dell'anno cruciale della riforma del Patto di stabilità, è già chiaro che si entrerà nel vivo della discussione solo in estate, dopo la presentazione della proposta da parte della Commissione Ue. Al di là delle discussioni di maniera sulla prevalenza da assegnare all'obiettivo della "crescita" o della "stabilità" su cui si sono cimentati ieri il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, che ha sottolineato l'importanza della prima, e il suo omologo tedesco Christian Lindner, che ha insistito sulla necessità che il debito scenda, il primo incontro dell'anno è servito a schierare le pedine sulla scacchiera. Ad aprire le danze è stato in mattinata il nuovo responsabile delle Finanze austriaco, Magnus Brunner, ansioso di scippare lo scettro di leader dei frugali ai Paesi Bassi. Anche perché, rivela una fonte, la nuova ministra delle Finanze olandese, Sigrid Kaag, si è mostrata al suo esordio europeo molto più dialogante del suo arcigno predecessore Hoekstra. In un'intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung , l'austriaco Bunner ha annunciato in ogni caso di voler allargare l'attuale coalizione a quattro a una "Alleanza della responsabilità" che abbia l'obiettivo di «tornare nel medio termine a finanze politiche sostenibili». Vienna punta a coinvolgere tra i "falchi", oltre a Paesi Bassi, Danimarca, Svezia e Finlandia, anche Repubblica Ceca, Slovacchia e Paesi baltici. «E, spero, la Germania». Tornando alla metafora della scacchiera, se anche altri Paesi come la Francia o l'Italia hanno ribadito anche ieri la loro volontà di cambiare le regole del Patto - Le Maire anche in un'ampia intervista a Repubblica - non è ancora chiaro dove metterà la sua pedina il Paese più importante, la Germania. Lindner non è uscito ieri dall'ambiguità dei mesi scorsi. «È ancora un oggetto misterioso », sintetizza una fonte presente all'incontro. Lindner si è definito "realista" e ha ribadito di non volere grandi modifiche al Patto e ha scartato l'ipotesi, avanzata dal presidente tedesco dell'Esm Klaus Regling, di aumentare la soglia del debito al 100%. Ma il liberale sarebbe disponibile a discutere una revisione del ritmo con cui i Paesi potranno tagliare il debito. E anche ieri, quando ha detto che serve «un equilibrio intelligente fra debito e investimenti», non è sembrato escludere la possibilità che si trovi lo spazio, al netto dei paletti per il disavanzo, per fare investimenti. Una frase che ha fatto aggrottare qualche sopracciglio è stato invece quando Lindner ha detto che «va risolto anche il nesso tra debito sovrano e banche». Sembra un ritorno della vecchia ossessione tedesca di un limite per i titoli di Stato nei bilanci delle banche e della fine della loro "neutralità". Un'ipotesi su cui non si è mai trovato un accordo né nei consessi globali come il Comitato di Basilea, né in Europa. E che a ogni accenno serio ha scatenato ondate di nervosismo sui mercati. Se la Germania, come Scholz ha segnalato anche ieri nel suo incontro a Madrid con il premier Pedro Sanchez, ha davvero intenzione di fare da mediatrice tra le fazioni in campo, questa dichiarazione di Lindner sembra schierare la Germania decisamente nel campo dei FALCHI».

QUIRINALE 1. MOSSA DI SALVINI:  METTE FRETTA AL CAV

Colpo di scena a sei giorni dal primo voto per l’elezione del nuovo capo dello Stato. Matteo Salvini parla alla stampa e mette fretta Berlusconi: deve dire se ha i voti. E annuncia una sua “proposta”. Emanuele Lauria per Repubblica.

«La clessidra di Matteo Salvini si è già svuotata. Il leader della Lega è già oltre Berlusconi, è con la mente a una proposta che arriverà la prossima settimana e che «sarà convincente per tanti, se non per tutti». È il giorno che produce una nuova scossa, sulla strada del Quirinale, e l'epicentro è piazza San Luigi de' Francesi, dove il capo del Carroccio convoca i giornalisti e e decide di mettere alle strette il padre della coalizione che punta al Colle. I toni non sono esattamente quelli di chi spinge senza indugi verso il palazzo dei Papi il Grande vecchio cui tre giorni prima ha chiesto in un documento di scendere in campo: «Aspettiamo che Berlusconi faccia i suoi incontri e faccia i suoi conti...», sospira Salvini con l'aria di chi a "quei conti", cioè ai numeri del Cavaliere, crede relativamente. Altro che "metodo scoiattolo", altro che lo scouting affidato a Sgarbi: la guida degli ex lumbard vede franare anche la parte centrale del proprio schieramento, con i distinguo ormai non solo accennati di Coraggio Italia, che conta una trentina di parlamentari. E Salvini mette in mezzo un ostacolo non da poco per i progetti di Berlusconi: «Entro lunedì, giorno della prima votazione, deve sciogliere la riserva». Traduzione: il fondatore di Forza Italia non può pensare di trascinare l'intero schieramento sino alla quarta votazione e di fargli correre il rischio di una debacle d'aula, senza paracadute. Anzi una risposta, Salvini, la vorrebbe persino prima, suggerendo un anticipo del vertice di coalizione: domani, al massimo giovedì. La mossa del senatore milanese sembra quasi dettata dalla lettera che Denis Verdini, dai domiciliari, ha inviato a Fedele Confalonieri e Marcello Dell'Utri, in cui indicava per Salvini il ruolo di kingmaker. «Sento sulle mie spalle la responsabilità della coalizione del centrodestra. Gli italiani ci hanno dato la maggioranza, abbiamo l'onore e l'onere di fare una proposta che sia condivisa. Non dico no a nessuno. E lavoro a 360 gradi», afferma Salvini. Le sue parole scatenano un cortocircuito: in casa forzista vengono prese tutt' altro che bene, parte sottotraccia una richiesta di spiegazioni al segretario leghista, nel frattempo si parla di equivoci, di concetti mal spiegati. «Non c'è dubbio che il profilo del presidente Silvio Berlusconi sia quello più autorevole - sottolineano subito fonti azzurre - Ogni tentativo di creare polemiche o contrapposizioni fittizie, utili solo agli avversari politici, sarà respinto». Passa quasi un'ora prima che lo staff di Salvini parli di «letture malevole ». E alle otto della sera servirà un chiarimento diretto fra Berlusconi e Salvini. Dietro il rituale della "cordiale telefonata" restano le distanze, anche se vengono smentite le voci di un passo indietro dell'ex premier. Almeno per ora. Ma i due leader ora sospettano uno dell'altro, e si marcano su reciproci piani B. Salvini nega di averne ma parla con tutti i capi partito, a cominciare da Renzi, e ieri ha incontrato il 5S Riccardo Fraccaro. Di certo la sua carta nascosta è un nome di area di centrodestra, su cui ricercare ampie convergenze: il suo pallino è Marcello Pera ma nel novero delle candidature c'è pure Letizia Moratti, forse più capace di trovare consensi oltre gli steccati. Ma Berlusconi ha davvero poca intenzione di farsi da parte a favore di due sue creature politiche. Così come di valutare altre ipotesi, quali Pierferdinando Casini o Franco Frattini, neopresidente del Consiglio di Stato. C'è Giuliano Amato, altra riserva istituzionale, ma negli ambienti della Lega non è un profilo che scalda i cuori. Il timore di Salvini, d'altra parte, è che Berlusconi abbia un proprio piano B: in caso di fallimento della sua missione, il Cavaliere potrebbe riprendersi la sedia del regista e lanciare Mario Draghi, intestandosi un profilo alto. Questa lettura, al capo della Lega, è suggerita anche dalla visita di Gianni Letta a Palazzo Chigi, qualche giorno fa, dove l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha incontrato il capo di gabinetto Antonio Funiciello. Non a caso, Salvini continua a bloccare Draghi sula strada del Quirinale («È meglio che resti dov' è») ma creando nei fatti anche condizioni difficili per la sua permanenza a Chigi, con l'invito a un rimpasto che dovrebbe premiare i leader di partito ma che certo destabilizzerebbe il governo».

