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Jet russo contro drone Usa

alessandrobanfi.substack.com

Jet russo contro drone Usa

Incontro ravvicinato sopra il Mar Nero. Sale la tensione. I miliziani della Wagner a Bakhmut. Le Borse tornano su. Mattarella in Kenya visita l'Avsi. I parenti delle vittime di Cutro domani a Roma

Alessandro Banfi
Mar 15
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Jet russo contro drone Usa

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Gravissimo incidente nei cieli del Mar Nero. Un jet russo ha intercettato e colpito un drone americano in missione nella zona ai confini col conflitto. È uno scontro diretto fra Stati Uniti e Federazione russa che alza di molto la tensione internazionale. Proprio mentre infuria una guerriglia urbana a Bakhmut. Ieri (vedi Foto del Giorno) alcuni miliziani della Wagner si sono fatti fotografare all’interno degli impianti industriali di Azom. Si combatte anche sottoterra, nella rete di tunnel. Gli ucraini non si ritirano per ora e contendono palmo a palmo il territorio. Intanto la Cina manda un esplicito segnale di irritazione e avvertimento per l’annuncio della fornitura di nuovi sottomarini all’Australia, nell’ambito del patto di Aukus siglato lunedì a San Diego in California. Il rivale di Trump nelle future primarie repubblicane americane, il governatore della Florida Ron Desantis esprime forti dubbi sul confronto bellico sull’Ucraina, che costerebbe troppo agli Stati Uniti per essere una “disputa territoriale” locale e lontana dai confini americani. Continua la stretta di Mosca sulle libertà individuali: i russi che criticano pubblicamente la Wagner rischiano ora fino a 15 anni di galera. Lo ha deciso la Duma, il parlamento russo.

Borse in ripresa dopo il crac della Silicon Valley Bank. Negli Stati uniti parte un’inchiesta sul comportamento dei manager della banca, che avrebbero ceduto titoli alla vigilia del fallimento. Intervento del premio Nobel Stiglitz che sottolinea la debolezza della regolamentazione finanziaria, ma che vede ancora un futuro per il settore della tecnologia digitale. Al vertice della Bce sono divisi sulle prossime decisioni che riguardano i tassi: alzare ancora, e quanto, il costo del denaro?

A proposito di Europa, c’è una notizia positiva, anche per l’Italia, che riguarda il primo accordo Ue sul nuovo patto di stabilità. Per ora la posizione tedesca è stata messa in minoranza e questo dovrebbe dare respiro e prospettiva ai nostri conti pubblici nel prossimo anno. Anche sui migranti ci sono una raccomandazione e una comunicazione diffusa dalla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson che fanno ben sperare. Appare «chiaro», ha detto Johansson, che quello che accade nel Mediterraneo Centrale «non è solo responsabilità dell’Italia e che serve una risposta europea alla crisi». Parole in sintonia con quelle pronunciate nelle stesse ore dal capo dello Stato Sergio Mattarella, in visita ufficiale in Kenya: «La dimensione epocale e crescente del fenomeno migratorio non è affrontabile da un solo Paese, ma solo con una lucida, sistemica e ben organizzata azione europea che affronti il problema».

In Kenya fra l’altro Mattarella ha visitato e incontrato gli studenti dell’istituto professionale St. Kizito, creato da AVSI grazie a fondi della Cooperazione Italiana, a Githurai, nella periferia di Nairobi. Qui il video che racconta la visita. Il St. Kizito ha l’obiettivo di fornire ai giovani più vulnerabili competenze pratiche e teoriche per inserirsi nel mondo del lavoro. Dal ‘94 a oggi si sono diplomati 13.500 studenti in diversi corsi, tra cui falegnameria, meccanica, informatica, parrucchiere e ristorazione. Si diplomano circa 800 ragazzi all’anno, l'89% dei quali trova lavoro. Il Capo dello Stato, scrive Angelo Picariello su Avvenire, con la sua visita ha indicato una strada per fronteggiare l’emergenza migranti.

Domani mattina i familiari delle vittime del naufragio di Cutro saranno ricevuti a palazzo Chigi da Giorgia Meloni. Nel frattempo il mare calabrese continua a restituire cadaveri: con quello ripescato ieri, il bilancio è salito a 81 morti. I 47 naufraghi della Libia di domenica scorsa venivano tutti dallo stesso villaggio del Bangladesh, ne sono sopravvissuti solo 17.

Claudio Anastasio, scelto dalla premier Meloni per la presidenza dell’azienda 3-I, ha dovuto dimettersi perché aveva inviato ai dipendenti una sua e-mail, citando un discorso di Benito Mussolini. Polemiche contro la maggioranza perché in commissione a Palazzo Madama ha chiesto al governo di porre il veto in Consiglio Europeo sul Regolamento che potrebbe portare anche al riconoscimento della maternità surrogata. Per Repubblica è una negazione di diritti per i figli dei gay, ma la maternità surrogata in Italia è un reato.  

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine, pubblicata sul canale Telegram del gruppo paramilitare di Yevgeny Prigozhin, ritrae alcuni miliziani della Wagner all’interno dell'impianto per la lavorazione di metalli nel centro della città di Bakhmut, chiamato Azom.

Fonte: Telegram

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Avvenire è ancora sui migranti: Sono vite in gioco. Così come Il Fatto: Russi e sbarchi: governo smentito pure dai Servizi. Il Corriere della Sera sottolinea la grande preoccupazione internazionale dopo l’incidente aereo fra jet russo e drone americano: Usa-Russia, alta tensione. La Repubblica va sulla bocciatura della maggioranza alla norma europea: Famiglie gay, no della destra. La Stampa, sempre su questo tema, ha un titolo slogan: L’Italia discrimina i figli delle coppie gay. Il Manifesto denuncia: Figli di nessuno. Altro argomento presente nelle prime pagine è quello del voto a Strasburgo sulle classi energetiche degli edifici. Il Sole 24 Ore spiega: Case green, ok del Parlamento Ue. Il Giornale polemizza: Casa verde, tasse rosse. Il Quotidiano nazionale avverte: Primo sì Ue: casa green entro il 2033. Libero commenta: Pd e M5S ci rifilano la tassa sulla casa. Il Messaggero si occupa di finanza dopo il crac californiano: Tassi, la Ue divisa sui rialzi. Il Domani si difende: Gli europarlamentari denunciano gli attacchi del governo a Domani.

INCIDENTE NEI CIELI: JET RUSSO COLPISCE DRONE USA

Un jet russo colpisce un drone americano nei cieli del Mar Nero. L’aereo robot Usa precipita. Il Pentagono: azione pericolosa, ma continueremo con i voli. Mosca nega la collisione: stava sconfinando. Andrea Marinelli, Guido Olimpio e Lorenzo Cremonesi per il Corriere.

«Un jet russo si è scontrato nel cielo del Mar Nero con un drone da ricognizione americano poco dopo le 7 del mattino di ieri, costringendo i piloti che lo manovravano a farlo precipitare in acque internazionali. Secondo un funzionario statunitense citato dalla Cnn , il drone Reaper MQ-9 e i due Su-27 Flanker stavano operando sul Mar Nero quando uno dei jet russi è volato intenzionalmente davanti al velivolo senza pilota e ha scaricato carburante. Un jet ha poi danneggiato l’elica sul retro del Reaper, costringendo gli Usa ad abbattere il drone, che non è stato recuperato. In serata è arrivata anche la ricostruzione russa. Il drone sarebbe stato localizzato «vicino alla penisola di Crimea, in direzione del confine della Federazione Russa», ha dichiarato il ministero della Difesa di Mosca. «Il velivolo volava con i transponder spenti. A quel punto i caccia dell’aeronautica hanno provato a identificare l’intruso, ma non hanno usato armi e non sono entrati in contatto con il drone americano, che ha perso controllo e quota ed è finito in acqua al termine di una brusca manovra». Dopo l’incidente il comandante militare della Nato, il generale Christopher Cavoli, ha subito informato i trenta Stati che fanno parte dell’Alleanza Atlantica. «Questo incidente segue uno schema di azioni pericolose da parte di piloti russi che interagiscono con velivoli statunitensi e alleati nello spazio aereo internazionale», ha scritto in una nota lo Us Eucom, il comando Usa per l’Europa. «Queste azioni aggressive da parte dell’equipaggio russo sono pericolose e potrebbero portare a calcoli errati e a un’escalation involontaria». Incidenti simili sono frequenti, ha notato la ricercatrice della Rand Corporation Dara Massicot, che ha analizzato decine di casi e ritiene che lo scontro fra il jet russo e il drone americano faccia parte dei «segnali coercitivi» che Mosca invia agli alleati, e che ne replichi le modalità. Quello di ieri è però il primo confronto diretto fra Stati Uniti e Russia dall’inizio del conflitto, anche se nei cieli del Mar Nero i velivoli alleati — che monitorano il conflitto — e quelli russi hanno costanti interazioni. Ci sono stati altri intercettamenti, ha precisato il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale John Kirby, ma questo è degno di nota perché è stato «pericoloso e non professionale. Per questo è stato unico. Non sappiamo quale fosse l’intenzione dei russi», ha aggiunto, «ma se il messaggio era quello di esercitare deterrenza contro i nostri sorvoli nello spazio aereo internazionale sul Mar Nero, o la nostra navigazione in acque internazionali sul Mar Nero, è destinato a fallire». Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è stato immediatamente informato dell’incidente, ha affermato Kirby, mentre l’ambasciatore russo a Washington Anatoly Antonov è stato convocato ieri pomeriggio e la rappresentante americana a Mosca Lynne Tracy ha presentato una formale protesta al ministero degli Esteri russo. Intanto ieri Vladimir Putin, sottolineando il cambiamento di priorità, ha spiegato che quella in Ucraina si è trasformata da operazione minore per «liberare il Paese dai nazisti» a conflitto vitale per «garantire la stessa esistenza dello Stato Russo». «Nel Donbass lottiamo per la nostra sopravvivenza. Questo non un è conflitto geopolitico, ma una missione per garantire il futuro della Russia che permetta lo sviluppo del Paese e dei nostri figli», ha esclamato. A conferma del prevalere della logica della forza militare sono i duri scontri nel Donbass attorno alla cittadina contesa di Bakhmut (dove la lotta è adesso incentrata tra i capannoni della ditta metallurgica Azom con immagini che ricordano la sfida per la Azovstal di Mariupol la primavera scorsa) e nei settori adiacenti come Kreminna, Avdiivka e Lyman. I comandi ucraini insistono sull’importanza «vitale» di Bakhmut, ma c’è il sospetto che serva da puro diversivo per attirare il grosso delle forze russe, mentre Kiev pianifica la sua prossima controffensiva nel sud. I proiettili russi hanno anche colpito ieri mattina la città di Kramatorsk, causando un morto e tre feriti tra i civili».

LA CASA BIANCA TEME LO SPIONAGGIO

La Casa Bianca punta a evitare l’escalation militare ma teme che il velivolo abbattuto venga recuperato e  finisca in mano nemica. Viviana Mazza per il Corriere.

