Incendi e caldo record al Sud
48.8 in provincia di Siracusa. Incendi e morti nel Mezzogiorno. Polemiche ancora sul Green pass, con uno sciopero contro l'uso nella mensa aziendale. Letta solo sullo ius soli. Kabul presto talebana.
A Floridia, in provincia di Siracusa, si è raggiunto ieri un livello di caldo estremo: il termometro è arrivato a 48,8 gradi. Il record precedente era di Atene, dove 34 anni fa si raggiunsero i 48 gradi. Ma sono soprattutto gli incendi, ieri anche due morti, a preoccupare. Il Sud Italia brucia. Avvenire ricorda come sia stato abbandonato un sistema che coinvolgeva il Terzo settore e che aveva abbattuto gli incendi in Calabria. Il sospetto è che alcuni addetti del settore finiscano per alimentare, in un circolo vizioso davvero infernale, il fenomeno. Come spesso accade, se ne parla solo quando si tratta di fronteggiare l’emergenza.
Sul fronte pandemia, la novità è un appello dei pediatri per la vaccinazione dei bambini. Il generale Figliuolo ha chiesto alle Regioni di vaccinare i ragazzi fra i 12 e i 18 anni, anche senza prenotazione, per facilitare un’accelerazione in una fascia d’età cruciale per il ritorno a scuola. A proposito di scuola, i sindacati insorgono contro l’uso del Green pass. E non è l’unica polemica sulla certifcazione verde. In provincia di Torino è stato anche proclamato uno sciopero perché il Green pass non venga usato nella mensa aziendale. La campagna vaccinale continua con un ritmo ben inferiore agli obbiettivi: solo 379 mila 514 le somministrazioni nelle ultime 24 ore. Sfogo, tutto da leggere, di Iva Zanicchi. Ha avuto un fratello morto per Covid e sua sorella è caduta vittima della variante, dopo il vaccino.
Il ritiro degli occidentali dall’Afghanistan sta diventando un incubo. L’intelligence americana stima che i talebani conquisteranno il potere a Kabul entro 90 giorni, forse anche prima. Panebianco ipotizza che siano i cinesi a sostenere gli islamisti. Alberto Negri sul Manifesto accusa gli americani e gli europei.
Il Papa risponde a Maurizio Maggiani sul “lavoro schiavo”. Elon Musk, mister Tesla, è venuto in Italia, ha visitato Firenze e gli Uffizi ed ha apprezzato la bistecca. Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Ancora pandemia, ancora la certificazione verde. Il Corriere della Sera annuncia: Partono i controlli sui green pass. Mentre l’Avvenire tematizza l’appello dei pediatri, chiedendosi: Piccoli e vaccinati? Il Giornale si concede un gioco di parole: Green pazz. Il Messaggero fa parlare i numeri: «Quarta ondata, colpiti i no-vax». Per la Verità siamo tutti: Discriminati anche col green pass. La Repubblica sottolinea la richiesta avanzata da Figliuolo alle Regioni di somministrazioni per i giovani dai 12 ai 18 anni senza prenotazione: Vaccino libero ai ragazzi. Sull’ondata di caldo torrido e gli incendi ecco il titolo del Mattino: 48,8° brucia il Sud. Gli fa eco il Quotidiano Nazionale: Mai così caldo, 48,8 gradi in Sicilia. Al sottosegretario leghista che vuole intitolare un parco al fratello del Duce, si dedicano Il Fatto: Durigon, 25 mila firme. Ma Draghi tace ancora. E il Domani: Con i richiami a Mussolini Durigon coltiva i voti fascisti per la Lega. Libero si occupa dello ius soli: Jacobs semina il Pd. Il Sole 24 Ore spiega: Recovery, pronti al via 106 progetti. Mentre La Stampa dà l’annuncio della riposta di Francesco allo scrittore Maggiani: Il Papa: «Basta col lavoro schiavo del mercato». Sull’Afghanistan, che presto potrebbe cadere nelle mani dei talebani, c’è il Manifesto: Kabul chiama.
IL SUD BRUCIA, MAI COSÌ CALDO
Record nella cittadina di Floridia in provincia di Siracusa, dove il termometro è arrivato ieri a 48,8 gradi. Ma il bilancio drammatico è quello degli incendi e dei morti. La cronaca del Corriere a cura di Paolo Virtuani.
«Fiamme e temperature record, è la drammatica situazione climatica che deve fronteggiare in questi giorni l'Italia, specie nelle regioni meridionali. Ieri alle 13 è stata registrata la temperatura più alta mai misurata in Europa. Il Sistema informativo agrometeorologico della Regione Sicilia, a Floridia in provincia di Siracusa, ha misurato 48,8 gradi: battuto il precedente record del 1977 di Atene con 48°. Il nuovo record è ufficioso, dovrà essere accreditato dall'Organizzazione meteorologica mondiale. Un precedente record di 48,5 gradi sempre in Sicilia nel 1999 non è mai stato ufficializzato. La Sicilia e le regioni centro-meridionali sono sotto l'influsso di una corrente d'aria di provenienza sahariana che ha fatto schizzare le temperature a livelli mai registrati. Oggi sono dieci le città con bollino rosso per il caldo (Bari, Bologna, Campobasso, Frosinone, Latina, Palermo, Perugia, Rieti, Roma e Trieste), diventeranno 15 domani, quando è previsto il picco di caldo. L'ondata di calore si estenderà a Nord dove le massime nelle zone interne di Toscana, Lazio ed Emilia-Romagna potrebbero toccare i 39-40 gradi, 38 a Roma, 37 in Veneto e Lombardia, 35 in Piemonte. Farà molto caldo sino a Ferragosto, quando nel pomeriggio potrebbero scoppiare temporali su montagne lombarde e Dolomiti. Se non bastasse il caldo, gli incendi stanno devastando le aree verdi. Ieri si sono registrate tre vittime. Una in Sicilia: un agricoltore di 30 anni che, a Paternò (Catania), cercava di spegnere un incendio ed è rimasto schiacciato dal suo trattore. E due in Calabria: un 76enne a Grotteria (dove le fiamme circondano l'intero paese e in molti hanno lasciato le abitazioni) e un 79enne a Cardeto. Entrambi cercavano di difendere i loro poderi dalle fiamme. Sempre in Calabria, dove si registra la situazione più drammatica, quattro persone sono rimaste ustionate a Vinco. Ma non è solo la Calabria a bruciare. Sono state 32 le richieste di intervento aereo ricevute ieri dal Centro operativo aereo unificato della Protezione civile. In Sardegna 44 roghi hanno visto occupate le squadre di soccorso. In Sicilia sono impegnate 4 mila persone nelle operazioni di spegnimento: «Mai vista una catastrofe del genere», ha detto il presidente della Regione, Nello Musumeci. Nel Ragusano le fiamme minacciano l'area archeologica dei Monti Iblei. La Protezione civile regionale ha messo in allerta rossa tutte le province, eccetto Messina in arancione. In Italia dall'inizio dell'anno sono bruciati 102.933 ettari, un'area grande quasi come la provincia di Napoli, quattro volte di più rispetto alla media 2008-2020. Secondo il colonnello Marco di Fonzo, comandante del Nucleo antincendio boschivo dei Carabinieri Forestali, è «un aumento significativo, ma non estremo. Abbiamo mappato oltre 40 cause: dalle ripuliture dei fondi alle bruciature delle stoppe, dai piromani, che sono una percentuale residuale, al vandalismo», dice di Fonzo. «È capitato anche di giovani che hanno dato fuoco per vedere i soccorsi». Tutto il Mediterraneo brucia: la situazione più grave è in Algeria, dove ci sono stati già 69 morti. E tra le vittime ci sono anche gli animali: 20 milioni solo in Italia, secondo una stima di Legambiente. «Sono cifre realistiche e impressionanti», ha commentato la deputata Michela Vittoria Brambilla, presidente di Leidaa. «Il termine ecocidio descrive ciò che sta accadendo e che si è voluto minimizzare o passare sotto silenzio».