Ma quali sono i nomi che ha in mente il capo della Lega? Di Caro e Zapperi per il Corriere.

«Ha fretta di chiudere, Matteo Salvini. E allora schiaccia sull'acceleratore. Un tocco più morbido e un altro più deciso, ma entrambi tesi a mandare un chiaro messaggio a Silvio Berlusconi. «Entro due-tre giorni dobbiamo trovare una soluzione» è l'imperativo del segretario leghista che, tradendo la sua impazienza, accosta in una sequenza logica piano A e piano B, depotenziando implicitamente il primo. Perché sostenere che entro una settimana la Lega sarebbe in grado di proporre un'opzione in grado di «accontentare molti» significa dare quasi per scontato, nei fatti se non nelle parole, che il tentativo di reclutamento di grandi elettori da parte del leader di Forza Italia, per quanto prosegua con ampio spiegamento di mezzi e di uomini, è destinato ad infrangersi contro l'unico giudice implacabile nei confronti delle ambizioni umane: il quorum. Salvini conferma fedeltà assoluta a Berlusconi, ma quello che ha visto in questi giorni non gli piace e soprattutto non lo convince sulla possibilità di un lieto fine. E quindi chiede all'alleato di fare tutte le verifiche del caso entro pochi giorni. «O dentro o fuori, non possiamo arrivare all'inizio delle votazioni in Aula con un quadro ancora incerto», è la sintesi che filtra dagli ambienti leghisti. Proprio perché non paia una sollecitazione fine a sé stessa, ecco l'altro colpo di acceleratore per cercare di portare al traguardo la soluzione B: una candidatura che «piaccia a molti, se non a tutti». In controluce, dietro questa proposta si rivede Denis Verdini (padre della compagna di Salvini) e quel suo invito a fare del leader del Carroccio il vero, unico kingmaker del nuovo inquilino del Quirinale. Sia nel caso si tratti di investire tutto su Berlusconi sia qualora si decida di puntare su un'alternativa. Il segretario vuole fare della partita per il Colle uno snodo decisivo per riaffermare la sua leadership sul centrodestra. Per farlo c'è un solo modo: mettere sul piatto il nome di un candidato che possa essere sostenuto dalla propria coalizione ma che si riveli vincente sapendo catturare consensi anche negli altri partiti. La mossa non deve essere piaciuta granché dalle parti di Forza Italia, visto che pochi minuti dopo le esternazioni di Salvini è stata diffusa una nota per smentire «contrapposizioni» che nessuno aveva evocato e che lo stesso segretario leghista ha negato. Da Fratelli d'Italia il tentativo è quello di non alzare il livello dello scontro. Ma dietro le quinte l'interpretazione che si dà in via della Scrofa è che il leader della Lega abbia voluto riprendersi il ruolo di regista. Ma la puntualizzazione è netta: «Si decide tutti insieme». Per Salvini le vere difficoltà stanno nel concretizzare il piano B. Se si deve partire da figure di centrodestra è necessario che non siano troppo caratterizzate politicamente o, termine in gran voga di questi tempi quirinalizi, «divisive». Il primo nome che circola è quello di Maria Elisabetta Casellati, presidente del Senato e quindi figura istituzionale, anche se in passato protagonista di battaglie identitarie per Forza Italia. Il secondo è quello di Letizia Moratti, ora assessore al Welfare e vicepresidente della Regione Lombardia, con un passato da ministro, presidente Rai e commissaria Expo. Ma a Salvini non dispiacerebbe nemmeno Marcello Pera, a sua volta ex presidente di Palazzo Madama, con il quale nei mesi scorsi si è confrontato spesso su una possibile evoluzione in senso liberale della Lega. Resta la necessità di andare oltre lo steccato e allora ecco affiorare un nome che assomiglia ad un fiume carsico, per il suo affiorare e inabissarsi a seconda delle circostanze, quello di Pier Ferdinando Casini, ex presidente della Camera, ora in area centrosinistra ma per un ventennio nel campo moderato. Un democristiano di lungo corso in buoni rapporti con tutti, o quasi, che piace a Matteo Renzi ed è stato eletto in Parlamento con i voti del Pd. Sullo sfondo però la vera opzione rimane un'altra. Ed è quella di Draghi».

QUIRINALE 2. LA BATTAGLIA SU CHI VOTA E COME

Mentre si discute dell’accelerazione di Salvini, a Montecitorio è sul tavolo la questione dei grandi elettori positivi. Devono votare o no? E come? Giovanna Casadio per Repubblica.