«L’incidente di ieri sul Mar Nero sottolinea come, ad oltre un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, aumentino i rischi di uno scontro diretto tra Mosca e Washington. I droni americani sorvolano con regolarità le acque internazionali del Mar Nero. I russi hanno ripetutamente criticato i voli di intelligence statunitensi vicino alla Crimea, annessa illegalmente nel 2014. I due Paesi si «intercettano» l’un l’altro ma questa è la prima volta che avviene una collisione, secondo la ricostruzione del Pentagono. Pur usando i canali diplomatici per veicolare una chiara condanna per la «violazione della legge internazionale», la Casa Bianca e il Pentagono sono stati cauti nell’evitare di attribuire intenzionalità all’incidente. La dinamica la indica comunque chiaramente, almeno da parte dei piloti: il Pentagono parla di manovre «pericolose e non professionali» dei due caccia che si sono piazzati di fronte al drone, che hanno rilasciato carburante «deleterio per l’ambiente», fino all’urto. Un comportamento «immaturo», lo ha definito un funzionario Usa sotto anonimato. Il generale Pat Ryder, portavoce del Pentagono, replica che il drone ha filmato tutto e, se sarà autorizzata la divulgazione, le immagini dimostreranno la versione americana. La Cnn parla di un «atto ostile» e di timori di ripercussioni sull’accordo per l’esportazione del grano ucraino. Ma il tono della Casa Bianca ha indicato subito sia condanna che calma. Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby ha spiegato che è comune che avvengano «intercettazioni» tra mezzi Usa e russi, anche se questa è diversa. Ha sottolineato che «se l’obiettivo è di dissuaderci dal volare e operare in uno spazio internazionale e sul Mar Nero, ciò non avverrà. Il Mar Nero non appartiene ad una sola nazione». Secondo il generale Mark Hertling, i droni Usa da ora in poi non voleranno più da soli: «Vedremo un intensificarsi di aerei Usa e Nato nel giro delle prossime ore e giorni. La Russia considera il Mar Nero un proprio lago nazionale, provoca, vola vicino, ma interferire così viola la legge internazionale». Il presidente Biden, informato ieri mattina, ha due obiettivi sin dall’inizio della guerra in Ucraina: il primo è aiutare Kiev a difendersi; il secondo è evitare l’esclalation e la Terza guerra mondiale, commenta il giornalista del New York Times David Sanger, che traccia un paragone con una collisione di 22 anni fa sull’isola di Hainan, tra un aereo di sorveglianza americano e un velivolo cinese. Il pilota di quest’ultimo morì, mentre il personale americano fu preso prigioniero (in seguito liberato). «La collisione sul Mar Nero non arriva a quel livello perché il mezzo statunitense in questo caso è senza pilota»: ciò può permettere la de-escalation. Ma il caso indica che i russi sono disposti a respingere con più forza il coinvolgimento americano nella guerra. «La domanda — aggiunge Sanger — è: come andrà a finire?» È questa la preoccupazione degli Stati Uniti, mentre Putin definisce la guerra in Ucraina necessaria alla «sopravvivenza» della Russia. Un altro fattore di timore è il recupero stesso del drone finito nel Mar Nero: se cadesse in mano russa avrebbe un valore notevole di intelligence, potrebbe fornire informazioni significative sui meccanismi di sorveglianza Usa. Il Reaper raccoglie segnali, immagini: studiarne il funzionamento potrebbe aiutare il nemico a ostacolarne le operazioni. «Sicuramente i russi stanno cercando di recuperarlo», nota l’ex colonnello dell’intelligence dell’Air Force americana Cedric Leighton. «È ciò che abbiamo fatto noi con il pallone-spia cinese».

LA CINA: “USA SU UN TERRENO SBAGLIATO E PERICOLOSO”

Pechino risponde duramente all’accordo Aukus siglato lunedì a San Diego, per la difesa del Pacifico. Sabrina Provenzani per Il Fatto.

«Vi siete avviati “su un terreno sbagliato e pericoloso”. Pechino risponde così all’annuncio da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Australia, dell’accordo Aukus siglato lunedì a San Diego, per la fornitura all’Australia di sottomarini a propulsione nucleare, con funzioni di contenimento della potenza navale cinese nella regione indo-pacifica. I nuovi sottomarini, che costeranno all’Australia fino a 368 miliardi di dollari e dovrebbero entrare in servizio attivo a partire dal 2040, sono progettati nel Regno Unito ma beneficeranno di avanzatissime tecnologie Usa: alcuni componenti, armi, un sistema verticale di lancio e soprattutto, la propulsione nucleare. Che offre un enorme vantaggio strategico perché consente ai sottomarini di operare ad alta velocità a qualsiasi profondità e per lunghi periodi di tempo, senza la necessità di riemersione. Un vantaggio che Pechino interpreta come una minaccia diretta, come ha chiarito il ministro degli Esteri, Wang Wenbin: “L’ultimo annuncio congiunto di Usa, Regno Unito e Australia dimostra come le tre nazioni, per i propri esclusivi interessi geopolitici, ignorino completamente le preoccupazioni della comunità internazionale e siano sempre più avviati su un terreno sbagliato e pericoloso”. Poco prima, la delegazione cinese alle Nazioni Unite aveva condannato l’accordo accusando i tre alleati di “fomentare una corsa agli armamenti” e definendolo “un caso scuola di doppio standard”. Il riferimento è alle critiche occidentali al potenziamento militare da parte della Cina. Il presidente Joe Biden ha rigettato ogni accusa, ricordando che la propulsione nucleare è una tecnologia energetica che non prevede lo stoccaggio o l’utilizzo di armi nucleari. Gli ha fatto eco la ministra degli Esteri australiana, Penny Wong, che ha liquidato i sospetti cinesi come “basati sul nulla”. È vero? O si tratta della prova generale di un rinnovato attivismo Nato nel Sud-Est asiatico, pronta a un eventuale scontro con Pechino, magari sul caldissimo dossier di Taiwan, l’isola indipendente che la Cina rivendica come propria? Di sicuro, l’asse geopolitico mondiale si è ormai spostato in Oriente, dove anche Giappone e Corea del Sud stanno attivando politiche di contenimento militare e politico del colosso cinese. Biden ha accennato a un imminente incontro col presidente Xi Jinping, che ha appena confermato il suo totale controllo del partito ottenendo dall’assemblea popolare un terzo mandato, evento senza precedenti. Fra le sue prime dichiarazioni dopo la riconferma, la volontà di modernizzare gli apparati militari creando “una grande muraglia di acciaio”. E intanto rafforza anche il ruolo geopolitico del suo Paese, in questo caso da possibile negoziatore della pace in Ucraina: secondo Reuters e Wall Street Journal, la prossima settimana Jinping vedrà Vladimir Putin a Mosca e subito dopo chiamerà il presidente ucraino Zelensky».

I DUBBI DE DESANTIS SULLA GUERRA

Il governatore della Florida Ron Desantis, che sfida Trump alle primarie, getta un'ombra sul futuro degli aiuti a Kiev: “Disputa territoriale”. I tanti dubbi dei repubblicani sulla guerra lunga. Alberto Simoni per La Stampa.

«Quella fra Russia e Ucraina «è una disputa territoriale» e per gli Stati Uniti non è «interesse nazionale restare invischiati» in questa contesa. E nemmeno può essere una priorità americana la «protezione dell'Europa». Ron DeSantis, governatore repubblicano della Florida che sta girando l'America in vista sempre più probabile corsa alla Casa Bianca getta un'ombra sul sostegno futuro di Washington alle mosse di Kiev. A innescare il dibattito è stato Tucker Carlson, star seguitissima della Fox, che la scorsa settimana ha chiesto ai candidati, reali e potenziali, di rispondere a un questionario sul conflitto in Ucraina e su cosa dovrebbero fare gli Usa. Trump ha detto che «è arrivato il momento per le parte in guerra di negoziare», Mike Pence e Nikki Haley hanno invece sostenuto la necessità di difendere «la sovranità di un Paese invaso». L'uscita di DeSantis può avere un impatto importante nei prossimi mesi poiché arriva in un contesto precario anche per l'Amministrazione Biden che, a fronte delle dichiarazioni di un sostegno «fino a quando è necessario» della causa ucraina, nutre dei dubbi sulla possibilità di arrivare a una «vittoria». E l'annunciata telefonata con Xi Jinping rientra in un tentativo di riallacciare le relazioni dopo la tempesta, ma anche di provare a dare una svolta al percorso diplomatico per l'Ucraina. Molti repubblicani ritengono non chiaro l'obiettivo finale e non vedono una roadmap per finire il conflitto. É una minoranza assai rumorosa e che rischia di aumentare se non ci sarà una reale svolta sul terreno. Soprattutto molti come Marjorie Taylor Green, sulla scia delle dichiarazioni di DeSantis che ha detto che per l'America è più importante contrastare i narcotrafficanti che inondano di Fentanyl gli States, ritengono che gli Usa dovrebbero concentrarsi sui problemi interni. Steve Scalise, numero uno del Gop alla House, in un recente intervento al think tank conservatore AFPI, ha elencato tre priorità del Congresso: riduzione delle spese federali; immigrazione e inchiesta sul Covid. In 20 minuti mai ha pronunciato la parola Ucraina. L'uscita di DeSantis, ritenuta l'unica alternativa a Trump per la nomination del Gop, indica che il tempo non gioca a favore delle scelte di Biden. Anzitutto, il Congresso dovrà finanziare un nuovo pacchetto di aiuti dopo i quasi 80 del 2022. Non sono infatti contenuti nel maxi bilancio del 2023-2024 del Pentagono (842 miliardi di dollari, più 3,2% rispetto a quest'anno) poiché la Difesa intende inoltrare una «richiesta separata». Se DeSantis farà abbastanza proseliti a Capitol Hill, il cammino diventerebbe in salita. L'altro elemento che sta complicando i piani americani sono i tempi della controffensiva ucraina. Alcuni esponenti dell'Amministrazione Biden - conferma a La Stampa una fonte interna - rimproverano la strenua difesa di Bakhmut e uno spreco di risorse e di vite umane per un obiettivo ritenuto a Washington "simbolico", ma non strategico. La controffensiva inoltre, spiegano ambienti della Difesa Usa, partirà quando Kiev avrà a disposizione più armi e munizioni. Non è un caso che le due ultime tranche di aiuti che Biden ha autorizzato per Kiev siano in gran parte costituite da mortai, pezzi di artiglieria e "granate" per gli MK19. Servono a sostenere le forze nelle prime linee. Ieri il Washington Post documentava un deterioramento delle capacità di combattimento degli uomini di Kiev: fra feriti e morti le perdite sono state di 120 mila persone e la qualità dei militari è peggiorata. Fra l'altro scarseggiano le munizioni. Fonti del Consiglio per la Sicurezza nazionale hanno confermato che la «supply chain di armi e munizioni è uno dei nodi critici». I tempi per la consegna dei proiettili si sono ridotti a due giorni ma ne vengono sparati ben più di quanti ne giungono al fronte. Il Pentagono non ha voluto precisare se gli arsenali Usa siano "affaticati" da queste consegne ravvicinate ma lunedì illustrando il budget, Mike McCord, il "comptroller" ha detto che gli stanziamenti per la produzione di munizioni sono aumentati del 12%».

L’ACCORDO SUL GRANO SCADE FRA TRE GIORNI

Previsto un calo nella produzione di grano mentre si «proroga di 2 mesi l'accordo». In Ucraina le mine bloccano la semina. Nei campi la situazione è drammatica: migliaia di uomini sono al fronte e i contadini diventano artificieri. Nello Scavo per Avvenire.

