In attesa della tregua
Hamas valuta l'accordo, ma il governo israeliano è diviso. Caso Salis, Meloni chiama Orbán. Sul Piano Mattei dubbi e speranze di Ong e missionari. Il Pil Italia cresce ma poco. Si ricorda don Bosco
Si attende che Hamas valuti la bozza di tregua scaturita dai colloqui di Parigi, cui hanno partecipato anche il capo della Cia e quello del Mossad. Ma mentre il gruppo terrorista palestinese deve decidere, la politica israeliana si divide proprio sullo stesso accordo. Benjamin Netanyahu si è detto contrario, mentre Binyamin Gantz ha minacciato di uscire dal governo se non si arriverà alla tregua. Secondo il Corriere, la proposta prevede tre fasi: dopo donne, minori e anziani, verrebbero lasciati andare i soldati (prima le ragazze) e solo alla fine rimandati in Israele i cadaveri portati dentro Gaza il giorno degli assalti o quelli di chi è morto in cattività. Quanti e quali detenuti palestinesi verranno scarcerati non sarebbe ancora stato definito.
Spettacolare incursione in “stile Fauda” dell’esercito israeliano che ha colpito al terzo piano del più grande ospedale di Jenin, in Cisgiordania. Una dozzina di soldati, tra cui tre in abiti femminili e due vestiti da personale medico palestinese, hanno fatto irruzione nei corridoi del policlinico e ucciso tre terroristi. Hamas ha dichiarato che uno degli uomini uccisi era un proprio membro. Le forze armate israeliane hanno anche ammesso ieri di avere allagato i tunnel utilizzati dai terroristi a Gaza. Il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha detto che la Gran Bretagna farà pressioni sull'Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese. Nel dibattito delle idee oggi nella Versione trovate gli interventi di Barbara Spinelli sul Fatto, Giulio Meotti sul Foglio e Anna Foa sula Manifesto. La Fondazione Oasis nel suo sito ha raccolto le opinioni su Gaza dei leader islamici che vivono in Italia.
Il giorno dopo la Conferenza Italia-Africa, si discute del Piano Mattei. Più ombre che luci nei giudizi delle varie associazioni che si occupano di cooperazione. Ong e missionari dicono all’Avvenire: bene l’attenzione ma i progetti siano concreti e concordati pure con noi. Intanto in Sudan nove mesi di guerra civile senza sbocchi: record di sfollati e sei epidemie in corso. Il premier del Marocco dice a Repubblica: ci vogliono risorse adeguate.
Il caso delle manette e delle catene ai piedi a Ilaria Salis, durante l’udienza di un processo contro di lei a Budapest, catalizza l’attenzione dei giornali italiani. La premier Giorgia Meloni ha telefonato a Viktor Orbán, anche su invito delle opposizioni. Libero difende la giustizia ungherese contro l’esponente dei centri sociali, accusate di violenze contro alcuni neonazisti. Sul caso ulteriore gaffe del ministro Francesco Lollobrigida, che ha dichiarato di “non aver visto le immagini”.
Antonio Polito sul Corriere della Sera si focalizza sul tema dei cattolici in politica dopo il caso del voto in Veneto sul fine vita. Dubbi e disagi nel Partito Democratico lasciano aperta la questione di un mondo che difficilmente oggi può trovare sbocchi nel panorama politico italiano.
Gli ultimi dati del Pil indicano che in Italia le cose vanno relativamente meglio che nel resto dell’Europa ma che comunque la crescita è minima rispetto anche alle attese delle ultime settimane (è l’apertura del Sole 24 Ore di oggi). Se la Bce dovesse dare una svolta alla politica monetaria già in primavera potrebbe tradursi in un’opportunità di vera ripresa nel nostro Paese.
La Versione si conclude con un articolo pubblicato da Avvenire su don Giovanni Bosco, di cui oggi, 31 gennaio ricorre la festa. Era il santo dei sogni, non solo dei giovani.
Oggi La Versione di Banfi, come sempre di mercoledì, è APERTA A TUTTI GLI ABBONATI. Per chi voglia leggere la Versione integralmente ogni mattina può abbonarsi anche subito cliccando qui:
LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae Jannik Sinner, con la coppa dell’Open d’Australia, insieme alla premier Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. «Grandissimo», ha detto Meloni accogliendolo. Oggi per Sinner sono in programma una conferenza stampa e un servizio fotografico, poi giovedì alle 16 ci sarà l’incontro al Quirinale con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Ogni tanto Il Manifesto batte tutti e azzecca in pieno il gioco di parole del titolo. Oggi è uno di quei giorni: Angheria dice la copertina con foto di Ilaria Salis in catene a Budapest. Il Corriere della Sera annuncia: Caso Salis, Meloni chiama Orbán. Mentre La Repubblica si lamenta: Prigionieri di Orbán. Libero vorrebbe essere spiritoso e all’interno prende le parti del regime ungherese: Il Pd invade l’Ungheria. E dire che Il Giornale è più garantista: Pressing dell’Italia contro le catene a Ilaria. Oggettivi Il Messaggero: Caso Salis, Meloni chiama Orbán. E il Quotidiano Nazionale: Caso Ilaria Salis, Meloni chiama Orbán. Il Domani mette in primo piano, sullo stesso tema, l’ennesima gaffe del ministro Lollobrigida: Non vedo, non sento, non parlo. Il caso Salis manda in tilt il governo. Avvenire ragiona sul Piano Mattei, il giorno dopo la Conferenza di Roma: Africa chiama Italia. Mentre Il Fatto tematizza: Ponte di Messina: mangiatoia libera sugli stipendi e le consulenze. La Verità insiste sul filone no vax: Covid, il ritorno degli indecenti. La Stampa denuncia: Pasticcio bonus mamme bloccati gli sgravi fiscali. Mentre Il Sole 24 Ore commenta i dati nazionali dell’economia: Pil, Italia prima tra i big Ue dopo il Covid ma nel 2024 la crescita parte solo da +0,1%.
HAMAS VALUTA LA PROPOSTA DI UNA TREGUA
Hamas valuta la proposta di tregua a Gaza, risultato dei colloqui di Parigi. Intanto il governo israeliano si spacca. L’estrema destra: con il sì all’intesa cade l’esecutivo. Dalla parte opposta Gantz dice: se non passa ce ne andiamo. Davide Frattini per il Corriere della Sera.
«I cadaveri vengono scaricati da un camion avvolti nei sacchi blu e sepolti in una fossa comune scavata vicino alle tende tirate su dagli sfollati, quasi un milione e mezzo di palestinesi ha dovuto lasciare le case dopo gli ordini di evacuazione dell’esercito negli ultimi due mesi, la guerra dura da quattro. Si sono ammassati a sud della Striscia, dalle parti di Rafah, e adesso fanno spazio al centinaio di corpi che arrivano dai campisanti vicino ai campi di battaglia: fonti da Gaza spiegano all’agenzia France Presse che i soldati di Tsahal li avevano riesumati due settimane fa per cercare i possibili resti degli ostaggi e ieri li ha restituiti. Ma nessuno è più in grado di identificarli. Dei 136 israeliani tuttora prigionieri sui circa 250 rapiti il 7 ottobre durante l’invasione a sud perpetrata dai terroristi di Hamas, oltre cento sono ancora in vita e tra loro le donne, i bambini, i malati sarebbero i primi a essere liberati, se il piano d’intesa definito a Parigi nel fine settimana sarà accettato dai capi di Hamas. Una delegazione dell’organizzazione fondamentalista arriva oggi al Cairo per discuterne con Abbas Kamel, la superspia egiziana, mentre Ismail Haniyeh — il leader islamista ospite degli agi offerti dal Qatar — comunica di aver ricevuto la bozza: «La stiamo studiando», dichiara e subito ribadisce che le richieste base restano un cessate il fuoco permanente e il ritiro delle truppe dai 363 chilometri quadrati. La proposta — spiega un rappresentante del gruppo all’agenzia Reuters — prevede tre fasi: dopo donne, minori e anziani, verrebbero lasciati andare i soldati (prima le ragazze) e solo alla fine rimandati in Israele i cadaveri portati dentro Gaza il giorno degli assalti o quelli di chi è morto in cattività. Quanti e quali detenuti palestinesi verranno scarcerati non sarebbe ancora stato definito. A ogni passaggio un numero sempre maggiore di aiuti umanitari entrerebbe nella Striscia e verrebbero implementati i primi interventi di ricostruzione, la metà delle abitazioni è distrutta o danneggiata, i palestinesi uccisi sono quasi 27 mila. Al vertice in Francia ha partecipato anche David Barnea, il direttore del Mossad, che ha incontrato Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al-Thani, primo ministro del Qatar, e l’americano William Burns della Cia. Di sicuro il capo dei servizi segreti israeliani ha tenuto informato il consiglio di guerra ristretto e soprattutto Benjamin Netanyahu. Eppure ieri il premier ha respinto l’ipotesi di «liberare migliaia di prigionieri e richiamare l’esercito da Gaza»: «Questa non è un’altra operazione. Andremo avanti fino alla vittoria totale». I negoziatori hanno lasciato aperta la durata della pausa nei combattimenti proprio perché Hamas possa dire di aver ottenuto la tregua permanente e il governo israeliano di non averla accettata. L’estrema destra messianica portata al governo da Netanyahu già minaccia di far saltare la coalizione «se dovesse passare questa intesa» e su Bibi, com’è soprannominato, preme anche il partito di Benny Gantz, che ha lasciato l’opposizione per entrare nel gabinetto ristretto: l’offerta va accettata, altrimenti ce ne andiamo. L’accordo sulle linee generali del patto comunque ci sarebbe. Difficile capire quanto tempo ci vorrà prima della riposta di Hamas: il piano diplomatico deve essere valutato anche da Yahya Sinwar e Mohammed Deif, i due boss che hanno pianificato i massacri del 7 ottobre nel sud di Israele e sarebbero asserragliati nei chilometri di tunnel scavati dai fondamentalisti in questi anni. È nel fondo buio delle gallerie che i generali hanno spostato adesso le battaglie, con combattimenti faccia a faccia, spiega il quotidiano Haaretz . I portavoce dell’esercito ieri hanno ammesso pubblicamente di aver sviluppato una tecnica per allagare i cunicoli con acqua pompata dal mare. La pressione militare resta su Khan Younis e sui social è circolata un’immagine — pubblicata dal giornale Maariv — che mostra decine di palestinesi catturati in quella zona, sono ammanettati e bendati, sullo sfondo la bandiera israeliana e quella della Brigata Givati con una scritta dal doppio riferimento: una parafrasi dal Corano («il diluvio li laverà via») e il nome dato da Hamas agli attacchi del 7 ottobre».
“A GAZA CI AMMALIAMO TUTTI”
Diario da Gaza di Samir al-Ajrami per Repubblica. Per i profughi della Striscia l’acqua corrente è contaminata, quella potabile è pochissima, aumentano le epidemie. Ad Hamas non interessano le condizioni di vita dei palestinesi.