«La soluzione per far votare i Grandi elettori positivi c'è: le autorità sanitarie possono autorizzare gli spostamenti da un domicilio a un altro, con mezzi speciali per garantire la massima tutela. Nella riunione dei capigruppo di Montecitorio con il presidente Roberto Fico, compare la circolare del ministero della Salute del 13 gennaio scorso che affronta la questione generale dello spostamento di "casi Covid-19 e contatti stretti, dalla sede di isolamento/quarantena ad altra sede di isolamento quarantena". La destra, con Fratelli d'Italia in testa, la sventola: vuole dimostrare a Fico che i positivi e gli assenti forzati possono votare per il Quirinale, basta volerlo e studiare corridoi ad hoc per raggiungere Roma e un seggio volante presso strutture Covid o sotto casa. Francesco Lollobrigida, il capogruppo di FdI, insiste perché si arrivi a una soluzione. «Fico deve starci a sentire, anche perché il pressing per fare votare i positivi si sta allargando, neppure i 5Stelle sono contrari», sollecita Lollobrigida. Il fronte pro voto ai positivi si allarga: non solo Salvini, Meloni, Forza Italia e Coraggio Italia puntano i piedi, ma anche i renziani non escludono la possibilità. Debora Serracchiani, la capogruppo del Pd invece dice: «Non ci sono le condizioni». Sia Marco Di Maio sia la presidente della commissione Sanità del Senato, Annamaria Parente, di Italia Viva, invitano invece a una decisione che non comprima la platea dei 1009 Grandi elettori. Attualmente tra Montecitorio e Palazzo Madama i positivi sono una quarantina. Ma se i numeri crescono potrebbero arrivare a un centinaio e incidere su maggioranze già incerte. Escluso tuttavia il voto a distanza. Di Maio propone un Covid hotel davani a Montecitorio per votare poi nel cortile della Camera. La destra si scrolla di dosso il sospetto del centrosinistra, ovvero che Berlusconi tema gli si restringano i voti. Interviene Matteo Salvini: «Spero che i presidenti delle Camere facciano di tutto perché tutti possano votare. È il voto per il Presidente degli italiani e quindi se c'è qualche positivo che sta bene o qualcuno che, come da Costituzione, ha il diritto di scegliere il presidente della Repubblica spero si facciano tutti gli sforzi per farli votare». Idem dal centrista Maurizio Lupi e da Emilio Carelli di Coraggio Italia. Il questore forzista della Camera, Gregorio Fontana rincara: «Una soluzione va trovata, ci conforta il parere di importanti costituzionalisti». Sono Francesco Clementi e il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli, tra gli altri, a osservare che non si può comprimere la funzione costituzionale dei Grandi elettori. Fico aveva affermato che «in questo momento i positivi a norma di legge non possono votare». Però la posizione espressa in conferenza dei capigruppo non è pregiudizialmente contraria, a patto che ci sia l'accordo di tutti. Così come in una nota la terza carica dello Stato, a proposito delle schede scrutinate con il nome del candidato al Colle e delle relative furbizie al momento della conta per controllare i voti, precisa che «la decisione sulla lettura delle schede sarà adottata a garanzia della correttezza e del buon andamento dei lavori per l'elezione del presidente della Repubblica. Questo è l'obiettivo che ha ispirato anche i predecessori». Niente speculazioni politiche e atteggiamenti ad personam , insomma. Commenta il dem Francesco Boccia: «Non abbiamo dubbi che Fico farà tutto quello che è in suo potere per evitare alle Camere riunite l'umiliazione di forme di controllo del voto». A meno di una settimana dalla prima seduta per il Quirinale, lunedì prossimo, pende sull'elezione del nuovo capo dello Stato anche il ricorso alla Consulta di cinque parlamentari delle isole che ritengono non rispettato il loro diritto di parlamentari, dovendo avere il Super Green Pass per prendere traghetti e aerei. Partono da loro, ma allargano la questione ai 6 milioni di isolani. Il ricorso è stato presentato da Pino Cabras, Emanuela Corda e Andrea Vallascas (Alternativa), dall'ex grillina Simona Suriano e dal senatore Pietro Lorefice del M5S. Domani il pronunciamento della Consulta».

Michele Brambilla nel suo editoriale sul Quotidiano nazionale torna sulla questione delle schede segnate.

«Chi si stupisce perché tanti italiani non vanno più a votare, e per il fatto che all'estero ci considerino spesso una repubblica delle banane, rifletta sul tema che sta agitando, in queste ore, i sonni del povero presidente della Camera Roberto Fico, alle prese con una questione che non dovrebbe neppure esistere, ma che al contrario assume, nel nostro Paese, la dignità di grande strategia politica. E cioè la storia delle schede taroccate per eleggere nientemeno che il Capo dello Stato. Spieghiamo di cosa si tratta al lettore eventualmente ignaro. Fico, a partire dal 24 gennaio prossimo, dovrà leggere in Aula i nomi segnati sulle schede depositate nell'urna. Ma facciamo un passo indietro. I partiti stanno trattando (e tramando) sul nome del nuovo Presidente della Repubblica. Per eleggerlo occorrono due terzi dei consensi per le prime tre votazioni, la maggioranza assoluta (metà più uno) dalla quarta in poi. C'è un piccolo problema, però: il voto è segreto. E quindi, chi maneggia per ottenere il Quirinale, come farà a verificare la fedeltà di chi ha promesso - nelle trattative sottobanco - il voto? Alcuni Machiavelli de' noantri hanno dato a Berlusconi un suggerimento per capire se i suoi alleati di centrodestra lo voteranno tutti, oppure se qualche franco tiratore lo tradirà. E il trucco sarebbe questo: ordinare ai grandi elettori di Forza Italia di scrivere sulla scheda «Silvio Berlusconi»; a quelli della Lega di scrivere «Berlusconi Silvio»; a quelli di Fratelli d'Italia «Berlusconi»; a Noi con l'Italia «S. Berlusconi». Così, andando alla conta, si vedrà eventualmente se e dove sono mancati i voti. Trucchetti suggeriti pubblicamente, via media, così da allarmare il presidente della Camera. E che cosa può fare Fico, che dovrà leggere a voce alta le schede? Non può imporre come esprimere il voto. Sulla scheda ci si è sempre sbizzariti: nel 1971 qualcuno, per bocciare la candidatura di Fanfani, scrisse «Nano maledetto, non sarai mai eletto»; qualcun altro, sette anni fa, votò «Raffaello Mascetti», che era il personaggio di Ugo Tognazzi in Amici miei: quello della supercazzola, per capirci. E quindi una soluzione potrebbe essere questa: qualunque cosa sia scritta, Fico leggerà ad alta voce solo il cognome, o solo il nome e poi il cognome, in modo da neutralizzare il giochetto. Giochetto che, intendiamoci, s' è sempre fatto, e da parte di tutti: non è solo un'idea di oggi pro Berlusconi. Ma almeno, una volta, queste cose si facevano senza dirlo. Adesso le si ostentano, credendo di passare per più furbi degli altri, e invece si passa per furbastri, che è una cosa diversa. Si passa per arroganti, lontani anni luce dai problemi veri della gente comune».

Antonio Padellaro sul Fatto propone un diario del franco tiratore, presentato come un “libero pensatore”.

«Fino all'elezione del nuovo Capo dello Stato, questa rubrica si propone di registrare - attraverso colloqui oltraggiosamente anonimi - manovre, pettegolezzi e cattivi umori di quei Grandi elettori che non contano niente, ma possono impallinare tutti. Mi chiede se sono orgoglioso di esercitare il mio diritto di voto come meglio mi aggrada e fuori dal gregge dei colleghi pecoroni? Ma certo che sì e con sommo entusiasmo. Cominciamo col dire che il franco tiratore - su cui pesa l'ingiusta nomea di traditore e voltagabbana - è in realtà un libero pensatore, forse l'ultimo libero pensatore di questa nostra agonizzante democrazia parlamentare. Abbiamo infatti a che fare con una storia gloriosa che annovera prestigiosi e insospettabili nomi della politica e della cultura. Si cita, per esempio, il cecchinaggio che nella Prima Repubblica affondò la candidatura di Amintore Fanfani, con la scheda dove c'era scritto: "Nano maledetto non sarai mai eletto". Ebbene, lei forse non sa che quella rima sontuosa fu attribuita nientemeno che al Premio Nobel e senatore a vita, Eugenio Montale, il quale detestava, ricambiato, il tiranno aretino. Ma veniamo all'oggi e alla candidatura di Silvio Berlusconi, annunciata dalla coppia Salvini e Meloni come se gli stessero cavando un dente. Il perché è scritto sui muri. I voti del centrodestra non ci saranno mai nella misura richiesta perché non sono pochi, anzi sono troppi, coloro che nei gruppi parlamentari di Lega e FdI considerano il "nano", così viene affettuosamente chiamato un signore bollitissimo e soprattutto una catastrofe politica che farebbe tornare il centrodestra indietro di trent' anni. Poiché i due cosiddetti leader non hanno il coraggio di dirgli di no in faccia, perché è notoriamente lui a tenere i cordoni della borsa, e ci siamo capiti, adesso sperano ardentemente che siano i franchi tiratori a fare il lavoro sporco al posto loro. Infatti continuano a dire che il centrodestra sarà compatto su Berlusconi e intanto già parlano di altre candidature. Mi dia retta, se il "pregiudicato", come lo chiamate voi del Fatto, nei prossimi sette anni resterà a fare compagnia a Dudù e Dudina, il merito esclusivo sarà di noi cecchini. E, questa volta, senza colpo ferire.»

