La Versione di Banfi

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Il voto dopo le piazze

alessandrobanfi.substack.com

Il voto dopo le piazze

Grande manifestazione pro Cgil a Roma. A Milano i No Green pass tentano un nuovo assalto ma falliscono. Oggi si vota in 65 Comuni. Tensione nei 5 Stelle. Libano nel caos. Il Papa: salario universale

Alessandro Banfi
Oct 17, 2021
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Il voto dopo le piazze

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A Roma piazza gremita per il sostegno alla Cgil. Mentre a Milano i No green pass hanno provato a raggiungere la sede milanese del sindacato, per fortuna senza riuscirci. Ma alla fine è stato un sabato senza disordini e dove tutto è filato liscio. Maurizio Landini ha incassato una grande solidarietà, ad una settimana esatta dall’assalto squadrista: c’erano in piazza San Giovanni Letta, Conte, Di Maio, i rappresentanti di Leu e persino D’Alema. Il segretario della Cgil però ha evitato di parlare del Green pass o dei No Vax. Si è concentrato sul tema dell’occupazione. Il suo ragionamento è stato: la crescita economica c’è, ma ora deve trasformarsi in posti di lavoro non precari. Anche Bonomi, Confindustria, si è rivolto proprio al Governo per chiedere riforme e continuità nelle politiche di attuazione del Pnrr. Dopo il voto del ballottaggio di oggi si parlerà soprattutto, e non solo per il reddito di cittadinanza, di fisco e politica economica.

Sul fronte del certificato verde, c’è una ferma presa di posizione di Silvio Berlusconi a favore del Green pass. Con un’intervista a Sallusti per Libero, il Cav difende la misura del Governo e spiega perché è da liberali appoggiarla. Intanto a Trieste, la protesta dei portuali sembra andare verso la fine. Secondo il Corriere nei dati delle prime dosi e delle vaccinazioni settimanali si comincia a vedere l’esito dell’obbligo del Green pass. Polemiche sui tamponi, in queste ore raggiunto il record di 500 mila test, e sul boom dell’assenteismo. I medici, cosiddetti di famiglia, sono sempre più l’anello debole del sistema sanitario nazionale.

Dall’estero segnaliamo l’approfondimento della Stampa sul Libano: l’inchiesta penale sull’esplosione dell’agosto 2020 sta dividendo il Paese dei Cedri, sull’orlo di una nuova guerra civile. Mentre il sovranismo della Polonia, con la sentenza anti Ue, sta diventando un problema per l’Europa, come nota Sergio Romano sul Corriere. Il Papa in un video messaggio ai movimenti popolari dell’America Latina propone una riflessione importante sulle disuguaglianze globali e sui possibili rimedi, a cominciare dal salario universale e dai vaccini per i Paesi poveri.

Chi non lo ha ancora fatto può ascoltare la prima puntata di una mia serie Podcast originale realizzata da Chora Media per Vita.it. con Fondazione Cariplo. Il titolo è: Le vite degli altri e racconta storie di chi dedica il proprio impegno e il proprio tempo agli altri. Ritratti e interviste di uomini e donne premiati dal Capo dello Stato Sergio Mattarella. Questa l’immagine della “cover”.

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Da domani e fino a venerdì riceverete la mia e-mail prima delle 8. Vi rammento anche che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine della Versione. Consiglio di scaricare subito quello che vi interessa perché il file resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa newsletter, seguendo le istruzioni della prossima frase. Se invece la Versione non vi è piaciuta, non ditelo troppo in giro.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Le piazze di Roma e Milano, gli effetti dell’obbligo del Green pass sul lavoro e il voto dei ballottaggi. Questi i temi dei titoli di oggi. Cominciamo dalle manifestazioni, sui numeri non c’è concordia. Per La Repubblica erano: In duecentomila a Roma: “Difendiamo la democrazia”. Per La Stampa erano la metà: Centomila no al fascismo. Landini: la piazza di tutti. La Verità grida allo spot elettorale: La resistenza secondo la Cgil: bastonare Salvini e la Meloni. Anche per il Giornale è stata: Ipocrisia rossa. Il Domani racconta invece: La grande piazza dei vaccinati contro ogni fascismo. Il Manifesto mette l’accento sul discorso di Landini, che ha detto la crescita c’è, ci vuole occupazione: Un buon lavoro. Ancora sul certificato verde va il Corriere della Sera: Il green pass spinge i vaccini. Per il Quotidiano Nazionale: Corsa ai green pass, la fermezza vince. Mentre il Mattino sull’assenteismo boom di queste ore chiede visite fiscali, attraverso un parere del presidente dell’Ordine Anelli: No vax, boom di malattie: «I medici vadano a casa». Libero intervista il fondatore di Forza Italia che è molto chiaro sul green pass: Parla Berlusconi. «I cattivi maestri dietro i No Vax». Di economia si occupano Il Sole 24 Ore: Nel 2021 il Pil cresce oltre quota 6%. Bononi: servono continuità e riforme. E il Fatto: Il Nord-Est nei guai: -410mila lavoratori. Avvenire rilancia le parole del Papa ai movimenti popolari dell’America Latina: Giustizia per i poveri. Il Messaggero ci ricorda che c’è il ballottaggio nei Comuni, Roma compresa: Le città al voto: nodo astensione.

GREEN PASS. PIÙ VACCINI, ANCORA PROTESTE

È risalita la media settimanale di somministrazione dei vaccini. Il Corriere interpreta il dato come un successo del nuovo obbligo di Green pass per chi lavora. Adriana Logroscino.

«La strategia sta funzionando. L'introduzione del green pass obbligatorio per tutti i lavoratori doveva, nelle intenzioni dichiarate del governo, spingere le vaccinazioni. E infatti la somministrazione di prime dosi è aumentata sia subito dopo l'emanazione del decreto legge, cioè dopo il 16 settembre, sia a ridosso dell'entrata in vigore, cioè venerdì 15 ottobre: sono state 73 mila giovedì e 69 mila venerdì, diecimila in più rispetto a sette giorni prima. Nell'arco dell'ultimo mese 1.744.297 di italiani hanno ricevuto la prima dose di vaccino. Durante l'intero mese precedente erano stati poco più di un milione e duecentomila. All'obbligo di green pass, quindi, si può attribuire di aver raggiunto oltre cinquecentomila non vaccinati. Non un incremento vorticoso, come quello registrato in giugno, quando è caduta la regola della vaccinazione per fasce d'età. Allora si effettuarono, in un mese, circa 10 milioni di vaccinazioni (tra prime e seconde dosi) a un ritmo di 400 mila somministrazioni in media al giorno. Inevitabilmente, però, rispetto all'estate è necessario raggiungere una platea numericamente più esigua e soprattutto composta da contrari, diffidenti, timorosi. Insomma, i più difficili da convincere. E qualcosa si muove: se una settimana fa la media era di 140 mila somministrazioni al giorno, in quella del green pass obbligatorio è passata a 173 mila. L'aspettativa del governo è che questo incremento continui in modo inesorabile e costante, via via che anche il ricorso al tampone, alla prova dei fatti, si rivelerà troppo oneroso e scomodo. In questi primissimi giorni in cui è in vigore l'obbligo, certamente l'attività di laboratori e farmacie è raddoppiata. Giovedì 14, vigilia dell'obbligo, sono stati scaricati 860.094 green pass, 632.802 dei quali ottenuti con il tampone. Venerdì i nuovi titolari di certificato verde sono stati 867.039, dei quali 653.827 si sono sottoposti al test: il doppio rispetto al venerdì precedente (351.870). Significa che tra i non vaccinati, una maggioranza per ora sceglie il tampone per poter entrare in ufficio o in fabbrica. Il sospetto è che un'altra parte potrebbe aver scelto una scorciatoia. Riviene dall'aumento di certificati di malattia inviati venerdì: 23,3% in più rispetto a sette giorni prima, 94.191 contro 76.851. L'alta percentuale di immunizzati fa dire al commissario per l'emergenza, Francesco Paolo Figliuolo, che «la campagna vaccinale è un esempio di successo, dovuto allo sforzo corale di tutti, dallo Stato ai volontari». Completamente vaccinato è l'81% degli over 12, e l'85,5% ha ricevuto almeno una dose. Numeri che producono evidenti effetti sul contagio: i casi registrati quotidianamente restano sotto quota tremila (2.983 i nuovi positivi) i decessi scendono a 14. Meno anche i malati ricoverati in ospedale. Un dettaglio: la Regione Puglia ha monitorato il contagio nelle scuole di Bari e provincia; esattamente un anno fa, in piena seconda ondata, si registravano 243 nuovi casi alla settimana, ora sono 8».

Trieste. Fausto Biloslavo sul Giornale.