Antonio Maria Mira per Avvenire ha intervistato Antonio Perna, che racconta: avevamo trovato un sistema che funzionava contro gli incendi nell’Aspromonte. Sistema poi abbandonato.
«Vent' anni fa eravamo riusciti a ridurre del 90% gli incendi nel Parco nazionale dell'Aspromonte. Spendendo molto meno di quello che la Regione Calabria spende oggi per spegnere gli incendi. Il sistema che avevamo inventato è andato avanti per dieci anni. Poi è stato abbandonato. E oggi siamo davanti a un vero disastro. Questo Paese è davvero senza memoria». Si sfoga giustamente Tonino Perna, professore emerito di Sociologia economica dell'Università di Messina, attualmente vicesindaco 'esterno' del comune di Reggio Calabria. Vent' anni fa era il presidente del Parco, inventò e realizzò un sistema che lui definisce 'semplice': «Con un bando pubblico affidavamo i boschi dell'Aspromonte a soggetti del Terzo settore, associazioni e cooperative sociali, con un contratto che prevedeva un contributo iniziale del 50%, e l'altro 50% a fine stagione. A patto che fosse bruciato meno dell'1% del territorio affidato. Il principio è sempre quello della responsabilità». Operazione riuscita. Da mille ettari bruciati ogni anno si era scesi a 100-150. Con una spesa di appena 400mila euro. Un successo che ebbe risalto europeo. «Per la prima volta la Calabria era un esempio positivo. Non solo 'ndrangheta. Venni convocato a Bruxelles per spiegare il nostro sistema». E in Calabria? «In Aspromonte è durato una decina d'anni, nel parco del Pollino, dove lo avevano adottato, un po' di più. La Regione mi propose di realizzarlo per tutta la Calabria. Feci il conto che ci volevano 3 milioni. E pensi che oggi per tutto il sistema antincendio si spendono 18 milioni con risultati ben diversi. E perché non si fece? Perché mi volevano fare solo un contratto di consulenza. Io invece volevo una struttura e la sicurezza che ci fossero i fondi. Non ho avuto queste garanzie e non l'ho fatto. Mi sembrava più una captatio benevolentiae che una vera volontà. Eppure ci avrebbero lavorato tante associazioni e cooperative, mentre ora ci guadagnano società che spesso vengono da fuori regione». (…) Terreni che possono prendere fuoco senza che nessuno intervenga. Perché il suo sistema venne abbandonato? «Per inerzia, per mancanza di convinzione. E forse anche per rivalsa nei miei confronti». Ma oggi funzionerebbe come allora? «Assolutamente sì. Siccome gli incendi non riusciamo a prevenirli, per la molteplicità delle cause, bisogna trovare il modo di spegnerli appena partono, ricreando un rapporto col territorio. Invece, strana coincidenza, quando la Regione firma i contratti con le società private che gestiscono l'antincendio e gli elicotteri, partono gli incendi. Non è una prova, ma il sospetto c'è: queste società vivono perché ci sono gli incendi. L'esatto contrario del vostro metodo. È così, è oggettivo. E poi hanno eliminato il Corpo forestale, una vera sciocchezza. Ora sono solo i Vigili del fuoco a poter intervenire per spegnere gli incendi. Ma sono pochi e, pur impegnatissimi, non abituati a operare in montagna, ma in città o vicino ai centri abitati».
GREEN PASS
Scaricato in massa, con un successo di download da parte di milioni di cittadini italiani, il Green pass crea anche contraddizioni e tensioni. La cronaca di Claudia Voltattorni per il Corriere della Sera.
« È lo strumento studiato dal governo per garantire un'estate più sicura e una ripresa autunnale in sicurezza, ma a 6 giorni dall'entrata in vigore del decreto che rende obbligatorio il green pass per accedere a determinati eventi e luoghi, nei ristoranti al chiuso, in piscine, palestre, parchi tematici, musei, crescono le proteste di lavoratori, associazioni, semplici cittadini. Da chi non lo vuole presentare a chi non vuole assumersi la responsabilità dei controlli, fino a chi chiede una maggiore chiarezza per utilizzare al meglio lo strumento ideato dal governo per contenere i contagi nella seconda estate del Covid-19. Ma se da un lato i ristoratori hanno qualche certezza in più su come dovranno controllare la certificazione verde dei propri clienti - richiesta di documenti solo in caso di incongruenze -, si apre il fronte degli steward degli eventi cui la circolare del Viminale ha demandato i controlli. «Noi interverremo solo nei casi in cui sarà necessario esibire il documento di identità», chiarisce Ferruccio Taroni, presidente dell'Associazione nazionale delegati alla sicurezza, che lamenta già carenze di personale per il controllo dei biglietti e suggerisce ai delegati della gestione degli eventi durante i Comitati per l'ordine pubblico «di non usare gli steward per il controllo del certificato verde». E lancia l'alternativa a società sportive e gestori di strutture: «Dovranno avvalersi di volontari, come uomini delle forze dell'ordine in pensione». E Confcommercio sottolinea che «gli esercenti non possono certo sostituirsi ai pubblici ufficiali». Ma un deciso e secco no arriva poi dal mondo della scuola, dove è previsto il green pass obbligatorio per docenti e tutto il personale con sanzioni fino alla sospensione della retribuzione per chi non si adegua. Le 6 più importanti sigle sindacali - Cgil, Cisl, Uil, Snals, Gilda e Anief - hanno firmato un documento che condanna la «scelta unilaterale» del governo, un «diktat» che «scarica sui lavoratori tutte le conseguenze di scelte non fatte» e al governo chiede un cambio di passo attraverso il «dialogo e il confronto: la scuola non si riapre per decreto». Il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi replica con un post su Facebook spiegando che il green pass «non è una misura punitiva ma uno strumento a tutela della salute di tutti, in particolare dei più fragili» e spiega che il lavoro per il rientro in classe è cominciato, che «ad oggi sono stati immessi in ruolo più di 42 mila insegnanti e che presto arriverà una nota operativa a tutte le scuole con le misure per la ripartenza». Il nuovo protocollo, che verrà presentato oggi ai sindacati, prevede ancora obbligo di mascherine dai 6 anni in su, ingressi scaglionati, distanziamento di almeno un metro e finestre aperte anche con il brutto tempo. E ieri è stato anche dichiarato il primo sciopero contro il green pass. La Rsu Fim-Cisl della Hanon Systems di Campiglione Fenile, azienda torinese specializzata in componenti elettronici, ha proclamato per venerdì due ore di astensione dal lavoro per i 650 dipendenti contro l'obbligo della certificazione verde per accedere alla mensa. «Si discriminano i lavoratori e si viola la loro privacy mettendoli alla gogna davanti ai colleghi senza considerare i motivi per cui qualcuno non ha ancora fatto il vaccino», spiega Davide Provenzano, della Cisl Torino, che chiede all'azienda «di aspettare chiarimenti dal governo prima di procedere: se gli operai possono lavorare senza green pass, allora possono anche mangiare in mensa senza il certificato. È un problema che va risolto a livello nazionale, servono linee guida chiare e non iniziative estemporanee». Ma «il green pass è uno strumento di libertà, non uno strumento discriminatorio: lo può ottenere anche chi non è vaccinato facendo il tampone», spiega Fabio Ciciliano, membro del Comitato tecnico scientifico».».