QUIRINALE 3. L’ORA FATALE DEL CENTRO DESTRA

Stefano Folli per Repubblica analizza la mossa di Salvini, chiedendosi se davvero in questa occasione il centro destra avrà un ruolo decisivo.

«A meno di una settimana dalla riunione del Parlamento, la questione di fondo non riguarda quante probabilità ha Berlusconi di essere eletto, perché a tale eventualità non crede quasi nessuno. Invece l'interrogativo è: riuscirà il centrodestra a far pesare in modo decisivo i suoi voti (diciamo da 420 a 450) nella scelta del nome, il che segnerebbe un evento non trascurabile nella storia politica del Paese. Un presidente di centrodestra - ma non Berlusconi - eletto da una maggioranza ristretta: il blocco Forza Italia, Lega, FdI, gruppi minori più una frangia proveniente dal Misto. Lo stesso Renzi ha detto ieri al Corriere di non avere preclusioni di principio a votare un candidato di quella parte politica, se il profilo lo convincesse (e in tal caso, ha aggiunto, lo farebbe senza aspettare le decisioni di Pd e 5S). Per arrivare a un simile esito, tuttavia, la strada è accidentata, a dire poco. In primo luogo, c'è da considerare l'ostinazione di Berlusconi. Molti si aspettano che all'ultimo, prima dell'inizio degli scrutini, il fondatore di Forza Italia faccia un gesto di rinuncia, avendo costatato che gli mancano i numeri. E che magari nell'occasione avanzi il nome di Draghi, così da apporre il sigillo politico all'operazione. È possibile, ma non probabile, dato il carattere dell'uomo: al momento dobbiamo affidarci a ipotesi e speculazioni. L'altro aspetto riguarda Salvini: è in grado di rivestire il ruolo del "regista" a cui aspira? Di certo il capo della Lega vuole cogliere l'opportunità di un presidente espressione della destra. I nomi che egli sta proponendo in giro, nei suoi colloqui informali, frenati peraltro dalla lealtà ancora dovuta a Berlusconi, sono quelli di Marcello Pera e Letizia Moratti. Nessuno dei due finora sembra in grado di ottenere i voti del centrosinistra. C'è anche un terzo nome che resta sullo sfondo, quello del presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati. Avrebbe il vantaggio, diciamo così, di liberare la presidenza di Palazzo Madama a cui potrebbe aspirare un esponente del Pd. Ma un simile scambio, va detto, sembra non proponibile per mille ragioni, compreso il fatto che la legislatura è prossima alla fine. In ogni caso sembra arrivato il tempo di iniziative meglio strutturate. Enrico Letta ha già fatto la sua mossa: un patto di legislatura e un presidente al di sopra delle parti (Draghi, tra le righe). Il problema - a parte le divisioni nel campo del centrosinistra - è che un simile patto può essere logico, ma i tempi sono stretti e la volontà di trattare per ora è molto vaga. A destra è chiaro che Salvini, se vuole accreditarsi come gran tessitore, deve mettere le carte in tavola: far capire se i suoi colloqui definiscono una strategia concordata a monte, con il vertice dello schieramento, oppure sono solo un modo per guadagnare tempo. E infatti l'altro quesito è il seguente: Berlusconi, una volta fallito il suo tentativo personale, lascerà spazio a un'altra candidatura del centrodestra, chiunque sia? Ovvero farà terra bruciata, preferendo a quel punto un nome super partes o addirittura una personalità della sinistra in grado di dargli alcune garanzie? I dubbi rimangono. Il bandolo della matassa, se così si può dire, è nelle mani della destra. Ma le idee sono confuse e non si può escludere che in caso di grave paralisi un Parlamento spaventato (le elezioni anticipate restano un'ipotesi non troppo remota) torni a rivolgersi a Mattarella».

Alessandro Sallusti per Libero vede tre possibili conseguenze della mossa di Salvini:

«Non hanno i toni dell'ultimatum ma certo le parole che ieri ha pronunciato Matteo Salvini mettono un punto fermo nei giochi per l'elezione del prossimo Presidente della Repubblica per quanto riguarda il Centrodestra. Silvio Berlusconi - è il senso della dichiarazione - ha tempo fino a domenica per dimostrarci di aver trovato i voti necessari, e se così non sarà il leader della Lega si sentirà libero di percorrere altre strade. È lo scatto in avanti che si aspettavano i suoi collaboratori ed elettori, più che un annuncio è la presa in carico della responsabilità che spetta al capo di una coalizione. Ed è anche una mossa coraggiosa e rischiosa, la storia insegna - vedi Pierluigi Bersani con Prodi - che se uno prende l'iniziativa sull'elezione del Capo dello Stato e toppa il conto è salatissimo, il destino segnato quasi irrimediabilmente. Facciamo tre scenari. Salvini non si fida della conta di Berlusconi ma Berlusconi tira diritto: fine del Centrodestra; Salvini si fida, appoggia Berlusconi ma l'operazione fallisce: fine di Berlusconi e, almeno in parte, di Salvini; Berlusconi domenica si arrende, Salvini fa convergere il Centrodestra su un altro candidato: se va, Salvini da capitano promosso a generale sul campo, se toppa Salvini morto. Ovvio che detta così è una analisi un po' semplicistica, per esempio perché non penso che Giorgia Meloni starà a guardare e accetterà la qualsiasi da Salvi ni e da Berlusconi. Ma non complichiamo, da qui all'elezione ogni giorno avrà la sua cifra che potrà addirittura contraddire quella precedente. Oggi è sceso in campo Salvini, domani vedremo. Per lui è certamente l'ora decisiva, la più difficile della sua carriera, nella quale deve dimostrare di saper pilotare nella tempesta politica la nave del Centrodestra, non solo di saper riempire le piazze della Lega come ha fin qui fatto egregiamente. Il porto del Quirinale non è un approdo qualsiasi, se Salvini se la sente ha il diritto di provarci a dare le carte ma deve mettere in conto che l'eventualità di rompere con Berlusconi sarebbe una decisione che cambierebbe per sempre la storia della politica. Mi auguro che sappia tenere i nervi saldi e, ovviamente, gli auguro di cuore di non sbagliare il colpo perché in canna ne ha uno solo».

QUIRINALE 4. IL TORMENTO DEI GIALLOROSSI

Le frasi di Goffredo Bettini hanno irritato il leader dei 5 Stelle Conte. Domani è previsto un vertice a tre con Letta e  Speranza. Maria Teresa Meli ed Emanuele Buzzi per il Corriere.