«Sono tutti matti. E noi camionisti siamo fermi in coda per entrare in porto» è il commento di un'autista dell'Est Europa, che parlicchia italiano al valico 1 dello scalo giuliano, mai bloccato dai no pass. L'altro fronte del porto è quello che lavora con non poche difficoltà causate dalla protesta contro il lasciapassare verde. I dati parlano chiaro: nonostante i 2020 mezzi entrati venerdì, il primo giorno della protesta ed i 900 di ieri fino alle 14 «si tratta di circa la metà dei transiti medi via strada», comunica l'Autorità portuale. Il colpo di scena arriva in serata con un comunicato dei portuali ribelli: «Da domani (oggi per chi legge nda) torniamo al lavoro, ma non ci fermiamo». E annunciano un invito al Senato per il 30 ottobre. Fra i pachidermi su ruote all'ingresso del porto il green pass rimane un tema scottante. Dalla cabina di un Tir di una ditta di trasporti triestina un autista sbotta: «Tutti i turchi in fila sono senza green pass. E vale anche per molti sloveni e croati. Per noi è un obbligo. Ti fa un po' incaz..». Un camionista dell'Est Europa si nasconde il volto dietro le carte per entrare in porto, ma alla fine ammette: «Non ho il green pass e non voglio farlo perché non credo ai vaccini». I portuali anti green pass non sono riusciti a bloccare lo scalo giuliano, ma il presidio al valico 4 con un barriera umana di migliaia di persone ieri ridotte a duemila ha avuto il suo impatto. «Venerdì è arrivata la motonave Aspendos dalla Turchia e siamo riusciti solo a sbarcarla e non ad imbarcare a causa dello sciopero. Abbiamo subito dei rallentamenti per la mancanza di operatori», spiega Elena Kosmazh della Samer & co shipping. Dal tetto degli uffici del terminalista che ha aperto l'«autostrada del mare» dalla Turchia l'Adriatico è scintillante con le montagne sulla sfondo. Sotto di noi uno stuolo di rimorchi e container. Nel primo giorno della protesta no pass, alla motonave Aspendos dovevano lavorare 15 portuali a bordo delle motrici, ma erano solo in tre. Poco più in là sta ormeggiando il possente Esphesus, bianco e blu, che porta in pancia 435 rimorchi, camion e container. «I ranghi sono ridotti oltre il 50%. C'ero pure io al presidio davanti al valico 4 anche se sono vaccinato» spiega chi ci accompagna allo sbarco di navi Gallipoli su un altro molo. I portuali che lavorano come piloti di formula uno, ma trainando rimorchi enormi fuori dalla stiva non parlano e non vogliono farsi riprendere per evitare ritorsioni. E ieri è scoppiato il caso di chi lavorerebbe senza green pass abilmente denunciato in diretta da «Ciccio», al secolo Stefano Puzzer, portavoce degli anti lasciapassare verde. «Ora sono in pausa, ma presente sul posto di lavoro. Non ho il green pass. Mi trovo al terminal di Samer al molo 5» spiega in viva voce al telefonino di Puzzer un portuale senza certificazione. Enrico Samer titolare dell'importante società che opera nello scalo giuliano non ci sta: «La nostra guardia giurata, come facciamo per gli uffici ed ai varchi, l'ha controllato e dopo aver scoperto che non aveva il green pass è stato allontanato. Strana tempistica». Il porto lavora, ma due navi turche hanno puntato su Marsiglia e grossi clienti preferiscono il percorso via terra a causa della protesta no pass. «La situazione sta migliorando, ma camion e treni sono stati dirottati - spiega Samer - Stiamo parlando di perdite per centinaia di migliaia di euro al giorno». Da oggi torneranno a vivere i vialoni del porto, che fino ai ieri sembravano un deserto dei Tartari di rimorchi e container».

BERLUSCONI: IL GREEN PASS È DA LIBERALI

Alessandro Sallusti intervista per Libero il fondatore di Forza Italia, che torna a spiegare la necessità del Green pass.

«Presidente Silvio Berlusconi, lei ce l'ha il Green pass? «Ovviamente sì. Mi sono vaccinato subito, appena è stato possibile farlo secondo le regole che sono state stabilite. È una cosa logica, per tutelare me, i miei cari, le persone che lavorano con me, le persone che incontro. Per contribuire a limitare la circolazione di questo pericoloso virus, con il rischio di nuove varianti ancora più pericolose». Secondo alcuni opinionisti lei sostiene un governo illiberale che pone limiti alla libertà di lavorare... «Esattamente il contrario. È il Covid che ha distrutto non solo tante vite umane ma anche tante aziende, tanti posti di lavoro. Il Green pass e l'obbligo vaccinale per alcune categorie, sono strumenti di tutela della vita e della libertà. Grazie ai vaccini stiamo tornando verso una vita normale, nella quale si può lavorare nelle fabbriche e negli uffici, si può andarea scuola in presenza, si possono frequentare cinema e teatri, ristoranti e centri sportivi. Hanno una strana idea di libertà coloro che pensano di avere il diritto di contagiare gli altri. Per fortuna sono molto pochi, anche se rumorosi». Lei gli italiani, nel bene e nel male, li ha conosciuti bene. Che tipi sono? «Un grande popolo che dà il meglio di sé proprio nelle emergenze. Lo abbiamo dimostrato nella pandemia: di fronte a sacrifici gravi, ho visto una compostezza e un rispetto delle regole che fanno a pugni con l'immagine un po' anarchica, di "genio e sregolatezza" che spesso accompagna gli italiani. La generosità con la quale in tanti - a cominciare dal personale sanitario, fino agli addetti ai servizi essenziali - hanno messo a rischio la salute e la vita per consentire di superare la fase peggiore della pandemia rimarrà un modello e un esempio per tutti». Solo pregi? Nessun difetto? «Abbiamo qualche difetto, certamente, come ad esempio una certa tendenza a denigrarci da soli e a dividerci inutilmente, ma siamo davvero un grande popolo». Facciamo che lei sia ancora un capo azienda operativo. Che discorso avrebbe fatto ai suoi dipendenti? «Lo stesso che faccio oggi da leader politico: rispetto le opinioni di tutti, ma devo attenermi a quello che la scienza ritiene necessario per tutelare la salute e il diritto all'integrità fisica delle persone che lavorano con me in azienda. Il Green pass, che altro non è che un certificato sanitario, serve proprio a questo, nei luoghi di lavoro. Serve naturalmente anche, a limitare la circolazione del Covid, quindi a far ripartire i consumi e l'economia e di conseguenza a salvare posti di lavoro. Il lavoro di tutti noi». E come si sarebbe comportato lei che è sempre stato attento alle minoranze, con chi non avesse ascoltato i suoi consigli? «Mi sarei semplicemente attenuto alle norme di legge. Questo in qualsiasi caso, anche se non le condividessi. Vede, la democrazia liberale si fonda su un principio: le regole devono essere le minime indispensabili e devono servire a tutelare i diritti delle persone: vita, libertà, proprietà. Ma queste regole devono essere rispettate da tutti, anche da chi non le condivide». E a chi invoca il diritto di opporsi ad una legge considerata ingiusta che cosa risponde? «Il diritto alla ribellione esiste di fronte alle dittature, di fronte a crimini efferati, non certo nel nostro sistema che ha tanti difetti ma è certamente una libera democrazia. Un ferroviere che avesse bloccato un treno piombato per Auschwitz sarebbe stato un eroe, un portuale che bloccasse l'attività di uno scalo per non esibire il Green pass è solo un irresponsabile da sanzionare». Stando ai primi segnali nel braccio di ferro in corso sta stravincendo l'Italia che vuole lavorare. È anche un segnale di distacco tra la politica e il Paese reale? «Il distacco c'è ed è profondo, si manifesta in molti modi, lo abbiamo denunciato molte volte. Forza Italia è nata proprio per combattere questo antico male italiano. Questa volta però mi pare che la politica - il governo Draghi che io ho tenacemente voluto - stia facendo bene la sua parte, in sintonia con la grande maggioranza degli italiani. Sta agendo responsabilmente senza cedere al ricatto di piccole minoranze rumorose, troppo amplificate dai mezzi di comunicazione. Voglio aggiungere una considerazione». Prego. «Sento parlare di tamponi gratuiti per chi non è vaccinato». Ed è d'accordo? «Sono perfettamente d'accordo, ma solo se riguardano chi non può vaccinarsi, per motivi di salute. Non vedo perché la scelta di chi non si vuole vaccinare, pur potendolo fare, debba essere pagata dalla collettività, dai tanti che invece si sono vaccinati, superando le comprensibili paure e qualche disagio fisico nell'interesse di tutti». Cosa si sente di dire a chi ancora oggi - politici, giornalisti, opinionisti e intellettuali - soffia sul fuoco del tanto peggio tanto meglio? «Purtroppo la storia del nostro Paese ha conosciuto tanti "cattivi maestri" che facendosi scudo del loro prestigio intellettuale e invocando la libertà di pensiero, di ricerca, di stampa hanno diffuso idee che altri hanno tradotto in pratica con conseguenze criminali. Naturalmente la libertà di espressione è un principio assoluto che va tutelato sempre, ma fomentare la divisione del Paese su un tema che dovrebbe vedere gli italiani uniti è davvero irresponsabile». A chi si riferisce? «I gruppuscoli di scalmana ti che hanno scatenato incidenti hanno solo portato alle estreme conseguenze logiche le parole irresponsabili di chi ha parlato di "dittatura" o ha azzardato blasfemi paragoni con la Shoah. Chi ha vissuto il '68 e gli anni '70 non ha dimenticato la violenza nella piazze, le aggressioni, i pestaggi ad opera di ragazzi che - ingenuamente - prendevano alla lettera i vaneggiamenti "rivoluzionari" di altri cattivi maestri, prevalentemente marxisti, nelle università e sui giornali». Quelle piazze sono da condannare senza appello o ci sono anche istanze che vanno capite? «Naturalmente fra chi protesta - sono comunque piccoli numeri - vi è anche una maggioranza di persone perbene e in buona fede, che mai si sognerebbero di usare la violenza. Il loro diritto al dissenso va garantito, ma occorre anche un grande sforzo per far capire loro, con rispetto, che stanno dando ascolto a teorie assurde, rifiutate dalla comunità scientifica mondiale». Presidente, torniamo all'inizio di questa chiacchierata: quali sono i paletti che un liberale deve darsi per governare un Paese libero? «I confini sono molto netti. Lo Stato liberale esiste per difendere i diritti naturali della persona. Vi è il diritto a non essere feriti o uccisi, a non essere derubati dei propri beni, a non essere perseguitati per un'opinione espressa. Vi è anche, allo stesso livello, il diritto a non vedere compromessa la propria integrità fisica dal rischio di contagio di chi non vuole vaccinarsi». C'è chi dice: dal contagio proteggono i vaccini, che bisogno abbiamo di limitazioni ulteriori come il Green pass obbligatorio? «Non dimentichiamo che essere vaccinati riduce molto, ma non esclude del tutto, il rischio di essere contagiati, così come riduce molto la possibilità di diffondere il virus, di occupare posti negli ospedali e nelle terapie intensive, sottraendoli a chi soffre di altre gravi malattie. Lo Stato ha il dovere di impedire comportamenti che mettano in pericolo gli altri. Questo significa difendere la libertà, non limitarla». E infine una previsione. Quanto manca alla fine dell'emergenza? «A questa domanda è davvero difficile rispondere. Non voglio alimentare pericolose illusioni. Il virus ha dimostrato di essere imprevedibile. Posso dire però che grazie alla campagna vaccinale, proposta per prima da Forza Italia e ben realizzata dal governo Draghi, stiamo vedendo finalmente la luce in fondo a questo lungo e oscuro tunnel. Così come grazie al contributo essenziale dell'Europa, che noi abbiamo sollecitato e favorito in ogni modo, le prospettive di ripresa economica sono concrete e i primi dati sono molto incoraggianti, addirittura migliori degli altri Paesi europei».