«Sono ancora vivo. Stiamo sopravvivendo. E questa è una notizia. Cerchiamo di tenerci al caldo e andiamo a caccia di medicine che non sono in quantità sufficienti qui a Rafah. Ieri altre 5 persone del nostro rifugio si sono sentite male. Le malattie si stanno diffondendo rapidamente. Questo si deve in particolare alle temperature che sono molto basse. Non c’è quasi nessuno a Rafah che non sia malato, non abbia febbre, problemi di stomaco o problemi a respirare. È chiaro che questo si deve alla situazione della città che è pesantemente sovrappopolata. Ci sono inoltre piogge intense che favoriscono la contaminazione delle acque. Di pulita non ne abbiamo abbastanza acqua. L’acqua inquinata invece è ovunque, e a ciò si aggiunge che nessuno è in salute e forte di anticorpi, e quindi ci si ammala immediatamente. Dove siamo rifugiati ora abbiamo accesso all’acqua corrente, ma attualmente è la peggiore al mondo. Le acque di scarico si sono riversate nella falda acquifera perché le infrastrutture a Gaza sono state danneggiate dai bombardamenti. Normalmente si usa l’acqua della rete solo per pulire e lavarsi, ora è troppo inquinata anche per quello ma non abbiamo scelta. In ogni caso anche questa non è sufficiente: ricordiamo che ora qui ci sono 1,8 milioni di persone mentre normalmente la città ne alloggia 200mila. Quindi abbiamo accesso solo una volta ogni dieci giorni e dobbiamo raccoglierla in barili per poi dosarla nei giorni successivi. Quando la finiamo la compriamo, e ci viene consegnata con un autocisterna. L’acqua potabile è poi un discorso a parte. Questa arriva normalmente dagli impianti di dissalazione. Uno si trova a Rafah, ce n’è un altro in Egitto. Gli Emirati Arabi hanno installato un impianto dissalatore in Egitto vicino alla parte occidentale di Rafah per fare arrivare l’acqua ai rifugiati. Queste somministrazioni vanno pagate. Anche quest’acqua che dovrebbe essere potabile è ora contaminata per i danni alle infrastrutture causati dalla guerra. Ed è attualmente la causa maggiore di infezioni. Soffriamo la mancanza di tutto: manca la benzina, manca il cibo manca un riscaldamento, non possiamo riscaldare perché non abbiamo elettricità. Questi sono problemi che colpiscono particolarmente i rifugiati, più di tutti quelli che vivono nelle tende, ma non risparmiano nemmeno gli inquilini originari della città. Essi hanno ospitato molti altri nelle loro case e dunque hanno problemi simili. Nessuno è al sicuro. Anche perché stiamo soffrendo mentalmente: le cattive notizie che arrivano ogni giorno deprimono sempre di più. Anche la condizione psicologica rende più vulnerabili di fronte alla malattia. Seguiamo le notizie. Tutti seguiamo gli sviluppi di questa proposta di accordo per avere almeno un mese di tregua in pace per distrarsi e pensare ad altro. Tutti hanno paura che Hamas dirà di no, perché abbiamo la sensazione che Hamas non capisca o se ne infischi della sofferenza dei rifugiati. Ma noi non perdiamo la speranza che con la liberazione di tutti gli ostaggi possa finire l’operazione militare. La palla è dunque ora al Cairo, ci sono ancora 24 ore per sapere cosa deciderà Hamas. E noi siamo appesi a questa attesa».
PARLA UN GUERRIGLIERO DI TULKAREM
Il reportage di Nello Scavo per Avvenire dalla Cisgiordania racconta la resistenza e la voglia di vendetta dei giovani palestinesi. Uno di loro dice: «Io sono come Davide contro il Golia dell’esercito di occupazione, pronto alla guerriglia. Dopo di me ce ne saranno altri. E loro lo sanno».
«Sono io Davide, Golia è quello lì», proclama il ragazzo con il volto coperto da un panno scuro e la pistola nei pantaloni. Con i piedi piantati nel fango del campo profughi fa un cenno, e invita a guardare dietro a una casa diroccata, in direzione della torretta d’avvistamento su un terrapieno messo a protezione della colonia israeliana illegale. Può succedere solo qui che un adolescente islamico si definisca “Davide” indicando nel giovane armato ebreo il nemico che nelle Scritture era alto «sei cubiti e un palmo». Anche stanotte qui a Tulkarem resistenza e vendetta si confonderanno nel fuggi fuggi. Perché ieri hanno ucciso tre dei loro nell’ospedale di Jenin. «E quando gli israeliani attaccano un campo profughi, non è detto che il giorno dopo tornino sul posto, perciò ci aspettiamo che stasera tocchi a noi». A Tulkarem preparano la guerriglia. Già ieri i bulldozer hanno rovistato tra i vicoli, distruggendo strade, pali della luce, rete idrica e fognaria. Nelle stesse ore a Jenin andava a segno quella che i media israeliani hanno ribattezzato “Operazione Fauda”. Perché come nei travestimenti della serie televisiva israeliana, che a guardarla non si capisce più se sono gli operativi sul campo a ispirare gli sceneggiatori o viceversa, un commando israeliano è arrivato indisturbato al terzo piano del più grande ospedale di Jenin. Una dozzina di soldati, tra cui tre in abiti femminili e due vestiti da personale medico palestinese, hanno attraversato un corridoio con i fucili, come mostrano le immagini delle telecamere nei corridoi del policlinico. Hamas ha dichiarato che uno degli uomini uccisi era un proprio membro, confermando la crescente presenza del gruppo fondamentalista tra le fazioni armate nei campi profughi. La “Jihad islamica” ha rivendicato l’appartenenza degli altri militanti uccisi, uno dei quali era in ospedale dopo una ferita che gli aveva provocato la completa paralisi delle gambe. L’esercito israeliano ha dichiarato che uno dei tre uomini era armato e che l’azione ha dimostrato che i miliziani utilizzano aree civili e ospedali come rifugi e scudi umani. Ma fonti palestinesi hanno respinto l’accusa, sostenendo che i tre, proprio perché ricoverati in ospedale, non erano impegnati in alcun combattimento. Le forze di difesa di Israele hanno identificato uno degli uomini uccisi come Mohammed Jalamneh, 27 anni, di Jenin, che secondo i militari aveva contatti con il quartier generale di Hamas all’estero e stava pianificando un attacco ispirato alla mattanza del 7 ottobre. Gli altri due palestinesi uccisi nell’operazione di martedì erano due fratelli, affiliati alla “Jihad islamica”, alleata di Hamas. Entrambi erano stati coinvolti in recenti attacchi. Secondo i medici erano in ospedale per curarsi. Per l’intelligence israeliana erano invece lì per sfuggire alla cattura. Il commando trasportava anche una culletta da viaggio per neonati, facendo credere ai pochi presenti in orario notturno di recarsi al pronto soccorso per rivolgersi ai pediatri. Una volta giunti al terzo piano, hanno immobilizzato un uomo, poi hanno fatto fuoco sui tre utilizzando dei silenziatori. «Hanno giustiziato i tre uomini mentre dormivano nella stanza, a sangue freddo, sparando proiettili direttamente alla testa», ha denunciato il direttore dell’ospedale Najy Nazzal. Il ministro della Sanità palestinese Mai al-Kaila ha definito l’agguato come «un crimine di guerra». L’incursione potrebbe alimentare una fase più intensa di disordini proprio quando i negoziati sembrano più vicini a un punto d’intesa. Nell’ultimo anno i palestinesi uccisi in Cisgiordania sono stati più di 500 e, secondo le autorità locali, quasi 13mila i feriti. Fino al 7 di ottobre i blitz israeliani e gli agguati dei coloni, avevano fatto registrare circa un morto al giorno. Ma dopo l’eccidio di Hamas le statistiche riportano oltre 30 morti a settimana. A Tulkarem, intanto, preparano le munizioni. Non ci mostrano dove tengono la scorta di calibro pesante. Nei retrobottega c’è chi distribuisce sassi, bottiglie incendiarie, mitra e “denti di drago”. Cemento impastato a ferraglia, per rallentare la corsa dei bulldozer e avere il tempo di sparare e scappare. Di solito finisce con un funerale di popolo, i manifesti che inneggiano ai “martiri”, e la promessa di prendere il posto di quelli ammazzati. «Oggi Jenin, domani Nablus, poi Hebron. Dopo di me ce ne saranno altri. Loro lo sanno – ci saluta il ragazzo con la pistola che sparisce con altri due –. E anche noi sappiamo che dopo di loro verranno altri».
GUERRA A GAZA, CHE COSA PENSANO I MUSULMANI ITALIANI
Che cosa pensano i musulmani italiani della guerra a Gaza? Il sito della Fondazione Oasis propone da oggi qui un approfondimento di grande interesse, in cui sono raccolte le interviste dei più importanti esponenti di questo mondo. Ecco l’introduzione alle interviste.
«La guerra tra Hamas e Israele scoppiata il 7 ottobre scorso ha toccato profondamente le comunità islamiche italiane, generando un ampio movimento di sostegno alla causa palestinese. Piuttosto che attingere ai comunicati stampa o alle pagine social delle diverse associazioni, con il rischio di possibili fraintendimenti delle rispettive posizioni, abbiamo scelto d’intervistare i rappresentanti delle principali associazioni, oltre ad alcune personalità che stanno prendendo parte in modo particolarmente attivo al dibattito sul tema. Le conversazioni si sono svolte nel mese di gennaio 2024. Nelle interviste si notano alcuni temi ricorrenti: in primo luogo l’accusa rivolta all’Occidente di servirsi di due pesi e due misure quando si parla di diritti umani. La quasi totalità degli intervistati concorda sul principio che la forma migliore di resistenza sarebbe quella non violenta e che i civili dovrebbero essere esclusi dagli attacchi. Tuttavia, questo principio viene letto in congiunzione con quello di legittima difesa e di resistenza. Resta tuttavia da approfondire il limite di questo diritto, tanto che in alcuni casi l’evidente sproporzione di forza tra israeliani e palestinesi sembra giustificare ogni forma di guerriglia asimmetrica. Da più voci viene stigmatizzata la subalternità dei politici italiani attuali, a cui è contrapposto l’esempio della Prima Repubblica in cui l’Italia fu capace di ritagliarsi un proprio ruolo nel Mediterraneo. È infine ribadito il particolare status della Terra Santa e di Gerusalemme nell’Islam, che spiegherebbe la maggiore mobilitazione dei musulmani per la causa palestinese rispetto ad altre vicende contemporanee. È importante sottolineare che finalità delle interviste non è fornire un giudizio complessivo sulla questione arabo-israeliana, per il quale è assolutamente necessario ascoltare anche le voci di rappresentanti dell’ebraismo italiano e dello Stato e della società civile israeliana, ma aiutare a comprendere come essa venga vissuta dai musulmani italiani, in linea con le finalità della Fondazione Oasis. La lista degli intervistati include Brahim Baya, segretario generale di Partecipazione e Spiritualità Musulmana (PSM), Izzedin Elzir, imam di Firenze, Yassine Lafram, segretario generale dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII), Yahya Pallavicini, vice-presidente e imam della Comunità Religiosa Islamica Italiana (COREIS), Davide Piccardo, direttore de La Luce. Ha preferito invece non rilasciare dichiarazioni Massimo Abdallah Cozzolino, segretario generale della Confederazione Islamica Italiana (CII), mentre Nader Akkad, imam della moschea di Roma, ci ha rinviati a commenti espressi in precedenza».
IL PIANO CAMERON: SÌ A UNO STATO PALESTINESE
Dalla Gran Bretagna arriva un nuovo piano del Ministro degli Esteri David Cameron, che spinge per l’esistenza di uno Stato palestinese. Sabrina Provenzani per Il Fatto.