«Per la fu maggioranza giallorossa la settimana non comincia sotto i migliori auspici. Una frase rilasciata da Goffredo Bettini al Corriere fa montare la tensione tra Pd e M5S: «Vedo Conte in notevole difficoltà. È più un leader di governo che un capo partito». L'ex premier la legge e si irrita. Si dice «deluso e amareggiato». I due, poi, si chiariranno per telefono e Bettini farà un pubblico attestato di stima nei suoi confronti, ma intanto la giornata è iniziata storta. Stefano Patuanelli si inalbera: «La direzione di marcia della coalizione non è quella giusta». Riccardo Ricciardi si «perplime»: «Quelle parole sulla leadership di Conte ci hanno lasciato perplessi». Il deputato Francesco Berti dice quello che molti nel M5S pensano: «Non capisco perché Bettini sia così ascoltato». Nel frattempo Conte fa sapere che in serata riunirà ministri e parlamentari. Nel Pd si insinua un sospetto e dilaga una preoccupazione:«Non è che il M5S vuole sancire il suo no a Draghi?». Non è così, parrebbe: i 5 Stelle vogliono vagliare dei nomi da contrapporre a Berlusconi insieme ai dem. Liliana Segre? Delle personalità del mondo antimafia? Intanto Enrico Letta, che sta lavorando con pazienza per evitare che si finisca in «un vicolo cieco» va avanti, a prescindere dai problemi tra Bettini e l'ex premier: «Il rapporto tra me e Conte è diretto, senza mediatori, io non interferisco nella vita degli altri partiti ed entrambi siamo impegnati nella costruzione di una proposta condivisa». Di condiviso, però, Pd e 5 Stelle, almeno finora, non sono riusciti a trovare nemmeno un nome da portare in votazione per evitare la scheda bianca nel caso in cui Berlusconi si presentasse davvero. Per questa ragione Letta aveva suggerito a Conte di disertare l'Aula, ma l'ex premier ha preso tempo e ha spiegato che nei gruppi ci sono opinioni contrastanti. Poco male, anche un pezzo del Pd non vuole l'Aventino. In questa giornata i dem contrari a un'eventuale candidatura di Giuliano Amato sono gli unici a gioire: «Visto che Bettini voleva portare Conte su quel nome, significa che l'ipotesi è tramontata». Delle reazioni del giudice costituzionale nulla si sa: in questi giorni sta incontrando diverse personalità nel suo ufficio, e anche questo ha fatto nascere i sospetti di una parte dei dem. Questa giornata cominciata male non prosegue meglio, almeno per i 5 Stelle. Al convegno sulla Pubblica amministrazione organizzato da un fedelissimo di Conte, Mario Turco, al quale partecipa anche il premio Nobel Giorgio Parisi, a un certo punto parte un video porno. Imbarazzo e qualche secondo di panico poi il video scompare. «Per fortuna che almeno Grillo è silente», dicono i 5 Stelle. L'elevato per ora tace. Ma non si sa mai. Siccome il caos regna sovrano anche dall'altra parte, nel pomeriggio Matteo Salvini fa sapere che a giorni farà una proposta che convincerà quasi tutti. Letta e Conte erano stati preallertati dal leader leghista. Il segretario dem è aperturista, ma abituato ai tira e molla di Salvini, invita i suoi alla cautela: «A noi non interessa chi farà il king maker del centrodestra. Se c'è un'opzione che va oltre Berlusconi per noi va bene, purché sia di alto profilo e sul solco del dialogo e della condivisione». Anche i 5 Stelle sono sulla stessa lunghezza d'onda: «Se Salvini si apre alla possibilità di escludere la candidatura di Berlusconi, allora si può dialogare e concordare un nome di alto profilo. La strada per la sinergia è aperta e i numeri ci sarebbero». Si parlerà anche di questo nel vertice di domani mattina tra Letta, Conte e Speranza».

GAS E RINCARI, GIOVEDÌ UN CDM

La stretta di Draghi sui big dell'energia e il fondo per i ristori che ora sale a 2,5 miliardi. Giovedì il provvedimento dovrebbe arrivare in Consiglio dei ministri. Alessandro Barbera per La Stampa.

«Fra una telefonata e l'altra per discutere del rebus Quirinale, Mario Draghi deve continuare a governare. Ieri a Palazzo Chigi c'è stata una lunga riunione fra i tecnici di Tesoro, Sviluppo economico e Transizione ecologica per mettere a punto un decreto da approvare già questa settimana, probabilmente giovedì, tre giorni dalla prima chiama di deputati e senatori. Oggetto del decreto: l'aumento esponenziale del prezzo dell'energia. A Sassuolo l'industria della ceramica è in difficoltà, e alcune imprese hanno già avviato la domanda di cassa integrazione. A Murano le aziende vetraie hanno aumentato i prezzi di almeno un terzo. Stessa cosa dicasi per l'acciaio, l'altro settore i cui margini dipendono in gran parte dal prezzo dell'energia. Il leader di Confindustria Carlo Bonomi aveva avvertito il premier dell'arrivo dello tsunami prima di Natale, senza successo. Ieri, su mandato del presidente, il numero due Aurelio Regina è uscito allo scoperto per denunciare il ritardo del governo: «Chiediamo con urgenza un tavolo a Palazzo Chigi. Il nostro sistema industriale è a rischio ridimensionamento». Le voci di una tassa sugli extraprofitti delle aziende energetiche non bastano a rassicurare l'associazione degli industriali. Benché la gran parte di loro siano associate a Confindustria e stiano cercando di limitare i danni, Bonomi deve fare i conti con le lamentele della maggioranza delle altre imprese, colpite duramente dall'aumento dei prezzi del gas. «Aumenti senza precedenti nella storia», ammette Stefano Basseghini, presidente di Arera, l'autorità di regolazione dei prezzi energetici. I numeri dell'ultima nota del Centro studi di Confindustria sono impressionanti: da dicembre 2019, ovvero poco prima dell'arrivo della pandemia, i prezzi del gas in Europa sono cresciuti del 723 per cento, dieci volte tanto quel che è accaduto negli Stati Uniti, dove gli aumenti si sono limitati al 66 per cento. L'Italia è un problema nel problema: da noi il gas vale il 42 per cento del consumo totale di energia, contro il 38 del Regno Unito, il 26 della Germania, il 23 della Spagna e appena il 17 per cento della Francia, che come sempre può contare sull'energia a basso costo delle centrali nucleari. Nel frattempo, come se non bastasse, il prezzo del petrolio è salito a 86,3 dollari il barile, il più alto da sette anni. Prezzi che a dicembre - lo certificava ieri l'Istat - hanno contribuito a far schizzare l'inflazione al 3,9 per cento. Draghi è stretto in una morsa: da un lato c'è la lamentela delle imprese, dall'altra la paralisi del governo per via dell'imminente scadenza quirinalizia. I partiti - in particolare la Lega - chiedono un aumento del deficit, mentre il Tesoro resiste. La ragione è presto detta: in Europa è iniziato il dibattito sulla riforma del patto di stabilità, i Paesi nordici reclamano più disciplina di bilancio, e l'Italia non può mostrare il fianco. Il ministro Daniele Franco ha incaricato i tecnici di trovare nel bilancio tutti i fondi non spesi per finanziare anzitutto i ristori a favore dei settori colpiti dall'ultima ondata del Covid. Al momento ci sono a disposizione circa un miliardo di euro. Un altro miliardo, forse un miliardo e mezzo, potrebbe arrivare dalla tassa sugli extraprofitti delle aziende energetiche. I tecnici stanno facendo le simulazioni nel tentativo di raggiungere una soluzione che eviti la fine della Robin Tax voluta dall'allora ministro Giulio Tremonti, poi finita di fronte alla Corte costituzionale. «Al momento si stanno valutando soluzioni a costo zero o da finanziare con quella misura», spiega una fonte di Palazzo Chigi. Il governo si fa forte dei numeri: secondo le stime della Fondazione delle aziende di acqua, ambiente ed energia, il settore l'anno scorso ha garantito utili per venti miliardi di euro. Altri settecento milioni dovrebbero arrivare dal dirottamento dei proventi delle aste per il consumo di anidride carbonica: l'anno scorso hanno garantito proprio quella somma. Il grande paradosso italiano è tutto qui: mentre in Germania rispondono all'emergenza con la chiusura delle centrali nucleari e la riapertura a pieno regime di quelle a carbone, da noi, dove la dipendenza dal gas è alta, per calmierare i prezzi si usano i proventi imposti dalle regole europee. Ecco perché una delle prime misure del governo riguarderà l'aumento la produzione nazionale di gas. Oggi dei settanta miliardi di metri cubi consumati 66 sono importati da Russia, Algeria, Libia e Paesi nordici. Secondo le previsioni del ministro Roberto Cingolani, si può risalire facilmente a otto miliardi di metri cubi».