A ROMA LA CCGIL, A MILANO I NO VAX

Piazza san Giovanni a Roma gremita per la solidarietà alla Cgil, dopo l’assalto di sabato scorso. Per Repubblica erano presenti duecentomila persone. La cronaca di Luca Monaco e Andrea Pisani.

« È finita con le note di "Bella Ciao" e i pugni stretti al cielo dei 200 mila manifestanti (60 mila per la questura) che ieri si sono radunati sotto al palco dei sindacati in piazza San Giovanni, a Roma. C'è tanta politica, da Enrico Letta a Giuseppe Conte, soprattutto tanta militanza. Ci sono le delegazioni sindacali da tutta Italia che alle 13 partono in corteo da piazza dell'Esquilino. «Noi con i fascisti abbiamo finito di parlare il 25 aprile del 1945», ammonisce un'enorme stendardo che ondeggia nella pancia del serpentone protetto da un servizio d'ordine robusto, «come non si vedeva da anni». Al centro ci sono il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Apre il cordone degli operai della Fiom, dietro tutti gli altri. Mezz' ora più tardi la marea rossa confluisce nella piazza già gremita. È una risposta di cuore e di testa quella che arriva dal luogo simbolo per la sinistra italiana. A una settimana dall'assalto alla sede della Cgil in Corso d'Italia guidato dai capi di Forza Nuova Roberto Fiore e Giuliano Castellino e dall'ex Nar Luigi Aronica, ora in carcere, Cgil Cisl e Uil rispondono "Mai più fascismi". «Non è solo una risposta allo squadrismo fascista - ammonisce Landini, che per la prima volta a un comizio indossa la cravatta rossa - questa piazza rappresenta tutta l'Italia che vuole cambiare il Paese, che vuole chiudere la storia della violenza politica». La folla applaude. I palloncini colorati di verde, rosso e blu, delle tre sigle confederali ondeggiano al vento come risacca calma. «Questa mobilitazione non è di parte - insiste nel corso dell'intervento conclusivo Landini - ma difende la democrazia di tutti», ripete rispondendo indirettamente al tweet del segretario della Lega Matteo Salvini («La sinistra fa campagna elettorale inseguendo i fascisti che non ci sono più»), prima di ricordare che «il 16 ottobre del 1943 a Roma ci fu il rastrellamento del Ghetto ebraico: è necessario che la città dedichi un luogo a quel ricordo in maniera tale che resti indelebile nella storia italiana». Alessia Carpineti, un'infermiera 41enne che ha lavorato durante tutta l'emergenza Covid all'ospedale San Camillo di Roma, applaude. «Non sono mai stata iscritta a nessun sindacato - premette - non è necessario esserlo per coltivare i valori dell'antifascismo e della democrazia. Dopo l'assalto alla Cgil e le violenze al Policlinico Umberto I mi sono sentita in dovere di venire». Carpineti ha già ascoltato il segretario della Cisl Luigi Sbarra e Pierpaolo Bombardieri della Uil: nel corso dei rispettivi interventi invocano «lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste ». Sbarra ricorda «gli ultimi attacchi vergognosi» subiti dalla senatrice Liliana Segre, insultata venerdì dal palco No Pass di Bologna e la platea applaude convinta. Il segretario dem Enrico Letta scruta la piazza. «È un bel messaggio », commenta con Landini. A poca distanza ecco il candidato sindaco del centrosinistra alle amministrative di Roma Roberto Gualtieri, in silenzio stampa: oggi e domani si vota per il ballottaggio. C'è il ministro della Cultura Dario Franceschini. Presenti Massimo D'Alema, Pierluigi Bersani («Qui ci sono i vaccinati del 25 aprile»). Accanto a Conte, il ministro degli Esteri 5Stelle Luigi Di Maio. C'è anche Leu con il ministro della Salute Roberto Speranza e il gruppo di Italia Viva guidato da Teresa Bellanova e Luciano Nobili. «Dovevano esserci tutti i candidati e tutti i partiti», fa notare D'Alema. Non a caso. L'unico esponente del centrodestra è Elio Vito, con il fazzoletto rosso della Cgil annodato al collo, da sempre battitore libero delle praterie politiche. «Non ero l'unico di destra - punge Vito su Twitter - c'era pure Italia Viva». A manifestazione ormai conclusa Lorenzo Morandi, 26 anni, si perde nelle note di Bella Ciao dei Modena City Ramblers sparate a tutto volume dal palco. «Sono arrivato in treno da Brescia - racconta il 26enne - frequento l'università a Milano e lotto tutti i giorni contro lo squadrismo fascista. Vorrei vederne tante di manifestazioni così».

Se a Roma tutto è filato liscio, a Milano c’è stata tensione. I No Green pass, in 10 mila, hanno cercato di raggiungere anche lì la sede della Cgil. La cronaca di Davide Milosa sul Fatto.

«I No Green Pass a Milano hanno fatto 13. Tanti, da agosto, i loro cortei senza l'autorizzazione della Questura. Ieri, poi, chi ha esposto lo striscione: "Solidali non con la Cgil ma con i portuali", ha avuto la "spinta" di circa 50 presunti anarchici. Fino a tarda sera c'era chi, meno di cento, ha tentato lo scontro con la polizia che ha risposto con una carica di alleggerimento. Risultato: 16 identificati, 4 denunciati. L'appuntamento è al solito alle 17 in piazza Fontana, dove già qualche anima dell'area anarchica butta l'occhio. Mezz' ora dopo si parte. Sono 3 mila che diventeranno 10 mila. Dentro anime differenti. L'estrema destra si vede poco. Qualcuno bazzica la testa del corteo che dopo piazza Duomo si infila nello struscio del sabato in corso Vittorio Emanuele. Da qui rimonta corso Venezia in un percorso del tutto caotico, visto che quello proposto venerdì, con passaggio davanti alla sede Rai, è stato bocciato dalla Questura. Si punta verso piazza della Repubblica. Su largo La Foppa che incrocia la movida di corso Garibaldi, gli anarchici alzano la testa. Sono cinquanta, un po' sparuti, tentano la sortita verso il palazzo della Regione. Il corteo si spezza in due tronconi. Il più nutrito giravolta in piazza Cairoli, verso via Dante e piazza Duomo. Conclusione: tanto caos cittadino, traffico in tilt, corteo nutrito come ormai da settimane, qualche anima da controllare in futuro, ma nessuno scontro vero o disordine oltre il calcolato. Il tutto chiuso in piazza Duomo dopo oltre tre ore di passeggiata urbana senza una vera meta. Chi ha in parte governato il corteo è convinto: "Oggi abbiamo vinto, Trieste chiama, Milano risponde". Va così in archivio senza grossi patemi il sabato più caldo dei no Green pass a Milano, da quando la protesta ha preso forma lo scorso agosto con la devastazione sul Naviglio di un gazebo del Movimento cinque stelle».

65 COMUNI ANCORA AL VOTO

In diverse città oggi si torna ai seggi per il ballottaggio. Il punto del Quotidiano Nazionale.