«Alla vigilia del suo quarto tour in Medio Oriente, il ministro degli Esteri David Cameron ha segnalato in due occasioni negli ultimi giorni, la disponibilità di Londra a riconoscere uno Stato palestinese. Il Regno Unito è sempre stato un sostenitore della soluzione dei due Stati, ma le ultime uscite di Cameron fanno intendere un salto di qualità: il governo starebbe considerando la possibilità di legittimare lo Stato palestinese non come punto d’arrivo di un negoziato, ma prima, durante la fase negoziale. Domenica, sul Mail on Sunday, il domenicale del tabloid Daily Mail, Cameron ha lanciato la sua ultima missione diplomatica nell’area con un editoriale dal titolo “Tutti detestiamo accordi spiacevoli, ma questo è quello che deve succedere per risolvere la crisi a Gaza”. Questo è il paragrafo che ci è stato indicato quando abbiamo chiesto al ministero degli Esteri quale fosse la posizione ufficiale: “Dobbiamo fornire alla popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza la prospettiva politica di un percorso credibile verso uno Stato palestinese e un nuovo futuro. E deve essere irreversibile. Questo non dipende solo da noi. Ma il Regno Unito e i nostri partner possono contribuire, confermando il nostro impegno per uno Stato palestinese sovrano e praticabile, e la nostra visione per la sua composizione. E, soprattutto, dobbiamo dichiarare chiaramente la nostra intenzione di concedere il riconoscimento, incluso presso le Nazioni Unite”. Una posizione ribadita durante una conferenza presso il Conservative Middle East Council, un think tank di area Tory, dove Cameron, secondo il resoconto di ieri del corrispondente diplomatico della Bbc James Landale, avrebbe dichiarato che “ai palestinesi deve essere offerto un orizzonte politico per incoraggiare la pace in Medio Oriente”. La direttrice del centro, Charlotte Leslie, ci ha detto di non avere una trascrizione o registrazione dell’intervento, che però secondo Landale sarebbe proseguito così: “Man mano che ciò accade, noi – con gli alleati – esamineremo la questione del riconoscimento di uno Stato palestinese, anche presso le Nazioni Unite. Questo potrebbe essere uno dei fattori che contribuiscono a rendere questo processo irreversibile”. Con toni di inusitata durezza, avrebbe anche sferzato Israele definendo “assurdo ” che aiuti cruciali provenienti dal Regno Unito e da altri Paesi vengano respinti al confine e affermando che “gli ultimi 30 anni sono stati una storia di fallimenti per Israele, perché non è riuscito a garantire la sicurezza ai suoi cittadini. Solo riconoscendo tale fallimento si potrà raggiungere la pace e il progresso”. Si tratta, per ora, di annunci, non ancora di un cambio ufficiale di strategia. Ma è un segnale molto significativo prima della nuova visita nella regione, iniziataeri in Oman, per discutere del contenimento delle incursioni Houthi nel Mar Rosso nel quadro di un rischio di escalation. “Gli Houthi continuano ad attaccare le navi nel Mar Rosso, mettendo a rischio vite umane, ritardando gli aiuti al popolo yemenita e interrompendo il commercio globale. E non possiamo ignorare il rischio che il conflitto a Gaza si estenda oltre i confini, negli altri Paesi della regione. Faremo tutto il possibile affinché ciò non accada”. Cameron aveva già incontrato il primo ministro israeliano Netanyahu e il presidente dell ’Autorità Palestinese Abbas, come le autorità del Qatar e turche, e aveva parlato della possibile creazione di “ un gruppo di contatto con Usa, Unione europea, Paesi arabi, del Golfo e la Turchia per uno slancio in direzione di una soluzione duratura”, riconoscendo anche “l’urgente bisogno di una pausa immediata per consentire l’arrivo degli aiuti e il rilascio degli ostaggi a Gaza. Siamo determinati a fare tutto il possibile per spingere per un cessate il fuoco sostenibile e stiamo intensificando il nostro impegno per assicurarci che succeda” aveva detto».
RADERE AL SUOLO L’ONU, IL FASCINO DELLA TABULA RASA
Il dibattito delle idee. Intervento di Barbara Spinelli sul Fatto che argomenta sullo stop di tanti Paesi occidentali, Italia compresa, ai fondi per le Nazioni Unite, dopo lo scandalo dei 12 dell’Unrwa. Israele riconosce davvero il diritto internazionale?
«Prima ancora di sapere quel che veramente hanno fatto i dodici impiegati Unrwa, accusati da un rapporto dei servizi segreti israeliani di aver partecipato ai pogrom del 7 ottobre, Washington e una serie di governi europei – Italia in testa, seguita da Germania, Francia, Olanda, Finlandia – hanno deciso di sospendere ogni aiuto all’Agenzia Onu che dal 1950 assiste i rifugiati palestinesi. Lungo gli anni l’Unrwa ha fornito ai profughi cibo, scuole, ospedali. Oggi allevia con mezzi esigui le sofferenze e la fame dei civili, costretti dai bombardamenti a lasciare il Nord, bersagliati coscientemente anche quando arrivano a Sud. In sostanza, Washington e i principali Stati europei azzerano gli aiuti ai civili nel preciso istante in cui chiedono ipocritamente a Netanyahu di risparmiarli. Punire l’Agenzia Onu è del tutto demenziale e pretestuoso. Anche qualora fosse vero che i dodici hanno fiancheggiato azioni di Hamas, è sciagurato colpire l’intera struttura Onu, conoscendo gli ulteriori immensi danni che i palestinesi subiranno anche se sarà raggiunto un accordo di tregua: metà popolazione di Gaza in fuga, 27.000 uccisi di cui 10.000 bambini, 65.000 feriti. Più di 1.000 bambini hanno subìto amputazioni senza anestesia. Non una deportazione in massa di palestinesi ma una decimazione, visto che per deportarli bisognerebbe aprire il valico di Rafah, bloccato invece dall’Egitto su spinta israeliana. Nello stesso momento in cui ha licenziato gli impiegati sospetti (due dei quali morti), il segretario generale dell’Onu Antonio Gutérres ha implorato i Paesi donatori a non interrompere gli aiuti all’Agenzia, proprio mentre la guerra infuria. Il 27 gennaio il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz è giunto sino a chiedere le dimissioni di Lazzarini, commissario generale dell ’Unrwa. C’è poi la coincidenza delle date, torbida. I servizi israeliani hanno pubblicato il rapporto sulle devianze Unrwa sabato 27 gennaio, un giorno dopo la sentenza pre liminare emessa dalla Corte di giustizia dell’Onu a seguito dei sospetti di genocidio o di intento genocidario formulati dal Sudafrica. Sospetti ritenuti “plausibili” dalla Corte, che invita Israele a presentare entro un mese una documentazione sulle azioni denunciate. Nel mirino ci sono siala Corte sial’Unrwa. L’Onu per intera è sotto accusa. Non è una novità, perché non da oggi l’Onu è intollerabile pietra d’inciampo per i governi d’Israele, e per i neocon statunitensi. Già nel 2018, Trump presidente interruppe i finanziamenti Usa all’Unrwa. Biden revocò la decisione, che ora fa propria. Quanto all’Europa, non esiste come Unione. Solo una parte si è piegata al diktat di Usa e Israele, fidandosi ciecamente dei servizi segreti di una potenza nucleare che sta decimando Gaza e fa di tutto per screditare l’Onu. Vista la facilità con cui l’Occidente abbocca, Israele ha deciso di spararla grossa: il 10 per cento dell’Unwra colluderebbe a Gaza con “gruppi militanti islamici”. Quasi metà dei contributi all’Unrwa proviene dall’Europa (Germania e Svezia sono i principali contributori, l’Italia è quattordicesima). La Commissione Von der Leyen è in favore della sospensione. Ma alcuni Paesi non ci stanno. Dissentono per il momento i governi di Spagna, Irlanda, Belgio, Danimarca, e fuori dall’Ue Norvegia (quinto contributore subito dopo la Svezia). I quali hanno fatto sapere che dodici eventuali sospetti non rappresentano i 30.000 impiegati dell’Agenzia Onu (di cui 13.000 a Gaza). Diciamoci che è una gran fortuna, per la popolazione palestinese ammazzata o in fuga, che l’Europa si spacchi sulla questione. Basterebbe questa vicenda per temere future votazioni a maggioranza nell’Ue. Colpire l’Onu screditando due suoi organi come l’Agenzia peri rifugiati palestinesi e la Corte sembra essere parte di una strategia bellica che sempre più punta a estendere il conflitto oltre Gaza: verso Libano, Giordania, Yemen e soprattutto, in extremis, Iran. Non da oggi i neoconservatori Usa spingono in questa direzione, e non hanno mai digerito l’accordo sul nucleare negoziato nel 2015 da Obama. A questo servono i ripetuti attacchi contro gli Houthi, lanciati da Usa e prospettati da una coalizione di europei, per proteggere la navigabilità nel Mar Rosso e intimidire l’Iran. La parola d’ordine Houthi –fine della strage di palestinesi –è considerata inaudita dunque non è ascoltata. “Corriamo senza curarcene nel precipizio dopo aver messo qualcosa davanti a noi per impedirci di vederlo”, così Blaise Pascal, ed è questa la strategia di un Occidente che resta micidiale per le armi che possiede ed è tuttavia sempre più striminzito, frantumato e isolato: in Europa, Medio Oriente, Africa, Asia. Ha già perso la Turchia, l’Ungheria, e ora perde la Spagna di Sánchez e l’Irlanda. A suo tempo perse la Russia. Si è gettato in un conflitto che ha volutamente prolungato in Ucraina, e non sta vincendo. In una guerra contro gli Houthi, che però resistono. E in un appoggio a Netanyahu che replica al terribile 7 ottobre sforando enormemente la legge biblica dell’occhio per occhio. Inutili sono i Giorni della memoria, se continuiamo a credere che gli scempi in Ucraina sono iniziati nel febbraio 2022, e non nel 2014 nel Donbass. Se facciamo finta che la guerra Usa contro gli Houthi sia cominciata il giorno in cui sono apparsi sui nostri teleschermi, simili a nere figure di un videogioco, mentre invece la guerra che ha seminato morte e fame in Yemen è cominciata nel 2015, quando Obama e la Francia di Hollande e poi Macron fiancheggiarono l’Arabia Saudita illudendosi di mettere in allarme l’Iran. Inutile infine fingersi memori e vigili quando puniamo l’Unrwa e screditiamo l’Onu, senza sapere – o fingendo di non sapere– che se i palestinesi smettono di poter contare sull’Agenzia per proteggere 871.000 rifugiati in Cisgiordania e se nella guerra di Gaza i palestinesi che dipendono dall ’Unrwa per nutrirsi sono un milione, sarà Hamas a doverli sfamare, e a dover dispensare fondi e stipendi perché Gaza non sia completamente distrutta. A quel punto Hamas vedrà ancor più crescere la propria popolarità nella popolazione palestinese che resta. Ma non era proprio questo, fin dall’inizio, lo scopo delle strategie israeliane nelle terre palestinesi, occupate e non? Hamas fu infiammato e rifocillato da Israele, Stati Uniti ed Europa alla vigilia delle elezioni del 2006 a Gaza, come a suo tempo furono sobillati mujaheddin e talebani in Afghanistan, russofobi e neonazisti nel Donbass ucraino negli otto anni di guerra civile che hanno preceduto l’invasione russa. L’esito lo conosciamo. È il “Destino Manifesto” dell ’Impero del Bene: non una gloriosa leadership, ma un’espansione di disastri ancora più letali del suicidio politico dell’ex superpotenza Usa. Un’abitudine alla tabula rasa che sta riducendo a zero, non nei popoli d’Occidente ma nelle sue élite, la benefica paura delle guerre e dell’atomica che nel ’45 diede vita all’Onu, alle sue Agenzie e alla sua Corte di giustizia».
“L’ONU È COMPLICE DEI POGROM”
Giulio Meotti sul Foglio intervista Yossi Klein Halevi, intellettuale israelo-americano di Gerusalemme, che ha una tesi opposta a quella di Barbara Spinelli.