IL DECRETO FLUSSI È LEGGE

È stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale e sarà in vigore da oggi il decreto flussi 2021-2022, grazie al quale quasi 70mila cittadini stranieri potranno venire a lavorare legalmente in Italia. Il governo non ha peraltro escluso nuovi possibili interventi. Laura Zanfrini per Avvenire.

«Nell'edizione di ieri della Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il Decreto Flussi 2021, firmato sul filo di lana a fine anno dal presidente del Consiglio Draghi, che fissa in 69.700 gli ingressi di lavoratori stranieri: un numero inferiore alla bozza circolata, ma più che raddoppiato rispetto alle quote degli ultimi anni e con una timida apertura verso il lavoro non stagionale con riferimento ai settori (trasporto, edilizia, turistico- alberghiero) che denunciano difficoltà nel reclutamento di personale. Peraltro, le 27.700 quote non stagionali andranno ripartite tra gli oltre 30 Paesi sottoscrittori di accordi elencati nel decreto e saranno in parte assorbite dalle conversioni di permessi già rilasciati per altri motivi. Questo - insieme alla 'promessa' di possibili ulteriori decreti nei prossimi mesi - è probabilmente il massimo che si poteva fare con un governo composito come l'attuale e in un quadro ancora molto compromesso dalla pandemia. Ancora una volta, il provvedimento ha visto la luce secondo la logica della 'programmazione transitoria' e in assenza del documento programmatico cui il testo unico sull'immigrazione affidava, tra le altre finalità, quella di individuare i criteri generali per la definizione dei flussi in ingresso. L'ultimo documento di cui si ha notizia è relativo al triennio 2007-2009, rimasto eternamente 'in fase di elaborazione'. Da allora, nessuno dei governi che si sono succeduti ha voluto cimentarsi nel compito, politicamente audace, del governo delle migrazioni economiche, e tutti hanno finito col ridurre la questione al contrasto dell'immigrazione irregolare. I limiti delle procedure in vigore (a partire dalla loro rigidità, distante da un mercato del lavoro sempre più flessibile); quelli che derivano dalle scelte - o non scelte - nella loro applicazione; quelli, infine, relativi al contesto in cui gli schemi migratori si trovano a operare (dalla diffusione del lavoro irregolare ai deficit nella intermediazione istituzionale tra domanda e offerta di lavoro) hanno concorso al fallimento del sistema di programmazione dei flussi, facendo dell'Italia un caso 'esemplare' del disallineamento tra il piano delle politiche e quello dei concreti processi migratori e di inclusione. Mentre le più importanti agenzie internazionali non cessano di ricordare come le migrazioni, se adeguatamente gestite, possano rappresentare un vantaggio per tutti gli attori coinvolti, tale disallineamento risalta come dato comune perfino ai Paesi tradizionalmente considerati dei punti di riferimento in materia. In particolare, milioni di posti di lavoro essenziali sono occupati, in Canada come negli Stati Uniti e nella stessa Europa, da immigrati undocumented, titolari di permessi temporanei, studenti e tirocinanti stranieri, richiedenti asilo diniegati. La necessità di politiche innovative, sostenibili nel lungo periodo, capaci di rispondere anche al consistente fabbisogno di lavoro a bassa qualificazione garantendo i diritti dei lavoratori è dunque auto-evidente. Tanto più in Italia, dove i modelli di inclusione prevalenti sono decisamente inadeguati ad agganciare una ripresa la cui cifra dovrà essere la qualità in senso lato del lavoro. Governare le migrazioni economiche implica gestire una serie di bilanciamenti: si tratta di far convivere la dimensione economica della programmazione con la dimensione politica (in particolare, l'esigenza di offrire canali legali che scoraggino i flussi irregolari); la richiesta di rispondere a fabbisogni contingenti e spesso appiattiti sui lavori a bassa qualificazione con quella di promuovere modelli d'integrazione sostenibili nel lungo periodo; la necessità di dotarsi di regimi migratori coerenti col ruolo dell'Italia nello scenario internazionale (in particolare euro-africano) con quella di incoraggiare la partecipazione al mercato del lavoro delle ampie componenti della popolazione residente (inclusa quella immigrata) che ne sono escluse; e, ancora, la dimensione tecnico- procedurale della programmazione - che richiede schemi migratori flessibili, che rispondano rapidamente alle richieste di persone e mercato - con il carattere politico, nel senso nobile del termine, del governo dell'immigrazione, che come tale incorpora una visione sul futuro. L'auspicato ridisegno delle politiche migratorie non può allora essere disgiunto dal compito di ripensare i regimi di accumulazione, le reti di produzione e distribuzione del valore e i modelli di riproduzione sociale cogliendone, proprio attraverso la 'lente' dell'immigrazione, tutte le criticità. Basterebbe citare l'esempio del lavoro per le famiglie - da sempre il comparto più etnicizzato del mercato del lavoro italiano - per comprendere come la gestione delle migrazioni va integrata con l'insieme di interventi, a vari livelli, necessari per affrontare quella che l'Ilo (l'Organizzazione internazionale del lavoro) ha definito la «crisi globale della cura». Il governo e la governance delle migrazioni devono dunque diventare parte integrante di quel grande cantiere di innovazione economica e sociale che si sta aprendo nella scia del Pnrr, secondo le indicazioni contenute nella stessa Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile».

XI JIPING APRE UNA DAVOS VIRTUALE

Il leader cinese Xi Jinping ha aperto il World Economic Forum di Davos, anche quest’anno virtuale. Ecco le sfide globali nel mondo del dopo pandemia. Lorenzo Lamperti per la Stampa.