«Urne aperte per i ballottaggi in 65 comuni. Tra questi ci sono Roma, Torino e Trieste insieme ad altri 7 capoluoghi. Cinque milioni gli italiani chiamati al voto in una tornata che ha valenza nazionale. Sì, perché è un'occasione per misurare la forza dei partiti ed è soprattutto un test sulle alleanze. In mancanza di apparentamenti, soprattutto a Roma e Torino il centrosinistra può misurare il peso degli elettori grillini disposti a sostenere i candidati del Pd. Mentre per il centrodestra si tratta di un «sondaggio» sui rapporti di forza interna, anche alla luce del fatto che a Torino corre Paolo Damilano, considerato vicino al ministro leghista Giorgetti, mentre nella capitale a sfidare Roberto Gualtieri (Pd) è Enrico Michetti, indicato da Fd'I. Ora: fosse una gara sportiva, i bookmaker la darebbero 5 a 1. Ma se si verificasse l'imponderabile, lo sconquasso sarebbe senza precedenti, sconvolgerebbe l'intero quadro politico, i rapporti di forza nella maggioranza e nelle singole coalizioni. Si parla naturalmente del voto di Roma. Lo sfidante dell'ex ministro dell'Economia ha fatto ben poco per rafforzare le proprie posizioni e la contingenza, cioè l'ondata antifascista, che spingerà probabilmente verso le urne molti indecisi di sinistra gli è favorevole. Se a sorpresa dovesse riuscire vincitore, la vittoria del Pd si trasformerebbe in cocente sconfitta, il trionfo di Giorgia Meloni nella coalizione di centrodestra sarebbe indiscutibile. Anche a Torino, l'altra città di enorme importanza in ballo oggi, lo scossone è prevedibile, ma di portata limitata. La sorpresa, c'è già stata, al primo turno con il vantaggio del candidato del centrosinistra Lorusso sul favorito Damilano. Se il ballottaggio capovolgesse i rapporti di forza, la vittoria del Pd - salvo sorprese a Roma - sarebbe comunque netta e per la destra si tratterebbe a questo punto solo di un premio di consolazione. Se però la partita si concluderà con un cappotto, cioè con tutte le città più importanti in mano alla sinistra, la coalizione di centrodestra si troverà di fronte un bivio: cambiare radicalmente, abbandonando la conflittualità interna, o mettere molto seriamente a rischio il risultato delle prossime elezioni politiche. Una vittoria a Trieste del candidato di centrodestra, Dipiazza, servirebbe solo a indorare la pillola. Ma nel voto di oggi non verranno studiati e analizzati solo il dato vistoso dell'esito degli scontri diretti. Si «peserà» il risultato. Per dire: se a Roma Michetti viene sconfitto di misura, Giorgia Meloni sarebbe comunque in grado di reggere l'urto di Salvini. Anche perché il leader della Lega dovrà a propria volta spiegare il candidato da lui scelto a Milano, surclassato dal sindaco Sala. Se lo scarto invece sarà più massiccio, il discorso sarà molto diverso. Sin qui, c'è da dire che questa tornata elettorale registra per quanto riguarda Fd'I un successo sul piano dei consensi ma evidenzia anche un limite politico enorme. In questa settimana è apparsa in piena luce il fortissimo rischio per la Meloni di finire in un ghetto privo di prospettive future. L'equilibrio tra questi due elementi, entrambi veri e contraddittori dipenderà in larga misura proprio dall'esito del voto a Roma. Letta ha molti motivi di soddisfazione non tutti però: resta infatti in sospeso un punto interrogativo fondamentale. Se a Roma e Torino gli elettori non seguiranno le indicazioni di Conte l'intero progetto di alleanza Pd-M5s andrà se non abbandonato almeno ripensato radicalmente. Il sogno di un nuovo Ulivo si rivelerà infatti un miraggio».

I 5 STELLE PENSANO ALL’ORGANIGRAMMA

Il primo appuntamento dopo il voto per i 5 Stelle riguarda le cariche interne. Lo spiega Luca De Carolis per il Fatto.

«Per l'avvocato ripartire fa rima con decidere: chi e dove mettere. L'unica via per costruire il suo M5S , quello a cui le piazze riempite dal nuovo leader non hanno risparmiato il tracollo nelle urne delle Comunali. Ed è soprattutto per questo che da alcuni giorni Giuseppe Conte lo ripete nei colloqui riservati: "Dobbiamo riorganizzarci innanzitutto sui territori, ci giochiamo tutto su questo". Cioè sulla nuova struttura, nei suoi piani da costruire partendo dai nuovi capigruppo. Però poi c'è sempre Beppe Grillo, con cui è stata solo tregua formale dopo il durissimo scontro in estate. Il Garante, che nelle telefonate con i big continua a dirsi "molto preoccupato per la situazione" come ribadisce un 5Stelle di peso. E che ieri è parso blindare il capogruppo alla Camera Davide Crippa, suo fedelissimo, che Conte vorrebbe sostituire a breve: molto prima della scadenza naturale del Direttivo, a dicembre. Ieri però Grillo ha pubblicato sul suo blog un post proprio di Crippa, "Pandemia energetica", sul rincaro dei prezzi di energia e gas. Ed è sembrato un segnale, per fare muro al piano di Conte. Un bel problema per l'avvocato, che aveva rinviato tutte le nomine a dopo le amministrative per evitare contraccolpi sulla campagna elettorale. Temeva che gli esclusi, ergo gli scontenti, potessero tirare indietro la gamba. Ora deve cominciare a scegliere. Ci sono "70-80 persone" da nominare, ha calcolato di recente l'ex premier, tra segreteria e comitati vari. Ma Conte vorrebbe costruire la struttura per gradi, iniziando dai capigruppo. Perché farli eleggere dopo le nomine rischierebbe di esporre gli eletti scelti dal leader a vendette incrociate nelle votazioni dei gruppi parlamentari. E poi a breve scade il capogruppo in Senato, Ettore Licheri: e Conte sarebbe orientato a riconfermarlo. Anche se le indiscrezioni danno come possibile la candidatura anche di Maria Domenica Castellone , già ora nel Direttivo. Ma è alla Camera il passaggio più delicato, perché a Montecitorio c'è Crippa. Conte vorrebbe sostituirlo con Alfonso Bonafede, uomo di strettissima fiducia, che potrebbe essere anche il perfetto pontiere con Luigi Di Maio, l'unico big che controlla ancora almeno una parte del gruppo parlamentare. Però per arrivare alla nuova votazione servono prima le dimissioni dell'attuale Direttivo, partendo da quelle del veterano Crippa: non convinto di farsi da parte, raccontano più fonti. Anche Grillo sembra non troppo d'accordo. E sarebbe la conferma del perdurante gelo tra lui e Conte. Alimentato dai messaggi inviati in questi giorni da diversi parlamentari al Garante, invocato a Roma come un salvatore. La sua discesa nella Capitale, ventilata per la prossima settimana, è stata velocemente smentita. Ma il cielo resta plumbeo sopra il M5S. Innanzitutto a Montecitorio, dove Conte dovrebbe pescare uno dei vicepresidenti della sua segreteria, Riccardo Ricciardi , vicino a Roberto Fico, membro del Direttivo. Dovrebbero essere cinque, i vice, e di certo ci sarà Paola Taverna. Mentre vengono dati in corsa anche l'ex reggente Vito Crimi e la viceministra al Mise Alessandra Todde. Ma per i vicepresidenti bisognerà aspettare ancora. Anche perché ci sono da costruire pure i vari comitati. Quello incentrato sui temi economici dovrebbe avere come membri la viceministra all'Economia Laura Castelli , Stefano Buffagni e il deputato campano Michele Gubitosa. E andrà varato in tempi rapidi anche il comitato per i rapporti di prossimità territoriale, centrale per Conte. Ci sarà invece da attendere, molto, per la scuola di formazione. Ma prima c'è da capire, fuori c'è sempre Alessandro Di Battista, a pungere con i suoi progetti: il tour e poi chissà, "magari qualcosa di più strutturato" come continua a ventilare, più per vedere l'effetto che fa. Però il suo attacco di pochi giorni fa ai senatori "che lavorano pochissimo" non è piaciuto a Conte. "Ci sono limiti da non superare" avrebbe in sostanza detto l'avvocato, che deve sbrigarsi a rimettere ordine nelle truppe. Perché nella partita del Quirinale si può giocare solo con gruppi compatti. Ma le variabili sono tante. E la prima è sempre quella, Grillo».

Per Emanuele Buzzi sul Corriere le incognite del voto si intrecciano con le questioni interne.

«Un tranquillo weekend di paura per i Cinque Stelle. Tra i ballottaggi dove si giocano futuro e credibilità, le tensioni interne che si autoalimentano e la questione della revisione del reddito di cittadinanza che preoccupa i big e non solo, sembra non esserci pace per il Movimento. Proprio la questione del reddito è il tema che infiamma la giornata. «Non siamo disposti a cedere assolutamente», dicono i vertici. Ma in realtà dietro le quinte si discute. Si vocifera nel M5S che il Mef abbia un piano da proporre (una piattaforma per mettere in contatto aziende e beneficiari senza passare dai centri per l'impiego). Una mossa che però trova le perplessità M5S sul mancato utilizzo dei centri d'impiego. Ma la questione tra i Cinque Stelle rischia di essere anzitutto politica. «Siamo tutti concordi che delle modifiche siano indispensabili, ma non possiamo ogni volta trovarci impreparati», commenta un pentastellato. Parole diverse, stesso concetto: «Dovevamo intestarci noi le evoluzioni, non subirle». In realtà nel Movimento si lavora da settimane a una revisione. Un gruppo di lavoro interno ha studiato la pratica. Tra le proposte messe in campo anche quella di facilitare l'accesso al reddito per i migranti. «Forse sul reddito sarebbe servita una discussione collettiva», dice un Cinque Stelle. Confrontarsi è difficile, perché all'interno del Movimento il clima è tutto fuorché sereno. Tutti aspettano le nomine di Giuseppe Conte. Il presidente ha deciso di irrobustire la struttura che lo coadiuverà nella guida del M5S. Il toto-nomi dei cinque vicepresidenti impazza, ma dimaiani e fichiani si sfilano dalla corsa. Il rischio per Conte è non riuscire a racchiudere tutte le anime del Movimento nel nuovo soggetto. «Più che nuovo corso, rischia di essere una ribollita». C'è anche da sciogliere il nodo del capogruppo a Montecitorio. Il mandato di Davide Crippa scade a dicembre. Il presidente M5S è favorevole a una svolta immediata, Beppe Grillo è di parere opposto. Non è sfuggito ai più un richiamo a Crippa in un post del garante. In questo quadro complesso si inseriscono i ballottaggi: il Movimento aspetta i successi (da alleato) nei capoluoghi per sventolare un eventuale aumento dei consiglieri comunali, ma l'attenzione è sui piccoli centri (una decina circa) dove i Cinque Stelle cercano la conferma in solitaria. Da Pinerolo a Cattolica: lì si misurerà la tenuta del M5S».