«Secondo i rapporti di intelligence esaminati dal Wall Street Journal, non solo dodici dipendenti dell’Onu avrebbero preso parte all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, ma il dieci per cento di tutto il personale Onu di Gaza avrebbe legami con gruppi terroristici. Dei dodici dipendenti dell’Unrwa collegati agli attacchi, sette sono insegnanti. 1.200 dei 12 mila dipendenti dell’Unrwa a Gaza hanno legami con Hamas o con il Jihad islamico palestinese. Il 23 per cento dei dipendenti maschi dell’Unrwa ha legami con Hamas, una percentuale superiore alla media del 15 per cento per i maschi adulti a Gaza, indicando una maggiore politicizzazione dell’agenzia rispetto alla popolazione totale. La metà di tutti i dipendenti dell’Unrwa avrebbe parenti stretti che hanno legami con i gruppi terroristici. I rapporti di intelligence del 7 ottobre visionati dal Journal identificano un insegnante dell’Unrwa che è anche un comandante di Hamas e ha preso parte all’assalto del kibbutz Be’eri, dove 97 persone sono state uccise e 26 sono state prese in ostaggio. “Non mi ha sorpreso, tutti qui sapevano che Hamas e Unrwa sono la stessa cosa” dice al Foglio Yossi Klein Halevi, intellettuale israelo-americano di Gerusalemme. “Non puoi lavorare in modo indipendente a Gaza”, continua Klein Halevi. “Hamas controlla tutto, dai curricula nelle scuole fino alla partecipazione attiva nel terrorismo. Sono sorpreso solo di una cosa: la sorpresa della comunità internazionale. Non sapevano cosa succedeva a Gaza? Li avevamo avvertiti. L’Onu a Gaza avvelenava generazione dopo generazione. Pochi se ne sono curati e c’è voluta una atrocità con il coinvolgimento dell’Onu per costringerli a vedere in faccia il mostro che avevano loro stessi creato. Non sono poche mele marce, l’albero è marcio. L’albero è malato”. Gerald Steinberg, presidente del think tank Ngo Monitor con sede a Gerusalemme, ha descritto il definanziamento dell’Unrwa come “senza precedenti”. “Abbiamo visto casi in cui gli Stati Uniti e le amministrazioni repubblicane hanno congelato i finanziamenti. Ma ora è un’amministrazione democratica che ha congelato i finanziamenti. Le prove sono state molto chiare: è qualcosa che i paesi hanno ignorato per molti anni, ma ora, a causa del collegamento diretto con la brutalità del 7 ottobre, si riconosce che l’Unrwa non può continuare a funzionare come è stato fino a ora”. Israele va difeso non solo da Hamas e Hezbollah, ma anche da pezzi dell’occidente? “Lo scandalo Unrwa, il processo a Israele per genocidio alla corte dell’Onu all’Aia, il silenzio di organismi come UN Women sugli stupri di Hamas… Israele non sta affrontando solo gruppi genocidari ai confini, ma anche l’assalto da parte di un pezzo d’occidente, che sta dando legittimità e copertura morale agli assassini. In questo senso, la complicità dell’Onu nel 7 ottobre è una metafora”. Di tutto il linguaggio distorto e gli epiteti emersi dopo il 7 ottobre, “ritrovarsi accusati di genocidio dopo aver vissuto una esperienza di genocidio è profondamente disorientante e non so più in che mondo sto vivendo”. Evocare il genocidio è la disumanizzazione definitiva. “E’ il motivo per cui la gente strappa i manifesti degli israeliani rapiti”, spiega Klein Halevi. “Vedere foto di bambini rapiti è una minaccia a una visione del mondo in cui non può esserci spazio per la legittimità di Israele”. Lo scrisse già il filosofo Vladimir Jankélévitch nel 1971: “E se gli ebrei fossero nazisti? Sarebbe meraviglioso. Non sarebbe più necessario compatirli; avrebbero meritato il loro destino”. Meriterebbero anche un mini genocidio sotto l’egida del Palazzo di vetro».
HAMAS È TERRORISMO, MA NETANYAHU SBAGLIA
Molto interessante l’intervento di Anna Foa ed Emilio Jona pubblicato oggi dal Manifesto. In esso si affrontano tutti i temi del dibattito attuale su Israele, la democrazia, il terrorismo di Hamas e il futuro del Medio Oriente, contestando alcuni stereotipi della sinistra filo-palestinese.
«Caro direttore, la lettura dell’articolo di una studiosa nota e apprezzata come Roberta De Monticelli ci ha lasciato con molti dubbi e perplessità. L’autrice contesta l’abuso linguistico che si compirebbe attorno ad Hamas «milizia di resistenza armata» e a Israele «potenza occupante», nonché al termine «guerra» usato per il conflitto in corso e a quello di «democrazia» usato per lo Stato di Israele. Ora a noi pare che si tratti di una costruzione semantica e ideologica per la maggior parte non condivisibile. Anzitutto Hamas non appare per quello che è; essa è certamente un’organizzazione resistenziale, ma è soprattutto una organizzazione terroristica e l’autrice lo ignora. Basta pensare all’abisso ideologico che separa Hamas dalla Resistenza italiana, lontana da ogni violenza indiscriminata verso civili inermi. Hamas viene costituita nel 1987 e nel suo statuto all’articolo 7 propone l’uccisione di ogni ebreo ovunque si nasconda e all’articolo 11 la distruzione dello Stato di Israele. Lo statuto è stato attenuato solo a parole ma non nella sostanza nel 2017. Nel 1988 Hamas si oppone decisamente ad Arafat e ai mutamenti intervenuti nell’Olp per una negoziazione con Israele. Negli anni 1994-1995 si oppone decisamente agli accordi di Oslo con una serie micidiale di attentati suicidi in Israele provocando tanti morti innocenti. Con la guerra dei sei giorni Israele conquista la Cisgiordania e Gaza che verrà restituita nel 2006 dal generale Sharon e resterà un enclave sovraffollata di soli palestinesi. Da quel momento Israele non sarà più la potenza occupante di Gaza. Hamas vincerà le elezioni del 2007 e quindi caccerà l’Autorità palestinese con un cruento colpo di Stato. Da allora non avverranno più elezioni a Gaza ma esisterà solo il suo dominio statuale teocratico e un ferreo controllo politico, economico e militare. Il suo scopo statutario si realizzerà il 7 ottobre insieme alla dichiarazione ripetuta di distruggere Israele. Quanto alla sorte e alla funzione degli abitanti di Gaza, il 26 ottobre sulla Tv araba Al Mayadeen, Ismail Haniyeh uno dei massimi leader di Hamas ha testualmente affermato: «Dico che siamo noi gli unici ad avere bisogno di questo sangue in modo da risvegliare in noi lo spirito rivoluzionario, la risolutezza, la sfida. E spingerci ad andare avanti». Ci pare un formalismo pretestuoso non riconoscere l’aspetto statuale del potere di Hamas su Gaza e non considerare come una guerra sia pur asimmetrica quella in corso. Ancora una volta l’operazione semantica dell’autrice sembra volta a circoscrivere il processo dell’Aia esclusivamente su Israele escludendo Hamas. Vediamo infine la non democraticità dello stato di Israele. È vero che Israele è una democrazia imperfetta, è vero che il National State Akt del 2018 afferma cose che una buona metà dei cittadini israeliani contestano e cioè che Israele sia e debba essere uno Stato ebraico ed è vero che ciò contrasta con quanto esso ha stabilito nel 1948 e cioè di essere uno Stato democratico aperto e tollerante; ma è altrettanto vero che i cittadini israelo-palestinesi sono israeliani di pieno diritto, hanno i loro partiti, sono presenti nel parlamento israeliano, nelle professioni liberali, nella struttura sociale dello Stato. Resta però il fatto il fatto che essi sono da molti punti di vista, e non solo da quello economico politico ma anche dalla percezione sempre più razzista di una parte della società israeliana, cittadini di serie B. È vero che Israele occupa illegalmente una parte rilevante della Cisgiordania e la opprime con un regime dispotico militare contravvenendo a ogni principio democratico, ma è altrettanto vero che i palestinesi dal 1948 ad oggi hanno sempre rifiutato le varie proposte ragionevoli di pace avanzate da Israele. Pur con tutti questi limiti e tenuto conto della sua ricca vita democratica interna, Israele resta di fatto l’unica democrazia se pur zoppa - esistente nel Medioriente. Per concludere noi pensiamo che Israele sia caduta in una trappola tesa abilmente da Hamas e favorita dal comportamento del governo. Gaza ha una densità di popolazione eccezionale, un intreccio indissolubile di tunnel perfettamente attrezzati per la guerra sottostanti a siti pubblici e case private. In questo contesto era evidente che i bombardamenti anche se mirati avrebbero comportato un numero insopportabile di morti, anche se preceduti da preavvertimenti, da volantini, da ordini di spostamento. Noi pensiamo che sia stato un errore grave e una scelta disumana quella di intervenire militarmente bombardando Gaza. Ma si è trattato di una reazione all’evento più drammatico che mai sia avvenuto nella storia di Israele accompagnato dalla cecità della classe dirigente al potere e dal dissennato tentativo di indirizzare il paese all’occupazione della Cisgiordania. Noi pensiamo che dopo questi tre mesi di guerra sia evidente l’insuccesso della scelta e delle azioni di Israele: il potere di Hamas non è diminuito, i suoi missili hanno continuato a colpirlo, la sua popolarità tra la popolazione palestinese è enormemente cresciuta mentre quella di Israele è diminuita ovunque e gli ostaggi sono rimasti nelle loro mani. Noi pensiamo che sia indispensabile un radicale mutazione di politica e di paradigmi e che questo deleterio gruppo dirigente di Israele vada spazzato via al più presto con delle elezioni anticipate e che si ritorni a un discorso politico anche, necessariamente, nei confronti di un nemico mortale come Hamas. Sarà difficilissimo ma indispensabile, anche se è un tempo in cui tutto il mondo sceglie le idee e la parte sbagliata. Sarà utopistico ma anche doveroso tornare alla ragionevolezza».
PIANO MATTEI, IL GIORNO DOPO
Piano Mattei, il giorno dopo. Daniela Fassini per Avvenire raccoglie i commenti del mondo del volontariato impegnato in Africa. Il Pime sottolinea le belle parole di Mattarella: si parta dagli esempi virtuosi che ci sono già. Critica è Nigrizia: nessuna svolta dall’incontro di Roma. Il Terzo settore chiede comunque che la cooperazione torni al centro.