«Globalizzazione, libero commercio, autentico multilateralismo, cooperazione sul Covid-19, smantellamento dei muri, dialogo e non scontro. Il repertorio sembra quello del 2017 e Xi Jinping lo dispiega in collegamento da Pechino. Come l'anno scorso, il World Economic Forum di Davos si svolge in modalità virtuale e viene aperto da un discorso del presidente cinese, che ha di fronte a sé due appuntamenti cruciali: i Giochi Invernali e il 20° Congresso del Partito comunista che lo incoronerà leader per la terza volta e «nuovo timoniere». Ecco perché il volto mostrato è ancora una volta quello accomodante. Bisogna «aprire senza isolarsi e promuovere la costruzione di un'economia mondiale aperta», dice Xi, convinto che nonostante correnti contrarie «la direzione globale dell'economia non è cambiata e non cambierà». Eppure, il mondo non è più quello del 2017. L'Occidente non vede più la Belt and Road e la penetrazione tecnologica di Pechino come opportunità, ma come minacce. «Il mondo di oggi è lontano dall'essere tranquillo», riconosce Xi, che individua negli Stati Uniti la causa delle tensioni geopolitiche. Se a Davos dice che «la Storia ha dimostrato più volte che lo scontro non risolve problemi e porta a conseguenze catastrofiche», durante le celebrazioni per il centenario per il Pcc aveva affermato che chiunque avesse provato a prevaricare e soggiogare la Cina si sarebbe trovato «in rotta di collisione con una grande muraglia d'acciaio forgiata da oltre 1,4 miliardi di cinesi». La diplomazia del vaccino viene utilizzata da Xi per sottolineare l'altruismo di Pechino e non a caso è stata ribadita la promessa di inviare in Africa un miliardo di dosi. Nessuna nuova promessa, invece, sul fronte ambientale. Gli obiettivi fissati su emissioni e neutralità carbonica, ha detto Xi, «non possono essere realizzati da un giorno all'altro». A poche decine di minuti di distanza da Xi è intervenuto Narendra Modi, il rivale geograficamente più vicino di Pechino. Le tensioni tra i due giganti asiatici vanno dall'aspetto commerciale a quello strategico, come dimostrato dai recenti scontri lungo il confine conteso, e rischiano nel prossimo futuro di essere acuiti dalla questione della successione del Dalai Lama. Il premier indiano ha scelto di porre l'accento proprio sullo sviluppo sostenibile, affermando che nel Paese il 40% dell'energia dovrà essere prodotta da fonti rinnovabili e ribadendo l'obiettivo dell'azzeramento delle emissioni di CO2 entro il 2070. Ha poi annunciato che Nuova Delhi firmerà diversi accordi di libero scambio, citando l'avvio del negoziato per la conclusione di un accordo con il Regno Unito, alla ricerca di partner asiatici nel post Brexit. «È il momento migliore per investire in India», ha detto Modi. L'obiettivo (complicato) dell'India è quello di sostituirsi almeno in parte al ruolo della Cina, sfruttando la favorevole contingenza geopolitica che la vede individuata come primo vero argine all'ascesa di Pechino. Xi, da parte sua, si dice «ottimista» sul trend economico dopo che ieri è stato reso noto che nel 2021 il Pil è cresciuto dell'8,1%, ma l'Ufficio nazionale di statistica avverte che per il 2022 l'economia «deve affrontare la triplice pressione della contrazione della domanda, dello choc dell'offerta e del calo delle aspettative». A questo va aggiunta la questione demografica, con il tasso di natalità al livello più basso dal 1949, e le conseguenze della pandemia. La strategia zero Covid e le relative restrizioni stanno causando incertezze interne e sulle catene di approvvigionamento. Le autorità hanno indicato come possibile responsabile dell'importazione di Omicron una lettera "contaminata" spedita dal Canada. Globalizzazione sì, ma meglio senza posta».

ISOLE TONGA IN SILENZIO DOPO LO TSUNAMI

Angoscia per le Isole Tonga in silenzio dopo lo tsunami nel Pacifico. Sabato c’è stata la peggiore eruzione da 30 anni. Eruzione che ha provocato l'onda anomala e il blackout totale nelle comunicazioni: danni e vittime ancora ignoti. Enrico Franceschini per Repubblica.

«L'isola che non c'è: così sembra Tonga al resto del mondo, da quando 4 giorni fa l'ha colpita lo tsunami provocato dall'eruzione di un vulcano sottomarino nel Pacifico meridionale. Nessuno sembra in grado di stabilire l'entità del disastro: vittime, feriti, dispersi, danni materiali. Il Matangi Tonga , quotidiano online, risulta aggiornato fino a stamane, ma l'ultimo articolo pubblicato relativo alla catastrofe - sabato scorso - parla solo dell'eruzione, non dice nulla sull'onda anomala e delle successive attività del vulcano. I voli di ricognizione inviati da Nuova Zelanda e Australia, così come i satelliti, trasmettono immagini apocalittiche di un fungo nero, simili a un'esplosione nucleare. Alcuni insediamenti sembrano essere stati cancellati. Le navi soccorso sono in viaggio, ma le coste neozelandesi e australiane distano più di 5 mila chilometri: ci vorrà tempo. L'Onu riporta un Sos, ricevuto da alcune delle isole più remote, suscitando allarme per la sorte dei loro abitanti. Il regno di Tonga, monarchia costituzionale della Polinesia, ha una superficie di 750 km quadrati e una popolazione di 100mila persone, ma soltanto 53 delle sue 173 isole sono abitate: l'effetto dello tsunami su alcuni di questi atolli potrebbe essere devastante. La premier neozelandese Jacinda Ardern riferisce di «danni significativi» lungo la costa occidentale del piccolo arcipelago e della necessità di rifornimenti di acqua potabile e viveri. Nelle prime ore dopo l'eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha' apai, a 65 km dalla capitale Nuku' alofa, erano circolati video di onde che sommergono le rive, di case invase dall'acqua, di ingorghi di automobili per il fuggi-fuggi verso zone più elevate. Poi il cielo è stato oscurato dalla cenere del vulcano sottomarino, che ha continuato a eruttare, e il giorno si è trasformato in notte. Saltate la maggior parte delle comunicazioni: un black-out di telefoni e Internet che complica le ricerche. Si prevede che ci vorranno due settimane a ripristinarle. Non è chiaro nemmeno dove si trovi Tupou VI, il re di Tonga, salito al trono nel 2012. Finora il bilancio registra due morti accertati, tra cui Angela Glover, una inglese che risiedeva a Tonga da 7 anni insieme al marito James: avevano un centro di tatuaggi, pare che la donna sia stata spazzata via dallo tsunami mentre cercava di salvare i suoi cani. «Non era una vita idilliaca», dice in Inghilterra il fratello Nick alla Bbc , «c'era sempre il rischio dei cicloni, ma lei amava quel luogo così lontano dalle sue radici». Di certo l'eruzione è stata la più grande del Sud Pacifico degli ultimi 30 anni e secondo la Croce Rossa ha investito 80 mila persone. Quali che siano le conseguenze, l'arcipelago offuscato dal vulcano, invisibile ai satelliti, impossibilitato a comunicare, sembra tornato irraggiungibile come nel 1643, quando l'olandese Abel Tasman fu tra i primi europei a sbarcarvi, seguito nel 1773 dal capitano Cook, che lo rivendicò per l'Impero britannico. Nel terzo decennio del 21° secolo l'isola che non c'è fa ritornare indietro il pianeta, al tempo degli esploratori che navigavano anni per arrivare a destinazione».