PROSSIMI NODI: IL REDDITO E NON SOLO

I nodi dell’agenda Draghi, dopo il voto di oggi, sono soprattutto nel programma economico. Monica Guerzoni per il Corriere.

«Abbassare i toni, far scendere il livello di tensione e conflittualità, nella politica e soprattutto nella società. È anche questo il senso del silenzio con cui, in una «fase delicatissima» per il Paese, Mario Draghi ha evitato negli ultimi giorni qualsiasi intervento o commento che potesse suscitare reazioni, interpretazioni o strumentalizzazioni. Non ha enfatizzato il debutto senza incidenti del green pass obbligatorio per i lavoratori e tantomeno ha voluto far sentire la sua voce prima, durante o dopo la manifestazione di solidarietà alla Cgil. D'altronde, anche a distanza di giorni, a parlare è l'abbraccio fortemente simbolico che il presidente del Consiglio aveva portato al segretario Maurizio Landini lunedì scorso, dopo l'assalto squadrista alla sede nazionale del primo sindacato italiano. La manifestazione di San Giovanni è filata via liscia ma i tafferugli e le cariche di polizia a Milano costringono Palazzo Chigi a tenere alta l'attenzione, sul piano sociale e su quello politico. In piazza a Roma c'erano ministri ed esponenti del Pd, di Leu, di Italia Viva e del M5S e non c'era nessun ministro di centrodestra: la rappresentazione plastica di quanto sia lacerata la maggioranza e di quanto paziente dovrà essere il quotidiano lavoro di ricucitura che attende il premier sui dossier più divisivi. Il destino di Forza Nuova è uno di questi. Landini dal palco ha chiesto al governo di passare «dalla solidarietà all'azione concreta» nel rispetto della Costituzione e Luigi Sbarra, leader della Cisl, è andato in pressing sul governo perché «proceda subito allo scioglimento dei movimenti neofascisti». A Palazzo Chigi prevale la cautela. In linea con i timori del Quirinale, la strategia di Draghi sullo scioglimento di Forza Nuova è aspettare che si pronunci la magistratura, evitando un decreto legge del governo che a destra sarebbe letto come una forzatura. Sarebbe la prima volta e il premier non vuole offrire il fianco a strumentalizzazioni. Anche sul green pass per i lavoratori la ricetta di Draghi è improntata alla prudenza e alla gradualità, senza trionfalismi e senza tracciare bilanci prima del tempo. Proteste e tensioni ci sono state e ci saranno ancora, ma l'importante, per Palazzo Chigi e per il ministero della Salute, è che le prime dosi di vaccino continuino a crescere e che, nonostante i tamponi abbiano toccato quota 500 mila al giorno, il numero di casi di Covid resta stabile. Il green pass quindi funziona e non è affatto escluso che più avanti il governo decida di allentare la morsa dell'obbligo, come chiedono Salvini e Conte. Le prossime tre o quattro settimane saranno ad alto tasso di conflittualità per la maggioranza. Domani si aprono le urne dei ballottaggi e il risultato rischia di aumentare la fibrillazione. Anche così si spiega la cautela di Palazzo Chigi, che però, nelle intenzioni del premier, non deve allentare la determinazione ad andare avanti spediti. C'è la legge di bilancio da inviare a Bruxelles, ci sono le riforme collegate al Pnrr e bisogna sminare il campo dai temi che spaccano la maggioranza. Lo scontro sul reddito di cittadinanza preannuncia la reazione della Lega, quando Draghi taglierà Quota 100 e dirà agli italiani che non si andrà più in pensione con 62 anni di età e 38 di contributi».

Il capo di Confindutria Carlo Bonomi insiste: serve una crescita duratura, senza nuove tasse. Nicoletta Picchio sul Sole 24 Ore.

«No a nuove tasse, mettendo da parte anche plastic tax e sugar tax. Anzi bisogna ridurne il peso su impresa e lavoro, tagliando il cuneo fiscale, e con un intervento sull'Irap, che non sia solo nominale, e sull'imposizione sui redditi societari. Inoltre vanno stanziate risorse per la transizione energetica e ambientale: i fondi del Pnrr sono solo il 6% del totale necessario. E va realizzata la riforma degli ammortizzatori sociali, con uno strumento universale di natura assicurativa, e delle politiche attive, coinvolgendo le agenzie private. Il governo si prepara a varare la manovra e dal presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, arrivano una serie di indicazioni. La posta in gioco è la crescita del paese. «Bisogna tornare a crescere ad un ritmo del 1,5-2% all'anno, un obiettivo raggiungibile». Va definita una manovra di bilancio che «nel rispetto della riduzione del debito pubblico accompagni il Paese verso l'uscita dalla crisi economico-sociale legata alla pandemia, attraverso una progressiva uscita dalle misure emergenziali e un'attenta selezione delle misure di sostegno: tra queste sono cruciali le misure per l'ammodernamento del sistema produttivo, nell'ottica delle transizioni tecnologica e ambientale e di riqualificazione del capitale umano». Servono le riforme strutturali: «rappresentano la chiave per irrobustire in modo duraturo il potenziale di crescita del paese»; va evitato di mettere in difficoltà le imprese con nuove tasse «nello spirito del messaggio lanciato dal presidente Draghi all'assemblea degli industriali». La ripresa è ben avviata, ha constatato Bonomi nel video messaggio proiettato in apertura del seminario del Centro studi, che ha indicato per il 2021 un aumento del Pil del 6,1%. Ma nonostante le prospettive positive «lo scenario presenta alcuni rischi» e la guardia «va tenuta alta sia per garantire che il rimbalzo in atto sia ampio a sufficienza per colmare il divario causato dalla recessione del 2020, sia affinché la crescita del Pil dal 2022 in avanti sia solida e duratura». Per Bonomi è questa «la vera sfida, rompendo con un passato che vede l'Italia tra gli ultimi posti tra i paesi avanzati in termini di crescita economica». E quindi Pnrr e legge di bilancio sono determinanti per raggiungere questo obiettivo. Il fisco è in prima linea: innanzitutto occorre tagliare il cuneo fiscale, riducendo l'imposizione su imprese e lavoro. Non bisogna solo agire sull'Irpef, per eliminare distorsioni e iniquità sul prelievo sul reddito delle persone fisiche, ma occorre intervenire sul sistema di imposizione dei redditi societari, «per renderlo più attrattivo di quello attuale». E quindi va ridotta l'Irap, togliendo gran parte del costo del lavoro, ma non in modo nominale «per recuperare gettito altrove»: una revisione a somma zero non produrrebbe né crescita né occupati, anzi, data la platea dei contribuenti Ires e Irap finirebbe per aggravare il carico proprio sulle imprese. Incluse quelle industriali che «sono state il traino della ripresa». Se le risorse non fossero sufficienti per un intervento significativo «il taglio del cuneo lato imprese si faccia - ha detto Bonomi - riducendo i contributi per esempio su quelli che sono oggi più alti per l'industria senza alcuna giustificazione». Sulla transizione energetica i costi potrebbero superare per l'Italia i 650 miliardi di euro nei prossimi 10 anni. Confindustria sposa «pienamente gli obiettivi sfidanti» ma questo traguardo ha impatti molto rilevanti su intere componenti dell'industria e dei suoi occupati, centinaia di migliaia. Occorre una «chiara strategia di politica industriale» e servono risorse, così come servono per le altre riforme da realizzare contenute nel Pnrr: sugli ammortizzatori sociali occorre uno strumento assicurativo universale, a carico di chi ne beneficia. E per le politiche attive occorre una partnership pubblico-privato, perché «le agenzie private sono più efficaci nella formazione e ricollocazione del lavoratore». L'Europa ci osserva, ha sottolineato Bonomi, perché siamo i maggiori beneficiari di questo «primo tesoro comune», cioè le risorse del Pnrr. Da come sapremo attuare il piano dipenderanno anche le nuove regole del patto di stabilità «che noi auspichiamo rinnovate». I finanziamenti del Pnrr «quasi 40 miliardi di spesa pubblica all'anno in media» vanno spesi bene, nei tempi previsti e bisogna andare avanti con le riforme. «Confindustria ha dato il suo contributo costruttivo nella convinzione che nessuna misura possa dispiegare in pieno i suoi effetti se non ancorata a interventi riformatori capaci di sciogliere i nodi che imbrigliano lo sviluppo del Paese».