«Con i campi imbottiti di mine e rimasti a corto di quattrini, molti agricoltori ucraini semineranno nella prossima primavera una superficie minore di terreno coltivabile. È uno degli effetti del conflitto. Un altro durissimo colpo all’economia del Paese e alle forniture alimentari globali, mentre Mosca pone nuove condizioni per la proroga del corridoio navale del grano che scade fra tre giorni. La produzione e le esportazioni sono crollate l’anno scorso a causa della guerra, facendo salire bruscamente i prezzi delle principali materie prime. Non bastassero le conseguenze dirette del conflitto, come i bombardamenti, il lancio di bombe a grappolo che trasforma le pianure coltivate in trappole esplosive, bisogna tenere in conto un altro degli effetti più duri. Migliaia di uomini hanno lasciato le campagne per unirsi alle forze di difesa territoriale. Altri vengono convocati nei distretti militari proprio in queste settimane. A giorni ci si attende una nuova controffensiva che ha necessità di togliere braccia ai campi per consegnarle alle trincee. L’Ucraina può effettuare spedizioni da soli tre porti sul Mar Nero, che funzionano a metà della loro capacità. L’accordo per il corridoio marittimo negoziato attraverso la Turchia e sotto la sorveglianza dell’Onu scadrà il 18 marzo e Mosca intende rinnovarlo a due condizioni: la cessazione dell’embargo sull’export russo degli stessi prodotti agricoli e la proroga del corridoio solo per altri due mesi, anziché i previsti 120 giorni. “Le Nazioni Unite faranno tutto il possibile per preservare l’integrità dell’accordo e garantirne la continuità”, ha dichiarato Jens Laerke, portavoce dell’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite Ocha. La tagliola dei due mesi imposta da Mosca, infatti, non consente neanche la programmazione del carico dei bastimenti che affrontano settimane di navigazione. Approvvigionarsi di fertilizzanti e sementi è diventata una missione costosa, con i prezzi sempre in crescita e la capacità di esportazione sempre limitata a causa dell’occupazione russa di alcune aree. La logistica interna ha un tariffario esorbitante. I trasportatori hanno visto aumentare il costo del carburante, i pezzi di ricambio dei mezzi arrivano con il contagocce e il rischio di finire sotto al fuoco incrociato non è solo una ipotesi. Mettere mani all’aratro è diventato un mestiere per impavidi. La divisa da coltivatore è oramai più simile a quella di un artificiere che a quella di un trattorista. Elmetto balistico con visiera antischegge; giubbetto antiproiettile con piastre d’acciaio su tutto il torace. Non passa settimana che qualche bracciante non ci rimetta qualche arto, e non di rado la vita. Alcuni funzionari ucraini stimano che anche le aree dove le ostilità si protraggono da più tempo fino a un terzo dei terreni coltivati siano minati. Solo a febbraio due contadini sono rimasti uccisi da una mina mentre coltivavano un campo vicino al villaggio di Dobrianka, a poca distanza dalla città di Kherson. Il loro trattore è stato completamente devastato e la quantità di detriti sparsi nell’orto non ha permesso di identificare il tipo di esplosivo. Nella stessa zona un altro civile è rimasto ferito in circostanze analoghe vicino al porto fluviale di Kherson. «Quasi tutte le colture sono in perdita», va ripetendo Dmitry Skornyakov, amministratore delegato di HarvEast, uno dei più importanti produttori agricoli. Le aziende che coltivano la maggior parte dei campi ucraini sono a corto di grivne. Ne servirebbero 40 miliardi (quasi un miliardo di euro) per svolgere i lavori primaverili, specie per la raccolta stagionale di mais, semi oleosi e ortaggi. Denys Marchuk, vicepresidente del Consiglio Agrario Ucraino, la più grande organizzazione di agricoltori, si aspetta che la semina di granturco «crolli del 20% rispetto allo scorso anno, che a sua volta aveva registrato una perdita del 27%». A guadagnare dal calo di produzione ucraina non sarà solo la Russia. Tenteranno di sopperire gli agricoltori degli Stati Uniti, che hanno in programma di incrementare le piantagioni di mais. Gli analisti di Kiev prevedono un aumento dei prezzi al consumo per effetto del minore raccolto. E nessuno crede che quella della crisi agricola non sia un’altra delle armi non convenzionali usate in questa guerra».

CRAC SVB, INCHIESTA SUI TITOLI VENDUTI PRIMA DAI MANAGER

Inchiesta sui titoli SVB venduti prima del crac. Nel mirino i capi della Silicon Valley Bank e le loro cessioni pre-crisi. Gli americani temono un altro salva-fallimento a costi pubblici. Luca Celada per il Manifesto.

«Dopo il panico la finanza americana ieri sembra per il momento aver ripreso fiato – o almeno tirato un temporaneo sospiro di sollievo. A metà giornata ieri i mercati registravano un recupero dopo le ingenti perdite degli ultimi giorni alla luce dei fallimenti di Silicon Valley Bank e Signature Bank, entrambe ora sotto il controllo dei commissari federali. A Wall street hanno ripreso quota in particolare i titoli delle banche regionali di media statura considerate a maggior rischio di potenziale contagio della crisi. Segnali positivi dunque per i regolatori il cui intervento tempestivo avrebbe, nella migliore delle ipotesi, riequilibrato un settore finanziario parso di colpo in bilico su un altro baratro. Allo stesso tempo rimangono ampie zone d’ombra attorno al fallimento lampo delle banche. In particolare, come abbia potuto passare inosservata dalle authority di competenza la strategia di investimenti della Svb, fortemente sbilanciata su obbligazioni a lunga maturazione che hanno perso precipitosamente valore con il rapido aumento dei tassi come strumento anti-inflazionario. Fra gli effetti collaterali della crisi spiccano ora dunque quelli che gettano dubbi sull’ulteriore stretta creditizia che la Federal Reserve si preparava ad annunciare la prossima settimana, visti gli “effetti collaterali” si prevede ora una possibile retromarcia, senza chiare alternative tuttavia per contenere l’aumento globale dei prezzi. Il piano messo in atto per calmare le acque ed evitare un effetto domino simile al crack del 2008 prevede innanzitutto la garanzia dei depositi anche oltre il limite base di 250mila dollari per risparmiatore, in secondo luogo verrebbero liquidati i creditori della banca, in seguito gli investitori in obbligazioni e in ultima istanza gli azionisti. Il progetto ha già dato luogo a polemiche attorno a quello che molti criticano come un ennesimo bailout di banche “too big to fail”, simile al salvataggio che nel 2008 costò oltre 300 miliardi dollari in fondi pubblici. Nel suo annuncio di lunedì, Biden ha tenuto ripetutamente a sottolineare che non si tratta di un intervento pubblico e che tutti i soldi necessari proveranno dal Bank Insurance Fund, il fondo d’emergenza finanziato dagli stessi istituti. Amministrato dal Fdic (Federal deposit insurance corporation), il fondo dispone di circa 125 miliardi di dollari e per legge dovrà essere ricostituito da nuovi contributi delle banche. Un articolo della newsletter The Lever ha rivelato ieri come la lobby delle banche – compresa Svb – abbia sempre definito il fondo una “inutile imposizione.” Quasi certamente le stesse banche si rivarranno ora sui clienti con aumenti di tariffe e diminuzione degli interessi, facendo in definitiva ricadere i costi della crisi sui cittadini, in qualità di clienti, se non di contribuenti. Si profila insomma una nuova puntata di giochi pericolosi del capitale con un conto finale socializzato alla collettività, quella che Paul Krugman ha definito la “regolare programmazione da crisi” e Bernie Sanders ha denunciato come altro esempio di “socialismo per i benestanti e rude individualismo per la gente comune.” Sanders, Krugman ed altri analisti hanno sottolineato come il crack Svb sia stata conseguenza diretta della deregulation firmata da Donald Trump nel 2018, che ha esentato la banche dai requisiti di stabilità applicati dalla legge Dodd-Frank dopo la grande crisi del 2008. Perfino un investitore come Vivek Ramaswamy, conservatore specializzato in imprese tech, ha denunciato la malafede di tanti iper-liberisti che, alle prime avvisaglie della crisi, avrebbero alimentato online un panico virale col proposito di provocare l’intervento che ha salvato i loro depositi. Sempre ieri sono trapelate voci sull’apertura di un’indagine ufficiale del dipartimento di giustizia per accertare eventuali responsabilità degli amministratori Svb e chiarire le circostanze della liquidazione di titoli da parte di alcuni dirigenti nei giorni precedenti alla crisi. Anche se fosse effettivamente stata contenuta, la crisi ha rivelato ancora una volta, insomma, la fragilità di un sistema bancario che, come la religione, dipende dalla fede. In particolare dalla pubblica percezione che i soldi depositati in banca siano fisicamente al sicuro e sempre disponibili all’eventuale ritiro, mentre in realtà formano il capitale investito nei modi più disparati e a volte spericolati. Il gioco funziona solo fin quando le richieste dei clienti restano minima proporzione di quel capitale. Se la fiducia del pubblico si incrina oltre una certa soglia il castello di carta si sgretola, e il caso Svb ha dimostrato con quale fulminea rapidità possa contagiarsi una fatale crisi di fede con l’odierna amplificazione in rete. Nella valley le operazioni quotidiane hanno per ora potuto riprendere ma sono ancora tutte da verificare le conseguenze a lungo termine del “grande freddo” sui venture capitalist da cui dipendono gli investimenti nel casinò dell’ high-tech».

STIGLITZ: MA IL BIG TECH NON È FINITO

Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, in un articolo tradotto in Italia per La Stampa, critica l’inadeguatezza delle regolamentazioni nel campo della finanza.

«La corsa agli sportelli della Silicon Valley Bank, dalla quale dipende quasi la metà di tutte le start up hi-tech sostenute da finanziatori, in parte è la replica di una storia già sentita, ma è anche molto di più. Ancora una volta, le politiche economiche e le regolamentazioni finanziarie si sono rivelate inadeguate. La notizia del fallimento della seconda banca più grande nella storia degli Stati Uniti ha iniziato a circolare pochi giorni dopo che il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, aveva rassicurato il Congresso dicendo che le banche americane erano in solide condizioni finanziarie. La tempistica, tuttavia, non dovrebbe sorprendere. Tenuto conto dei cospicui e veloci aumenti dei tassi di interesse messi a punto da Powell – con ogni probabilità i più significativi dai tempi degli aumenti del tasso di interesse di 40 anni fa a opera dell'ex presidente della Fed Paul Volcker –, era previsto che grandi movimenti nei prezzi degli asset finanziari avrebbero finito con l'infliggere qualche colpo a qualche parte del sistema finanziario. Ancora una volta, però, Powell ci aveva assicurato che non dovevamo preoccuparci – malgrado l'esperienza storica indichi che avremmo dovuto. Powell ha fatto parte del team di regolamentazione di Donald Trump che ha lavorato per attenuare le norme bancarie Dodd-Frank inaugurate dopo il tracollo finanziario del 2008, per affrancare le banche "più piccole" dagli standard applicati alle banche più grandi e sistemicamente importanti. Secondo gli standard di Citibank, Svb è una banca piccola. Non così piccola, in ogni caso, nelle vite dei milioni di persone che ne dipendono. Powell ha detto che, aumentando assiduamente i tassi di interesse, la Fed avrebbe provocato sofferenza, non a lui o a molti dei suoi amici del capitale privato che, a quanto si dice, stavano pianificando di guadagnare una fortuna sperando di intervenire per comprare i depositi non garantiti in Svb a 50-60 centesimi per dollaro, prima che il governo dichiarasse esplicitamente che i correntisti saranno tutelati. La sofferenza più grande sarebbe stata riservata a chi appartiene a gruppi emarginati e indifesi, come i giovani maschi non bianchi. Il loro tasso di disoccupazione in genere è quattro volte più grande rispetto alla media nazionale, quindi un aumento della disoccupazione dal 3,6 al 5 per cento per loro si traduce in un aumento effettivo dal 15 al 20 per cento. Powell ha parlato alla leggera di aumenti della disoccupazione di questo tipo, senza alludere nemmeno a un aiuto o fare un vago accenno ai costi a lungo termine. Adesso, in conseguenza dell'insensibile – e completamente ingiustificata – difesa delle sofferenze, ci ritroviamo con un nuovo gruppo di vittime, e il settore più dinamico d'America e della regione sarà messo in pausa. Gli imprenditori delle start up della Silicon Valley, per lo più giovani, pensavano che il governo stesse facendo il suo lavoro, e quindi si sono concentrati sull'innovazione, non sul controllo quotidiano dei bilanci delle loro banche. (A dirla tutta, mia figlia è Ceo di una start up che opera nel campo dell'istruzione, ed è una di quei dinamici imprenditori). Se da un lato non hanno cambiato i fondamenti delle banche, dall'altro le nuove tecnologie hanno aumentato il rischio di assalti agli sportelli. Oggi è molto più facile rispetto al passato ritirare denaro, e i social media mettono il turbo a voci che possono innescare vere e proprie ondate di prelievi in simultanea. A quanto si dice, il tracollo di Svb non è dovuto a quel tipo di cattive prassi di erogazione dei prestiti che portarono alla crisi del 2008 e che rappresentano un fallimento importante del modo di lavorare delle banche nel loro ruolo importantissimo di allocazione del credito. Al contrario, le cause potrebbero essere molto più banali: tutte le banche si impegnano nella "trasformazione delle scadenze", rendendo disponibili per investimenti a lungo termine i depositi a breve termine. Svb aveva comprato obbligazioni a lungo termine, esponendo l'istituto bancario a rischi quando le curve dei rendimenti sono cambiate drasticamente. Le nuove tecnologie, perdipiù, rendono assurdo il vecchio limite dei 250 mila dollari delle garanzie federali dei depositi: alcune aziende praticano l'arbitraggio normativo sparpagliando i soldi in un gran numero di banche. È follia ricompensarle a discapito di coloro che si sono fidati degli enti di regolamentazione, sicuri che facessero il loro dovere. Il fatto che venga colpito chi lavora sodo e introduce nuovi prodotti ricercati dalla gente perché il sistema bancario li delude che cosa ci dice di un Paese? Un sistema bancario solido e sicuro è una premessa sine qua non di un'economia moderna, eppure quella americana non ispira fiducia. Barry Ritholtz ha twittato: «Come in Fox Holes non ci sono atei, così durante una crisi finanziaria non ci sono libertari». All'improvviso, uno stuolo di attivisti contro le regole e le regolamentazioni del governo è diventato paladino del bailout governativo di Svb, proprio come i finanziatori e i policymaker che avevano messo a punto l'enorme deregolamentazione che poi portò alla crisi del 2008 richiesero un salvataggio in extremis di coloro che l'avevano provocata. La risposta è stata la stessa di 15 anni fa. Gli azionisti e gli obbligazionisti, che hanno tratto benefici dal comportamento azzardato dell'azienda, dovrebbero accollarsene le conseguenze. I correntisti di Svb – aziende e nuclei famigliari fiduciosi che gli enti di regolamentazione facessero il loro dovere, come hanno ripetutamente rassicurato l'opinione pubblica che stavano facendo – dovrebbero però essere saldati integralmente, sia che si trovino sotto la soglia "garantita" dei 250 mila dollari sia che si trovino sopra. Fare diversamente infliggerebbe un danno a lungo termine a uno dei settori economici più vivaci; a prescindere da quello che si pensa di Big Tech, l'innovazione deve proseguire, anche in aree come l'istruzione e Green Tech. In generale, non fare niente manderebbe un messaggio pericoloso all'opinione pubblica: l'unico modo per essere certi che il vostro denaro è al sicuro è affidarlo a banche sistemicamente importanti e "troppo grandi per fallire". Questo porterebbe a una concentrazione ancora maggiore del mercato – e a minore innovazione – nel sistema finanziario statunitense. Dopo un fine settimana angosciante per coloro che potevano essere colpiti in tutto il Paese, il governo infine ha fatto la cosa giusta: ha garantito che tutti i correntisti saranno saldati integralmente, evitando così una corsa agli sportelli che avrebbe potuto compromettere l'economia. Al tempo stesso, gli eventi hanno chiarito che nel sistema c'era qualcosa di sbagliato. Svb rappresenta qualcosa di più del fallimento di un'unica banca. È emblematica dei gravi fallimenti nella condotta della politica monetaria e di regolamentazione. Proprio come la crisi del 2008, era prevedibile e prevista».