UCRAINA, DIPLOMAZIA ANCORA AL LAVORO

Diplomazia ancora al lavoro sull’Ucraina. La ministra degli Esteri tedesca è stata a Kiev ed oggi sarà a Mosca. Paolo Valentino per il Corriere.

«La Germania non fornirà armi all'Ucraina, nonostante la richiesta esplicita del suo governo di fronte all'aggravarsi della tensione con la Russia. A Kiev per una giornata di colloqui prima di volare a Mosca, dove oggi vedrà il suo omologo Sergeij Lavrov, la ministra degli Esteri tedesca ripropone la tradizionale posizione di Berlino, invocando anche le lezioni della Storia, e conferma la disponibilità a curare i soldati ucraini feriti e a fornire tutta l'assistenza tecnica necessaria a parare gli attacchi cibernetici contro l'Ucraina, inviando i suoi specialisti anti-hacker. Per la ministra verde la «diplomazia resta l'unica strada percorribile». Baerbock ha infatti annunciato che nei prossimi giorni farà una visita sulla linea di contatto del Donbass, la provincia russofona ribelle, insieme al collega francese Jean-Yves Le Drian. L'obiettivo è quello di rianimare il «formato Normandia», il negoziato (attualmente congelato) che portò agli accordi di Minsk, mai interamente applicati né dai russi né dagli ucraini. Ma l'elefante nella stanza dei rapporti tra Berlino, Kiev e Mosca rimane il Nord Stream 2, il gasdotto russo-tedesco che passa sotto il Mar Baltico aggirando la tradizionale via ucraina, ormai completato ma non ancora operativo per assenza della certificazione europea. Baerbock e il suo partito sono contrari a renderlo operativo, in nome di una linea più assertiva nei confronti di Mosca e della diversificazione delle fonti di energia dell'Europa. La ministra degli Esteri ne ha anche ipotizzato la cancellazione, nel caso la Russia dovesse invadere l'Ucraina. Ma la sua posizione si scontra con quella del cancelliere Scholz e della Spd, che considerano la pipeline come un «mero progetto economico» quindi da lasciare fuori dalla crisi ucraina e da ogni eventuale misura di ritorsione contro Mosca. Questa posizione è stata ribadita nel fine settimana dalla ministra socialdemocratica della Difesa, Christine Lambrecht».

ATOMICHE RUSSE PER MINACCIARE GLI USA?

Rivelazione del New York Times: sarebbero state piazzate testate «atomiche in basi russe di fronte alle coste Usa». Sarebbe questa la risposta da guerra fredda che prepara Mosca all'eventuale ingresso dell’Ucraina nella Nato. La cronaca del Manifesto.

«L'allarme arriva sempre dal New York Times e riguarda questa volta la possibilità che l'esercito russo sposti sulla sua costa orientale armi atomiche, una misura che potrebbe essere interpretata come una «minaccia diretta» dagli apparati di sicurezza americani. «Ci sono stati segnali, mai espliciti», che questo possa avvenire, ha scritto il quotidiano citando interventi a porte chiuse di diplomatici ed esperti di politica estera. Secondo l'International Campaign to Abolish Nuclear Weapons, o Ican, le forze armate russe hanno a disposizione almeno 6.257 testate atomiche. Nessuno conosce con assoluta certezza l'esatta disposizione dell'arsenale, ma è lecito supporre che un numero sufficiente a riportare all'età del ferro mezzo emisfero già si trovi nelle installazioni costruite fra il Mare di Okhotsk e quello di Bering. Non è del tutto chiaro, quindi, quale vantaggio strategico i russi intenderebbero ottenere spostando altre armi verso Oriente. Per il New York Times l'operazione permetterebbe di ridurre al limite di cinque minuti i tempi di allarme dopo un ipotetico attacco agli Stati Uniti. Ma senza alcun dato a sostegno, il rischio vero è che il rapporto finisca semplicemente per assecondare l'approccio da Guerra fredda che avanza nell'Amministrazione Biden. Con una differenza significativa: allora, negli anni Sessanta, c'erano missili diretti ai Caraibi, a migliaia di chilometri dai confini dell'Unione sovietica; oggi, forse, si tratta della base di Vladivostok, nella regione russa del Primorskij Kraij. Le tensioni tra Stati Uniti e Russia restano in ogni caso al livello di allerta. Già lo scorso dicembre il viceministro degli Esteri Sergey Ryabkov ha detto apertamente che la Russia potrebbe impiegare missili a medio raggio nella parte europea del Paese nel caso in cui la Nato dovesse accettare fra i nuovi soci Ucraina o Georgia. Il vertice a Bruxelles della scorsa settimana con i rappresentanti dell'Alleanza atlantica al quale ha preso parte lo stesso Ryabkov non è bastato a chiudere un'intesa. Al centro dello scontro c'è com' è noto lo status dell'Ucraina. Il presidente, Volodymyr Zelensky, ha chiesto con forza di far parte della Nato. Il capo del Cremlino, Vladimir Putin, considera l'adesione una «linea rossa» per la sicurezza nazionale. La crisi ha condotto l'intelligence americana a formulare un'ampia serie di ipotesi, compresa quella sempre meno credibile di un'invasione russa dell'Ucraina. Il Paese affronta peraltro da mesi una preoccupante crisi politica, oltre alla guerra civile nel Donbass. Il leader della Piattaforma di opposizione, Viktor Medvedchuk, è agli arresti domiciliari dallo scorso maggio. E ieri a Kiev è cominciato il processo per tradimento contro Petro Poroshenko, che è stato presidente dal 2014 al 2019 ed è ora sotto accusa per l'acquisto di carbone dalle province ribelli di Donetsk e Lugansk. Poroshenko è tornato in patria ieri per assistere all'udienza in tribunale. All'aeroporto Zhuliany è stato accolto da migliaia di sostenitori. La procura ha chiesto una cauzione record per lasciarlo in libertà: trenta milioni di euro. Nei cinque anni al palazzo presidenziale, Poroshenko ha portato avanti un programma politico aggressivo, in particolare su temi come lingua e cultura, divenuti divisivi dopo la rivolta del 2014. In base a una delle leggi approvate proprio nel corso del suo mandato, tutti i giornali a diffusione nazionale devono essere pubblicati a partire da questa settimana esclusivamente in ucraino. Il rispetto della norma sarà garantito da un commissario alla lingua e dai suoi funzionari regionali. Oggi Poroshenko si trova in una condizione molto simile a quella dell'ex leader di opposizione Yulia Timoshenko, incarcerata un decina di anni fa per un accordo sul gas firmato con la Russia nel periodo in cui era premier. La condanna contro Timoshenko sollevò prima l'indignazione e poi le sanzioni economiche dell'Europa. Il capo dello Stato era in quel periodo Viktor Yanukovich, considerato «filorusso». A Zelensky, salito al potere nel 2019 con l'esplicito intento di entrare nella Nato, le autorità europee non ritengono necessario chiedere garanzie sui processi agli oppositori. E' un'altra pessima notizia per Poroshenko, e, in fin dei conti, per le speranze democratiche del Paese».

Leggi qui tutti gli articoli di martedì 18 gennaio:

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