«Bene che si parli di cooperazione con l’Africa, ma non fermiamoci agli slogan». Il giorno dopo il vertice voluto dal governo italiano, con l’obiettivo dichiarato di sostenere lo sviluppo delle popolazioni africane contribuendo anche a frenare i flussi migratori, la Chiesa missionaria e il volontariato internazionale si interrogano sulla reale portata delle novità emerse e l’impressione è che alla fine l’incontro di Roma abbia fatto emergere più ombre che luci. Secondo padre Fabio Motta, vicario generale del Pime, Pontificio istituto missioni estere, per nove anni missionario in Guinea Bissau, la strada da compiere perché l’Africa diventi davvero protagonista, nei rapporti con l’Italia e con l’Europa, è ancora lunga. «È bella l’immagine ricordata dal presidente Sergio Mattarella con il proverbio africano: “Se vuoi vincere, corri da solo; se vuoi andare lontano cammina insieme”. È questo lo spirito giusto per affrontare il tema. Se, come dice la premier, si vuole inaugurare un nuovo “approccio di sistema” nella cooperazione con l’Africa, credo che non si possa prescindere proprio da un vero dialogo partecipativo dove le parti in gioco siano coinvolte fin dalla genesi dei progetti di sviluppo - osserva padre Fabio Motta - . In questo dialogo, oltre ai Paesi africani in primis , credo sia importante includere anche le voci del mondo missionario e delle Ong impegnate direttamente nella cooperazione. Si tratta di un approccio “dal basso”, a partire dai reali bisogni delle popolazioni». Proprio da quel mondo, infatti arrivano « esempi “virtuosi”, non paternalisti e non predatori, che possono fungere da “laboratorio” di pensiero viste le esperienze sul campo». I missionari italiani mirano proprio ad essere, per parafrasare il titolo del vertice Italia-Africa, «ponti per la crescita integrale delle comunità in cui vivono». Al di là dei protocolli ufficiali, la preoccupazione è che in materia di investimenti, «non si parli di progetti fuori dalla portata dei rispettivi Paesi ma che venga considerata previamente la loro sostenibilità e compatibilità con la realtà culturale e sociale in cui andranno a collocarsi». Visitando diversi Paesi africani, è il racconto dei missionari del Pime, «si notano diversi esempi di ciò che non è bene fare, di progetti “fuori misura” e comandati da lontano». Anche il mondo dell’associazionismo, della società civile, delle Ong e del Terzo settore fa capire che sono le più le lacune presenti nel piano, che le cose positive. In particolare, si stigmatizza l’assenza dei veri soggetti protagonisti della cooperazione dalla stesura del piano, non solo per la mancata “convocazione” al vertice voluto e organizzato da Palazzo Chigi. Un esempio chiaro viene dalla presa di posizione di Nigrizia , il mensile dei missionari comboniani che, nel suo ultimo numero titola in modo emblematico “Nessuna svolta per l’Africa”. Sul sito si ricorda in particolare che «le modalità per rendere più efficace e veramente paritario il piano, come nelle intenzioni del governo italiano, almeno sulla carta, in realtà c’erano. Ad esempio, quella di consultare l’Ua (l’Unione africana, ndr) e la società civile del continente nella fase di elaborazione dell’iniziativa. Dinamica che però non si è verificata, come denunciato nel suo discorso dal presidente della commissione dell’Unione Faki Mahamat, che fra le altre cose ha detto che l’organismo regionale “avrebbe preferito essere consultato prima” dell’incontro». E come richiesto nei giorni scorsi anche da 79 Ong di base nel continente, coordinate dall’organizzazione Don’t Gas Africa, aggiunge l’organo delle missioni africane. «In una lettera alle massime cariche dello stato italiano, le realtà della società civile africana hanno appunto lamentato di non essere state coinvolte e hanno espresso tutti i loro timori sui possibili effetti del piano a livello di contrasto nella crisi climatica, presentando un appello in sette punti per una giusta transizione energetica. Il Piano Mattei, stando a quanto affermato da Meloni, conta fra le sue priorità la trasformazione dell’Italia in uno hub per l’approvvigionamento energetico di tutta l’Europa. Non è ancora chiaro però se si parla di energie rinnovabili o di combustibili fossili. Quanto emerso ieri non sembra aver dissipato i dubbi della società civile». Anche la Ong Interlife, presente in Africa con diversi progetti umanitari, non nasconde la delusione. «È grave che il Governo abbia escluso il terzo settore e la società civile quando sono da sempre i soggetti effettivamente impegnati per lo sviluppo del continente africano» dichiara Giorgia Gambini, presidente di Interlife . «Trovo inaccettabile che a livello istituzionale si abbia ancora una visione limitata e limitante della cooperazione internazionale, vista come mera carità e non si sia invece abbastanza informati da sapere che esistono modelli e progetti 100% italiani in grado di dare risultati sorprendenti in termini di crescita sociale ed economica». «Il nostro modello di sviluppo – sottolinea –è capace di creare un valore economico e sociale reale, attraverso concrete opportunità di lavoro» conclude la presidente della onlus. Secondo don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, « finalmente si parla di Africa – esordisce –, tema da tre anni assente per la guerra in Ucraina e altre crisi internazionali ». Positivo che «si faccia squadra anche con l’Europa», ma «la vera sfida sarà adesso quella di quantificare e concretizzare il piano – aggiunge – scongiurando una cooperazione dall’alto al basso: al contrario serve infatti che la società civile metta a disposizione quel patrimonio nato dal campo. Le Ong conoscono la realtà e le comunità e sanno come partire dal basso». Quest’Africa va aiutata in modo corretto, sottolinea don Dante: «le Ong diventano importanti quando questi soldi diventano progetti concreti». «Da quello che al momento si sa, il piano Mattei pone un focus sull’Africa in un’ottica di partenariato paritario, puntando sulla formazione professionale e lo sviluppo sociale ed economico – sottolinea Michela Vallarino, presidente della Ong salesiana Vis –. Questi sembrano aspetti positivi. L’elemento critico sembrano le risorse finanziarie, che non dovranno essere sottratte a quelle già esigue destinate alla cooperazione allo sviluppo, che già da decenni lavora nell’ottica della formazione e dello sviluppo in Africa. Bisognerà capire se l’approccio sarà davvero focalizzato sulle persone in un’ottica di promozione dei diritti per uno sviluppo davvero sostenibile, diritti tra cui c’è anche quello di migrare».
PER GLI AMBIENTALISTI IL PIANO PUZZA DI GAS
Dopo il vertice ufficiale Giorgia Meloni riceve i leader africani. Ma gli ambientalisti sono critici verso il Piano Mattei e dicono: «È un progetto che puzza di gas». La cronaca è del Manifesto.
«Per le associazioni ambientaliste Greenpeace, Kyoto club, Legambiente, e Wwf Italia «il Piano Mattei puzza di gas». Lo affermano in una nota congiunta spiegando che «anche se la presidente non lo ha esplicitamente nominato, in realtà è molto chiaro che nel Piano Mattei le rinnovabili non sono protagoniste, protagonista è ancora il gas, insieme ai disegni Eni sui biocarburanti. È una visione miope sul futuro energetico del Paese e sul concetto di transizione ecologica». Secondo le ong, «il suo unico obiettivo pare essere quello di trasformare l'Italia in un hub energetico del gas attraverso una cooperazione che passa dall'Africa e dalle fonti inquinanti, aumentando la dipendenza energetica del Paese». Il Piano, si legge nella nota, «rischia seriamente di compromettere gli impegni esistenti per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi centigradi e quelli presi nelle due ultime Cop sul clima». Le associazioni hanno infine chiesto al governo un incontro «per presentarle il vero piano energetico di cui ha bisogno l'Italia, per diventare l'hub delle rinnovabili» che, scrivono, «devono rappresentare l'asse portante della politica di decarbonizzazione dell'Italia e sostituire le fonti fossili». Per Giorgia Meloni quello di ieri è stato un giorno di incontri con i leader africani venuti a Roma per la conferenza Italia-Africa di lunedì. A Palazzo Chigi sono arrivati, tra gli altri, il primo ministro della Repubblica di Etiopia, Abiy Ahmed Ali, il vicepresidente della Costa d'Avorio, Tiémoko Meyliet Kone, il capo del governo del Regno del Marocco, Aziz Akhannouch. In serata la premier ha incontrato anche incontrerà il presidente della Banca Africana di Sviluppo, Akinwumi Adesina».
“PER IL PIANO MATTEI SERVONO RISORSE”
Karima Moual intervista per Repubblica il premier del Marocco Aziz Akhannouch, uno degli interlocutori privilegiati nelle intenzioni del nostro governo.
«Per il piano Mattei servono risorse». Il premier Aziz Akhannouch è reduce dal vertice Italia-Africa dove ha incontrato la premier Giorgia Meloni.
Col “Piano Mattei” il governo vuole rilanciare i rapporti con il Continente. Che aspettative ha?
«Credo che una delle principali condizioni per il successo di qualsiasi piano di partenariato risieda nella definizione di programmi di sostegno allo sviluppo che siano efficaci, inclusivi e in linea con le aspirazioni naturali di ciascun Paese interessato. Lo sviluppo deve focalizzarsi sulle popolazioni africane, è cruciale che le risorse vengano usate per rispondere alle esigenze dei cittadini, creando ricchezza e preservando la dignità di ogni cittadino. Bisogna investire in istruzione, sanità, energia, tutela dell’ambiente. Il Piano Mattei ha l’ambizione di integrare l’Africa nelle catene globali del valore ed è nostro interesse rientrare nelle catene del valore industriale: progettazione, produzione e consegna dei prodotti nel continente. Per affrontare questa sfida è necessario il coinvolgimento del settore privato, italiano, europeo e africano. Ma questo piano può avere successo solo a condizione che le risorse mobilitate corrispondano effettivamente alle sue ambizioni».
Meloni ha scelto il Marocco come uno dei primi Paesi in cui lanciare i nuovi investimenti e in particolare “un grande centro di eccellenza per la formazione professionale sul tema delle energie rinnovabili”. Quali misure ha adottato il suo governo per contrastare gli effetti del cambiamento climatico?
«Il nostro Paese, sotto la guida di Sua Maestà il Re, ha lanciato la sua prima strategia per lo sviluppo delle energie rinnovabili già nel 2009. Questa visione ci ha permesso di diventare oggi il principale produttore africano di energia rinnovabile e a consolidare la nostra posizione di pionieri nella transizione verde. Il Marocco si è assunto le proprie responsabilità mobilitandosi per sostenere da una parte lo sviluppo del settore dell’idrogeno verde e dall’altra l’iniziativa del gasdotto Nigeria-Marocco che contribuirà alla sicurezza energetica dell’Africa occidentale e dell’Ue. Giorgia Meloni, sul Marocco, ci ha visto bene».
Il racconto sull’Africa in Occidente si concentra spesso sull’immigrazione, sui conflitti. C’è un continente che non vediamo?
«C’è un’Africa che in questi anni ha corso molto e il nostro paese continua la sua corsa. Abbiamo costruito infrastrutture secondo i migliori standard internazionali, con una connettività aria-terra-mare senza precedenti nella regione: 2.000 km di rete autostradale, la prima linea ferroviaria di alta velocità in Africa, il più grande porto del continente sul Mediterraneo e presto il più grande sull’Atlantico, nonché 14 aeroporti internazionali che offrono una capacità di proiezione africana molto significativa. Queste infrastrutture ci hanno permesso di dotarci di industrie efficienti, come quella automobilistica e aeronautica, che sono oggi un punto di riferimento, ma anche di un’agricoltura resiliente e sovrana e di un settore turistico particolarmente attrattivo. È questo il messaggio che ho voluto portare al summit di Roma».
L’Europa è preoccupata per i flussi migratori dall’Africa. Gli investimenti possono aiutare a governare il fenomeno?
«C’è un’Africa che in questi anni ha corso molto e il nostro Paese continua la sua corsa guidato da Sua Maestà il Re. Gli investimenti aiutano senz’altro, soprattutto se sono fatti in una logica di partenariato e sviluppo, come nel caso degli investimenti programmati dal gruppo Stellantis, che nel 2022 ha annunciato la volontà di raddoppiare la capacità produttiva dello stabilimento di Kenitra».
CASO SALIS, MELONI CHIAMA ORBÁN
Il caso di Ilaria Salis comparsa in aula a Budapest in catene. Si muove la premier Giorgia Meloni e fa una telefonata a Viktor Orbán. Opposizioni all’attacco. La Russa dice: condizioni umilianti. Ma la Lega difende il regime: ogni Paese punisce come vuole. Virginia Piccolillo per il Corriere.