Il Quotidiano Nazionale dedica l’editoriale in prima pagina proprio ad una dura polemica contro i sindacati della scuola. A firma di Gabriele Canè.
«Per chi non è nato ieri, la traduzione dal «sindacalese» all'italiano è molto semplice. Quando un provvedimento deve nascere dal «confronto», ad esempio, vuol dire che le parti sono chiamate a trattare per trovare un accordo, certo, ma che i sindacati devono essere più d'accordo dell'altra parte. Se poi il provvedimento che li riguarda viene definito «diktat», nessun dubbio: non solo non sono d'accordo, ma una certa decisione che li riguarda è stata presa senza fotocopiare la loro piattaforma, dunque è autoritaria e irricevibile. Chi avesse la pazienza di leggere il prolisso comunicato con cui le organizzazioni della scuola hanno bocciato ieri la procedura con cui il governo regola il ritorno in classe in sicurezza, dunque anche con il green pass obbligatorio, ritroverebbe una atmosfera anni '70 che in quel mondo non sembra essere mai cambiata. Il «sindacalese» più genuino nei toni e nei contenuti per denunciare «decisioni frettolose e radicali», per etichettare come «diktat» il provvedimento elaborato da Palazzo Chigi, e per concludere che «la scuola non si riapre per decreto». Intendiamoci. Ci mancherebbe che nella libera Italia non si potessero avere opinioni diverse da quelle dei governi. È da febbraio dell'anno scorso che viviamo sulla base di insindacabili Dpcm, e dissentire è il minimo che si possa fare. È quello che hanno fatto i pubblici esercizi proprio per le difficoltà imposte (non concordate) dal Green pass, e dal balletto documenti-sì, documenti-no. Nella nota del personale scolastico, in quel «la scuola non si apre per decreto», come è avvenuto per tutte le aperture e le chiusure da un anno e mezzo a questa parte, c'è però qualcosa di più e di diverso. In particolare l'idea che esista un Paese che deve marciare al ritmo indicato da chi governa, e un territorio, la scuola, che invece può e deve farlo al ritmo di chi è governato. E parliamo di un settore che non per colpa sua sta lasciando sul campo una generazione di studenti «mutilati» dalla Dad, che dovrebbe buttare il cuore oltre ogni ostacolo e imposizione per tornare alla normalità. In sicurezza. Un settore che ha chiuso più di tutti in Europa, che ha visto un impegno straordinario di gran parte del suo personale. Proprio quello che il Green pass intende tutelare. In qualunque lingua. Anche in «sindacalese».
VACCINI AI GIOVANI FRA 12 E 18 ANNI, SENZA PRENOTAZIONE
Appello dei pediatri e invito di Figliuolo alle Regioni perché i giovani dai 12 ai 18 anni vengano vaccinati. La cronaca di Fabio Savelli per il Corriere della Sera.
«Sport e scuola. Devono ripartire in sicurezza il prima possibile. Immunizzando la più ampia platea possibile di ragazzi, tra i 12 e i 18 anni, da qui ai prossimi due mesi. Il commissario all'emergenza Francesco Figliuolo, come già anticipato dal Corriere , ha inviato una lettera alle Regioni sollecitandole dal 16 agosto «a predisporre corsie preferenziali per l'ammissione alle somministrazioni dei cittadini» in questa fascia d'età. Al momento per gli under 18 è autorizzata la somministrazione soltanto dei farmaci di Pfizer e di Moderna. La campagna vaccinale, scrive il generale, «si sta sviluppando nei termini pianificati che vedono il progressivo raggiungimento degli obiettivi previsti per l'immunizzazione delle classi prioritarie, dei cittadini maggiormente vulnerabili e fragili». Per questo si chiede alle Regioni di organizzare un canale preferenziale smontando anche la necessità di una preventiva prenotazione. Un'esigenza in vista della ripartenza della stagione sportiva. «Tale predisposizione - si legge nella lettera - avrà risvolti positivi per incentivare la ripresa in sicurezza sia delle attività sportive sia di quelle finalizzate a garantire il benessere psicofisico per i più giovani». La società italiana di pediatria fa un passo in più. Ieri ha chiesto l'estensione della campagna vaccinale anche ai più piccoli. Sono in corso le valutazioni delle agenzie per il farmaco. «Si avverte l'esigenza - scrivono i pediatri - di beneficiare di uno specifico intervento di prevenzione vaccinale per la popolazione pediatrica, in maniera tale da poter permettere di prevenire ulteriori recrudescenze di episodi di aumentata circolazione del virus sostenute da varianti emergenti». A supporto i dati della letalità Covid in Italia. Il 5,5% dei casi (240.105) con 14 decessi riguarda la fascia 0-9 anni. Ieri 6.968 nuovi casi di Covid e 31 decessi. Il tasso di positività, rispetto ai tamponi, sale al 3%. Aumentano le degenze: 68 posti letto occupati in più nei reparti ordinari, 15 in più in terapia intensiva».
Iva Zanicchi si sfoga con Chiara Maffioletti del Corriere della Sera.
«Da due giorni, Iva Zanicchi è a Ligonchio. «È la prima volta dalla pandemia. Non sono riuscita a passare attraverso il paese, però. Avrei dovuto rivedere il bar che era il nostro ritrovo: con i miei fratelli lì si giocava a carte, Antonio suonava la chitarra e noi cantavamo... ho evitato». È un dolore forte quello che prova la cantante, dolore misto a rabbia. Il Covid sembra non lasciarle tregua, mettendo continuamente alla prova il suo spirito indomito. A novembre lei, una delle sue due sorelle e suo fratello Antonio sono stati contagiati e si sono ritrovati in ospedale insieme: «Il dottore, mentre dimetteva me e mia sorella, diceva che avrebbe trattenuto mio fratello, cardiopatico, ancora un po'. Tre giorni dopo è morto». Ora, ad essere positiva alla variante Delta è la sorella più grande, Maria Rosa, 85 anni. Per fortuna sta bene. «Chi dice che il virus non esiste è imbecille o cretino. Mia sorella sta bene perché era vaccinata». Partiamo da questo. Non è preoccupata per lei, dunque? «Sono serena. Ha solo un po' di mal di gola, di spossatezza. Resta qualcosa di non semplice da gestire: ha 85 anni ed è chiusa in casa, non può vedere nessuno, sognava di andare al mare. Le è venuta un po' di depressione, ma la salva essere una comica nata, quindi al telefono ci scherziamo su... spero che il tampone domani dirà che è negativa». Come ha scoperto di essere positiva? «Non si era accorta di nulla, non avendo sintomi, ma a suo figlio era venuta la febbre: ha fatto il tampone. Fa un po' pena saperla chiusa in casa, ma il dato è che se il Covid ti prende e sei vaccinato non sei in pericolo di vita e nemmeno finisci in ospedale, se va bene». Cosa prova di fronte a chi sceglie di non vaccinarsi? «Tanta rabbia. Penso sia inevitabile per chi ha sofferto come me. E siamo in tanti. Certo, si doveva spiegare meglio la situazione, ci sono state troppe voci. Ma ricordo che quando ero bambina i vaccini si facevano senza discutere e salvavano milioni di vite». Ha avuto paura quando era lei ricoverata? «Ero tranquillissima, nonostante la polmonite per cui prendevo l'ossigeno. Vedevo i dottori preoccupati, e chiedevo: "Ma scusate, morirò?". Mi rassicuravano. Una dottoressa, troppo carina, entrava ogni mattina cantando Zingara . Le dicevo: "Eviti che una roba così stonata non l'ho mai sentita e mi fa stare peggio"». Fisicamente oggi come sta? «Gli strascichi ci sono. Non ho ancora l'olfatto e anche il gusto non è come prima. Poi la vista: ho sempre avuto un occhio da aquila e l'altro da vecchia gallina padovana, ma dopo il Covid non riuscivo più a leggere. E poi dolori a tutte le articolazioni. C'è chi dice: sei anziana. Sì, ma lo ero anche otto mesi fa e stavo bene». Si è ripromessa di fare qualcosa con sua sorella, appena tornerà negativa? «Sì, vogliamo stare qualche giorno assieme qui, al paese. Lei manca da tanto e vuol tornare. Spero succeda presto».
IUS SOLI, LETTA INSISTE MA I 5 STELLE DI DISSOCIANO
Letta promette che non abbandonerà il tema dello ius soli. Il velocista Jacobs, neo medaglia d’oro, snobba il tema? Il segretario del Pd, in campagna elettorale nel senese, non si scompone. Claudio Bozza per il Corriere.
«Jacobs? - sottolinea Letta riferendosi alla dichiarazione a Il Foglio in cui il campione olimpico afferma di non essere «interessato» al tema -. Ha detto ciò che è libero di dire ma non cambia di una virgola la questione. Jacobs è un cittadino italiano dalla nascita e lo ius soli non ha a che fare con casi come il suo». Letta si dice ben consapevole della forte complessità di questa vicenda, ma rilancia: «La legge sulla cittadinanza è un grande cambiamento per il nostro Paese e il Pd sarà all'avanguardia e si farà portabandiera di questa battaglia in Parlamento. E lì, sono sicuro, troverà consensi e alleati per renderla effettivamente una legge». Il leader dem accelera così la sua battaglia per difendere il seggio di Siena, lasciato libero alla Camera dal collega di partito Pier Carlo Padoan, diventato presidente di Unicredit. Che poi è appunto il colosso che si appresta ad assorbire il Monte dei Paschi, la banca più antica del mondo. E che ora, dopo 549 anni di storia, rischia di dissolversi. La base dem, vista la folta partecipazione allo sbarco del segretario sulla vetta di Montepulciano, sembra aver recepito la posta in gioco: «Enrico non mollare, bisogna vincere!», gli urla più di un sostenitore. Mentre a sera, accolto a una cena di finanziamento, i 300 presenti lo accolgono sulle note di People have the power . Sul territorio è però molto forte la preoccupazione per le ripercussioni sui posti di lavoro che deriveranno dall'annessione del Monte dei Paschi a Unicredit. Secondo la Cgil, solo in Toscana sarebbero a rischio 2.500 posti. Ma su questo l'ex premier mette subito le mani avanti: «Non dobbiamo perdere un posto», è la promessa ambiziosa. Al Nazareno speravano che l'emergenza Montepaschi si palesasse dopo il voto del 3 e 4 ottobre. Ma davanti a questa accelerazione il segretario del Partito democratico, tramontata l'ipotesi Conte, non si poteva certo tirare indietro. «Se perdo a Siena lascio», aveva detto il leader dem annunciando la sua candidatura. E ora questo monito lo ripete come un mantra pure in privato, anche per motivare dirigenti e truppe dem sul territorio. Serve una grande mobilitazione, perché questo seggio non è più blindato da tempo. Letta è ben consapevole del profondo valore politico della sfida contro Tommaso Marrocchesi Marzi, imprenditore vitivinicolo, avversario del centrodestra per il quale Matteo Salvini si sta muovendo in forza: batterlo influirebbe non poco nei rapporti di forza al governo. Ma nel Pd, proprio per la variabile Monte dei Paschi, i timori per il rischio di una sconfitta che sarebbe bruciante non sono più sottotraccia. «Mi trovo a fare campagna elettorale, a chiedere il voto, sapendo che facciamo parte di una maggioranza atipica, eccezionale, unica. Per quanto ci riguarda, è la prima e l'unica volta al governo con Salvini». Se la soluzione Unicredit è la migliore per Mps? «Ho fiducia negli impegni che il ministro dell'Economia Franco si è preso pubblicamente in Parlamento: vigileremo, passo dopo passo».
Avvenire, da sempre molto attento al tema di quello che preferisce chiamare lo ius culturae, è molto scettico: i 5 Stelle sono tradizionalmente contrari. La cronaca di Eugenio Fatigante.
«Negli equilibri dell'attuale Parlamento, un ruolo decisivo per l'eventuale ripresa dell'iter di una legge sulla cittadinanza (per chi è cresciuto in Italia, pur non avendo genitori italiani), come auspicato l'altroieri dal leader del Pd, Enrico Letta, ce l'ha di sicuro M5s, 'forza- cerniera' fra i due schieramenti, oggi mischiati nella maggioranza che appoggia Draghi. Per questo la penuria di dichiarazioni di esponenti pentastellati a favore di una legge simile fa capire che l'auspicio lettiano è probabilmente destinato a rimanere tale. Non è facile trovare qualche 5 stelle disposto a esporsi. Fra i big, poi, ieri l'ha fatto la sola Paola Taverna, ma per dire che «con il presidente Conte sapremo trovare una sintesi, credo però che nell'attuale situazione politica ci siano altre priorità». Eppure, c'è stato un tempo - non lontanissimo - in cui non era questa la linea del Movimento su questo tema. Negli anni i grillini hanno teso a eludere questo delicato dossier, a non prendere posizione per via di alcune nette sortite (contrarie) del fondatore Beppe Grillo, tanto che forse pochi ricordano che una delle prime proposte di legge in materia, già a giugno del 2013, quindi subito dopo lo 'sbarco' in Parlamento, si deve proprio al Movimento: per la precisione, a uno dei deputati più vicini a Luigi Di Maio, Giorgio Sorial, oggi ex parlamentare, bresciano figlio di egiziani copti: era l'atto Camera 1204, che prevedeva uno ius soli temperato. Come la pensasse Grillo, tuttavia, era noto già da prima delle elezioni del 2013. Il 23 gennaio 2012, a esempio, così si esprimeva sul suo blog: «La cittadinanza a chi nasce in Italia, anche se i genitori non ne dispongono, è senza senso. O meglio, un senso lo ha. Distrarre gli italiani dai problemi reali per trasformarli in tifosi. Da una parte i buonisti della sinistra che lasciano agli italiani gli oneri dei loro deliri. Dall'altra i leghisti e xenofobi che crescono nei consensi per paura della 'liberalizzazione' delle nascite».
Un po’ di ottimismo viene invece dalla ministra Elena Bonetti, di Italia Viva, intervistata da Giovanna Casadio per Repubblica.
«L'occasione è favorevole per una nuova legge sulla cittadinanza». Elena Bonetti, la ministra renziana delle Pari opportunità e della Famiglia, dice che «il tempo è adesso». Non spetta al governo lo Ius soli? «Le regole le scrive il Parlamento, ma questo governo sa accompagnare la mediazione politica». Per Bonetti il punto di caduta è il cosiddetto "Ius culturae", ovvero la cittadinanza per i ragazzi figli di immigrati che abbiamo completato un ciclo scolastico ma anche un percorso sportivo. Ministra Bonetti, lo Ius soli è una priorità o come dicono le destre e una parte del M5Stelle c'è ben altro oggi in Italia a cui pensare? «Spesso la politica si è data un alibi, dividendosi su elenchi di priorità. Si sapeva che era il modo migliore per non incontrarsi. Oggi il Paese deve fare un passo in avanti. Se vogliamo ripartire dobbiamo tutti lavorare affinché questo accada: questo è la cittadinanza. L'occasione è favorevole, perché proprio ora stiamo ricostruendo il nostro essere "noi", comunità. Le Olimpiadi sono state un esempio. I giovani atleti che abbiamo visto giocare, che ci hanno appassionato, hanno mostrato che con il contributo di tutti e con l'unità si serve e si fa vincere il Paese intero. È stata una grande lezione per la politica». Il governo Draghi dovrebbe farsi parte attiva perché si archivi l'anacronistico "Ius sanguinis" in base al quale si è cittadini italiani? «Il governo sta dando prova di sapere accompagnare tutti i processi di sintesi per fare davvero avanzare il Paese, ma le regole le deve scrivere il Parlamento. Una iniziativa parlamentare sulla cittadinanza già c'era. Si era trovata una mediazione alla Camera nel 2015, premier Renzi, e poi si è bloccata al Senato. Adesso il governo può aiutare, però sono le Camere a dovere riprendere la proposta». Quali caratteristiche dovrebbe avere la legge sulla cittadinanza? «Il modello è lo Ius culturae, perché la cittadinanza si costruisce attraverso l'educazione. A scuola, ma anche nelle attività di educazione non formale come lo sport. Quando le forze politiche procedono per veti reciproci, il risultato è la stasi. I partiti esistono per fare politica e la politica deve dialogare per dare risposte ai bisogni dei cittadini. Se posso fare un appello, proprio perché è un tema che riguarda un milione e centomila ragazzi in attesa di dirsi italiani non solo di fatto ma anche di diritto, la legge sulla cittadinanza non diventi una bandierina per le amministrative né a destra né a sinistra. Non si sacrifichi qualcosa di così importante per il consenso elettorale». A proposito di polarizzazione, pensa al ddl Zan contro l'omotransfobia? «Lo scontro sul ddl Zan è un esempio di polarizzazione, che blocca la legge. Mentre il dialogo e la mediazione, certo su elementi che garantiscano quei diritti, porterebbe all'approvazione. È la proposta di Italia Viva». Pensa davvero che lo ius soli, o Ius culturae, possa essere approvato in questa legislatura in cui c'è una maggioranza di governo del tutto eterogenea? «È la politica a dover creare con il dialogo le condizioni per ]approvare una legge come lo Ius culturae. Siamo tutti chiamati a responsabilità inedite e anche la politica deve fare un balzo di maturità. Io ho fiducia che questo Parlamento possa trovare la sintesi necessaria per dare all'Italia il suo futuro migliore. Ci vuole il coraggio di scelte non scontate».
Stefano Zurlo sul Giornale intervista Matteo Salvini.
«Con Letta il duello va avanti. Ora vi accapigliate sullo ius soli. «Hanno messo in mezzo pure le Olimpiadi e Jacobs ha chiesto di lasciarlo in pace». Ma proprio le Olimpiadi dell'Italia multietnica hanno messo in evidenza i giovani che si sentono ma non sono ancora italiani. «Ma no, la legge funziona benissimo e fra l'altro siamo con i tedeschi quelli che concedono di più la cittadinanza. Quando arrivi a 18 anni, fai la patente e se vuoi diventi italiano. Non c'è problema, non c'è discriminazione, c'è solo propaganda. Questa storia dello ius soli è un'ossessione di Letta e della Lamorgese. Capisco Letta, anche se fra parentesi faccio notare che quando era al governo il Pd non è riuscito a proporre e far approvare questa legge, ma la Lamorgese lasci perdere queste questioni». Ce l'ha sempre con la titolare dell'Interno? «Ho appena aggiornato con la Guardia costiera i numeri degli sbarchi qui in Calabria: 250 più 80 in barca a vela in Puglia. Il totale di quest' anno è già a 30.000. Un disastro. E a me tocca rispondere a prefetti e questori che si lamentano perché il ministro scarica su di loro i problemi dell'accoglienza». Che altro dovrebbe fare lo Stato? «Io, quando c'era una nave spagnola che faceva rotta verso la Sicilia, alzavo il telefono, chiamavo il mio omologo di quel Paese e gli dicevo di darsi una mossa. Idem per francesi e tedeschi. Se una nave batte bandiera tedesca è un pezzo di Germania. Punto. Lamorgese invece è un fantasma. Fa confusione sul green pass, spingendo i baristi a fare i carabinieri, poi si è dimenticata delle assunzioni in polizia e nei vigili del fuoco. E meno male che abbiamo rimediato con i nostri emendamenti. Non c'è campo in cui non operi in modo confuso». Ok, ma rimaniamo ai barconi: non dovremmo coinvolgere l'Europa come tutti ripetono da anni, peraltro senza risultati? «Va bene, ma intanto alzi il telefono e si dia da fare. Siamo invasi da egiziani e bengalesi. Il ministro ha preso contatto con le autorità di quei Paesi? Fra l'altro, quelli che arrivano dal Bangladesh fanno un giro molto lungo. E poi faccio notare che arrivano centinaia di persone dai paesi del Centroafrica, dove i vaccini quasi non esistono ma circolano le varianti al virus. Siamo al fallimento sui flussi migratori, ma il ministro perde tempo su un argomento come lo ius soli che non vale cinque minuti di discussione. E non è tutto». Che altro c'è? «La situazione è molto critica anche a Ventimiglia e a Trieste». Il ministro dovrebbe alzare la voce pure con Parigi e Lubiana? «Si, certo, Lamorgese dovrebbe farsi valere con Francia e Slovenia. Non può rimanere inerte». Lei guarda altrove, ma trascura gli errori dei suoi. Pd e 5 Stelle chiedono le dimissioni del sottosegretario Durigon. «E perché dovrebbe dimettersi?». Vuole dedicare un parco di Latina, intitolato a Falcone e a Borsellino, ad Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Non è il massimo della grammatica istituzionale e repubblicana. Non le pare? «La Lega non ha nessuna nostalgia del fascismo. Noi pensiamo al futuro, non al passato».
CASO DURIGON, 25 MILA FIRME DEL FATTO
A proposito di Durigon, da ieri il giornale di Marco Travaglio raccoglie le firme per le sue dimissioni. 25 mila in ventiquattro ore. Giacomo Salvini per Il Fatto.
«La pressione per le dimissioni del sottosegretario della Lega Claudio Durigon sale di ora in ora. Il fronte giallorosa - Pd, M5S e LeU - chiede il passo indietro immediato o che sia il premier Mario Draghi a ritirargli le deleghe, ma il centrodestra si chiude in un imbarazzato silenzio. E mentre la petizione lanciata ieri dal Fatto raggiunge le 25mila firme in meno di 24 ore, il premier Mario Draghi continua a tacere sulla vicenda: per il momento non intende intervenire sul sottosegretario - reo di aver proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino - per non provocare fratture all'interno del governo. Lo farà, solo se la pressione politica diventerà, tale da obbligarlo a una decisione. Così Pd, M5S e LeU hanno già, annunciato che a settembre, quando riapriranno le Camere, voteranno una mozione di sfiducia per revocare le deleghe a Durigon. Dopo Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli, nel governo ieri si è fatta sentire la voce di un altro ministro del M5S, Federico D'Incà,: "Le parole di Durigon sono gravissime e spiace che a distanza di giorni, non si sia reso conto dell'inopportunità, di quelle dichiarazioni - dice al Fatto - Sa rebbe auspicabile un passo indietro, senza arrivare alla mozione di sfiducia, oltre che le sue pubbliche scuse". L'unico leader degli ex giallorosa che non si è ancora esposto è invece Matteo Renzi che negli ultimi tempi ha più volte condiviso le posizioni di Matteo Salvini: per ora il capo di Italia Viva tace. Ma Durigon è accerchiato anche all 'interno: di fronte al silenzio di Matteo Salvini che spera di far cadere la questione nel vuoto, nella Lega iniziano a emergere le prime voci critiche nei confronti del sottosegretario all'Economia. E il fronte "nordista" che fa riferimento a Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti non vedrebbe di cattivo occhio la caduta di Durigon, fedelissimo di Salvini e diventato uno dei punti di riferimento nella Lega che si è estesa al centro-sud. E proprio nel giorno in cui viene ufficializzato l'annullamento delle feste leghiste di Pontida e di Alzano Lombardo (la Berghem Fest), non è passato inosservato il silenzio dei governatori di peso del Carroccio, da Massimiliano Fedriga allo stesso Zaia. Per non parlare di Giorgetti, ministro dello Sviluppo Economico, che con Durigon ha sempre avuto un pessimo rapporto. D'altronde a febbraio, quando era uscita la lista dei sottosegretari del governo Draghi, in molti tra i leghisti della prima ora erano rimasti stupiti da quella poltrona da sottosegretario al Tesoro andata a Durigon: "Come si fa a tutelare il mondo produttivo del Nord-Est con un sottosegretario del Lazio?" era la domanda ricorrente tra i leghisti sopra il Po che non hanno mai gradito l'ascesa di Durigon. Parlamentari di peso come Massimo Bitonci, Raffaele Volpi, Gianpaolo Vallardi, Stefano Candiani ed Edoardo Rixi erano rimasti tagliati fuori. E sono loro oggi quelli che, secondo i rumors interni, hanno storto la bocca di fronte all 'uscita dell'ex sindacalista dell 'Ugl di Latina. Ancor di più se si considera che durante il governo Conte 1 proprio gli allora sottosegretari Rixi e Armando Siri avevano dovuto lasciare la propria poltrona su pressione dell'esecutivo gialloverde: "Perché loro sì e invece Durigon è intoccabile?" chiede polemico un big leghista. E dunque, di fronte al silenzio di Salvini, emergono le prime voci critiche. Nessuno chiede apertamente le dimissioni di Durigon ma diversi parlamentari ed esponenti di peso stanno iniziando a prendere le distanze. Il primo è il sottosegretario all'Interno Nicola Molteni che, sebbene molto vicino al segretario, ha spiegato: "Io un parco a Mussolini non lo intitolerei, a Borsellino e Falcone sì". Il ligure Rixi, invece, che nel 2019 si dimise dopo una condanna in primo grado a 3 anni e 5 mesi per le "spese pazze" in Liguria e poi è stato assolto, spiega che Durigon non si dovrebbe dimettere perché "esiste la libertà, di pensiero" e "siamo in campagna elettorale" ma poi attacca il suo compagno di partito: "Ciò detto io non condivido l'uscita di Durigon ed è anche incomprensibile - spiega al Fatto il deputato del Carroccio - io non farei mai una battaglia su questo e tra il 'parco Mussolini' e il 'parco Falcone e Borsellino' scelgo senza dubbio Falcone e Borsellino". Nell'inner circle di Salvini, invece, la posizione è chiara: "Polemica strumentale e ridicola". Insomma, si difende il sottosegretario sperando che la polemica si sgonfi in pochi giorni. Ma anche tra i fedelissimi del segretario l'imbarazzo e l'irritazione ci sono: Durigon, dopo il primo scandalo di maggio (parlando dei 49 milioni della Lega disse: "Quello che indaga lo abbiamo messo noi"), adesso sta diventando ingombrante. Tant' è che a via Bellerio si fa già, un nome per sostituirlo: quel Bitonci che al Mef era già, stato da sottosegretario durante il Conte 1. Un modo per placare i brusii interni».
AFGHANISTAN IN MANO AI TALEBANI IN 90 GIORNI
Secondo l’intelligence americana, i talebani prenderanno il potere in Afghanistan in 90 giorni, se non addirittura in un mese. La cronaca di Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Kabul potrebbe venire accerchiata dalle colonne armate talebane tra un mese ed entro 90 giorni rischia di essere conquistata. Le rivelazioni del Washington Post , che cita «alte fonti dell'intelligence militare americana», rimbalzano nella capitale afghana alimentando il panico. «Qui siamo invasi da migliaia di profughi in fuga dalle provincie del Nordovest, già tutte sotto il controllo talebano o minacciate da vicino dalla guerra. Sono per lo più donne, bambini, anziani: si accampano per le strade, nei parchi, nello stadio, di fronte agli ospedali. Non si trovano posti sui voli in partenza. Chi può e ha il visto scappa all'estero. Sui social, che ora anche i talebani usano molto bene per terrorizzare la popolazione, rimbalzano storie di fucilazioni di massa, e torture ai danni di militari, poliziotti e funzionari del governo. I talebani avrebbero promesso in spose le afghane quindicenni ai volontari che vengono dal Pakistan e dai Paesi islamici per combattere al loro fianco», ci racconta un giornalista locale che non vuole essere identificato. Non è del resto nuova la predizione dell'intelligence Usa. Già a fine giugno i comandi americani e i maggiori osservatori internazionali esprimevano seri dubbi sulla capacità di tenuta da parte delle forze di sicurezza, compresi i circa 350 mila soldati armati e addestrati per oltre un quindicennio dalla coalizione internazionale con costi astronomici. «Potrebbero collassare entro sei mesi», sostenevano. La valutazione più diffusa al momento è dunque che, a meno di interventi militari dall'estero, Kabul potrebbe davvero venire presa dai talebani già ben prima della fine dell'anno. Joe Biden ripete che tocca adesso agli afghani, al governo di Ashraf Ghani e tutte quelle forze locali che tradizionalmente sono nemiche del movimento talebano, di prendere in mano il loro destino e combattere. L'aviazione americana sta intensificando i raid in sostegno all'esercito regolare, ma pare che i risultati siano limitati e che invece causino per errore morti e feriti tra i civili. In poche parole: capiti quello che capiti, gli americani a questo punto lasciano l'Afghanistan alla sua sorte. Nei dialoghi di pace a Doha chiedono ai talebani di cessare i combattimenti, quelli replicano esigendo la liberazione di 7.000 loro prigionieri nelle mani di Kabul e intanto approfittano del momento favorevole. I risultati sono ormai sotto gli occhi di tutti: l'avanzata talebana appare inarrestabile. Ormai controllano tutti i maggiori punti di frontiera dall'Iran all'Uzbekistan e il Pakistan. In meno di una settimana hanno conquistato una decina di capoluoghi di provincia, tra cui l'importante nodo commerciale di Kunduz. Nelle ultime ore è caduta anche Farah, dove sino a pochi anni fa operava il contingente italiano. Herat è circondata e così anche Kandahar e Lashkar Gah. I talebani mostrano di avere una strategia molto coerente e lanciano appelli alla popolazione affinché resti nelle case. «Non credete alle dicerie sulle nostre crudeltà fatte circolare dai corrotti del governo e dai loro alleati miscredenti», scrivono sui social. Evitano di attaccare gli ultimi residui della forza americana sul campo, destinata comunque ad evacuare entro il 31 agosto, lasciando unicamente 650 marines in difesa dell'ambasciata a Kabul. I talebani sono nel Badakshan, stanno posizionandosi per prendere il corridoio del Vakhan e ciò allarma la Cina, visto che l'area confina con la sua provincia musulmana. Intanto Ghani vola nella città assediata di Mazar-i-Sharif per spronare a combattere vecchi signori della guerra come l'uzbeko Abdul Rashid Dostum, che nel 2001 venne accusato di «crimini di guerra» per aver lasciato morire di sete centinaia di talebani chiusi in container al sole. Un altro possibile alleato potrebbe essere il tagiko Atta Mohammad Noor. A Herat guida la resistenza hazara il 75enne Ismail Khan, ex eroe della lotta anti-sovietica. Ma tutto ciò ha un prezzo. Ghani dimostra di non avere alcuna fiducia nel nuovo esercito e ricorre alla vecchia logica corrotta e clientelare del rapporto diretto con i clan etnici e tribali. La stessa che ha portato al collasso del Paese.».
La Cina sostiene ora i talebani? Angelo Panebianco nel commento in prima pagina sul Corriere della Sera avanza l’inquietante interrogativo.
«Nel 1993 molti pensarono che fosse solo fantapolitica. Sta diventando politica vera nel 2021. Nell'articolo del 1993 apparso sulla rivista Foreign Affairs che anticipa il suo celebre e discusso libro sullo «scontro fra le civiltà», il politologo americano Samuel Huntington ipotizzò una futura alleanza fra l'emergente potenza cinese e le forze più radicali dell'islam, generate dall'attuale «risveglio islamico». Mentre i talebani continuano la loro travolgente avanzata militare e sono a pochi passi dal conquistare Kabul e l'intero Afghanistan, l'ipotesi/profezia di Huntington sta diventando realtà. Nel luglio di quest' anno i cinesi hanno ricevuto, con tutti gli onori, una delegazione talebana. È diventato chiaro a tutti che Pechino appoggia la loro rimonta armata in Afghanistan. Ha diverse e solide ragioni geopolitiche per farlo. Se, fidando anche nell'aiuto cinese i talebani vinceranno la partita, allora l'alleanza (in funzione anti-indiana, oltre che per altri scopi) che già esiste fra Pakistan e Cina, si trasformerà in un triangolo Cina-Pakistan-Afghanistan, con la Cina, ovviamente, in posizione egemone. Nella parte orientale del continente euro-asiatico potrebbe allora entrare in funzione una grande calamita in grado di esercitare una forte attrazione sulle forze dell'estremismo islamico ovunque collocate. È naturalmente possibile che questa convergenza fra cinesi e talebani mantenga un carattere e una dimensione solo regionali. Ma è anche possibile che sia la prova generale, l'anticipazione, di qualcosa di ben più ampio, secondo l'ipotesi di Huntington».
Alberto Negri sul Manifesto sottolinea invece le grandi responsabilità di un’Europa indifferente:
«L'Afghanistan è lontano e vogliamo dimenticare alla svelta Kabul, anche se sono passati vent' anni da quando gli Stati uniti hanno invaso l'Afghanistan con l'obiettivo di eliminare Al Qaeda dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 e rovesciare il regime del Mullah Omar. Questa sembra essere l'unica preoccupazione dell'Unione europea: che l'Afghanistan stia sprofondando nel caos e in una nuova guerra civile, con il risorgere dei signori della guerra cooptati in questi anni nella «democrazia» afghana, appare secondario. Dopo avere proclamato, per anni, con gli americani che stare in Afghanistan era cosa giusta e doverosa per «proteggere» la democrazia e i diritti delle donne, adesso gli europei voltano la faccia dall'altra parte e rifiutano asilo a chi teme giustamente di essere ricacciato in un nuovo medioevo. A stento sono stati salvati un po' di afghani che lavoravano per le truppe occidentali, giusto per le pressioni sui media che hanno dato spazio alle suppliche di quelli che i talebani considerano «collaborazionisti». Tralasciando di scrivere che questo censimento dei collaborazionisti i talebani nelle provincie lo fanno da sempre e in maniera accurata, con in mano i dati anagrafici di una popolazione che hanno tenuto sotto torchio per anni. I talebani non hanno mai smesso di governare «a distanza» il Paese e tutti lo sapevano benissimo, altrimenti non sarebbero avanzati così velocemente. L'ipocrisia è tale da nascondere un pensiero neppure troppo remoto, vista la situazione. Un ritorno all'«ordine talebano» potrebbe anche non dispiacere troppo ad americani ed europei. Per questo ce ne siamo andati via alla chetichella ammainando velocemente la bandiera, come se qui non fossero morti dozzine di soldati italiani dando la caccia ai talebani nel Gulestan, la valle delle rose. Con il ritiro gli americani e la Nato hanno rifilato una pesante eredità all'Armata Rossa, ai cinesi e agli iraniani. Un altro bel colpo nella strategia del caos perseguita dagli Stati uniti negli ultimi vent' anni grazie alle amministrazioni repubblicane ma anche a quelle democratiche, dove spicca con Obama il ritiro dall'Iraq che lasciò il Paese nelle braccia dell'Isis. Anche lì doveva un esercito nazionale come in Afghanistan a mantenere l'ordine: in tutti e due i casi le forze armate locali si sono sfaldate alla prima offensiva».
IL PAPA RISPONDE A MAGGIANI
Papa Francesco risponde, dalle colonne de La Stampa, allo scrittore Maurizio Maggiani che domenica primo agosto sul Secolo XIX aveva scritto una lettera aperta sui lavoratori sfruttati per stampare i libri. È un’occasione per condannare il “lavoro schiavo” e ricordare la forza dell’obiezione di coscienza.
«Gentile Signor Maggiani, ho letto la sua lettera pubblicata il 1 ° agosto. Con coraggio, senza temere di provare vergogna, ha voluto commentare la notizia che tanti avrebbero taciuto: i suoi libri - e molti altri - sono stampati sfruttando il lavoro schiavizzante di diversi cittadini pakistani. Così ha informato me e i lettori di questo paradosso e ha posto una domanda: «vale la pena produrre la bellezza grazie agli schiavi?». Sono rimasto colpito dalle sue parole. Lei non pone una domanda oziosa, perché in gioco c'è la dignità delle persone, quella dignità che oggi viene troppo spesso e facilmente calpestata con il «lavoro schiavo», nel silenzio complice e assordante di molti. Lo avevamo visto durante il lockdown, quando tanti di noi hanno scoperto che dietro il cibo che continuava ad arrivare sulle nostre tavole c'erano centinaia di migliaia di braccianti privi di diritti: invisibili e ultimi - benché primi! - gradini di una filiera che per procurare cibo privava molti del pane di un lavoro degno. La questione che lei pone è forse ancora più stridente: persino la letteratura, pane delle anime, espressione che eleva lo spirito umano, è ferita dalla voracità di uno sfruttamento che agisce nell'ombra, cancellando volti e nomi. Ebbene, credo che pubblicare scritti belli ed edificanti creando ingiustizie sia un fatto di per sé ingiusto. E per un cristiano ogni forma di sfruttamento è peccato. Ora, mi domando, che cosa posso fare io, che cosa possiamo fare noi? Rinunciare alla bellezza sarebbe una ritirata a sua volta ingiusta, un'omissione di bene. La penna, però, o la tastiera del computer, ci offrono un'altra possibilità: quella di denunciare, di scrivere cose anche scomode per scuotere dall'indifferenza, per stimolare le coscienze, inquietandole perché non si lascino anestetizzare dal «non mi interessa, non è affare mio, cosa ci posso fare se il mondo va così?». Per dare voce a chi non ha voce e levare la voce a favore di chi viene messo a tacere. Amo Dostoevskij non solo per la sua lettura profonda dell'animo umano e per il suo senso religioso, ma perché scelse di raccontare vite povere, «umiliate e offese». Sono tanti gli umiliati e gli offesi di oggi, ma chi dà a loro voce? Chi li rende protagonisti, mentre soldi e interessi spadroneggiano? La cultura non si lasci soggiogare dal mercato. Lei racconta, come ha scritto, «le storie dei silenti, degli ultimi e degli umili». Apprezzo questo e pure quello che ha scritto il 1 °agosto, perché non ha calcolato i suoi ritorni di immagine, ma ha messo nero su bianco la voce scomoda della coscienza. Di questo abbiamo bisogno, di una denuncia che non attacchi le persone, ma porti alla luce le manovre oscure che in nome del dio denaro soffocano la dignità dell'essere umano. È importante denunciare i meccanismi di morte, le «strutture di peccato». Ma denunciare non basta. Siamo chiamati anche al coraggio di rinunciare. Non alla letteratura e alla cultura, ma ad abitudini e vantaggi che, oggi dove tutto è collegato, scopriamo, per i meccanismi perversi dello sfruttamento, danneggiare la dignità di nostri fratelli e sorelle. È un segno potente rinunciare a posizioni e comodità per fare spazio a chi non ha spazio. Dire un no per un sì più grande. Per testimoniare che un'economia diversa, a misura d'uomo, è possibile. Questi sono i pensieri che mi vengono dal cuore. Le sono fraternamente grato per aver attirato la mia attenzione su un grave problema dei nostri giorni, grazie per la sua denuncia costruttiva! E grazie a quanti fanno rinunce buone e obiezione di coscienza per promuovere la dignità umana. Fraternamente, Francesco».
MUSK, A FIRENZE TURISTA PER CASO
È uno degli uomini più ricchi e potenti del pianeta e ieri è stato in visita a Firenze. Il turista d’eccezione è Elon Musk, l’imprenditore di origine australiana che ha creato la Tesla e che ha oggi il programma più avanzato per portare gli uomini nello spazio e forse un giorno su Marte. La cronaca del Corriere.
«Elon Musk è sbarcato a Firenze. Forse l'emozione non è stata come vedere la Terra dallo spazio o godere del paesaggio alieno di Marte, ma, parola di mister Tesla, l'esperienza toscana è stata una meraviglia. Si è catapultato in quella stupefacente macchina del tempo che è Palazzo Vecchio, ha sognato Leonardo nel Salone dei Cinquecento, si è innamorato dello studio segreto e alchemico di Francesco I de' Medici. E, subito dopo, ha attraversato il mitico Corridoio Vasariano che, come un'astronave, lo ha portato nei tesori della Galleria degli Uffizi. Eppure l'incontro che l'ha fatto piangere dalla gioia è stato quello con una Fiorentina, non una dama, bensì una bistecca cucinata con arte dallo chef della Buca Mario, il ristorante a due passi dalla Basilica di Santa Maria Novella. «Mai mangiato una carne così buona», ha esclamato l'imprenditore e magnate sudafricano naturalizzato statunitense da 182,1 miliardi di dollari di patrimonio. In Toscana Musk, 50 anni compiuti a fine giugno, è arrivato con la famiglia: la compagna Grimes, musicista e cantante canadese i figli, parenti, amici e un bel po' di guardie del corpo. L'artefice della sua visita toscana è stato Fabrizio Moretti segretario della Biennale dell'antiquariato di Palazzo Corsini. Ad accogliere Musk a Palazzo Vecchio c'era il sindaco Dario Nardella. Smaltita una prima sbornia di bellezze (Musk non aveva mai visitato Palazzo Vecchio), Elon ha poi affrontato con Nardella diversi temi di schiacciante attualità. E si è concentrato sulla sostenibilità ambientale, anche nei dettagli. Nardella gli ha chiesto informazioni sulle tegole fotovoltaiche che Musk sta producendo e che potrebbero risolvere i problemi dell'impossibilità di piazzare sui tetti di Firenze i pannelli per problemi estetici. E ancora i due hanno discusso di possibili progetti per rendere verdi la flotta di taxi e di mezzi pubblici. Poi un complimento che forse il magnate non si aspettava. «In qualche modo lei è un po' come un Leonardo dei tempi moderni», gli ha detto con un sorriso Nardella. Agli Uffizi, tramite il Vasariano (il corridoio che collega Palazzo Vecchio alla galleria) l'imprenditore è arrivato alle 20. «Aveva ancora un po' di jet lag - racconta il direttore Eike Schmidt - ma era concentratissimo. Ha visitato le nostre sale per più di un'ora e mezza apprezzando anche le opere meno conosciute». Come Le Virtù del Pollaiolo e del Botticelli e soprattutto il Trionfo della Vergine del Beato Angelico, capolavoro che rappresenta figure in assenza di gravità. Lo ha interessato moltissimo anche la scultura ellenistica di Alessandro il Grande, uno dei personaggi storici preferiti. «Che dovremmo chiamare Alessandro il Massimo, perché come lui nessuno», ha detto a Schmidt. Che poi lo ha salutato con una battuta: «Quando costruirà la stazione spaziale su Marte ci lasci una sala per alcune delle nostre opere che abbiamo iniziato ad esportare con il progetto Uffizi Diffusi». Sorrisi e strette di mano. Infine l'ultima tappa, al ristorante la Buca Mario. In una saletta privata Elon ha assaporato un'insalatina di funghi porcini, affettati toscani, pasta al tartufo, pasta fritta al cinghiale e infine la mitica Fiorentina. Il tutto bagnato dal Chianti Poggio Rosso. Musk sarebbe ripartito ieri con il suo aereo privato, il Guffstream G650. Ma è solo un'ipotesi. C'è chi dice che il magnate abbia avuto incontri d'affari nella vicina sede di Leonardo (chiusa per ferie), azienda che opera anche nel settore spaziale. Nessuna conferma. Tutto top secret. L'unica certezza è stata la meraviglia di Musk per la Bellezza e per la Fiorentina».
Per la Versione si prepara un grande balzo in avanti (Copyright Mao Tse Tung) per le prossime settimane. Scrivete suggerimenti, considerazioni, osservazioni critiche a lelio.banfi@gmail.com. Vi aspetto.
Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera. Oggi un’intervista tutta da leggere.