PRIMO ACCORDO UE SUL PATTO DI STABILITÀ

Primo sì dell’Ecofin alla riforma del Patto di Stabilità. È stata piegata la resistenza della Germania. Si adotta una linea morbida sui conti pubblici già dal 2024. Marco Bresolin per La Stampa.

«Nonostante le tensioni dell'ultimo minuto per le obiezioni sollevate dal ministro tedesco Christian Lindner, l'Ecofin ha trovato un'intesa sulla riforma del Patto di Stabilità. L'accordo consentirà alla Commissione di tradurre in testi giuridici i princìpi-chiave concordati ieri dai 27 ministri delle Finanze, dopodiché inizierà il negoziato vero e proprio sui dettagli tecnici e sugli aspetti più controversi. Ma ieri l'Ecofin ha fatto un passo ulteriore perché ha fissato un obiettivo chiaro: nel testo delle conclusioni è stato aggiunto che i ministri intendono «concludere i lavori legislativi nel 2023». Questo consentirebbe di avere il nuovo quadro normativo già pronto nel 2024, evitando così di dover tornare alle vecchie regole quando scadrà la clausola di salvaguardia che sospende il Patto. Il governo tedesco – o meglio, il ministro delle Finanze – si è battuto nella due giorni di Eurogruppo ed Ecofin perché contrario alle linee-guida della Commissione che serviranno ai governi per preparare i bilanci del 2024. L'esecutivo Ue ha già annunciato che, nonostante il ritorno delle vecchie regole, l'anno prossimo non ripristinerà il Patto in modo in modo rigido, ma applicherà i vincoli tenendo conto dello spirito della riforma che ora è sul tavolo. Dopo aver minacciato di far saltare l'accordo, il ministro liberale ha chiesto e ottenuto di rimettere mano al testo delle conclusioni che era stato concordato dagli sherpa dei 27. Per questo è stato aggiunto un paragrafo in cui si dice che la Commissione, prima di pubblicare la sua proposta legislativa, dovrà «continuare a dialogare con gli Stati membri nei settori individuati per ulteriori discussioni». Ma, in risposta, i Paesi che più hanno bisogno della riforma hanno fatto mettere nero su bianco l'obiettivo di chiudere la riforma entro il 2023. «Non daremo carta bianca alla Commissione» ha insistito Lindner, il cui atteggiamento ha un po' spazientito i suoi colleghi, visto che lo sherpa del governo tedesco aveva già dato il via libera al testo delle conclusioni. È la seconda volta nel giro di due settimane che Berlino cambia posizione all'ultimo minuto su un dossier Ue: era già successo con il regolamento sulle emissioni delle auto e anche questa volta si tratta di un esponente del partito liberale, alle prese con un calo dei consensi. Ma per Paolo Gentiloni l'accordo rappresenta «un passo fondamentale». Il commissario all'Economia ha riconosciuto che «la Germania e gli altri Stati membri chiedono alla Commissione di impegnarsi nel lavoro per chiarire ulteriori aspetti di queste proposte», ma ha anche aggiunto: «Ne eravamo perfettamente consapevoli e lo faremo nelle prossime settimane». Per questo la tabella di marcia della Commissione non cambia: la sua proposta legislativa sarà pubblicata subito dopo il Consiglio europeo di fine mese. Soddisfatto anche Giancarlo Giorgetti: «Il testo finale – ha detto il ministro – prevede, come avevamo auspicato, che la nuova riforma sia approvata entro l'anno per poter affrontare la transizione del 2024 in maniera realistica e con obiettivi raggiungibili». I ministri sono d'accordo con lo spirito della riforma prevista dalla Commissione, che prevede percorsi di riduzione del debito specifici per ogni Paese e spalmati su più anni, con la possibilità di ottenere più flessibilità (e dunque più tempo) in cambio di riforme e investimenti. Restano, sulla carta, i parametri del 3% (deficit) e 60% (debito), anche se cambia il modo per arrivarci. Tra i punti più controversi, che andranno negoziati, i criteri per valutare la sostenibilità del debito e la «traiettoria di bilancio» che la Commissione dovrà definire per «guidare» i governi nella presentazione dei piani di rientro».

CASE GREEN. SÌ DI STRASBURGO, ITALIA CONTRARIA

Case green, primo sì di Strasburgo: la classe D sarà obbligatoria per gli edifici entro il 2033. Dopo il voto del Parlamento Ue, parte il negoziato. In Italia le critiche della maggioranza. Francesca Basso per il Corriere della Sera.

«Il Parlamento europeo, riunito in plenaria a Strasburgo, ha approvato in prima lettura la riforma della direttiva Ue sulle prestazioni energetiche degli edifici con 343 voti a favore, 216 contro e 78 astensioni: ora partirà il negoziato con il Consiglio che porterà al testo finale. Su diversi punti le posizioni delle due istituzioni sono diverse. Sarà un percorso delicato e non privo di difficoltà, ormai la campagna elettorale per le elezioni europee del 2024 è iniziata e la transizione verde sta diventando un terreno di scontro in Parlamento ma anche tra gli Stati membri e all’interno degli stessi Paesi, con il rischio di perdere di vista la necessità di non arretrare nella lotta al cambiamento climatico. L’obiettivo della direttiva sulle case green, proposta dalla Commissione Ue, è portare a «un’ondata di ristrutturazioni» per migliorare le prestazioni energetiche degli edifici che, nel complesso, sono responsabili di circa il 40 % del consumo totale di energia dell’Ue e del 36 % delle emissioni di gas a effetto serra associate a questo consumo. Il testo è passato con i voti dei socialisti, dei Verdi, della Left, di parte dei Popolari (in 51 hanno votato a favore e in 58 contro tra cui il capogruppo Manfred Weber) e dei liberali di Renew Europe, che si sono divisi. Per quanto riguarda le delegazioni italiane, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia (astenuta Lucia Vuolo) hanno votato contro mentre Pd, M5S e Verdi a favore. Nicola Danti e Giosi Ferrandino di Italia Viva-Renew Europe si sono astenuti. Sandro Gozi di Renew ha votato sì. Dura la reazione della maggioranza di governo. Per Nicola Procaccini, capodelegazione di FdI-Ecr, «l’efficientamento energetico degli edifici è un obiettivo condivisibile ma non può essere perseguito sulla pelle dei cittadini». Per il leader della Lega Matteo Salvini sarà «una mazzata economica in un momento di grande difficoltà per tanti». Per Forza Italia «non vanno bene i tempi della direttiva». Patrizia Toia del Pd, che ha presentato un emendamento che introduce un monitoraggio da parte della Commissione sull’efficacia delle misure finanziarie esistenti e su strumenti aggiuntivi per facilitare la transizione, ha evidenziato che «sull’efficienza degli edifici è meglio ottenere finanziamenti e deroghe come ha fatto il Pd che sbandierare la propria opposizione per poi subire le normative europee». Secondo il testo approvato dal Parlamento Ue, che non è definitivo, gli edifici residenziali dovrebbero raggiungere almeno la classe di prestazione energetica E entro il 2030 e D entro il 2033 mentre gli edifici non residenziali e pubblici le stesse classi entro il 2027 e il 2030 (la Commissione ha proposto F ed E). Gli edifici nuovi dovranno essere a emissioni zero dal 2028, per quelli pubblici la scadenza è al 2026. Tutti gli edifici nuovi, per i quali sarà tecnicamente ed economicamente possibile, dovranno dotarsi di pannelli solari entro il 2028. Per i residenziali sottoposti a ristrutturazioni importanti la data limite è il 2032. Per tenere conto delle diverse condizioni dei patrimoni edilizi dei Paesi, la lettera G dovrebbe corrispondere al 15% degli edifici con le peggiori prestazioni nel parco nazionale. Saranno gli Stati a stabilire nei piani di ristrutturazione le misure necessarie per raggiungere gli obiettivi. Sono previste eccezioni per i monumenti e i Paesi possono decidere di escludere alcuni edifici storici, chiese e luoghi di culto, scuole».

NO ALLA MATERNITÀ SURROGATA VOLUTA IN EUROPA

In commissione a Palazzo Madama la maggioranza chiede al governo di porre il veto in Consiglio Europeo sul Regolamento che potrebbe portare anche al riconoscimento della maternità surrogata vietata in Italia. Fdi-Lega-Fi compatti, le opposizioni insorgono: Roma entra nella Visegrad dei diritti. La cronaca di Avvenire.