«L’ultima richiesta alla premier Giorgia Meloni di intervenire sul primo ministro ungherese Viktor Orbán sul caso di Ilaria Salis, portata in udienza con manette a mani e piedi e guinzaglio, era arrivata da Elly Schlein: «Orbán è suo amico, Meloni parli chiaramente», aveva chiesto la leader dem ieri sera. Pochi minuti e da Palazzo Chigi filtrava che il colloquio telefonico Orbán-Meloni c’era già stato. E «nel pieno rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura ungherese» la premier aveva portato all’attenzione del suo omologo sovranista la vicenda della nostra connazionale, accusata di aver malmenato due neonazisti. Meloni, in partenza per il Consiglio europeo, dove incontrerà Orbán, prova così a disinnescare il caso politico che tiene banco da lunedì per quelle manette e quella catena che nel governo considerano fuori luogo. Culminato ieri con una richiesta di riferire al Senato avanzata dall’opposizione nella conferenza dei capigruppo. «Venga a dirci quali possono essere i frutti del suo rapporto privilegiato con Orbán», aveva chiesto il capogruppo M5S Stefano Patuanelli. «Quel che abbiamo visto fa inorridire ed è inaccettabile per un Paese europeo. Sono metodi fascisti e speriamo che il governo faccia sentire la sua voce», aveva aggiunto il capogruppo dem Francesco Boccia. Mentre il leader di Noi Moderati, Maurizio Lupi, attaccava: «L’Ungheria si pone di fatto fuori dall’Ue con quelle immagini che non si vedevano da altri tempi». Nel frattempo il ministro della giustizia Carlo Nordio cercava una soluzione tecnica per riportare a casa Ilaria. L’idea è di puntare sulle norme Ue secondo cui, però, solo gli arresti domiciliari, oltre alla pena, possano essere scontati nel Paese di provenienza. Ma non risulta che la difesa di Salis ne abbia fatto richiesta. Ma è sulla soluzione politica che si è acceso lo scontro. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in aula al Senato, pur parlando di «trattamenti inammissibili e sproporzionati» e aggiungendo «che l’obiettivo è ottenere i domiciliari» minimizzava la responsabilità del governo ungherese: «Orbán non c’entra niente. Non è che il governo decide il processo, ma la magistratura. L’Ungheria è uno Stato sovrano. Possiamo soltanto fare delle proteste e far sì che ci sia il rispetto del detenuto». E, in risposta al padre della ragazza che lamenta di aver riferito all’ambasciata più volte come veniva trattata Salis: «Le visite consolari sono sempre state fatte, portando alla detenuta tutte le cose che lei chiedeva. Non avevamo notizie di trattamenti particolari». Il vicesegretario della Lega Andrea Crippa andava oltre: «Spiace per il trattamento. Ogni Paese punisce come vuole e non compete a me giudicare». Il collega Rossano Sasso chiedeva di «radiare Salis se colpevole». E Susanna Ceccardi aggiungeva: «Nessuno fa vedere cosa faceva il gruppo della Salis a Budapest insieme ai suoi amici ”antifa”. Toglietele le manette non la galera». Parole che hanno suscitato la reazione di Roberto Salis, padre di Ilaria: «Sta crescendo un’onda per cercare di screditare le azioni di mia figlia, stanno girando foto di un reato commesso in Ungheria per cui mia figlia non è accusata». Il 2 febbraio Roberto Salis, che ha definito una «ottima notizia» la telefonata Meloni-Orbán, incontrerà Ignazio La Russa. Ne ha dato notizia in aula lo stesso presidente del Senato che ieri sera in tv è tornato sulla vicenda, parlando di «imputazione eccessiva», augurandosi che Ilaria «possa essere assolta o l’accusa derubricata». Per poi aggiungere: «La nostra legge vieta che venga esibito il detenuto con le manette e in condizioni di umiliazione mentre questo non è avvenuto in Ungheria. Su questo credo sia giusto intervenire». Intanto il segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia ha convocato l’incaricato d’affari dell’ambasciata ungherese a Roma per richiamarlo al rispetto delle norme Ue che impongono «dignità delle condizioni detentive».
SCHLEIN E CONTE SI RITROVANO, MA SOLO GRAZIE A SPERANZA
La segretaria del Pd Elly Schlein parla dell’alleanza delle opposizioni: prima è, meglio è. E il leader M5S Giuseppe Conte risponde a Romano Prodi: mai detto che Trump e Biden sono uguali. Ma non c’è nessun vero conciliabolo fra i due. La cronaca è di Maria Teresa Meli per il Corriere.
«La colonna sonora alla presentazione del libro di Roberto Speranza (Perché guariremo, edito da Solferino) con Giuseppe Conte ed Elly Schlein — intervistati da Lucia Annunziata — non c’è. Ma se ci fosse sarebbe di sicuro «Nostalgia canaglia». Al Bano e Romina Power hanno poco a che fare con quella platea. Però la loro canzone rappresenta bene lo stato d’animo che pervade quel dibattito. Speranza ricorda con commozione i tempi del Covid quando Pd e Cinque Stelle hanno dimostrato che «governare insieme si può». Conte con rimpianto parla dei provvedimenti fatti dal suo governo numero due in piena pandemia, quando — complici «le avversità» — «facemmo un blocco dei licenziamento sul modello sovietico». Poi entrambi stigmatizzano la Commissione sul Covid. «Sarà un boomerang», promette Conte. «Chi l’ha voluta mi fa pena», afferma Speranza. Intanto in platea Massimo D’Alema guarda con rammarico le telecamere che inseguono gli oratori sul palco, trascurando lui. Della serie, si stava meglio quando si stava peggio. L’unica immune a questo sfoggio di nostalgia è Elly Schlein. E infatti le viene data la parola dopo 50 minuti, mentre lei nel frattempo si presta a offrire il microfono una volta al leader del M5S, l’altra all’ex ministro della Salute. La segretaria dem, che si bacia con Conte senza nessun trasporto solo perché ci sono le tv e i fotografi e che mantiene una certa freddezza nei confronti dell’ex premier, parla un linguaggio diverso. E infatti quando Annunziata le chiede se il campo largo alle Regionali si farà risponde secca: «The sooner the better». Non è che la capiscano tutti, né sul palco nè in sala. Urge traduzione: prima è meglio è. E forse, come qualche autorevole dirigente dem sussurra in platea, la soluzione per una regione su cui Pd e M5S registrano lo stallo c’è: Speranza candidato unitario in Basilicata. Se ne parla in questi giorni, con una certa insistenza. Ma l’alleanza delle opposizioni a livello nazionale sembra assai lontana. Le differenze ci sono. E sono su punti essenziali. «Mi si sono rizzati i capelli in testa — confessa Speranza — quando ho sentito Giuseppe dire che non sa decidere tra Biden e Trump». Conte, più tardi, gli ricambia la cortesia: «Mi si sono rizzati i capelli a vedere il Pd bellicista che non mi aspettavo, mi si sono rizzati i capelli a vedere un Pd che ha rinnegato l’esperienza della transizione ecologica mettendoci il dito nell’occhio con l’inceneritore». Poi aggiunge: «Non è che qui ci mettiamo d’accordo e si vince. La nostra responsabilità, ne abbiamo il tempo, deve essere costruire un progetto che consenta il giorno dopo le elezioni di sapere cosa fare. Da parte nostra non c’è nessun atteggiamento pregiudiziale ma ci sono degli ostacoli molto spesso da rimuovere per costruire progetti solidi e coerenti». E Conte risponde anche all’intervista a Romano Prodi sul Corriere (e a Speranza): «Io non ho mai detto che Trump e Biden sono sullo stesso piano. Ho detto che, per tutelare gli interessi nazionali, dovremo avere buone relazioni, qualunque sarà il presidente Usa. Non sono sullo stesso piano anzi, ho anche precisato che sul piano ideologico possiamo avere maggiori similitudini con Biden». Insomma il leader M5S frena. Schlein invece insiste: «Ci sono sicuramente delle ferite da ricucire, non faccio che incontrare gente che mi dice “costruite l’alternativa”. Io penso che questa responsabilità ce l’abbiamo. Le differenze tra noi e i 5 Stelle ci sono, ma molti sono i punti di convergenza. Lavoriamo con pazienza sui temi. E io sono convinta che su tanti temi è possibile trovare l’accordo». Ma quando il dibattito termina, dopo i saluti a favore di telecamera, Schlein e Conte vanno ognuno per conto proprio. Nessun conciliabolo, come in altri tempi, nessun annuncio di imminenti iniziative comuni. Tanto meno sulla Rai».
CATTOLICI E POLITICA. FINE VITA E ALTRE DIVISIONI
Dopo il voto sul fine vita in Veneto, Antonio Polito sul Corriere della Sera analizza dubbi e disagi dei cattolici nel Partito Democratico. Ma nel resto del panorama politico italiano sono pochi gli approdi possibili per i credenti.
«I «cattolici adulti» si son fatti vecchi, ma nel Pd stanno ancora a litigare sulla bioetica. Come se nulla fosse. Come se fossimo tornati indietro di diciotto anni, quando sui Pacs, poi Dico, insomma le unioni di fatto, rischiò di cadere il governo Prodi, e forse dalla paura non si riprese mai più. Tutto è cominciato in Veneto, come si sa. C’è una consigliera regionale del Pd che non vuol far passare la legge Zaia che disciplina «in loco» il fine vita. Con due argomenti. Il primo: ci vuole una norma nazionale per recepire la sentenza della Consulta, non è che possiamo fare l’eutanasia alla veneta o l’aborto alla toscana. Il secondo: la Corte costituzionale invita lo Stato a legiferare, perché non esiste un dovere di vivere a ogni costo. Ma dice anche che bisogna garantire la qualità delle cure palliative, altrimenti non c’è vera scelta per il malato terminale: o soffre o muore. Il suo partito vuole però che la legge di Zaia passi, anche per fare un bel dispettuccio a Salvini e alle sue «madonnine». A questo punto, pur avendo ormai da tempo — e questa è davvero una notizia — una posizione unitaria sul tema, contenuta in un disegno di legge che porta il nome di Bazoli, che ha accontentato tutti e che è già passato in un ramo del Parlamento nella scorsa legislatura, il Pd si divide, e questa non è davvero una notizia. Alla ribelle, l’avvocatessa Bigon, viene chiesto di uscire dall’Aula: «Così conservi la tua libertà di coscienza, ma ci fai vincere la partita politica». Lei ribatte che la libertà di coscienza è una libertà politica, non di testimonianza, e che non serve a nulla se fa vincere la tesi che combatti. Così non esce dall’Aula, si astiene, e Zaia perde, con metà della sua maggioranza che gli vota contro. Naturalmente la notizia sarebbe che il centrodestra si è spaccato in due in Veneto. Ma il Pd riesce prontamente a far dimenticare la cosa, attirando l’attenzione sulle sue divisioni. La Bigon sarebbe infatti scomparsa presto dai radar se non fosse stato per una frase della segretaria Schlein, pronunciata in quel di Gubbio (a conferma che i conclavi portano male alla sinistra). La leader dice infatti dal palco che quel voto è stata una «ferita»: «Se il partito ti chiede di uscire dall’Aula, è giusto farlo e non decidere da sola». In sostanza un appello all’antica «disciplina di Partito», con la P maiuscola, dal più imprevedibile dei pulpiti. Pure Prodi, che le vuol bene, ha detto ieri a Marco Ascione sul Corriere che su quelle cose lì non c’è disciplina che tenga. E infatti, apriti cielo. Il segretario provinciale di Verona depone la sua «vice» Bigon, non si sa se eccitato dalle dichiarazioni di Elly o di suo. Graziano Delrio, un cattolico che non ha mai votato Dc in vita sua ed è stato relatore di quel disegno di legge Bazoli di cui sopra, dice alt: «Chiariamoci, se il mio partito, nato per essere custode dell’incontro tra i valori dell’umanesimo cristiano e di quello socialista, diventa una copia del Partito radicale, che pure molto rispetto, allora non mi sentirei più a casa mia». Protestano ad alta voce anche capi corrente come Guerini, dirigenti come Serracchiani, padri nobili come Castagnetti. Ma davvero il Pd si può scindere per Zaia? La risposta sta in un’altra domanda: se escono, dove vanno? Il fatto è che, un po’ alla volta, di case adatte ai cattolici in politica ne son rimaste ben poche, e stanno tutte dall’altra parte. Forza Italia è l’unico partito italiano che aderisca ai Popolari europei, ma insomma, di valori non si occupa poi molto. Poi c’è Giorgia-sono-una-madre-sono-cristiana, che ha messo Roccella alla famiglia, ma è troppo di destra per gli eredi di Moro e Andreatta. Tra l’altro, ricorda Guerini, il cattolicesimo democratico non è solo difesa della vita, «ma anche tante altre cose, liberaldemocrazia, economia sociale di mercato, scelta europea e atlantica». Alla fine, dalla Schlein lo divide più l’Ucraina che il Veneto. Ma il vero limite per i cattolici che volessero muoversi sta nel Centro: una volta era accogliente perché moderato e cristiano. Oggi dei tre tronconi rimasti, Renzi, Calenda e Bonino, uno è più laicista dell’altro, e tutti e tre in Europa stanno con Macron. Si direbbe dunque che, almeno fino alle Europee, il popolo cattolico resterà in schiavitù nel Pd di Elly. Poi, chissà, se questo Centro fallisse nelle urne, e per conseguenza ne nascesse uno nuovo, magari un Esodo si può organizzare. Ammesso che trovino un Mosè».