Proprio sulla politica economica del Governo interviene anche Maurizio Belpietro sulla Verità.

«Nelle ultime settimane abbiamo visto adottare una serie di provvedimenti che destano preoccupazione, in quanto nulla hanno a che fare con una politica liberale e di centrodestra. Mi riferisco alla riforma del catasto, che sbandierata come una revisione delle molte anomalie che certamente ci sono e impediscono di avere una mappa aggiornata delle consistenze immobiliari in Italia, di fatto apre la porta a un aumento della tassazione sul vero patrimonio in mano alle famiglie. È inutile girarci intorno, applicando una rivalutazione dei valori prima o poi ci sarà una rivalutazione delle imposte sulla casa. Alcuni esperti si sono applicati, immaginando le conseguenze, e giornali non certamente ostili al governo come il Corriere della Sera hanno parlato di rincari anche del 200 per cento. Di fatto si tratterebbe della patrimoniale che tanto piace alla sinistra e che, appena diventato segretario del Pd, è stata invocata da Enrico Letta. Non è finita: sono di venerdì sera altre decisioni che dovrebbero far riflettere sulla direzione di marcia dell'esecutivo. Mentre da un lato si smonta quota 100, ovvero si chiude la finestra che consentiva a chi avesse 40 anni di contributi e 60 di età di andare in pensione (ma anche 65 di anzianità e 35 di versamenti), motivando la decisione con l'insostenibilità dei costi a carico dell'Inps, dall'altro invece di rivedere al ribasso il reddito di cittadinanza, che non ha contribuito ad aiutare i disoccupati a trovare lavoro ma ha creato una popolazione di assistiti senza nulla pretendere in cambio (oltre a favorire centinaia di truffe), lo si conferma e ci si mettono anche soldi in più, per poter elargire altri assegni, togliendoli ai fondi che dovrebbero aiutare il pensionamento di chi ha fatto lavori gravosi. In pratica, chi si gratta la pancia continuerà a grattarsela, mentre chi ha lavorato sodo dovrà rassegnarsi a farlo per altri anni. Una misura che ha fatto sbottare perfino il più filogovernativo dei ministri della Lega, ossia Giancarlo Giorgetti, titolare di quel Mise che dovrebbe promuovere lo sviluppo economico e invece si trova a gestire solo il sottosviluppo imposto dai grillini e piddini. Non è finita. Sempre venerdì il governo ha varato altre 13 settimane di cassa integrazione per le aziende. In apparenza parrebbe una buona notizia, ma in realtà non lo è, per lo meno per chi liberale lo è davvero. Infatti si tratta dell'ennesimo blocco dei licenziamenti, che impedisce alle aziende di portare a compimento piani di ristrutturazione che spesso sono decisivi per la sopravvivenza di una società in difficoltà. Proprio come in nessun Paese occidentale è stato introdotto l'obbligo del green pass, in Europa ma neppure in qualsiasi altro posto che non sia guidato da un autocrate si è varato un provvedimento che di fatto nega la libertà d'impresa che, piccolo dettaglio, sarebbe pure garantita dalla Costituzione. Da ultimo, vi segnalo una notizia che va nel solco della tradizione: i dipendenti di Alitalia che non passeranno alla nuova compagnia verranno messi in cassa integrazione, cioè a carico della fiscalità generale, ovvero dei contribuenti, e guadagneranno più dei colleghi sono stati assunti da Ita. Vi sembra tutto normale? A me personalmente no. Dunque, torno a domandarmi: chi comanda davvero a Palazzo Chigi? Draghi o la sinistra post comunista composta dai vari Roberto Speranza, Andrea Orlando e compagni vari. Di certo, su immigrazione, green pass, tasse, reddito di cittadinanza, blocco dei licenziamenti e soldi pubblici a gogo a imprese di dubbio futuro la linea è quella della sinistra, non certo quella di una democrazia liberale».

LIBANO, IL PAESE SI SPACCA SULL’INCHIESTA PENALE

Reportage della Stampa dal Libano. Il Paese dei Cedri appare spaccato sulla figura del giudice Bitar simbolo della "normalità" per la sua inchiesta sull'esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020. Giordano Stabile.

«Il "Pugno" è ancora lì, in mezzo a piazza dei Martiri, di un bianco ormai ingiallito, sbrecciato, simbolo di una "rivoluzione" tradita. C'è scritto sopra "17 ottobre 2019". Sembrano passati molti più di due anni. Allora un fiume di cittadini, due, trecentomila, debordava, in arrivo dai quartieri cristiani, sciiti, sunniti, sotto le sole bandiere nazionali, con il cedro verde in mezzo. Era la rivolta contro il sistema settario, la spartizione del potere che aveva spolpato lo Stato fino a svuotare del tutto le casse della Banca centrale. Finiti i dollari, chiuse le banche, congelati e poi evaporati i risparmi delle famiglie. Il Parlamento era sotto assedio, davanti a un'onda che sembrava inarrestabile. Il cordone dei soldati parlava con la gente, cercava di calmarla, faceva intendere che mai avrebbero sparato. È andata così, il sangue non è stato versato. Ma il sistema, la "mafia" come la chiamano i libanesi, ha vinto. Il ritorno alla logica settaria è in marcia più che mai, e lo si è visto negli scontri di giovedì al Palazzo di giustizia, con i cecchini delle Falangi cristiane che sparavano sui militanti sciiti di Hezbollah, in una battaglia durata tre ore e mezzo. Un segnale bruttissimo, lungo la Linea verde della guerra civile, a poche centinaia di metri dal punto esatto dove era scoppiata il 13 aprile 1975. Ancora più grave, il Libano si è spaccato di fronte a una figura simbolo. Il giudice Tarek Bitar, che indaga sull'esplosione del 4 agosto 2020, oltre duecento morti, e incarna la speranza di un "Paese normale", dove anche i potenti, i leader settari, pagano per i loro errori e malefatte. Doveva unire tutti, perché il sangue delle vittime ha lo stesso colore, al di là del credo religioso. E invece no. I partiti sciiti, Hezbollah e Amal, che più interessi hanno nel porto e si sentono investiti in pieno dall'inchiesta, hanno cominciato una campagna implacabile per rimuoverlo. Tre ricorsi alla magistratura, tutti respinti. La minaccia di far cadere il governo, quelle sempre meno velate di rappresaglie fisiche, fino a un'azione di bullismo spaventosa, ieri, quando un manipolo è entrato in casa del presidente dell'associazione delle vittime del 4 agosto, Ibrahim Hoteit, lo ha malmenato e costretto a registrare un video per chiedere le dimissioni dello stesso Bitar. Che in molti oramai chiamano il "Falcone libanese", in quanto si aspettano che salti in aria da un momento all'altro, come il premier Rafik Hariri nel 2005. L'assedio al giudice Bitar, 47 anni, una reputazione di incorruttibile che si è guadagnato quando ha fatto condannare i dirigenti di un ospedale per un caso di malasanità, cosa mai vista prima, è nella fase decisiva. Bitar ha chiesto un mandato di arresto contro l'ex ministro delle Finanze Ali Hassan Khalil, eminenza grigia e braccio destro dello speaker del Parlamento, lo sciita Nabih Berri. Lo accusa di "omicidio, incendio doloso, vandalismo a fini di lucro". Imputazioni gravissime, una sfida a viso aperto che ha risvegliato la coscienza civica, quel poco che è rimasto del movimento del "17 ottobre". Oggi pomeriggio i cittadini libanesi si ritroveranno per una marcia dal Palazzo di giustizia a piazza dei Martiri. Ma la logica settaria avanza, e la composizione della manifestazione ci dirà fino a che punto. Per Hezbollah e Amal il giudice è legato al potere cristiano e «sceglie i suoi i bersagli», cioè i loro uomini. Gli sciiti rivendicano giustizia per i "loro martiri", cioè i sei militanti uccisi giovedì. Vogliono contrapporre questa inchiesta a quella per la strage al porto, cercano sponde nel presidente Michel Aoun, un cristiano loro alleato, sempre più in imbarazzo. Aoun ha promesso che l'inchiesta di Bitar andrà avanti ma anche detto che i responsabili degli scontri dovranno «essere perseguiti». È un assist a Hezbollah e Amal, perché adesso bisognerà risalire ai cecchini, mettere sotto pressione i falangisti cristiani, per poi arrivare a un compromesso: non punire nessuno. Una logica di spartizione mafiosa. Che il Libano non può più permettersi».

CHE COSA FARE CON LA POLONIA

Nella sua rubrica diplomatica, Sergio Romano sul Corriere analizza la questione dei rapporti fra l’Europa e e la Polonia sovranista.

«La Polonia è uno dei 27 membri dell'Unione Europea, ma il governo di Varsavia è composto dai rappresentanti di un partito (Diritto e Giustizia) che non ne condivide i principi e gli obiettivi. È un partito nazionalista, ma il suo nazionalismo è alquanto diverso da quello che animò il Paese quando fu invaso dalla Wehrmacht o dovette diventare, alla fine della Seconda guerra mondiale, un satellite dell'Unione Sovietica. Il nazionalismo d'oggi è l'ideologia di cui un partito si serve per impadronirsi del sistema giudiziario e sostituire con altri magistrati quelli che non favoriscono le sue ambizioni. Altri sono già suoi alleati. La Corte costituzionale polacca ha recentemente decretato che alcune norme europee sono incompatibili con quelle della costituzione nazionale e che questa, in Polonia, è più autorevole della costituzione europea. La Commissione di Bruxelles non può accettare una posizione che mette in discussione la natura federale della Ue e si appresta ora a punire la Polonia con multe in denaro e con la sospensione di prestiti e sussidi. Molti in altri Paesi pensano addirittura che la Polonia non possa adottare una tale posizione e continuare a fare parte dell'Unione. È una conclusione comprensibile. Come potrebbe la Commissione applicare le sue norme soltanto ai Paesi che le accettano e permettere ad altri di violarle? È una situazione simile a quella della Gran Bretagna quando cercò di sottrarsi all'osservanza di alcune norme dell'Unione. Ma nel Regno Unito vi fu un referendum che sciolse il nodo delle incertezze e liberò la Commissione da un obbligo (l'espulsione) necessario ma sgradevole. In Polonia, invece, il referendum non sembra essere, per il momento, all'ordine del giorno e molti dimostranti negli scorsi giorni sono scesi nelle piazze di Varsavia per chiedere che il Paese rimanga nella Ue. In queste circostanze il capo del governo polacco, Mateusz Morawiecki, non farà mai un referendum (di cui conosce già il risultato) e ha dichiarato che non vuole uscire dall'Unione. Ne vuole i vantaggi e ne rifiuta i principi. La situazione è diventata imbarazzante. Possiamo multare la Polonia o addirittura prendere in considerazione la sua espulsione dalla Ue. Ma una tale decisione punirebbe quella parte del Paese (probabilmente maggioritaria) che desidera restare nell'Unione. Non possiamo nemmeno creare un pericoloso precedente permettendo che un membro della Ue non riconosca il primato della costituzione europea su quella dei singoli Stati. La diplomazia cercherà di trovare un compromesso e può fare miracoli. Ma una decisione che cerchi di dare a tutti un po' di soddisfazione non gioverebbe al futuro dell'Europa. Forse è meglio sospendere per il momento la Polonia lasciandola nella terra di nessuno (una formula mai applicata sinora) e sperare che la sua assenza dalla casa madre sia temporanea».

OBAMA ALLA COP26 DI GLASGOW

L’ex presidente Barack Obama parteciperà al summit sull’ambiente Cop26 di Glasgow. La cronaca di Avvenire.

«Barack Obama sarà presente al fianco dell'attuale presidente americano e suo ex vice, Joe Biden, alla cruciale conferenza internazionale sul clima Cop26 in programma dal 31 ottobre a Glasgow per iniziativa dell'Onu, sotto la presidenza del governo britannico di Boris Johnson e in partnership con quello italiano. La notizia è stata confermata da un portavoce dell'ex inquilino democratico della Casa Bianca. Il portavoce ha sottolineato come Obama voglia «dare manforte a Biden e a tutti i leader impegnati in prima fila» sul fronte del consolidamento degli impegni sulla riduzione delle emissioni nocive globali che contribuiscono al cambiamento climatico. Nell'occasione l'ex presidente «sottolineerà l'importanza dei progressi sull'attuazione degli obiettivi fissati dall'Accordo di Parigi» al tempo della sua leadership; ma anche l'urgenza di «una robusta azione coordinata di governi, settore privato, filantropi e società civile» per andare oltre sul cammino della battaglia contro la minaccia del surriscaldamento del pianeta. Sul vertice di Glasgow pende peraltro il rischio del forfait di diversi leader non occidentali, in particolare di quelli di tutte le maggiori economie emergenti, nessuno dei quali ha confermato finora la propria partecipazione. In primis il presidente cinese, Xi Jinping, il cui Paese è considerato un attore decisivo su questo dossier, ma la cui assenza è data quasi per certa dai media britannici. Proprio venerdì è emerso un video nel quale la regina Elisabetta, 95 anni, definiva intanto «irritante» - in una conversazione in teoria privata - il potenziale forfait di diversi capi di Stato alla Cop26 in terra scozzese puntando il dito contro quei leader che «parlano, ma non fanno». La famiglia reale sarà da parte sua presente al massimo livello alla conferenza di Glasgow.».

IL PAPA: SALARIO UNIVERSALE E VACCINI PER TUTTI

In un videomessaggio ai movimenti popolari sudamericani Papa Francesco ha lanciato ieri un appello per il reddito minimo e la riduzione della giornata lavorativa. Ed è tornato a dire sui vaccini: i brevetti siano liberi. Gianni Cardinale per Avvenire.

«Salario universale» e «riduzione della giornata lavorativa». Sono queste le due «misure concrete» che papa Francesco lancia per superare la crisi economico sociale aggravata dalla pandemia. Lo fa al termine di un lungo videomessaggio in spagnolo inviato ai partecipanti alla seconda sessione del IV incontro mondiale dei movimenti popolari (Emmp), che si è svolto ieri online. Per il Pontefice la pandemia «ha fatto vedere le disuguaglianze sociali che colpiscono i nostri popoli e ha esposto - senza chiedere permesso né scusa - la straziante situazione di tanti fratelli e sorelle, quella situazione che tanti meccanismi di post- verità non hanno potuto occultare ». E di fronte a questa sfida non si può «ritornare agli schemi precedenti » perché «sarebbe davvero suicida e, se mi consentite di forzare un po' le parole, ecocida e genocida». Il Pontefice ricorda che in Fratelli tutti ha scelto la parabola del Buon Samaritano come «la rappresentazione più chiara» di una «scelta impegnata nel Vangelo». E rivela che in questo momento, al pensare il Buon Samaritano gli vengono in mente i movimenti popolari e anche «le proteste per la morte di George Floyd». Francesco lancia, «in nome di Dio», un accorato appello ai «grandi laboratori » perché «liberalizzino i brevetti». Ai «gruppi finanziari e agli organismi internazionali di credito» di «condonare» i debiti ai Paesi poveri». Alle «grande compagnie estrattive » di smettere di «distruggere », «inquinare» e «intossicare». Alle «grandi compagnie alimentari» di «smettere di imporre strutture monopolistiche » che affamano i popoli. Ai «fabbricanti e ai trafficanti di armi » di «cessare totalmente la loro attività». Ai «giganti della tecnologia » di «smettere di sfruttare la fragilità umana» in un mondo in cui aumentano «grooming», «fake news», «teorie cospirative». Ai «giganti delle telecomunicazioni» di «liberalizzare l'accesso ai contenuti educativi». Ai «mezzi di comunicazione » di «porre fine alla logica della post-verità, alla disinformazione, alla diffamazione, alla calunnia, e a quell'attrazione malata per lo scandalo e il torbido». Ai «Paesi potenti» di ripudiare ogni forma di «neocolonialismo» e di «cessare le aggressioni, i blocchi e le sanzioni unilaterali » risolvendo i conflitti «in istanze multilaterali come le Nazione Unite». Insomma, serve cambiare «un sistema di morte» voluto dal potere politico ed economico. Il Pontefice invita ad affrontare «i discorsi populisti d'intolleranza, xenofobia, aporofobia - che è l'odio per i poveri». E spiega che si «rattrista » quando «viene catalogato con una serie di epiteti», con una «aggettivazione screditante» solo perché ricorda la Dottrina sociale della Chiesa. Attacchi che fanno parte «della trama della post-verità che cerca di annullare qualsiasi ricerca umanistica alternativa alla globalizzazione capitalistica», che fanno parte «della cultura dello scarto» e «del paradigma tecnocratico». Ma che cosa fare in concreto? «Io non ho la risposta - dice il Papa - perciò dobbiamo sognare insieme e trovarla insieme». Tuttavia, prosegue, «ci sono misure concrete che forse possono permettere qualche cambiamento significativo». In incontri passati, ricorda Francesco, «abbiamo parlato dell'integrazione urbana, dell'agricoltura familiare, dell'economia popolare». «A queste, che ancora richiedono di continuare a lavorare insieme per concretizzarle - aggiunge - mi piacerebbe aggiungerne altre due: il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa». Nel XIX secolo «gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno». Quando conquistarono la giornata di otto ore «non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto ». «Allora - insiste il Papa - lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza». Perché «non ci possono essere tante persone che soffrono per l'eccesso di lavoro e tante altre che soffrono per la mancanza di lavoro». Francesco è ben consapevole che le misure proposte sono «necessarie, ma naturalmente non sufficienti». Tuttavia sono «misure possibili e segnerebbero un positivo cambiamento di direzione». Infine il Papa ribadisce l'invito a «mettere l'economia al servizio dei popoli per costruire una pace duratura fondata sulla giustizia sociale e sulla cura della Casa comune». Di qui l'esortazione ai Movimenti popolari di non lasciarsi «incasellare » o «corrompere». E di continuare «a portare avanti la vostra agenda di terra, casa e lavoro». L'agenda, in spagnolo, delle tre T: tierra, techo y trabajo».

Paolo Ruffini, “ministro” vaticano per la Comunicazione, viene intervistato da Carlo Maroni per Il Sole 24 Ore. E spiega la sua missione: «Ascoltare, prima di tutto: così portiamo la voce della Chiesa nel mondo»

«Ero in riunione, mi compare sul cellulare una chiamata da numero sconosciuto. Di solito quando non so chi sia a chiamare, se sono impegnato non rispondo. Quella volta non so perché l'ho fatto. "Pronto, sono in riunione" E dall'altra parte: "Buon giorno, è Paolo Ruffini?". Penso: ecco, è un call center. Dirò se possono richiamare più tardi. Dico comunque. "Sì, sono io". E prima che possa continuare, la persona che chiamava aggiunge: "Sono Papa Francesco, posso parlarle?». Paolo Ruffini, prefetto della Comunicazione della Santa Sede, racconta come è nata la sua nomina a capo di un ministero del Vaticano, la prima volta nella storia d'Oltretevere che un laico assume la carica di "ministro", che sino ad allora era sempre stata riservata ad alti prelati, monsignori, vescovi, cardinali. Quando il Papa lo chiama, nel 2018, è da quattro anni direttore dei programmi di TV2000 e di Inblu, la televisione e la Radio della Cei, che producono informazione e programmi di qualità. «Non posso dire che il Papa mi conoscesse bene. Lo avevo incontrato sì, quando ha ricevuto i dipendenti della televisione. Poi per una intervista. E in altre occasione legate alla Tv. Sapevo che era informato sul lavoro fatto da me e Lucio Brunelli, il direttore delle news. Mi chiese di vedermi. E quando mi ha ricevuto, a Santa Marta, mi ha spiegato il progetto di riforma della comunicazione della Santa Sede. Mi ha chiesto del mio lavoro, della mia esperienza, e alla fine mi ha detto mi mandargli il curriculum. Insomma, è stato un vero colloquio di lavoro. Ma diverso da tutti quelli che mi era capitato di fare nella mia vita professionale. Non credo avesse ancora deciso. Così gli dissi tutto quello che non so fare». Non gli nascose che nella sua carriera professionale di giornalista e direttore non si era mai direttamente occupato di Vaticano e «che non sono una persona di pubbliche relazioni». Ruffini, 65 anni, palermitano di nascita e romano di adozione, è molto affabile e ironico, ma nella vita pubblica è notoriamente una persona schiva e soprattutto distante anni luce dal circo mediatico politico-televisivo. Eppure ha ricoperto incarichi di prima linea sia nella carta stampata ma soprattutto in radio e tv. Per anni inviato di cronaca e poi di politica prima al Mattino e quindi al Messaggero, di cui diventa vice direttore. Nel 1996 viene chiamato a dirigere il Gr Rai, appena unificato,«un incarico che accettai dopo aver a lungo riflettuto ed essermi consultato con mia moglie, che non era per nulla convinta. Anzi era contraria. Non avevo mai fatto radio, e lavorare in un giornale mi piaceva molto». Quella del Gr si rivelerà un'esperienza preziosa, in cui forte era la sfida di unificare le varie redazioni, progetto che pur in forme diverse si ripresenterà in seguito in Vaticano. Poi gli anni in tv alla guida di Rai3, dove lancia o consolida programmi di vasto successo, tuttora colonne portanti della terza rete, come «Che tempo che fa» di Fabio Fazio, «Report», allora di Milena Gabanelli, «Blu Notte», «Presa diretta» e anche «Ballarò» di Giovanni Floris. Certo un palinsesto coraggioso, e distante nei contenuti e nello stile da quello che sarà chiamato a dirigere anni dopo. «Quella Rai3 era la continuazione della migliore tradizione di Angelo Guglielmi, una tv di grande qualità, possiamo dire colta, che tuttavia senza snobismi elitaristi accetta la sfida degli ascolti». Poi la direzione de La7, prima con editore Telecom e poi con Cairo, un'esperienza che considera preziosa per gli incarichi futuri. «Compresi davvero il mondo della televisione commerciale» e i meccanismi che presiedono il settore dei diritti cinematografici e sportivi. E quindi la direzione di TV2000, «una tv cattolica, non solo per cattolici». Sulla tv dei vescovi un piccolo ricordo personale: «Mia madre mi diceva sempre: è quella la televisione che dovresti dirigere un giorno. Le rispondevo scherzando che non era lei l'editore. Ma poi fu così, assunsi l'incarico nel 2014 poco prima che lei venisse a mancare. Fu una proposta bellissima e inaspettata. Così dissi ridendo a mia madre che alla fine aveva avuto ragione lei». Infine la chiamata del Papa nel 2018. È così che si ritrova dopo tre anni dalla sua istituzione, alla guida del Dicastero della Comunicazione, a proseguire una riforma-chiave del pontificato, che ha riunito Osservatore Romano, Radio Vaticana, il sito web di informazione Vatican News, gli account social, il Centro Televisivo Vaticano, la Libreria Editrice Vaticana, la Sala Stampa, la Tipografia Vaticana, la Filmoteca vaticana e le funzioni del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali. Un dicastero di più di 500 persone, di cui quasi la metà giornalisti, trasmissioni radio in oltre 40 lingue, altrettante sul sito. «La nostra missione è portare al mondo il messaggio della Chiesa. Farlo in molte lingue, direttamente, è la nostra grande forza. Questo comporta un impegno davvero grande (anche se poco visibile) delle molte persone che lavorano nei media vaticani. Richiede risorse importanti, ma garantisce che il messaggio possa essere accessibile a quante più persone è possibile. Non è una questione di numeri, ma di missione. È un dire: dovunque tu sia, qualunque sia la tua lingua per noi sei importante. Noi per te ci siamo». Qualche numero però aiuta a capire. Sono state 250 milioni le pagine di Vatican News - il portale informativo nato a dicembre del 2017 - lette nel 2020, con punte di 46 milioni al mese durante il primo lockdown, con una media mensile di 21 milioni. Radio Vaticana, nata nel 1931, produce 12mila ore di trasmissione in un anno in 41 lingue (69 nazioni di provenienza di chi ci lavora), è oggi ritrasmessa da più di mille emittenti nel mondo, l'Osservatore Romano, fondato nel 1861, ha circa 21.500 lettori al giorno, che diventano 40mila considerando le versioni linguistiche stampate e redistribuite dalle diocesi. Vatican News è nato come portale informativo su web nel 2017, ed è completamente gratuito, mentre da poche settimane per l'Osservatore (in versione digitale online) viene chiesto un modesto abbonamento di 20 euro annui. A questo va aggiunto un dato sugli account social di Papa Francesco: Pontifex twitta in 9 lingue con quasi 52 milioni di follower, i messaggi del 2020 sono stati visti 35 miliardi di volte. Quale è la formula "segreta" per comunicare il Papa, e in particolare questo Papa? «Lo sforzo, la missione posso dire, è di cercare di raccontare il messaggio cristiano nella lingua di ogni Paese, sposando la cultura e il linguaggio dei diversi popoli. La formula è non ritenersi centrali, siamo solo uno strumento». L'"inculturazione" fu la chiave di successo dei gesuiti nel mondo, a partire da Matteo Ricci. «L'idea è quella di una missionarietà non coloniale. E per questo l'ascolto deve venire prima di tutto. Ascolto e incontro con chi ti vuole sentire o ti legge: questo per me ha un valore fondante, non solo per noi del Vaticano, ma per tutto il mondo dell'informazione». Una chiave d'azione certamente in sintonia con la pastorale di Francesco, che rifugge ogni idea di proselitismo. «È questa la nostra missione, prima della struttura, che pure è importante». Già, perché unificare i media vaticani non è stata impresa da poco, ma è andata in porto. «L'azione di convergenza non è stato un annullamento delle specificità. L'Osservatore è un giornale di approfondimento sui temi internazionali, la teologia e la cultura, mentre Vatican News e Radio Vaticana sono più sulle news immediate, interviste e reportage. Ma tutti si integrano bene». Certo, questo ha un costo economico sul bilancio vaticano, che come sappiamo è in rosso anche per il Covid. «Sulla spending review c'è stato un grosso sforzo, è stata anche una delle ragioni della riforma, per ottimizzare le risorse. Ad oggi risparmiamo 8 milioni all'anno sui budget iniziali, avendo aumentato enormemente l'output informativo. Questo grazie anche ad una squadra di eccellenti professionisti». (…) Sente spesso Bergoglio? «Spesso o raramente sono due avverbi che non rendono il senso del lavoro di chi è chiamato ad essere al servizio del Papa e della Chiesa. Lui sa che mi può chiamare sempre. Io so che se ho bisogno lui c'è. Ma una cosa va detta: il Papa chiede a tutti di lavorare in autonomia, sulla base del suo magistero». Un'ultima cosa, un ricordo personale: suo padre, Attilio Ruffini, esponente dc di primo piano, nel 1979 come ministro della Difesa fu l'artefice della spedizione della Marina Militare in Vietnam per salvare i profughi in fuga, i celebri boat people. Fu la prima missione per soccorrere i migranti in mare, un fatto storico, specie se vista con le lenti della politica attuale che spesso tratta i rifugiati come merce propagandistica. Come lo ricorda? «Tante cose ho in mente di quella vicenda. Ma una su tutte: in famiglia eravamo sorpresi e orgogliosi di quella scelta; fieri e commossi che l'Italia, attraverso mio padre, avesse deciso di fare qualcosa di unico, per certi versi persino insensato: correre dall'altra parte del mondo per salvare un pugno di naufraghi disperati, alla deriva, senza starsi a domandare tanto perché noi e non altri; ingenuamente felici del modo in cui quella decisione fosse stata condivisa da tutto il Paese, e di aver avuto una lezione di senso della vita, e anche della politica, e del ruolo delle Forze Armate».

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