«La commissione Politiche europee del Senato ha bocciato la proposta di regolamento che prevede la creazione di un certificato europeo di filiazione. Con 11 voti favorevoli e 7 contrari è stata approvata la risoluzione presentata da Fdi e sostenuta da tutta dalla maggioranza, che invita il governo a far valere il proprio veto nel Consiglio europeo che dovrebbe, o meglio avrebbe dovuto, dare il via libera. Il nodo è costituito soprattutto dal rischio che ne potrebbe derivare di produrre un sorta di sanatoria, nel nostro Paese, per pratiche vietate dalla legge, come la maternità surrogata, una volta praticate all’estero in Paesi dove essa è consentita. «Alcune disposizioni contenute nella proposta, e in particolare l’obbligo di riconoscimento (e di conseguente trascrizione) di una decisione giudiziaria o di un atto pubblico, emessi da un altro Stato membro, che attestano la filiazione, e l’obbligo di riconoscimento del certificato europeo di filiazione c’è scritto nel documento approvato - non rispettano i principi di sussidiarietà e di proporzionalità». Per la maggioranza, in particolare, la proposta di regolamento metterebbe in discussione le sentenze della Corte di Cassazione sulla maternità surrogata. La Commissione presieduta dall’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata (di Fdi), ha invece bocciato le risoluzioni delle opposizioni presentate da Pd, M5S e Terzo Polo. «No alla maternità surrogata e all'utero in affitto. La risoluzione ribadisce la nostra netta contrarietà a queste pratiche inaccettabili », rivendicano i senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri e Pierantonio Zanettin. Nel corso delle audizioni in Commissione, in realtà, erano emerse valutazioni (ad esempio da parte del Garante per l’Infanzia) tendenti a escludere che tale certificato avrebbe prodotto conseguenze anche in relazione a pratiche vietate in Italia, come - appunto - la maternità surrogata. Ma, sottolineano Gasparri e Zanettin, «su una materia così delicata va adottato il principio di massima cautela. Solo l'ampio divieto di ricorrere alla maternità surrogata è in grado di evitare lo sfruttamento delle condizioni di fragilità delle donne. L'utero in affitto risulta lesivo della dignità della gestante, ma anche dello stesso bambino». «Abbiamo provato in tutti i modi a evitare che fossero toccati i diritti dei minori, ma la maggioranza non ha voluto ascoltare, rinchiusa nel suo approccio ideologico. Creiamo un gravissimo precedente», ribatte Tatjana Rojc, capogruppo del Pd in commissione. «Difficile con questo approccio andare a Bruxelles chiedendo aperture su altro». «Ormai siamo alla destra ungherese » commenta il deputato dem Alessandro Zan. Per la capogruppo Simona Malpezzi, quel regolamento proposto dall’Ue «non andava a intaccare per nulla ordinamenti e leggi italiane ma semplicemente faceva in modo che i figli, con uno status di figli in un determinato Paese della Ue, potessero avere lo stesso status nel Paese europeo dove si spostano con i loro genitori». Bocciato anche un documento del M5s in cui si sosteneva che sarebbe restato intatto «il divieto della gestazione per altri, considerata pratica contraria all’ordine pubblico». Per la capogruppo del M5s Barbara Floridia «la risoluzione della destra ci porta dritti dritti verso una Visegrad dei diritti». Con questa decisione «Giorgia Meloni e i suoi adepti si assumono una responsabilità clamorosa - commentano i senatori pentastellati Dolores Bevilacqua e Pietro Lorefice -, portare un Paese come l’Italia sull’asse di Orban e della Polonia sulla materia di diritti». Ora, «se il governo italiano seguisse l'indicazione della commissione Politiche europee del Senato potrebbe bloccare il regolamento europeo gettando sul nostro Paese una gravissima responsabilità», attacca Yuri Guaiana di +Europa. Si vedrà ora quale sarà la decisione che verrà adottata dal governo in ambito Ue, ma la linea della maggioranza appare ormai chiara e unitaria. Anche il Viminale attraverso una circolare inviata alle prefetture, stoppa le fughe in avanti che si stavano già realizzando. Il Comune di Milano ha interrotto le trascrizioni dei certificati di nascita esteri dei figli nati da coppie omogenitoriali in Italia. La sospensione arriva dopo una circolare del prefetto di Milano che ricalca analoga circolare di gennaio 2023 del Viminale. La prefettura, nel chiedere l'interruzione delle trascrizioni, fa riferimento alla legge 40 del 2004, quella sulla procreazione medicalmente assistita, consentita solo a coppie formate da persone di sesso diverso, mentre viene vietata la maternità surrogata. Di fronte a questa circolare, il sindaco Beppe Sala - che nel giorno del pride, nel luglio 2022, aveva annunciato che il Comune di Milano avrebbe ricominciato a riconoscere i bambini e le bambine nate all'interno di una famiglia omogenitoriale non ha potuto far altro che uniformarsi. Ma ora promette battaglia. Parla di «passo indietro evidente, sia dal punto di vista politico e sociale», Sala, che ha anche incontrato i rappresentanti delle coppie Lgbt, confermando che questa diventerà una sua «battaglia politica» con il governo. Ma per il consigliere comunale di Fdi Matteo Forte «Sala ha piegato il diritto alle sue battaglie ideologiche. Non è che si scopra oggi l'illegittimità di quell'atto rivendicato dal palco del Milano Pride».

MIGRANTI NAUFRAGHI. VENIVANO TUTTI DALLO STESSO VILLAGGIO

L’ultima strage in mare dei migranti. Medici senza frontiere incontra i 17 sopravvissuti al naufragio di domenica. Erano partiti dallo stesso villaggio in Bangladesh in 47. Giansandro Merli per il Manifesto.

«Erano tutti dello stesso villaggio del Bangladesh vittime e superstiti del naufragio di domenica scorsa nelle acque internazionali tra Libia, Malta e Italia. Amici o parenti partiti l’8 marzo da Tobruk, una cittadina della Cirenaica a 100 chilometri dal confine egiziano. Hanno preso il mare in 47 su un barchino di legno che dopo meno di tre giorni aveva finito carburante, acqua e cibo. A Pozzallo, però, sono arrivati solo in 17, salvati dal mercantile Froland. Hanno tra 18 e 30 anni. Quando il mezzo su cui i migranti erano alla deriva si è ribaltato, 30 ore dopo il primo Sos lanciato dal centralino Alarm Phone, la maggior parte è stata portata via dalle onde. Tranne chi è riuscito ad aggrapparsi alla chiglia del barchino. L’equipaggio della nave ha calato delle scalette in legno dal fianco. Tra quelli che erano ancora vivi non tutti sono riusciti a raggiungerle. Alcuni erano ormai troppo stanchi. Sono stati trascinati dal mare sotto gli occhi degli amici. Il racconto è stato riferito, tra le lacrime, agli operatori del team di Medici Senza Frontiere accorso in Sicilia per portare soccorso psicologico. Il mediatore culturale è la prima persona capace di comprendere la loro lingua incontrata un giorno dopo lo sbarco. «La prima richiesta è stata un telefono per chiamare le famiglie - racconta Marina Castellano, responsabile dell’intervento Msf - Dall’altro capo del telefono le madri sono esplose di gioia. Sentivamo le urla. Le famiglie erano convinte che fossero tutti morti. Avevano saputo del naufragio dai social». Durante i colloqui con il personale della Ong i ragazzi si sono stretti l’un l’altro, per farsi forza a vicenda. Quando uno di loro ha comunicato ai parenti che zio e cugino erano scomparsi, piangendo, gli altri gli sono andati vicino. «Gli accarezzavano le spalle, la testa», continua Castellano. «La gente muore e il governo pensa ai voti», ha dichiarato ieri il sindaco di Pozzallo Roberto Ammatuna. Intanto sul fronte delle responsabilità Alarm Phone, Sea Watch e Mediterranea sono tornate ad accusare Italia e Malta: «queste morti non sono il risultato di un incidente, ma la conseguenza di scelte politiche deliberate». Le Ong sostengono che si è perso tempo attendendo che la sedicente «guardia costiera» libica intervenisse per portare indietro i migranti. Non è avvenuto perché il barcone era a 400 chilometri da Tripoli e sulla più vicina Benghazi governano altri potentati. «Ritardare i soccorsi e delegarli a navi mercantili non equipaggiate fa parte di una strategia politica che finisce per consegnare le persone nelle mani delle milizie libiche o abbandonarle in mare», accusano le organizzazioni umanitarie. A sostegno della loro tesi hanno fornito una ricostruzione dettagliata di ogni passaggio dall’evento. Dalla timeline risulta che solo alle 18.44, riferiscono i libici, la guardia costiera italiana avrebbe assunto il coordinamento del caso. Eppure sia Alarm Phone che Sea-Watch avevano fatto pressioni su Roma affinché prendesse in carico il barcone in pericolo molte ore prima. Venerdì notte il centralino aveva anche contattato l’armatore del mercantile Amax Avenue chiedendo di deviare la rotta. Senza esito visto che non era un’indicazione ufficiale. Senza esito anche la segnalazione di sabato mattina su un’altra nave in transito vicino al target, la Gamma Star. Le Ong hanno fatto pressioni anche su La Valletta. Nessuna risposta. Una consuetudine delle autorità maltesi in violazione dell’obbligo di cooperazione tra Stati imposto dalla Convenzione di Amburgo e perfino al memorandum of understanding sul soccorso in mare che le autorità dell’isola hanno con Tripoli. Sempre ieri la guardia costiera turca ha fatto sapere che due barconi con 42 persone si sono ribaltati al largo del distretto di Aydin. Quattro i morti. A Cutro le vittime sono salite a 81. In tutto il Mediterraneo nel 2023 si contano già, secondo l’Oim, circa 400 vittime».

JOHANSSON, UE: “SERVE UNA RISPOSTA EUROPEA ALLA CRISI”

Una raccomandazione e una comunicazione ieri dell’Europa indicano che l’Italia non può essere lasciata sola nell’affrontare la crisi dei migranti. La cronaca del Corriere.

«Collaborazione tra gli Stati membri e con i Paesi d’origine e di transito per i rimpatri, gestione integrata dei confini esterni. Sono le prime due priorità che la Commissione ha messo a terra, attraverso una raccomandazione e una comunicazione presentate ieri, della lista di azioni proposte dalla presidente Ursula von der Leyen ai leader Ue nel Consiglio europeo straordinario di febbraio dedicato all’immigrazione. Per la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson è «chiaro» che quello che accade nel Mediterraneo Centrale «non è solo responsabilità dell’Italia e che serve una risposta europea alla crisi». Parole in piena sintonia con quelle pronunciate nelle stesse ore dal capo dello Stato Sergio Mattarella, in visita ufficiale in Kenya: «La dimensione epocale e crescente del fenomeno migratorio non è affrontabile da un solo Paese, ma solo con una lucida, sistemica e ben organizzata azione europea che affronti il problema». Per entrambi è cruciale il rapporto con i Paesi di origine e di transito. Il presidente Mattarella ha sottolineato che «noi già cerchiamo un rapporto di collaborazione con i Paesi di origine dei flussi». È quello che sta cercando di fare la Commissione Ue, convinta che la risposta alla crisi migratoria sia da cercare nella lotta alle cause profonde che portano a intraprendere viaggi così pericolosi. Mentre mostra cautela di fronte alle preoccupazioni del governo italiano su un ruolo della Wagner nella nuova crisi dei flussi nel Mediterraneo. Per il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas «cosa causa la migrazione è il fatto che in Paesi di origine e di transito è necessario costruire le condizioni per una vita migliore» e dunque bisogna «evitare che le persone affidino la propria vita ai trafficanti. Wagner o no, questo è qualcosa di accessorio. La causa della migrazione è che le persone fuggono da guerre e persecuzioni o scappano per una vita migliore». Per Schinas finché non sarà approvato il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo non ci saranno gli strumenti adeguati per gestire il fenomeno migratorio nell’Ue. Servono alternative legali: «Purtroppo c’è un enorme rischio che continueremo a vedere vite perse se non miglioriamo nell’offerta di percorsi legali per arrivare in Europa, in un contesto in cui abbiamo bisogno delle migrazioni», ha detto Johansson. I morti di Cutro e la tragedia di domenica al largo delle coste libiche non sono responsabilità del nostro Paese: «Le autorità italiane nello stesso weekend hanno salvato 1.300 persone. La Guardia costiera sta facendo un grande lavoro, è importante riconoscerlo». Nella comunicazione la Commissione ha presentato un quadro strategico per la gestione europea integrata delle frontiere nei prossimi cinque anni, che coinvolge Frontex (avrà sei mesi di tempo per attuarla) e i Paesi Ue (12 mesi). Gli Stati di bandiera e gli Stati costieri sono invitati a un migliore coordinamento nelle operazioni di ricerca e salvataggio. La raccomandazione, invece, si concentra sui rimpatri che dovrebbero disincentivare le partenze e fornisce orientamenti sull’attuazione del riconoscimento reciproco delle decisioni di rimpatrio. Fondamentale è anche intervenire sui movimenti secondari che sono tra le cause, per la commissaria, di un basso tasso di rimpatri e rappresentano «un vero abuso del sistema».

Sempre sul Corriere c’è un’intervista al Ministro Francesco Lollobrigida (FdI) a cura di Paola Di Caro.

«Ministro Francesco Lollobrigida — l’uomo più vicino a Giorgia Meloni —, non crede che il continuo ricordare da parte della premier di dover affrontare «il periodo più difficile dal Dopoguerra» possa suonare vittimistico? Soprattutto quando i problemi ve li create da soli, come il caso di Anastasio e la sua mail che ricalca il discorso di Mussolini dopo l’omicidio Matteotti... «Intanto distinguiamo le due cose».

Distinguiamo. Si dice che Claudio Anastasio sia molto amico suo...

«Ormai di me si dice di tutto. Mi conoscono tutti, sono a capo di tutto, ho la gestione di enorme potere, finisco pure nel gossip. È tutto assolutamente falso. Anastasio lo avrò pure incrociato, ma non è certo un “mio uomo”. Dopo la mail, mi sono informato sul suo curriculum: mi è stato detto che era di rilievo. Poi se una persona fa una scelta sbagliata, è giusto e doveroso che si dimetta. Quello che ha scritto non è compatibile con la normalità».

Resta che date l’idea di vivere un accerchiamento, come se ce l’avessero tutti con voi. Davvero pensate che non ci sia mai stato un periodo peggiore dal Dopoguerra a oggi per governare?

«Il punto è che siamo entrati in una fase storica nuova in cui si è chiusa l’era delle certezze. Dalla tranquillità che certe cose non fossero in discussione — la libertà, i diritti, la sicurezza di un Paese — siamo passati a una in cui, anche a causa della guerra, tutto va riscritto».

Per esempio che cosa?

«Si pensi agli approvvigionamenti. Davamo per scontato che i nostri bisogni primari — alimentari, energetici — potessero essere delegati a Paesi più poveri con costi più bassi. Non abbiamo fatto sistema come Europa, sono stati assenti anche gli Usa e abbiamo lasciato nelle mani di Paesi instabili le nostre necessità, così ora ne paghiamo il prezzo. Noi da europeisti dicevamo che questa Europa andava cambiata, ora lo dicono tutti».

E ora quindi che si fa?

«Ora vanno ricostruite le filiere — a partire da quelle energetiche e alimentari — non subendo la situazione esterna ma dirigendola. Per avere la possibilità di scegliere cosa mangiare, come vivere, ma anche di aiutare i Paesi più poveri a produrre e a loro volta entrare nelle filiere in modo da crescere, per non esportare solo masse di disperati qui e farsi sfruttare politicamente ed economicamente da Paesi come Cina e Russia che, in Africa e non solo, stanno penetrando da tempo» .

Vi state già muovendo in questo senso o sono solo buone intenzioni?

«Ci stiamo muovendo in modo molto serio. I viaggi della premier, dei ministri, in Paesi del Nord Africa, in India, in Medio Oriente, servono proprio a ristabilire da protagonisti rapporti andati perduti nel tempo».

Si arriva per forza, ora, al caso migranti. Con il decreto e con le possibili modifiche in Aula state preparando una dura stretta?

«Come sempre abbiamo fatto, e ce ne dà atto anche l’Europa oggi con la commissaria Johansson, continueremo a fare di tutto per salvare vite. E ad accogliere chi fugge dalla guerre, con l’asilo politico. Ma nei numeri di chi arriva, questi sono l’8-10%. Gli altri vengono per motivazioni pur comprensibili, ma non è possibile accoglierli tutti» .

Ma lei da ministro che di queste materie si occupa sa bene che sono gli stessi imprenditori, gli agricoltori, a chiedere nuova forza lavoro. Come regolerete i flussi?

«Serve una forte azione di contenimento. E assieme dobbiamo in tempi brevi siglare patti di collaborazione con più Paesi di provenienza dei migranti perché lì, sul posto, vengano formati ai lavori che qui sono richiesti. Lavori che non sono affatto poco dignitosi, come alcuni percettori di Reddito di cittadinanza fanno credere, rifiutandoli. Io come ministro sono fiero della nuova norma contro il caporalato che punisce chi sfrutta i lavoratori, quasi sempre immigrati, a volte trattandoli da schiavi. Vogliamo cittadini integrati, non di serie B».

E quindi nella pratica come arriverà qui questa forza lavoro? E da chi sarà composta?

«Pensiamo a decreti di durata di tre anni — anche per evitare il caos dei click-day — per far arrivare personale già formato e con conoscenze basilari della nostra lingua in modo che possano integrarsi subito e che la loro formazione non pesi così tanto sui datori di lavoro da spingerli a decentrare le loro attività direttamente all’estero».

E tutti gli altri che vorrebbero entrare, che fine faranno?

«È impossibile accogliere tutti e non avverrebbe in modo dignitoso. Una parte finirebbe per forza nelle mani della criminalità: non è un caso se gli stranieri sul nostro territorio sono circa l’8,5% e nelle nostre carceri sono invece oltre il 31%. Quindi, vanno aiutati i Paesi d’origine a trasformare le loro economie in loco. È il grande piano Mattei a cui pensiamo, ed è l’impegno che tutta l’Europa deve assumersi».

Sembra però che nella maggioranza sia in corso una battaglia su questo a chi fa la faccia più feroce su un tema che colpisce molto l’opinione pubblica. La Lega vi vuole scavalcare a destra?

«Guardi, è legittimo il tentativo di dare una visione del governo diviso e litigioso, peccato che non sia vera. È stato scritto perfino che io volevo sostituire Piantedosi... Follia. La verità è che ogni decisione è unanime, che non ci sono forze xenofobe nel governo e che si ragiona tutti insieme per arrivare alla soluzione migliore possibile».

Voi però insistete molto sui temi identitari della destra, quelli che avete portato avanti in campagna elettorale. L’ultimo è il no al riconoscimento della omogenitorialità con la registrazione dei bambini. In questo modo non si rende impossibile un confronto con l’opposizione anche su temi di interesse nazionale?

«In realtà, se guardo al mio campo, siamo quasi sempre uniti. Lavoriamo maggioranza e opposizione con concordia, qui e in Europa. Su altri temi ovviamente ci sono divaricazioni e sensibilità diverse. Se la libertà ci unisce tutti, c’è chi pensa più a quella dei genitori e chi a quella dei figli. Ma poi c’è un’opinione pubblica: ed è quella che, con il voto, indirizza le scelte».

MATTARELLA DALL’AFRICA INDICA LA STRADA

La visita di Sergio Mattarella in Kenya segna l’intenzione dell’Italia a collaborare con questi Paesi. Angelo Picariello per Avvenire.

«Questa visita di Sergio Mattarella in Kenya - la sesta nell’Africa sub sahariana, dopo Camerun, Etiopia, Zambia, Mozambico e Angola - si inserisce in un orizzonte tracciato dalla Ue e dallo stesso governo italiano, verso una collaborazione più stretta ed organica con questi Paesi, ma poi non sempre seguito con la dovuta decisione e l’auspicabile unità di intenti. Mattarella parla di immigrazione e siccità, indica la correlazione fra i due fenomeni, destinata a crescere se si continuerà a sottovalutare l’emergenza climatica. E con la visita, ieri, al centro di formazione professionale di San Kizito promosso dalla ong italiana Avsi, e quella, domani, alla E4Impact accelerator, incubatore di imprese gestito da un consorzio italiano guidato dall'omonima Fondazione presieduta da Letizia Moratti, indica la via maestra della collaborazione allo sviluppo e dell’amicizia fra i popoli. Un modello da tutti auspicato, salvo poi coltivarne nei fatti, troppo spesso, uno di segno opposto, fatto di muri, respingimenti e mancata solidarietà. Mattarella ricorda che solo una «congiunta, lucida, ben organizzata» azione europea, che affronti «in maniera sistemica questo grande problema epocale» (l’immigrazione attraverso il Mediterraneo o anche la rotta balcanica) può dare frutti durevoli, unito al sistema delle collaborazioni bilaterali. E si rivolge a quei Paesi che pensano di poter arginare le migrazioni, ma continuano a sottovalutare gli effetti dei mutamenti climatici: «La siccità - ricorda spinge ulteriormente i fenomeni migratori. Ci duole che alcuni Paesi non si rendono conto che non si può rinviare questo tema a un secondo tempo che non c’è. Bisogna affrontarlo adesso, con molta determinazione».

EGITTO, TAJANI INCONTRA AL SISI

Il rais egiziano promette “collaborazione” con il nostro Paese e firma accordi nei settori agricolo ed energetico. Berlusconi chiama Netanyahu. Fabiana Magrì per La Stampa.

«Ulteriori rassicurazioni sulla volontà dell'Egitto di collaborare con l'Italia. È tutto ciò che il presidente Abdel Fattah Al-Sisi ha garantito, di nuovo, al ministro degli esteri Antonio Tajani, in visita ieri al Cairo dopo due giorni tra Israele e Cisgiordania, «per trovare giuste soluzioni» in merito ai «problemi irrisolti». Cioè i dossier sull'omicidio insoluto di Giulio Regeni e sul processo a carico del ricercatore Patrick Zaki. Un "déja vu" di quanto dichiarato dalla premier Giorgia Meloni il 7 novembre al ritorno dal faccia a faccia con al Sisi a Sharm El-Sheikh (su temi di gas, migranti, Libia e Ucraina) e successivamente dallo stesso Tajani, proprio al Cairo, il 22 gennaio. È personalmente intervenuta nel sottolineare il caso Zaki anche il ministro dell'Università e della Ricerca Anna Maria Bernini (che è di Bologna, dove è impedito tornare a frequentare l'università allo studente egiziano), al fianco del titolare della Farnesina nel viaggio di lavoro incentrato sul tema della sicurezza alimentare. Alla soddisfazione espressa ai giornalisti da Bernini ha risposto sui social la deputata del Pd Laura Boldrini, accusando il vice primo ministro di «parole ingannevoli e offensive verso i famigliari e tutte le persone che chiedono verità per Giulio e giustizia per Patrick». Sono altri i risvolti che Italia ed Egitto tengono ad approfondire nelle reciproche dichiarazioni al termine della missione commerciale italiana per trovare progetti su cui investire. Come l'importanza di «gettare le basi per un'ulteriore cooperazione economica, in particolare nei settori dell'agricoltura e dell'alimentazione», ha scritto in una nota pubblicata su Facebook il portavoce della Presidenza egiziana, Ahmed Fahmy. L'Italia si appresta a divenire «un partner centrale con la fornitura di macchinari, tecnologia, sementi e conoscenze ma anche prodotti alimentari di base, dal grano al couscous», hanno spiegato Coldiretti e Filiera Italia, parte della delegazione italiana. L'interesse italiano è «l'internazionalizzazione delle nostre imprese. Il nostro saper fare in tutti i settori serve all'Egitto per rendere più moderno il loro settore agroindustriale, un comparto fondamentale dell'economia reale egiziano che, grazie a questi accordi, potrà crescere», ha sintetizzato Tajani. Oltre agli affari, nella capitale egiziana si è affrontato il tema della questione migratoria e della necessità di ridurre drasticamente le partenze irregolari, sia dalla Libia sia dalla Tunisia, con l'aiuto dell'Egitto. «Perché senza la collaborazione anche dell'Egitto - ha detto il ministro - è difficile poter risolvere questo problema». «Certamente serve l'Europa, servono le Nazioni Unite. La missione in Medio Oriente di Tajani è stata in qualche modo affiancata anche dal leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, che ieri ha chiamato il premier israeliano Benjamin Netanyahu in una «lunga e cordiale» telefonata».