ITALIA PRIMA NELLA UE POST COVID, MA CRESCE POCO
I nuovi dati sul Pil: Italia prima nel post Covid ma il 2024 parte solo da +0,1%. Il 2023 si chiude a +0,7% grazie al +0,2% del quarto trimestre (+0,5% tendenziale). Finisce il rimbalzo che ha prodotto un recupero del 3% sul 2019, superiore a quello degli altri big dell’Europa. Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«Con un piccolo ma importante colpo di reni di fine anno l’economia italiana archivia il 2023 con una crescita allo 0,7%, completata in un quarto trimestre che ha fatto segnare un +0,2% rispetto all’estate e un +0,5% in termini tendenziali, nel confronto con lo stesso periodo dell’anno prima. I dati diffusi ieri nella stima preliminare dell’Istat sono il frutto di una crescita proseguita nell’industria e nei servizi, che ha più che compensato l’ennesima frenata in cui si è impantanata l’agricoltura. Il saldo ha un segno nettamente positivo, che scaccia qualche allarme di troppo della vigilia ed è in linea con le anticipazioni diffuse ieri dal nuovo indice Rtt elaborato dal Centro Studi Confindustria. Come sempre, le prime indicazioni dell’istituto di statistica non si addentrano nei settori, ma è verosimile che sul primo versante abbia giocato un ruolo non marginale la corsa finale del Superbonus, alle prese con la chiusura definitiva delle porte del vecchio incentivo al 31 dicembre decisa dal Governo pur fra mille resistenze. Il terziario continua a mostrare segni di vivacità, mentre il settore primario non riesce a scrollarsi di dosso la lunga congiuntura negativa aggravata anche dal cambiamento climatico. Dal lato della domanda, aggiunge l’Istituto di statistica, la componente nazionale misurata al lordo delle scorte è in diminuzione, mentre si stima un aumento della componente estera netta. Nel complesso insomma i numeri dell’Istat offrono ancora buone notizie, accompagnate però da un’allerta sul futuro prossimo. Come notato anche da Confcommercio, nel 2024, per la prima volta dopo la lunga fase di rilancio post pandemico, la partita della crescita resta tutta da giocare, perché si parte praticamente senza una spinta ereditata dal precedente: il 2023 lascia infatti al nuovo anno una variazione acquisita solo di un decimale, contro il +0,4% che aveva segnato l’avvio del 2023 e ha rappresentato in pratica quasi il 60% della crescita poi registrata a consuntivo. L’onda lunga della ripresa successiva al Covid, insomma, pare ufficialmente esaurita, e questo fattore, insieme alla fine d’anno, offre l’occasione di abbozzare qualche considerazione estesa a un arco temporale più ampio, anche per liberarsi dalle maglie rigide delle oscillazioni congiunturali trimestrali. Con un +0,7% che si ferma solo un decimale sotto la stima governativa della NaDef, e quindi non determina problemi in attesa peraltro della stima definitiva, l’Italia anche quest’anno si mostra più resistente della media dell’Eurozona, che si ferma a +0,5% su base annua con un trimestre finale stagnante a quota zero. Nel confronto internazionale spicca il +2,5% fatto segnare dalla Spagna, ma se appunto si allarga lo sguardo si incontra qualche spiegazione più strutturale. A fine 2023 l’Italia vede una produzione 2,9 punti sopra i livelli di fine 2019, e quindi si conferma fra i grandi Paesi dell’area euro quello che ha conseguito il recupero più brillante (ancora meglio va a Nord, secondo le stime di Assolombarda, con il Pil della Lombardia a +5,5% sul pre-Covid). La corsa 2023 non permette a Madrid di fare meglio, perché il colpo pandemico in Spagna era stato ancora più duro e il recupero dei primi due anni più lento, con un consuntivo che si attesta dunque a +2,5% rispetto all’epoca pre-pandemica. In Francia lo stesso indicatore mostra un +1,8% mentre la Germania, dove la caduta 2020 era stata decisamente più leggera, paga il prezzo della crisi successiva e si ferma solo tre decimali sopra i livelli 2019. Certo, ora quel che più conta è il futuro, e qui la sfida si fa più complessa. Ieri il Fondo monetario internazionale ha confermato per l’economia italiana del 2024 una previsione al +0,7%, ritoccando leggermente al rialzo (da +1% a +1,1%) quella per il 2025. Da Bankitalia all’Ocse, da Ref a Prometeia, tutti i previsori si fermano per quest’anno molto sotto l’1,2% scritto dal Governo nella NaDef: ma per trovare qualche elemento più chiaro sulle prospettive e sulle ricadute di finanza pubblica bisogna vedere come si svilupperanno le tante variabili internazionali che continuano a pesare sullo scenario geopolitico; e occorrerà tenere conto anche della prudenza utilizzata al Mef sulle stime del Pil nominale. Che potrà dare qualche margine utile ai saldi anche se la congiuntura non gira al meglio».
LA GUERRA IN UCRAINA SPINGE L’EXPORT DI ARMI USA
Le altre notizie dall’estero. La guerra in Ucraina spinge al record l’export di armi degli Stati Uniti. Nel 2023 le vendite all’estero di armamenti Usa sono salite del 16% a 238,4 miliardi di dollari. Nuovi contratti soprattutto con gli alleati europei, primi fornitori d’Israele. Luca Veronese per Il Sole 24 Ore.
«La guerra in Ucraina continua a spingere le vendite di armi degli Stati Uniti nel mondo: nel 2023 le esportazioni di equipaggiamenti militari statunitensi sono cresciute del 16% raggiungendo la cifra record di 238,4 miliardi di dollari, dopo che già nel 2022 l’amministrazione Biden aveva superato l’export bellico dell’era Trump. Il protrarsi del conflitto a Gaza garantisce inoltre ulteriori commesse agli Usa, da sempre primo fornitore dell’esercito di Israele. «Le vendite di materiale militare sono importanti strumenti di politica estera degli Stati Uniti con potenziali implicazioni a lungo termine per la sicurezza regionale e globale», ha fatto sapere il dipartimento di Stato evidenziando l’impegno nel sostenere l’Ucraina e gli alleati europei - in modo particolare Polonia e Germania - contro l’invasione della Russia di Vladimir Putin. Sono aumentati soprattutto gli accordi intergovernativi, quelli negoziati dall’amministrazione di Washington con altri governi, garantendo vendite di armi per 80,9 miliardi di dollari nel 2023, contro i 51,9 miliardi di dollari del 2022, con un balzo del 56%. Meno marcato l’incremento delle vendite gestite direttamente dalla società dell’industria della difesa americana (comunque soggette all’approvazione del governo federale): nel 2023, Lockheed Martin, General Dynamics, Northrop Grumman e gli altri grandi produttori hanno firmato contratti con Paesi stranieri per 157,5 miliardi di dollari, con un aumento del 2,5% rispetto ai 153,6 miliardi di dollari dell’anno precedente. Tutti i Paesi della Nato stanno aggiornando le loro dotazioni militari e hanno bisogno di ripristinare le scorte mentre si avvicina il secondo anniversario dell’operazione militare russa in Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022. Nel 2023 la Polonia ha siglato con gli Usa accordi per 30 miliardi di dollari per gli elicotteri AH-64E Apache; per il sistema missilistico di artiglieria ad alta mobilità a lungo raggio che Kiev sta utilizzando per colpire dietro le linee russe; per sistemi di comando di battaglia integrati per la difesa aerea e missilistica; e per i carri armati da battaglia principali M1A1 Abrams. La Germania ha accettato un ordine dagli Usa di 8,5 miliardi di dollari per gli elicotteri CH-47F Chinook e un ordine da tre miliardi di dollari per i missili aria-aria avanzati a medio raggio AIM-120C-8. La Repubblica Ceca ha comprato aerei F-35 e munizioni americane per un 5,6 miliardi di dollari. La Bulgaria sta ordinando veicoli Stryker per 1,5 miliardi di dollari e la Norvegia sta acquistando un pacchetto di elicotteri multi-missione MH-60R da un miliardo di dollari. Intanto Biden sta cercando di convincere l’opposizione repubblicana a dare il via libera a un nuovo pacchetto di aiuti all’Ucraina dopo che gli Usa, dall’inizio dell’invasione russa, hanno già sostenuto militarmente Kiev con circa 44,2 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sono di gran lunga il primo esportatore di materiali militari del mondo, con una quota del 40% sul totale delle vendite di armi, secondo i dati ufficiali dei governi. Ma l’obiettivo strategico di Washington è anche quello di rafforzare la propria posizione anche al di fuori dell’Europa, approfittando delle difficoltà della Russia, fino all’anno scorso secondo produttore di armi del mondo con una quota vicina al 16%. «L’industria della difesa russa, colpita dalle sanzioni, sta fallendo. Non riceve più risorse dalle esportazioni», ha detto Mira Resnick, che supervisiona l’ufficio del dipartimento di Stato che gestisce le vendite militari all’estero. Ai legami storici con Paesi come Giappone, Corea del Sud e Australia, Washington sta cercando di affiancare nuovi accordi in India e America Latina. Ma gli Stati Uniti vendono armi anche all’Arabia Saudita. E stanno portando avanti - ha detto Resnick - intese militari per 19 miliardi di dollari con Taiwan».
ELON MUSK E IL CHIP NEL CERVELLO
Elon Musk annuncia: «Impiantato il primo chip in un cervello». I malati potranno gestire i dispositivi elettronici con la mente. Il «sogno» della fusione con l’Intelligenza artificiale. Le reazioni di medici ed esperti. Andrea Cuomo per il Giornale.