PARIGI. LA RIFORMA DELLE PENSIONI ARRIVA IN PARLAMENTO

Inizia in Francia l’iter parlamentare della controversa riforma delle pensioni voluta da Emmanuel Macron. La cronaca dal Sole 24 Ore.

«Inizia oggi, con una riunione a porte chiuse tra un gruppo di deputati e senatori, il percorso parlamentare del controverso piano di innalzamento dell’età pensionabile del presidente francese Emmanuel Macron. I parlamentari si riuniranno per mettere a punto una proposta di legge da sottoporre al voto di entrambe le camere; domani, poi, il testo dovrebbe essere votato dall’Assemblea nazionale, dove molti osservatori ritengono che il governo non abbia la maggioranza necessaria e sia costretto a ricorrere alla fiducia per far passare la legge. Il rischio è inasprire ulteriormente le proteste e gli scioperi già in atto da settimane. Ieri gli operatori della nettezza urbana del comune di Parigi, da nove giorni in lotta contro la riforma, hanno votato la proroga del loro sciopero almeno fino al 20 marzo: la decisione è stata presa in occasione di un’assemblea generale presso l’inceneritore di Ivry-sur-Seine, nei pressi della capitale di Francia. Al nono giorno di sciopero dei netturbini, sono 6.600 le tonnellate di rifiuti accumulate nelle strade di Parigi. Oltre a quello di Ivry, risultano bloccati dai picchetti dei lavoratori anche altri due inceneritori e un quarto è saturo Il comune di Parigi, guidato dalla sindaca socialsita Anne Hidalgo, si è detto “solidale” con gli scioperanti».

IRAN, LA RIBELLIONE DELLE RAGAZZE

Le iraniane continuano a danzare in segno di ribellione. Dopo l'arresto di cinque ragazze si moltiplicano i video di sfida. A Ekbetan, alla periferia della capitale, in migliaia scendono in strada. Francesca Paci per La Stampa.

«La paura non funziona più. Dopo averle braccate per quasi una settimana, le autorità iraniane hanno scovato e arrestato le ragazze protagoniste del video diffuso l'8 marzo scorso in cui danzavano senza foulard sulle note di "Calm Down" per le strade di Ekbetan Town. Ma la paura non funziona più e la risposta alla confessione estorta alle cinque prigioniere costrette a velarsi da capo a piedi per scoraggiare tutte le altre è, ormai da ore, un fiorire di trailer musicali analoghi in analoghe strade del Paese che i social network moltiplicano in modo virale. Ballo ergo sum. Ekbetan Town non è un qualsiasi sobborgo urbano cresciuto rapidamente in altezza con i soliti blocchi abitativi modulari. Il quartiere alla periferia ovest di Teheran, dove in questi giorni la polizia religiosa ha mostrato di volersi vendicare con particolare ostinazione, è la fertile terra del rapper Raz, della musica underground e della rock band "127", dei murales firmati Karan Reshad in arte "A1one", uno che dopo il 2009 ha rinnovato in chiave anti-regime la tradizione dei graffiti contro l'America d'epoca khomeinista, e del più grande festival Charshanbe Suri della regione. È qui, dove grava il progetto governativo di sostituire il nome di origine persiana Ekbetan con uno puramente islamico, che sei mesi fa, all'indomani dell'assassinio di Mahsa Amini, le ragazze hanno cominciato a scendere in strada coordinandosi al telefono con le compagne della capitale per dare spontaneamente vita alla rivoluzione delle donne, Jin, Jian, Azadi. «È tutto molto più importante di un balletto, è una forma di disobbedienza civile ad ampio raggio lanciata dall'epicentro della rivoluzione, è un simbolo» spiega Bahram, un farmacista quarantenne che abita a mezzora di macchina da Ekbetan Town e che ieri sera era proprio lì, mentre le forze dell'ordine circondavano l'area in cui la folla, approfittando della cerimonia del fuoco, aveva dato alle fiamme un enorme ritratto della Guida Suprema l'Ayatollah Ali Khamenei, urlando: «Khamenei senza radici, la nostra rivoluzione non finirà». Sono giorni importanti per l'Iran che si appresta a celebrare lo Chaharshanbe Suri, la festa tradizionale con cui, accendendo falò in strada e danzandovi intorno, si annuncia l'arrivo di Nowruz, il Capodanno persiano. In queste ore, con il Paese scosso dalla più grande protesta popolare dai tempi di Komehini, la preoccupazione degli ayatollah è massima. Tanto che, rispondendo alla mobilitazione di tre giorni convocata dagli attivisti contro l'avvelenamento di cinquemila studentesse, la polizia religiosa ha minacciato dieci giorni di carcere e la confisca dell'automobile a chiunque disturbi «l'ordine pubblico e la calma durante il Chaharshanbe Suri». Anche stavolta, con spietato automatismo, il regime è ricorso al pugno di ferro con cui finora ha fronteggiato qualsiasi forma di protesta, dalle primissime donne deluse dalla rivoluzione del 1979 fino all'Onda Verde del 2009, l'idealismo bruciato con la sconfitta riformista da cui, inaspettatamente, è risorta la generazione più giovane. Da sei mesi, sotto lo sguardo intermittente del mondo, si consuma in Iran un corpo a corpo esiziale tra la teocrazia sciita e i suoi figli, affiancati ormai regolarmente dalle sorelle e dai fratelli maggiori, dai genitori, dai nonni, anche i più conservatori, delusi da un sistema corrotto nel nome di Dio. Teheran, Mashhad, Qazvin, Malayer, Isfhan, Shiraz, Karaj, Baneh, Zanjan, Oshnavich, Ekbatan Town. «Se la Repubblica islamica è messa così male da aver bisogno di Lukashenka, abbiamo ancora più motivi per andare avanti, la fine di questo regime disperato e in bancarotta è vicina» ragiona l'universitaria Nashin, commentando la visita del dittatore bielorusso al presidente iraniano Ebrahim Raisi, che già collabora attivamente con la Russia di Putin. Poi allega al messaggio una serie di video con le ragazze che bruciano l'hijab ripetendo «morte alla dittatura» e l'emoji di una ballerina. La paura non funziona più».

PARLA IL GESUITA NIPOTE DEL PAPA

Il nipote gesuita di Francesco, José Luis Narvaja, spiega chi è nel privato lo zio divenuto Papa: «La sua forza? I gesti inaspettati frutto della preghiera». L’intervista è di Avvenire.

«Lo ricorda come un buon superiore – «lo fu solo per tre mesi, dopo il mio noviziato, quando fu mio rettore del Collegio San Miguel in Argentina» – e lo avverte ancora oggi come un parente autorevole capace sempre di infondere buoni e «bellissimi » consigli «che mi sono rimasti utili per tutta la vita». Descrive così il gesuita e patrologo José Luis Narvaja lo zio papa Francesco come un «uomo di Dio che vive soprattutto di preghiera e che ha sempre puntato più sulla forza dei gesti rispetto alle parole per andare al cuore del messaggio del Vangelo». Sono queste le prime istantanee che affiorano dalla mente di questo religioso argentino – nato a Buenos Aires come Jorge Mario Bergoglio – nel rievocare l’illustre parente che proprio il 13 marzo di dieci anni fa veniva eletto Vescovo di Roma. Padre Narvaja è figlio una delle sorelle del Pontefice, Marta, e compirà 58 anni il prossimo 29 agosto. È un rinomato patrologo, esperto del pensiero di sant’Agostino e del teologo di origini tedesco-polacche Erich Przywara (1889-1972). Divide la sua vita accademica tra il Pontificio Istituto Biblico di Roma e l’università cattolica di Cordoba in Argentina. Il 19 marzo di dieci anni fa padre José si trovò accanto allo zio « papa Francesco » nel giorno della Messa di inizio del ministero petrino in piazza San Pietro. « Ho scoperto dalla Tv come tutti i telespettatori di questo pianeta che mio zio, allora cardinale e arcivescovo di Buenos Aires, il 13 marzo di dieci anni fa, era stato eletto Pontefice. Non ho avuto nessun preavviso telefonico – dice scherzando –. Pochi giorni dopo ho preso l’aereo da Francoforte dove allora insegnavo per partecipare anch’io alla Messa di inizio pontificato. E lì ci siamo salutati dopo tanto tempo». Del famoso parente, con cui condivide il Dna comune della pratica degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, sottolinea l’amore per la vita semplice di Bergoglio e di «uomo normale e appassionato di cinema, teatro e sport». Come tante persone. Padre Narvaja non è il primo caso dentro la Compagnia di Gesù in cui uno zio o un parente famoso si trovi quasi a precedere e ad “anticipare” l’ingresso di un nipote all’interno della stessa Famiglia religiosa: basti pensare a Riccardo il «microfono di Dio» e Federico Lombardi o al caso dei cugini svizzeri Hans Urs von Balthasar e Peter Henrici. «Lo zio, pur essendo già una figura autorevole nell’Ordine, non ha influito in alcun modo sulle mie scelte e mi ha sempre lasciato molta libertà. La mia vocazione nella Compagnia di Gesù è stata la risposta a una chiamata del Signore. Come è capitato a tanti miei confratelli. Nulla di più». In questi anni padre José Luis si è cimentato in un lavoro monumentale: pubblicare (la cui compilazione è durata più di un anno e mezzo) in cinque volumi nel 2019 per la Civiltà Cattolica gli Escritos, gli Scritti di padre Miguel Ángel Fiorito (1916-2005) che fu il principale maestro di spiritualità ignaziana del futuro Pontefice argentino. E fu proprio il nipote il 13 dicembre del 2019, a presentare a Roma allo zio «Jorge Mario» quest’opera imponente. «Bergoglio non è mai stato un ripetitore pedissequo degli insegnamenti di Fiorito ma ha sempre introdotto anche in questo campo degli elementi di novità. Questo omaggio pubblico al suo “maestro di discernimento” è stato vissuto da papa Bergoglio come il giusto tributo a quanto padre Miguel Ángel ha fatto anche per la forza di argomentazione delle sue tesi sempre molto equilibrate sui vari aspetti del cattolicesimo post-conciliare in Argentina e di riflesso per tutta l’America Latina e per noi gesuiti». Padre Narvaja si sofferma nel suo ragionamento sull’importanza anche di un altro autore Erich Przywara e di un saggio da lui stesso curato e pubblicato in Italia dal Pozzo di Giacobbe nel 2013 L’idea d’Europa. La “crisi” di ogni politica cristiana in cui, a suo giudizio, si intravede molto del pensiero di Francesco sul futuro del Vecchio Continente. «Sono stato io stesso a regalarne una copia a mio zio – è l’ammissione – di questa mia ricerca. Lui ha sempre apprezzato il suo pensiero e si è nutrito da giovane gesuita di queste letture del grande teologo. Certamente è stato un suo punto di riferimento ma non l’unico. Basta rileggersi i suoi discorsi sull’Europa compreso quello per il conferimento del Premio Carlo Magno nel maggio 2016 e si comprende la grande visione di come il Papa guardi con speranza all’Europa senza ripiegamenti sul suo glorioso passato». Ma dei grandi lasciti intellettuali e pastorali dell’attuale Vescovo di Roma, secondo Narvaja, bisogna ricercarlo nel concetto a lui molto caro di «teologia del popolo». «La sua è stata una risposta e una via diversa rispetto alla strada imboccata dalla cosiddetta “teologia della liberazione” – annota –. Per lui la teologia deve essere in dialogo con la cultura e il popolo». Un’intuizione quella di Bergoglio per una teologia sempre in ascolto delle attese del popolo di Dio che ha radici antiche. E che precedono di molti anni la sua salita al soglio di Pietro. «Se si rilegge oggi l’intervento pronunciato dall’allora padre Bergoglio nella sua veste di rettore del collegio di San Miguel nel 1985 in cui si commemorava i 400 anni dall’arrivo dei gesuiti in Argentina si scoprono molte delle intuizioni profetiche e oserei dire “creative” che Francesco avrebbe poi messo in pratica nel suo ministero petrino. In quel discorso egli infatti pose un particolare accento sulla teologia della cultura e del popolo». E osserva ancora: « Ribadì, in quel frangente, una cosa molto chiara che “il popolo per lui non è mai oggetto ma soggetto”». Di questi 10 anni di papa Bergoglio come Vescovo di Roma padre Narvaja ferma il suo sguardo su alcune istantanee. «Certamente la scelta di andare a Lampedusa a inizio del suo pontificato nel luglio del 2013. Si è trattato non di un gesto istantaneo ma elaborato a lungo e frutto di una grande preghiera. Come sicuramente il viaggio apostolico ad Abu Dhabi e la dichiarazione sulla Fratellanza umana del 2019 dove si scopre soprattutto di papa Francesco un tratto: l’importanza del dialogo e dell’ascolto dell’altro». Quale è uno dei suoi segreti? «Credo quello di pregare, essendo sempre inserito nella vita di questo mondo e stando sempre in ascolto delle attese del popolo di Dio. Un tratto da autentico contemplativus in actione». Come è giusto, a suo giudizio, celebrare questi dieci anni di Bergoglio sulla Cattedra di Pietro? «Forse nello stesso modo come lui festeggia, di solito, i suoi compleanni accanto ai bisognosi e agli ultimi». Di qui la riflessione finale: «Vorrei però sottolineare come ha detto recentemente papa Francesco che la Chiesa è nata per accogliere tutti dal povero al giovane ricco. L’annuncio della Buona Novella è rivolta a tutti gli uomini di buona volontà. Mi viene, a questo proposito, in mente quanto scriveva proprio padre Fiorito in un articolo di parecchi anni fa, pubblicato sul Boletin de Espiritualidad (quaderno numero 35) quando ricordava che all’interno della comunità ecclesiale non ci sono solo i poveri ma uno degli impegni primari è quello di stare accanto a chi soffre ed è più in difficoltà. E Fiorito aggiungeva questa annotazione: “ Vogliamo una Chiesa dove non ci siano i poveri e che tutti possano godere degli stessi diritti e possibilità”. Credo che questo sia uno degli insegnamenti di Fiorito più in sintonia proprio con il magistero ordinario del suo discepolo papa Francesco».

“TENETE FUORI L’ARTE DALLA GUERRA”

Carlo Melato intervista la pianista francese Hélène Grimaud per La Verità. Che dice: «La lezione dimenticata di Silvestrov: i russi e gli ucraini sono nati fratelli. L’arte non entri in una guerra scatenata dalla follia del potere».

«Che suono ha il silenzio? Meglio sventolare bandiera bianca che provare a rispondere a parole. Ancora meglio chiedere consiglio a 12 arie di ingannevole semplicità, al pianoforte di Hélène Grimaud e alla voce del baritono tedesco-romeno Konstantin Krimmel. È appena uscito infatti (per Deutsche Grammophon) l’ultimo album della pianista francese, che esplora le Silent Songs di Valentin Silvestrov. Stiamo parlando del più grande compositore ucraino vivente, rifugiatosi a Berlino a 85 anni, a causa dell’invasione russa. Ma chi volesse pensar male - immaginando scaltre operazioni di marketing - stavolta farebbe davvero peccato: il colpo di fulmine tra la Grimaud e il mondo sonoro di Silvestrov non è recente. Una notevole mole di concerti e il disco del 2020 (The Messenger), che affiancava brani strumentali di Wolfgang Amadeus Mozart a quelli del compositore di Kiev, spazzano via ogni dubbio. Proprio quell’abbinamento inconsueto aggiunge un’altra tessera al mosaico: «Non scrivo nuova musica», ha più volte spiegato il maestro, «ma una risposta a ciò che già esiste e ne è un’eco». Una concezione che fa intuire lo spirito di queste canzoni, che appartengono alla seconda vita dell’artista. Se il primo Silvestrov era infatti un pezzo grosso dell’avanguardia sovietica (un ascolto della Sinfonia n.1 rende l’idea), dalle Silent Songs in poi (eseguite per la prima volta a Kiev nel 1977 e - altri tempi! - nel 1985 a Mosca) l’autore ucraino torna alla melodia, alla tonalità e ai materiali primari (in estrema sintesi al minimalismo, senza evocare certo minimo sindacale musicale che va forte negli aeroporti). Per quanto riguarda Hélène Grimaud, invece, non basterebbe un libro per raccontarla. Tanto è vero che pure lei ne ha già scritti tre (Variazioni selvagge, Lezioni private e Ritorno a Salem, edizioni Bollati Boringhieri), senza esaurire l’argomento. Alcuni flash: indomabile fin dall’infanzia, trascorsa come in gabbia ad Aix-en-Provence - quando solo il pianoforte riusciva a incanalare il suo bisogno di superare i limiti del corpo («sognavo di straripare», scrive) - da musicista affermata ha avuto un rapporto burrascoso con l’accademia e con alcuni mostri sacri come Daniel Barenboim e Claudio Abbado. Le sue scelte radicali - a volte incomprensibili da fuori - seguono una bussola interiore: la certezza quasi fanatica che «si deve diventare ciò che si è», al di là di quello che pensa il mondo («Non mi avranno», è la citazione preferita del compaesano Paul Cézanne). L’esempio più eclatante? Abbandonare tutto per andare a vivere con i lupi in una distesa gelata e selvaggia come South Salem (New York). Ma di questo parliamo dopo.

Per la prima incisione della sua carriera, a 15 anni, ha voluto a tutti costi Rachmaninoff. Con Brahms ha un legame viscerale, nei confronti di Bach quasi una devozione. Silvestrov invece come l’ha scoperto?

«Si è trattato di un incontro fortunato, avvenuto circa 20 anni fa, grazie a un regalo di compleanno. Il dono di Mainfred Eicher (patron della Ecm, ndr) era proprio un album con le Silent Songs. E sono stata immediatamente trafitta. La musica di oggi - mi son detta meravigliata - è ancora in grado di stabilire una connessione profonda con l’anima, riscoprendo la melodia e l’armonia. Ho avvertito una grande purezza e un’estrema varietà di colori. Come un sussurro capace di arrivare direttamente al cuore, senza bisogno d’altro».

Cosa intende dire?

«Ricordo di aver inserito il cd nel lettore senza avere la minima idea di ciò che avrei ascoltato. Solo alla fine ho divorato i testi, le traduzioni, la storia del compositore... Ma più mi informavo e più capivo che la musica aveva già espresso tutto nella sua forma più vera. Ogni dato intellettuale era superfluo».

L’autore definisce queste canzoni «silenzio messo in musica». Nel suo primo libro lei scrive: «La musica si è impadronita di me perché è l’estensione del silenzio. Una via d’accesso a un altrove della parola, a quello che la parola non può dire e che il silenzio, tacendolo, dice». Coincidenze?

«Il silenzio mi ha sempre affascinato, è alla base di tutto. Senza di esso non saremmo nemmeno in grado di distinguere i suoni. È lo spazio all’interno della musica, ma ne è anche la sua fonte primordiale. E non si tratta solo di assenza di suono: pensiamo a quegli attimi magici in teatro, a quanto il silenzio possa diventare pregnante…».

Se Silvestrov concepisce la sua produzione artistica come eco di qualcos’altro, cosa risuona in queste arie? I lied di Schubert o di Brahms, l’essenzialità di Arvo Pärt?

«Il legame con i giganti che hanno portato questa forma ai suoi massimi livelli c’è, anche se trascende il linguaggio: direi, la musica che diventa espressione poetica. Per quanto riguarda Pärt, trovo in Silvestrov la stessa profondità e lo stesso senso del mistero. A livello personale, incidere le opere di questi due artisti prodigiosi, potendomi confrontare con loro, è stato un immenso privilegio».

Prova la stessa attrazione anche per il Silvestrov degli inizi, quello legato all’avanguardia?

«Credo che la decostruzione degli elementi sia stata una parte inevitabile del processo che lo ha condotto al punto in cui si trova ora. Nel suo linguaggio apparentemente semplice oggi infatti c’è qualcosa di estremamente avanzato. Il ritorno alle radici e ai materiali primari di Silvestrov sembrerebbe - come in Pärt - un viaggio all’indietro. In realtà è grazie alla sua onestà, e a questa trasparenza faticosamente conquistata, che oggi riesce a parlare alle persone così nel profondo».

Un’altra nota molto presente nelle pagine del maestro di Kiev è quella del dolore.

«È così. La sua scrittura lascia trasparire una ferita profonda, esistenziale. Fin da subito ho percepito quella che io chiamo l’adrenalina della sofferenza. I segni sono impressi nella sua esperienza umana, dalle tribolazioni ai tempi dell’Unione sovietica, alla morte della moglie Larissa…».

Oggi a questi tormenti si aggiunge la tragedia della guerra. Fa un certo effetto ascoltare la musica del più grande compositore ucraino vivente che ridona vita alle poesie del padre della letteratura russa, Aleksandr Puškin, e a quelli di altri suoi connazionali.

«Dialogando con Silvestrov colpisce che continui, anche in queste ore terribili, a sottolineare l’importanza della cultura russa e di quella ucraina. E il fatto che i due popoli siano sempre stati fratelli. Ovviamente giudica inaccettabile e terribile l’invasione di Vladimir Putin, ma è convinto che l’arte non debba essere trascinata in questa catastrofe, causata dalla follia del potere».

La stessa lucidità è mancata all’Occidente, che troppo spesso ha considerato tutti gli artisti russi servi del Cremlino, fino a prova contraria. Arrivando persino alla folle censura di Ciajkovskij e Dostoevskij. Sembra incredibile, ma il sovrintendente del Teatro alla Scala, Dominique Meyer, ha dovuto spiegare la differenza tra Puškin e Putin per difendere il Boris Godunov...

«C’è un’ipocrisia inaccettabile. Non mi risulta che i politici occidentali, che fino al giorno prima dell’invasione avevano fatto accordi con lo zar, abbiano dovuto dimettersi in massa o siano stati screditati com’è accaduto invece ai musicisti che in Russia hanno famiglie, parenti, amici... Qual è la loro colpa? Questa caccia alle streghe è un insulto all’umanità e alla cultura. Condannare l’invasione russa è sacrosanto. Cancellare la storia, l’arte e l’anima di un popolo non ha alcun senso».

I versi di Puškin trasformati in musica da Silvestrov sono un inno alla speranza in un momento in cui nessuno crede più nemmeno al cessate il fuoco?

«Teniamola viva la speranza, è l’unico modo di onorare le vite che abbiamo perso».

(…)

Prima che nascessero i social e che si riempissero di paladini dell’ambiente a colpi di like, lei ha comprato una tenuta immensa in mezzo al nulla ed è andata a viverci con i lupi. Ha trasportato carriole piene di terra (a dir poco inusuale per una pianista), ha modificato le pendenze del terreno, ha piantato alberi. Oggi vive sull’altra costa degli Stati Uniti ma quella casa è ancora lì e si chiama New York Wolf Center. Guardandosi indietro, perché l’ha fatto?

«I lupi mi hanno insegnato l’amore incondizionato e la disciplina: non puoi entrare in rapporto con loro se non sei al cento per cento presente nell’istante. Ed è un insegnamento fondamentale anche per la musica. Il mio impegno per la loro salvaguardia, che è cruciale per l’equilibrio del pianeta, è rimasto lo stesso, anche se posso vederli meno frequentemente. Con gli anni ho imparato a essere meno radicale, per comunicare meglio con chi ha opinioni diverse. La mia sfida è, come diciamo in Francia, mettre de l’eau dans son vin senza perdere lo sguardo che avevo da bambina».

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