«Un chip nel cervello. Non è Matrix, è Elon Musk. Che lunedì ha scioccato il mondo annunciando che Neuralink, la sua azienda di interfacce neurali, ha installato il primo impianto cerebrale su un essere umano. Lo scopo: consentire a persone con grossi limiti neuronali di dialogare attraverso il pensiero con il telefono, il computer e, attraverso di essi, quasi tutti i dispositivi, semplicemente col pensiero. Non a caso il prodotto si chiama Telepathy. L’annuncio del miliardario americano di origine sudafricana, dicevamo, ha turbato il mondo, come quasi tutto quello che lo riguarda. Il personaggio, si sa, è divisivo. Ma in realtà si tratta di qualcosa di meno fantascientifico di quanto possa sembrare al primo colpo. Diverse aziende rivali di Neuralink hanno già impiantato dispositivi simili e anzi Musk aveva provato a collaborare con la Synchron, che ha impiantato un dispositivo simile nel luglio 2022 su un paziente. Così è andato avanti da solo e il 19 settembre 2023, dopo avere avuto il via libera della Fda e da un comitato di revisione indipendente e dopo avere individuato un sito ospedaliero, ha avviato il reclutamento di persone con Sla o paralisi, quadriplegia causata da una lesione del midollo spinale, per il primo trial clinico sull’uomo di un chip da impiantare nel cervello. Poco più di quattro mesi dopo, ecco l’annuncio: «Il primo essere umano ha ricevuto un impianto e si sta riprendendo bene. I risultati iniziali mostrano un promettente rilevamento dei picchi neuronali». Neuralink si affida a un robot chirurgico che posiziona 64 fili ultrasottili e flessibili con 1024 elettrodi in una regione del cervello che controlla l’intenzione del movimento, creando «una interfaccia cervello-computer wireless». Per dare il senso dell’enormità dell’invenzione, Musk tira in ballo niente di meno che Stephen Hawking, che era affetto da una malattia degenerativa del motoneurone che lo aveva reso tetraplegico: «Immaginate se Hawking lo avesse avuto a disposizione. Avrebbe potuto comunicare più velocemente di un dattilografo». Naturalmente il riferimento all’astrofisico britannico morto nel 2018 è una classica furbata alla Musk, che mira a rendere desiderabile qualcosa che turba e sgomenta. La comunità scientifica in realtà è tutt’altro che in visibilio. Di «poca vera rivoluzione e tanta pubblicità» parla Luca Tommasi, professore ordinario di Psicologia e Psicologia fisiologica all’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara, secondo cui Musk si diverte a «far presagire scenari da letteratura fantascientifica, giocando con l'immaginazione delle persone» mentre l’impianto di «elettrodi nel cervello umano è una cosa che succede da decenni per ragioni mediche. E anche l’impianto di chip cerebrali è già realtà da molti anni». Insomma, il miliardario vuole solo far presagire «senza ancora dati concreti, l’ipotesi di un utilizzo di questi strumenti al di là degli interventi sanitari». Come la «simbiosi con l’intelligenza artificiale» evocata dallo stesso Musk come obiettivo finale del progetto. Ma c’è anche chi trova l’annuncio una buona notizia: «Questa tecnologia - assicura Silvestro Micera, professore di Bioelettronica e Ingegneria neurale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e al Politecnico (Epfl) di Losanna - è molto interessante e molto robusta. Conosco il gruppo di bioingegneri che ci sta lavorando, alcuni di loro molto bene, e sono bravi, seri. E quello che vogliono fare e che stanno facendo è tecnologicamente interessante perché ha alcuni vantaggi molto importanti rispetto ai precedenti sistemi». Ma meglio non illudersi, si tratta di «una delle scommesse che bisognerà poi vedere se effettivamente si riesce a vincere».
I SECESSIONISTI DEL TEXAS IN NOME DI DIO
Governatore e popolo trumpiano del Texas sfidano il presidente Biden sui migranti. E dicono: “Siamo pronti a staccarci da Washington se non blocca subito gli arrivi”. Una minacciosa carovana di camion marcia verso il confine con il Messico. Carovana che ha scelto il nome di esercito di Dio, quello di "God's army". Alberto Simoni per La Stampa.
«Un governatore, Greg Abbott in Texas, che sfida l'autorità federale; un ministro, Alejandro Mayorkas dell'Homeland Security, dell'Amministrazione Biden che sta per finire sotto impeachment; un presidente, Joe Biden, che chiede "soldi" promettendo di chiudere il confine meridionale con il Messico; e un candidato alla nomination repubblicana, Donald Trump, che dice ai suoi accoliti a Capitol Hill che l'unico accordo con la Casa Bianca sull'immigrazione deve essere «perfetto», ovvero impossibile al momento mettendo la pietra tombale su qualsiasi intesa bipartisan. L'America si sta attorcigliando attorno a un tema che da decenni divide: il controllo dei suoi confini. Ieri a Capitol Hill una Commissione della Camera ha iniziato a dibattere se Alejandro Mayorkas debba essere messo sotto accusa. Mayorkas è da anni il primo obiettivo dei repubblicani, lo accusano di aver fatto delle politiche assai lasche per il controllo dei confini e di aver violato la fiducia del pubblico rendendo false dichiarazioni al Congresso. Per i repubblicani colpire il principale responsabile del dossier immigrazione dell'Amministrazione equivale ad elevare il tema a centrale nella campagna elettorale. Mayorkas si è difeso, ha inviato una lettera di sei pagine di spiegazioni, ha ricordato le sue origini – figlio di cubani, ex procuratore federale – ed è passato al contrattacco sostenendo che «le vostre false accuse non mi impediranno di adempiere alla mia missione pubblica». Il nodo immigrazione tocca anche i gangli dei rapporti fra Stati e governo federale. Il punto di maggior tensione si registra a Eagle Pass, al confine fra Texas e Messico dove il governatore Greg Abbott ha ordinato alla Guardia Nazionale di rafforzare i confini lungo il fiume mettendo del filo spinato. La ragione è impedire a chi guada il Rio Grande di approdare sulla sponda statunitense. Ci sono immagini di intere famiglie, donne, bambini, bloccati in mezzo al fiume in una terra di nessuno. Il governo federale è intervenuto, la Corte suprema ha autorizzato le guardie di frontiera a smantellare le recinzioni e a riprendere il controllo degli spazi che Abbott aveva fatto sequestrare. Ma ben 25 governatori hanno siglato una lettera di appoggio ad Abbott, dall'Idaho è partito un gruppo di esponenti della Guardia nazionale. E altri Stati hanno promesso di unirsi a quello che oggi è un braccio di ferro, ma che rischia di diventare ancora più esplosivo. Lunedì, da Virginia Beach, infatti, è partito un convoglio, il "God's Army", (L'esercito di Dio), camionisti e furgoni in marcia lungo la East Coast e poi la fascia costiera meridionale sino ai punti caldi del confine: Eagle Pass, Yuma, sino a San Isydro, il fronte statunitense della messicana Tijuana. In questi tre posti sono stati già costruiti veri e propri accampamenti, tende, bagni chimici, bar improvvisati, palchi. Sabato sono previste manifestazioni a sostegno della «protezione dei nostri confini». Pure Trump ha chiamato i suoi a unirsi alla mobilitazione. Il presidente Biden ha alzato la voce. Venerdì ha chiesto fondi e promesso – con un linguaggio assai duro e non certamente in linea con quelle che erano le promesse di inizio mandato – di «chiudere i confini» per impedire gli ingressi illegali. Lo Speaker Mike Johnson, uscendo da un incontro a porte chiuse con la sua delegazione, ha detto che «l'accordo sull'immigrazione è morto». E con esso pure quello che sino a poche ore fa era associato, ovvero i 60 miliardi da destinare all'Ucraina. Nel pacchetto omnibus d'emergenza erano infatti contenuti 106 miliardi, 60 per Kiev e 14 per il confine meridionale. Gli ingressi illegali hanno raggiunto livelli record, oltre 250 mila nel solo mese di dicembre, ogni giorno vengono fermati più di 10 mila persone che provano a superare il confine. Anche il sistema di richiesta di asilo è ingolfato: troppe richieste e un numero limitato di agenti e funzionari. I nodi sono intricati e di diversa natura. E a nove mesi dalle presidenziali ogni gesto e ogni decisione incendia ancora di più gli animi».
IL SOGNO DI DON BOSCO
Oggi la Chiesa ricorda don Giovanni Bosco. In un libro di Antonio Carriero Né lupi né agnelli. Il sogno di Don Bosco a occhi aperti pubblicato da Elledici, si racconta del grande santo piemontese attraverso la chiave di un sogno fatto all’età di 9 anni. Ne pubblica uno stralcio Avvenire.
«Che tipo di santo è Giovanni Bosco? Se ne dicono tante... “Santo dei giovani” è probabilmente l’etichetta più quo tata e ovvia. Dici Don Bosco e dici giovani, dici cortile, dici giochi, dici educazione... Poi, però, se Don Bosco lo studi e lo conosci un po’ meglio, scopri che non è stato solo il santo dei giovani, ma anche degli adulti, degli anziani. L’archivio storico salesiano di Roma ha perso il conto delle lettere autografe di Don Bosco inviate a persone di varie estrazioni sociali a cui a volte rivolgeva un pio pensiero, a volte chiedeva qualche offerta, altre suggeriva soluzioni a problemi familiari o spirituali... Come ha anche perso il conto degli innumerevoli libri da lui composti, pensati fondamentalmente per l’istruzione religiosa degli adulti. Per cui, a ben pensare, dire che Don Bosco sia il “santo dei giovani” non è di certo una bestemmia, ma è offensivo e riduttivo, in quanto, con un po’ di superficialità, si rischia di dimenticare che, quando si trattava di salvare anime per Dio, Giovanni Bosco si prodigava per piccoli e grandi. Oltretutto, Don Bosco non è stato assolutamente, nella storia, l’unico santo che si sia dedicato ai giovani. Potremmo dire – scanzonatamente – che sia l’ultimo arrivato. Dirò di più: buongustaio di vini, Don Bosco è divenuto per molti il protettore dei vignaioli italiani; appassionato di magia e giochi di prestigio fin dalla tenera età, piace invocarlo come protettore dei maghi. Mi chiedo: ma Don Bosco è solo questo? Don Bosco è il santo dei giovani, dell’educazione, dei vini e dei maghi? Sì, Don Bosco è questo. Ma anche no. Don Bosco è molto di più. I santi... sono molto di più di quello che l’etichetta dice. (...) Forse, però – mi sia con sentito –, in verità Don Bosco pretenderebbe per sé un’etichetta tra tutte, più di quel la conclamata di “santo della gioventù”. Ed è l’etichetta di “santo dei sogni”. Questo sì che ha contraddistinto tutta la vita di questo santo uomo. Da quando era bambino a poco prima di spegnersi sul letto di morte, Giovanni Bosco ha sognato. Quest’uomo ha sognato tutta la vita. Ed è proprio con quest’ultima etichetta che – strano a dirsi – abbiamo qualche problemino. Perché noi vogliamo avvicinare i santi il più possibile a noi, al punto da smarrire il Soprannaturale che si è manifestato nelle loro vite. Lungi da noi la vulgata secondo cui i sogni, Don Bosco, se li sia inventati come semplice espediente per educare i ragazzi e far passare loro un insegnamento, una morale! (...) Tra gli innumerevoli sogni che Don Bosco ha fatto, uno, in particolare, lo ha raccontato più volte nella sua vita, ed è quello avvenuto tra i nove e i dieci anni e che, per comodità di tutti, è ricordato semplicemente come “il sogno dei nove anni”. Don Bosco si trova a citarlo spesso, perché quel sogno costantemente lo ha interrogato nella sua vita. Allora cosa posso dire, in definitiva, sulle etichette di Don Bosco? Cosa posso dire degli slogan che accompagnano i santi della Chiesa? Che i santi trascendono le etichette. Che Don Bosco eccede le etichette, pur vere ma limitate, che i suoi figli gli hanno attribuito. I santi, per loro natura, non sono proprio “incasellabili” in una griglia di definizioni, perché significherebbe voler mettere in una griglia lo Spirito Santo. San Giovanni Bosco è stato il santo dei giovani, si è occupato di educazione, ha evangelizzato ogni giorno della sua vita. Ma se ha potuto fare tutto questo, e molto più di tutto questo, è solo grazie al fatto che Don Bosco ha sognato. Possa questo semplice libro, che non ha pretese di insegnare o scoprire niente di nuovo, rendere il lettore più consapevole che il sogno è quell’unica “etichetta” che accomuna tutti noi che siamo incamminati verso la santità. Sei uomo se impari a sognare ogni giorno. Sei un santo se ogni giorno ti svegli per realizzare il tuo sogno».
Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 31 gennaio: