La Versione di Banfi

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Kabul, ultimo atto

alessandrobanfi.substack.com

Kabul, ultimo atto

Foto simbolo del disimpegno Usa dall'Afghanistan: il generale che parte nella notte. Oggi primo giorno di Green pass, tensioni nelle stazioni per i No vax. Buoni dati del Pil, ma è prudente aspettare

Alessandro Banfi
Sep 1, 2021
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Kabul, ultimo atto

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L’ultima foto simbolo di Kabul è una foto di cattiva qualità. Perché è una foto scattata di notte. Ritrae un soldato americano, poi si apprenderà che si tratta del generale dei marines Chris Donahue, mentre sale sull’ultimo volo all’aeroporto: già perché gli americani hanno deciso, a sorpresa, di anticipare di qualche ora la loro evacuazione finale. Per evitare attentati dell’ultimo minuto. Cala il sipario su una guerra ventennale, il cui bilancio è molto amaro. Per Negri sul Manifesto ha i caratteri sia della tragedia che dalla farsa. Per Quirico sulla Stampa l’onda d’urto del ritiro ci investirà per i prossimi anni. Per Biloslavo l’Afghanistan si conferma la tomba degli imperi.

Da oggi si viaggia col Green pass su treni a lunga percorrenza e sugli aerei. Il Viminale ha aumentato la vigilanza nelle stazioni, dopo le ripetute minacce in rete dei No Vax. Ma la sostanza della cosa è che il Green pass è stato scaricato da milioni di italiani e si tratta di un successo senza precedenti. Non solo per bar e ristoranti, stadi (di nuovo animati nelle prime due partite di campionato di serie A) e palestre. Pensate alla riuscita di una grande manifestazione popolare come il Meeting di Rimini, dove l’app della kermesse ha facilitato ingressi e uscite giornalieri in piena sicurezza. La tensione è creata ad arte da una violenta minoranza, le cui follie sono assecondate e blandite da giornali e partiti fiancheggiatori, soprattutto nel mondo del centro destra. Difficile discutere e dialogare con chi urla certezze infondate. Ma non mancano esempi positivi. Il cattolico Antonio Socci, grande critico di Bergoglio e non certo beniamino della sinistra, sul suo sito e sulla sua pagina Facebook, si sforza di far ragionare gli interlocutori. Alessandro Sallusti ha portato Libero su una frontiera coraggiosa di critica serrata ai No Vax. Così come hanno fatto Michele Brambilla, il direttore di QN e Bruno Vespa, sempre dalle colonne di quel giornale. È un tema su cui faziosità e partigianeria non dovrebbero esistere. In questo senso le ambiguità di Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono criticabili.   Sul fronte pandemia ieri solo 308 mila 625 nuove vaccinazioni, mentre si pensa al rientro a scuola. La Sicilia è ancora la regione col record di contagi e anche di decessi.

Le notizie politiche sono economiche, oggi. Perché i dati Istat sul Pil nell’ultimo trimestre fanno ben sperare. Ma avverte Di Vico sul Corriere, bisogna aspettare i dati sul terzo trimestre per capire se davvero la ripresa della nostra economia è consistente. È stato censurato Lino Banfi, su ricorso del Moige. Davvero il suo “porcaputténa” è pericoloso per i giovani?

Rubo ancora il vostro tempo per parlare della Versione. Allora, il grande balzo in avanti (maoista!) sta prendendo forma. L’obiettivo è arrivare molto prima del solito nelle vostre caselle e-mail, nelle mattine dal Lunedì al Venerdì. Ve ne sarete già accorti da questi primi due giorni. Ulteriore novità che si sta incrementando: ospiterò contributi di grandi firme ed esperti nell’Altra Versione, che esce invece all’ora di pranzo. E poi la documentazione cresce! Da domenica scorsa, alla fine della consueta rassegna ragionata, viene offerto anche un link che vi porterà ad un Dropbox pubblico dove potrete accedere a tutti gli articoli citati nella Versione, integrali in formato PDF. Testata, impaginazione e titolo compresi. Basterà cliccare sul link che trovate alla fine della lettura. Attenzione: il pdf resterà disponibile in Dropbox per 24 ore, non di più. Dunque se siete interessati a qualcosa, scaricate subito. Aspetto i vostri commenti in proposito. Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

La foto notturna e verdognola dell’ultimo soldato Usa in fuga da Kabul è su quasi tutte le prime pagine. Pochi però i quotidiani che scelgono ancora l’Afghanistan come titolo principale. Avvenire: Kabul, anno zero. La Stampa sintetizza: Kabul è dei talebani. L’Ue chiude le porte. Anche il Manifesto si concentra sui profughi: Accogliamoli da voi. Da oggi primo settembre ci vuole il Green pass per viaggiare. Il Corriere della sera: Assalti no vax, stazioni blindate. Mentre il Quotidiano Nazionale sottolinea la mobilitazione del Viminale: Polizia nelle stazioni contro i no vax. La Repubblica annuncia: Tolleranza zero contro i No Vax. Il Domani commenta: La violenza No vax di oggi affonda in anni di propaganda Lega-5 Stelle. Per il Giornale si tratta di una: Pandemia di no vax. Libero si schiera ancora contro le proteste: Follia no vax, è caccia all’uomo. Mentre La Verità fiancheggia apertamente gli anti vaccino: Fanno i talebani del vaccino per coprire bugie ed errori. Il Messaggero prevede: Scuola, lezioni più lunghe. Il Fatto invece è critico: Ideona per le scuole: Green pass colabrodo. Il Sole 24 Ore nota il ritorno alla normalità per i dipendenti pubblici: Pa, finisce l’era dello smart working.

L’ULTIMO SOLDATO USA LASCIA KABUL

L’esercito americano ha lasciato l’Afghanistan. Lo ha fatto di notte, diverse ore prima della scadenza, per evitare attentati e sorprese dell’ultimo minuto. Fausto Biloslavo per il Giornale commenta lo scatto che immortala il passo d’addio.

«L'ultimo soldato americano ha lasciato l'Afghanistan. Non un fantaccino qualunque ma il generale a due stelle, Chris Donahue, comandante dell'82° divisione aviotrasportata che ha tenuto l'aeroporto di Kabul per l'evacuazione più possente e drammatica del mondo libero. La foto verdognola, da visione notturna, rende l'immagine simbolo ancora più drammatica. Il generale con elmetto, mimetica e arma in pugno è in mezzo alla pista e sta salendo a bordo dell'ultimo aereo americano che decolla da Kabul un minuto prima di mezzanotte e del 31 agosto. La foto storica ricorda un'altra disfatta: il ritiro dell'Armata rossa nel 1989 e il generale Boris Gromov, che per ultimo passava a piedi il ponte dell'amicizia sull'Amu Darja al confine con la repubblica uzbeka dell'Urss, dopo interminabili colonne di blindati. I sovietici se ne andavano, sconfitti, dopo 10 anni e 40mila caduti. L'Afghanistan, dopo avere ingoiato nel sangue l'Inghilterra, l'Urss e la Nato, si è dimostrato, ancora una volta, la tomba degli imperi. Il generale Donahue lascia per sempre l'Afghanistan dopo 20 anni di intervento concluso con la fulminea vittoria dei talebani. L'ufficiale, cadetto di West Point, ha alle spalle 17 missioni comprese la guerre in Iraq, Siria e Afghanistan. Dopo l'11 settembre si è presentato volontario nella Delta force, l'élite dei corpi speciali americani. "E' stata una missione incredibilmente dura, piena di molteplici complessità, con minacce attive per tutto il tempo" ha twittato il 18mo Corpo aviotrasportato commentando la foto del generale. Donahue, prima di andarsene ha comunicato la consegna dello scalo al comandante talebano che fremeva per entrare e iniziare la festa. Il motto dell'82ima, che ha una base anche in Italia è fino in fondo. E così è stato nonostante un attacco suicida che ha falciato 13 soldati americani e 160 civili in fuga verso la libertà. Per la Caporetto afghana non ci sarà mai un Piave che porterà alla vittoria. La sconfitta è cocente e bagnata di sangue con la strage kamikaze allo scalo. Vent' anni gettati al vento. Un mese e mezzo dopo il ritiro dell'ultimo soldato italiano da Herat i talebani hanno conquistato Kabul. Una guerra lampo che in soli 9 giorni ha fatto cadere 34 capoluoghi di provincia. La Nato ha sempre combattuto, soprattutto gli italiani, con un braccio legato dietro la schiena a causa del ritornello della missione di pace. L'esportazione della democrazia è stata una boiata pazzesca. Non è un frigorifero o lavatrice che funziona ovunque se la colleghi alla presa di corrente. Il mondo libero non è stato in grado di conquistare i cuori e le menti degli afghani e neppure di sradicare l'inettitudine e la corruzione del governo, che è crollato come un castello di carte assieme alle forze di sicurezza. I diritti acquisiti, le conquiste, come le bambine a scuola, le donne al lavoro, una parvenza di elezioni e di stato di diritto sbandierati all'ammaina bandiera ad Herat dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, si sono sciolti come neve al sole davanti all'avanzata fulminea dei talebani. Anche la musica ne ha fatto le spese e un noto cantante folk è stato passato per la armi. I talebani, come hanno sempre detto con inflessibile coerenza, non vogliono la democrazia e ancora meno i valori occidentali, ma solo l'interpretazione dura e pura della sharia, la legge del Corano. Dopo vent' anni di guerra cantano giustamente vittoria all'aeroporto di Kabul innalzando il vessillo bianco con i versetti neri dell'Islam ed i combattenti delle loro unità speciali, le Red unit, vestiti da Rambo grazie all'attrezzatura bellica Usa donata agli afghani».

Federico Rampini racconta su Repubblica il tentativo del Presidente Joe Biden di recuperare credibilità, almeno con i cittadini americani.

«La guerra più lunga è finita, ho mantenuto la promessa fatta agli americani di non mandare un'altra generazione sul fronte afghano. Abbiamo già chiesto troppo a quell'un per cento fra noi che portano la divisa. Non esistono guerre a bassa intensità e basso costo umano». Joe Biden torna a parlare alla nazione, per ribaltare la narrazione sulla ritirata, mentre l'ultimo aereo militare Usa ha lasciato Kabul e i talebani cantano vittoria. Biden tenta di descrivere anche l'evacuazione come «un successo straordinario, il più grande ponte aereo che una nazione abbia mai organizzato per portare in salvo i propri cittadini e quelli di altri Paesi, un'operazione in cui 13 eroi americani hanno perso la vita, e tanti altri militari, diplomatici, hanno rischiato la loro per aiutare altri». Ricorda le circostanze drammatiche: «Donald Trump aveva promesso ai talebani di ritirare le truppe già entro il primo maggio, e aveva costretto il governo afghano ad aprire le prigioni liberando 5.000 combattenti. Quando sono diventato presidente io, i talebani erano già tornati al massimo delle loro forze dal 2001. In qualunque momento avessimo fissato l'evacuazione, o se avessimo cominciato il rimpatrio a giugno o a luglio, si sarebbe scatenata la stessa ressa, lo stesso panico verso l'aeroporto». Stima che «il 90% dei nostri cittadini sia uscito», che rimangano in Afghanistan tra i cento e i duecento americani, molti dei quali con doppia cittadinanza e forse intenzionati a rimanere, ma «per loro non c'è scadenza, li riporteremo a casa quando vorranno». Ricorda che gli Stati Uniti e tutta la comunità internazionale hanno intimato ai talebani di rispettare la libertà di movimento e il diritto di partire. Biden difende la scelta strategica con un argomento già usato nelle ultime giornate: non c'era una via di mezzo. Ritirarsi oppure ricominciare un'escalation, e lui aveva promesso di non sacrificare altre vite per una guerra che doveva finire già molto prima. «Ho sempre assicurato che essendo il quarto presidente in questa guerra, non l'avrei passata a un quinto». No a un conflitto a tempo indefinito, dopo che 2.400 soldati Usa hanno già perso la vita nella guerra più lunga. «Ci sono ragazzi ventenni che non hanno mai conosciuto un'America in tempo di pace». Ripercorre la storia di questo conflitto anomalo: cominciò per dare la caccia a Osama Bin Laden e colpire i responsabili dell'11 settembre, ma questa precisa missione anti- terrorismo era già esaurita dieci anni fa, visto che Bin Laden fu ucciso nel 2011. Dopo, quale interesse vitale dell'America era in gioco in Afghanistan? Nessuno. Se Al Qaeda avesse avuto la sua base nello Yemen, non saremmo andati a invadere l'Afghanistan. Prosegue la sua polemica contro i fautori spesso tardivi del "nation building": nessuno è mai riuscito a costruire la nazione afghana. Difendere i diritti umani - garantisce Biden - resterà un principio guida della nostra politica estera, ma chi ha mai detto che il modo per farlo sia attraverso le guerre? E poi, spiega il presidente, il mondo è cambiato. Devo difendere la mia nazione dalle minacce del 2021, non da quelle del 2001. Il terrorismo rimane un pericolo, ma si è trasformato e si è allargato: continueremo a inseguirlo e a colpirlo. E avverte l'Isis-K: «Non abbiamo ancora finito con voi. Dovete saperlo, non ci fermeremo mai: vi daremo la caccia fino alla fine e pagherete il prezzo più alto». Dagli hacker alla cyber- guerra, sullo sfondo si stagliano i pericoli di oggi, a cominciare dalla Cina, e dalla Russia, che in questi vent' anni secondo Biden e la sua squadra ha goduto di una rendita di posizione: poteva risparmiarsi interventi militari facendo da parassita di una stabilità puntellata da truppe americane in giro per il mondo. Uno dei fili rossi che attraversano tutta la revisione strategica in atto a Washington è proprio questo: non è una versione di sinistra dell'isolazionismo, è la certezza che l'ultimo ventennio sia stato favorevole ad una formidabile accelerazione della Cina, proprio perché Pechino si è risparmiata avventure militari mentre Washington s' impantanava su teatri strategici secondari. «Dobbiamo imparare dai nostri errori. D'ora in avanti saremo concentrati su ciò che conta davvero per l'interesse nazionale e il futuro dell'America. È finita l'era delle grandi guerre per rifare nazioni».  

La partenza americana si percepirà nel tempo, sostiene Domenico Quirico su La Stampa. Rappresenta un’onda d’urto a lunga scadenza.

«Siamo ormai diventati fratelli separati dal terribile intreccio afghano di circostanze guerrigliere, dolori, invocazioni di aiuto, e sangue fotografato. Abbiamo abbandonato il nostro solo capitale laggiù, ovvero i giusti superstiti che avevano creduto nelle nostre belle bugie. Gli analisti del disastro già si accomodano per inutili e comode autopsie. Diciamolo adesso che siamo andati via: l'Afghanistan non ci piace, ci salta addosso, vuole montarci in groppa con i rimorsi per quello che non abbiamo fatto e potevamo fare, e schiantarci con la vergogna di una inimmaginabile sconfitta. Abbiamo trattato i taleban come se fossero gramigna facile da estirpare con un mignolo e invece Noi, stagionati dell'Occidente, li abbiamo sempre guardati, gli afghani, con arroganza più che con propositi di fatica e di assistenza. Lo sventurato poi che si fa migrante diventa immediatamente meno simpatico. Per questo sono già in azione le tartuferie dello zoo ideologico di oltreoceano, quelli che amano rintronarsi delle stesse parole. Per esempio: i taleban litigheranno, sono divisi una guerra civile, mullah pantofolati contro sansepolcristi forsennati del jihad, e la irrazionalità pasticciona di leader totalitari ci regaleranno la «revanche». Oppure: imbocchiamo dopo le cannonate la via diplomatica, ovviamente in accordo con alleati europei e Onu, tornati di moda. In fondo cosa sono venti anni? Insomma la scatola con dentro le stesse cose rivoltate: rinvii, mezze ansie e soluzioni di segatura. Soprattutto, farfuglia un riverito studioso che già mise a verbale la fine della Storia, dal ritiro americano non risulteranno conseguenze geopolitiche di rilievo. State quieti: l'Afghanistan è un niente. Si rilasciano certificati di buona condotta passata, presente e futura. E gli afghani? Non li sentiamo, non li afferriamo, immobili, come pietrificati in una già sfocata fotografia. Ne abbiamo per qualche giorno esaltato i lineamenti prima di confinarli opportunamente nella penombra. Rischiamo ci sfugga il filo conduttore, l'onda d'urto della umiliazione afghana. È con questo che dovremo fare i conti via via che l'esplosione di quanto è accaduto a Kabul, la sconfitta dell'Occidente, allargherà i suoi cerchi geografici svelandoci le conseguenze. Perché quelli a cui gli sbagli restano appiccicati addosso, per cui non c'è né revisione né seconde stesure, hanno visto la umiliazione americana, la fuga di notte, le armi abbandonate. In quel mondo tutto ciò si chiama sconfitta, non ritirata. E vedere, in quelle realtà, conta e lievita più che le analisi del Nyt. L'onda d'urto: perché Kabul non è né un inizio né una fine ma un punto intermedio di un periodo che appare vicino al fulcro della Storia di oggi, quando ogni cosa, ogni possibile futuro è ancora in molti altri luoghi in bilico».

Alberto Negri sul Manifesto vede nei soldati Usa che fuggono come spettri nella notte il simbolo sia della tragedia che della farsa.

«Nel caso degli Stati Uniti la storia si ripete sia come tragedia che come farsa. Hanno fatto la guerra contro Bin Laden e il Mullah Omar e ora al potere a Kabul c'è la famiglia afghana degli Haqqani, i migliori amici di Osama che ieri hanno riportato nel Paese Amin ul Haq, antico compagno di lotta del capo di Al Qaeda. Insomma la foto della famiglia jihadista si ricompone e viene subito spedita alla Casa Bianca. E non per caso: ci sono oltre 200 americani che restano da riportare a casa e con questi talebani bisogna trattare. L'ultimo soldato americano se ne è andato come uno spettro nella notte ed ecco che sta anche per arrivare un governo talebano di «consenso», il segnale che nella riconsegna del Paese agli studenti coranici la road map di Doha ha avuto un seguito concreto. Disfatta militare dell'esercito, ritiro Usa disastroso ma un «format» politico che potrebbe trovare l'approvazione di Washington. Tragedia e farsa si intrecciano tra passato e presente. Mentre ieri il presidente Biden parlava alla nazione per giustificare un enorme fallimento, 40 anni fa l'America progettava di creare un «pantano vietnamita» per l'Urss in Afghanistan. Secondo le memorie dell'ex vicedirettore della Cia Robert Gates, l'operazione "Cyclone" volta ad armare e finanziare gli insorti afgani era stata lanciata mesi prima che le truppe sovietiche entrassero in Afghanistan su richiesta di Kabul. Tuttavia, dopo una guerra di 10 anni e perdite immense, le forze sovietiche evitarono un'umiliante sconfitta in «stile vietnamita» con un ritiro ordinato concluso il 15 febbraio 1989. Non solo: allora il governo filo-sovietico di Najibullah durò altri tre anni, mentre il presidente Ghani è scappato negli Emirati con un bel malloppo. Ecco perché il tutto è un pò tragedia e un pò farsa. Gli americani diffidavano da tempo del governo che loro stessi tenevano in piedi. Tanto più che proprio in Afghanistan l'anno scorso era sparito, forse ucciso in un incidente aereo, Michael D'Andrea, detto il Principe delle Tenebre o "Ayatollah Mike", considerato il cervello della Cia dietro gli omicidi di Bin Laden e del generale iraniano Qassem Soleimani. Uno dei motivi per cui il 2 luglio gli Usa se ne sono andati dalla base di Bagram di notte e senza avvertire gli afghani era che non si fidavano più di loro. Bagram suona come un avvertimento per tutti gli alleati degli americani: possono essere abbandonati in un batter d'occhio. Nessuno si fidava più di nessuno e gli Usa non potevano più contare su nessun alleato per la ritirata. Questo è stato un fattore chiave nel disastro. Il generale Boris Gromov, ultimo comandante della 40a armata in Afghanistan, in un'intervista a Sputnik del 2019 ha rivelato che Mosca aveva mantenuto contatti con alcuni leader dei mujaheddin afghani e strinse un accordo con il tagiko Shah Massud, che aveva condotto la lotta contro le forze sovietiche nel Panshir. Fu così Massud, il nemico, a garantire un passaggio sicuro alle truppe sovietiche. E ora gli Stati Uniti devono per forza trattare con i talebani per evacuare qualche centinaio di cittadini americani. Sono gli unici alleati utili che hanno sul campo (a parte i tagiki del Panshir ma sotto assedio). Per di più avranno bisogno anche delle loro informazioni per condurre eventuali atti di ritorsione contro i jihadisti dell'Isis-Khorassan. Gli americani non riconoscono il nuovo regime a Kabul ma questo è fumo negli occhi dei loro alleati occidentali: di fatto hanno riconsegnato l'Afghanistan ai talebani con gli accordi di Doha, gli hanno fatto un regalone insomma, forse con il pensiero riposto che adesso saranno Russia, Cina e attori regionali con Pakistan e Iran a dover fare i conti, nel bene e nel male, con il pantano afghano. Un pantano c'è sempre, che si sposta come un pendolo tra Est e Ovest, per inguaiare le grandi potenze. Aspettiamo il prossimo, a scelta, tra il Sahel, l'Iraq, il Libano, la Siria, la Somalia».

I PROFUGHI E IL VERTICE DI MARSIGLIA

La prima conseguenza del ritiro è l’esistenza di nuovi profughi afghani. Giovanni Maria Del Re da Bruxelles fa il punto per Avvenire: la linea della Commissione UE è evitare una crisi come quella del 2015, ma Austria, Danimarca e Repubblica Ceca alzano muri.

«Evitare un caos migratorio come nel 2015. È il punto principale su cui si sono ritrovati d'accordo i ministri dell'Interno dei Ventisette, ieri a Bruxelles per una riunione informale interamente dedicata all'Afghanistan. «L'Ue e i suoi Stati membri - si legge nella dichiarazione comune - sono determinati ad agire congiuntamente per prevenire il ritorno di movimenti migratori su vasta scala e incontrollati affrontati nel passato. Si dovranno evitare incentivi alla migrazione illegale». «Dobbiamo evitare una crisi umanitaria - aveva ammonito subito prima della riunione la commissaria europea agli Affari Interni Ylva Johansson -, una crisi dei migranti e minacce alla sicurezza. Dobbiamo agire tutti insieme ora e non aspettare di avere grandi flussi migratori alle nostre frontiere, o terroristi più forti ». La dichiarazione sottolinea inoltre la necessità per l'Ue di «rafforzare il sostegno ai Paesi nell'immediata vicinanza dell'Afghanistan » con l'obiettivo che gli afghani in difficoltà «ricevano adeguata protezione primariamente nella regione». Insomma, in primo luogo aiutare gli afgani in patria o nei Paesi vicini. «Per ora - ha comunque precisato Johansson - non si vedono movimenti di rilievo di afghani verso i Paesi vicini, ma dobbiamo prepararci alla possibilità che lo scenario muti». Le divisioni sono però subito apparse su che fare con le persone bisognose di protezione internazionale che dovrebbero essere reinsediate in Europa. La Commissione Europea e vari Stati membri come Germania, Francia e Finlandia sono aperti ai reinsediamenti, necessari, dice Johansson, «per evitare che la gente si rivolga ai trafficanti». In gioco non solo quanti hanno strettamente cooperato con le forze occidentali (in buona parte già evacuati) ma anche categorie vulnerabili come giudici, attivisti per i diritti umani, donne e ragazze più esposte, giornalisti. Ed è qui che si è vista la spaccatura più evidente durante la riunione. Da una parte il ministro lussemburghese Jean Asselborn ha chiesto a gran voce che l'Europa accolga una fetta cospicua di profughi (ricordando che Canada e Regno Unito accoglieranno ciascuno 20.000 profughi). Dall'altra Austria, Danimarca e Repubblica Ceca hanno fatto muro. «Siamo pronti ad aiutare, ma la questione deve essere risolta nella regione - ha detto il ministro ceco Jan Hamacek - non vogliamo alimentare speranze che non possono essere soddisfatte». La Slovenia, presidente di turno Ue, è sulla stessa linea. Parigi è prudente ma aperta: «Occorre mettersi d'accordo su questi tre temi - ha detto il ministro dell'Interno Gérald Darmanin - sicurezza, controllo dell'immigrazione irregolare e accoglienza dei rifugiati». 

Draghi vola stasera in Francia da Macron. Tommaso Ciriaco e Tonia Mastrobuoni per Repubblica tracciano i contorni dell’azione diplomatica di Francia e Italia.  

«Si ritroveranno a cena. E lì, nel cuore di Marsiglia, Mario Draghi ed Emmanuel Macron cercheranno di sancire una doppia svolta. Prima di tutto rilanciare un'iniziativa italo-francese sull'Afghanistan, provando a difendere un G20 straordinario che adesso sembra imbrigliato dai veti tra superpotenze. E costruire una proposta per la difesa comune europea, che superi il meccanismo infernale dell'unanimità. I due leader ci credono. Vogliono accelerare. E intendono candidarsi a colmare la "vacatio" tedesca in Europa, frutto di elezioni politiche incerte e orfane di leadership "pesanti" dopo i tre lustri di Merkel. È il segnale politico del bilaterale, annunciano le due diplomazie. Necessario per dare risposta ad alcuni segnali allarmanti. L'ultimo, in ordine di tempo, è di ieri, con la riunione dei ministri degli Interni Ue incapace di approvare una proposta continentale sui corridoi umanitari, anche a causa delle cautele di Berlino. La crisi afghana, ovviamente, è lo spunto che ha convinto Macron a invitare il premier italiano. Il presidente francese è reduce dalla battuta d'arresto in seno al Consiglio di sicurezza dell'Onu sull'ipotesi di una "safe zone" internazionale a Kabul. Draghi sconta invece alcune perplessità angloamericane e attende il contatto telefonico del 7 settembre con il cinese Xi per verificare l'adesione di Pechino a un summit che sembra in salita. Le due difficoltà spingono i leader a ritentare, stavolta assieme. E a ragionare delle ultime due opzioni rimaste sul tavolo, cercando una sintesi. La prima è rilanciare sul G20 straordinario, puntando ancora sui corridoi umanitari gestiti sul terreno dall'Unhcr. In questa chiave, l'alto commissario per i rifugiati Filippo Grandi è stato coinvolto da Luigi Di Maio nel vertice informale dei ministri degli Esteri Ue di domani. L'altra carta, elaborata dai francesi, è quella di un "ponte" internazionale" organizzato dal Qatar. Ma non è tutto. Perché l'ambizione di Draghi e Macron è allargare al massimo la cooperazione. Sui migranti. Sulla revisione del patto di stabilità e l'eventuale Recovery bis. In Libia e Sahel. E soprattutto sulla difesa comune, in modo da portare a una svolta già nel primo semestre 2022, a presidenza francese. Ne potrebbero discutere già oggi i ministri della Difesa Ue. Non soltanto immaginando una forza d'intervento rapido di 5mila uomini con meccanismi decisionali non soggetti ai veti. Ma intensificando anche la partnership industriale e tecnologica. Anche su questo nodo, però, pesa lo stallo in Germania. Il governo attuale è favorevole a una cooperazione rafforzata o a una coalizione di volenterosi che coinvolga anche Londra. Ma l'Spd, in testa nei sondaggi, è condizionata dalla sinistra del partito. Che con un voto parlamentare ha già affossato l'eurodrone, bocciando l'eventualità che possa essere armato. Se i socialdemocratici dovessero conquistare la Cancelleria e allearsi con la Linke, la politica di sicurezza comune subirebbe un duro stop. I segnali, si diceva, sono inequivocabili. «In Germania accogliamo già 500 migranti al giorno», ha detto ieri durante la riunione dei ministri degli Interni Ue il tedesco Horst Seehofer, smentendo il ministro degli Esteri lussemburghese Asselborn che aveva chiesto all'Unione di accogliere 40mila profughi dall'Afghanistan. Berlino considera prioritario evitare un tema, quello dei ricollocamenti, che spaccherebbe non solo la Grande coalizione, ma la Ue. Nella riunione a porte chiuse di ieri, ai "soliti noti" Austria, Polonia e Ungheria si sono aggiunti almeno tre nuovi "falchi" contrari a quote di profughi afghani: Repubblica Ceca, Lituania e Danimarca. E non è un caso che tra i pochi a sollevare il tema dei corridoi umanitari sia stata proprio la Francia. Nella dichiarazione finale, però, si parla genericamente di un forum di alto livello per decidere i reinsediamenti. E a microfoni spenti qualcuno ipotizza anche un vertice straordinario dei leader europei entro il 15-20 settembre, ma solo se le spaccature dovessero rientrare. Nel frattempo ha prevalso una linea cauta: affrontare, intanto e soltanto, l'emergenza. Ossia, l'evacuazione di chi ha collaborato con i governi del continente. E non è tutto. Angela Merkel ha ribadito che «bisogna trovare il modo di parlare con i talebani», ma secondo fonti diplomatiche le trattative degli sherpa tedeschi e di altri Paesi con i nuovi padroni dell'Afghanistan sono già in corso. Lo scopo è garantire corridoi sicuri anzitutto verso i Paesi vicini - Tagikistan, Uzbekistan, Pakistan, Kirghisistan - e un sostegno economico ai governi e all'Unhcr, attraverso risorse ritagliate dal Bilancio Ue e dai fondi per la cooperazione. La sola Germania ha già promesso 500 milioni ai Paesi dell'area e 100 milioni all'Afghanistan. Ma guai a chiamarlo un accordo-bis tra Ue e Turchia, puntualizza la commissaria Ue agli Affari interni: «Non con un copia-incolla». La sfida, ora, è trovare le differenze».

SPERANZA: TERZA DOSE AD OTTOBRE?

Il punto sulla pandemia lo fa il ministro della salute Roberto Speranza in un appuntamento di partito. Giuseppe Alberto Falci per il Corriere.

«La novità di giornata arriva a sera, da Livorno, dalla Festa di Articolo 1. Lì il ministro della Salute, Roberto Speranza, fa un passo in avanti e parla della terza dose. «La nostra comunità scientifica, che è in assoluto di prim' ordine, sta facendo le sue valutazioni e presto arriveranno le sue determinazioni. Ma io ritengo molto probabile che andremo nella direzione di assumere la terza dose e con tutta probabilità partiremo dai più anziani e dai più fragili». I tempi ancora non si conoscono. Eppure dal ministero della Salute filtra che ottobre è il mese cerchiato in rosso per la programmazione della terza dose. I primi saranno gli operatori sanitari che hanno ricevuto il primo vaccino nel mese di gennaio. Poi toccherà ai fragili ai quali è stato somministrato il siero fra febbraio e marzo. Sarà questa, dunque, la direzione che intraprenderà l'esecutivo. Con una certezza, confermata da Speranza: «Non avremo mai più né in Italia né in Europa il problema dell'approvvigionamento delle dosi. E già adesso abbiamo certezze che le dosi ci saranno per tutti». Oltretutto il mese di ottobre sarà l'orizzonte di un altro dossier sul tavolo del governo, che riguarda l'estensione del green pass a tutti i dipendenti delle pubblica amministrazione. Spiega però un ministro che «si vuole prima vedere quali saranno gli effetti della riapertura delle scuole sulla curva epidemiologica. Solo a quel punto si comincerà a ragionare di green pass ai dipendenti degli uffici pubblici». È vero, altresì, che il ministro della Pa, Renato Brunetta, ci sta lavorando. Non a caso in una nota in cui commenta le stime preliminari sulla crescita del Pil nel secondo trimestre del 2021 Brunetta sottolinea come «questa crescita potrebbe essere addirittura superiore, se si ripristinerà la modalità di lavoro ordinaria di lavoro in presenza, tanto nel pubblico quanto nel privato». Tradotto, il ripristino del lavoro in presenza lo si può fare solo grazie al green pass. Anche Pierpaolo Sileri è favorevole: «Andrei oltre». Il viceministro della Salute ammette che sarebbe un errore aspettare fino a ottobre: «Valuterei ora cosa accade nel nord Europa, perché tutte le ondate sono partite da lì, dove le temperature si abbassano prima che da noi e dove hanno riaperto le scuole e le attività prima». Una posizione condivisa dall'ex ministro della Salute Beatrice Lorenzin(Pd): «Il green pass per il personale della Pa è il minimo per cercare di limitare il diffondersi del virus tra coloro che sono a contatto con il pubblico e mantenere efficienti i servizi pubblici».

VIMINALE STAZIONI, TOLLERANZA ZERO

Grande allarme stamane sui giornali per il primo giorno di Green pass su treni a lunga percorrenza ed aerei. La cronaca di Alessandra Ziniti per Repubblica.

«La scommessa è quella di garantire la sicurezza e la normale fruizione della rete ferroviaria italiana. «Non verranno tollerati minacce e inviti a commettere reati utilizzando il web e non saranno ammesse illegalità in occasione delle iniziative di protesta nei pressi delle stazioni ferroviarie pubblicizzate sulla rete», annuncia la ministra Luciana Lamorgese. Dal Viminale arrivano precise indicazioni ai prefetti alla vigilia di una giornata che si preannuncia caldissima sul fronte delle proteste dei No Vax e dei No Green Pass. Stazioni blindate sin dalla notte per garantire che dalle primissime ore della mattina, all'entrata in vigore dell'obbligo di esibire la certificazione verde per viaggiare sui mezzi di trasporto a lunga percorrenza (dunque treni ad alta velocità e intercity per quel che riguarda il traffico ferroviario, aerei, autobus che collegano più di due regioni e navi che collegano regioni diverse), non si verifichino incidenti. Le manifestazioni organizzate di fronte a 53 stazioni delle principali città sono convocate per le 14.30 ma i dispositivi di sicurezza disposti dai comitati per l'ordine e la sicurezza scatteranno all'alba. Il tam tam di altre proteste non annunciate ufficialmente è già stato intercettato sui social. Il timore è che tra il popolo che protesta contro l'obbligo della certificazione verde si infiltrino frange organizzate di destra e di movimenti antigovernativi pronti ad approfittarne per alzare il tiro. E il monitoraggio di queste ore dell'intelligence avrebbe intercettato possibili partecipazioni dall'estero a conferma che la galassia No Vax è ben più vasta e pericolosa dei numeri ridotti suggeriti dai dati delle vaccinazioni, visto che in Italia il 70 per cento della popolazione è già immunizzata. Anche il Copasir ha acceso i riflettori su questa escalation di violenza attorno al movimento No Vax e ne chiederà conto la prossima settimana a Franco Gabrielli, autorità delegata per la sicurezza. Ma oggi c'è da garantire che chi viaggia lo faccia in sicurezza e, ovviamente, con il Green Pass alla mano. Preoccupano meno aeroporti e porti dove i controlli sono già più strutturati. E dunque lo schieramento delle forze dell'ordine è tutto sulle stazioni. Polizia ferroviaria e Digos innanzitutto, coadiuvate all'esterno dai reparti mobili di polizia e carabinieri, con un duplice obiettivo: sventare qualsiasi tentativo di occupazione dei binari per fermare i treni, così come minacciato dai manifestanti, ma anche proteggere gli addetti alle verifiche del Green Pass affidate a personale delle stazioni. Nelle grandi stazioni, come Roma Termini o Milano centrale, dove l'ingresso ai binari è regolato dai tornelli, alle spalle degli addetti delle stazioni che dovranno chiedere oltre al biglietto anche il Green pass, ci saranno uomini delle forze dell'ordine. Più complicati sono i controlli nelle stazioni più piccole dove l'ingresso ai binari è libero. Per questo il dispositivo prevede agenti della Polfer in pattuglia sui treni, per proteggere i controllori da eventuali rifiuti violenti di passeggeri sprovvisti della certificazione verde. «Se qualcuno dei manifestanti No Vax o No Green Pass domani arrecherà disagi alla circolazione ferroviaria bloccando le stazioni, andrà incontro ad una denuncia per interruzione di pubblico servizio annuncia il sottosegretario all'Interno Carlo Sibilia - Un conto è manifestare pacificamente, altra cosa è creare disagi alle altre persone. Saremo intransigenti». Sulle richieste di manifestazioni i questori hanno deciso dopo aver valutato la sicurezza dei luoghi. «Nessuno vuole porre limiti al diritto a manifestare pacificamente in luoghi sicuri e controllati - sottolineano dal Viminale - ma è chiaro che se qualcuno pensa di potere manifestare sul piazzale di una stazione o a pochi metri dai binari non può essere autorizzato». Insomma, l'allerta è massima. Il Viminale, già nell'occhio del ciclone, non può permettersi alcun passo falso ma il controllo dell'intera rete ferroviaria è assai complicato. E non si può neanche militarizzare le stazioni né schierare i reparti antisommossa per evitare che una qualsiasi provocazione generi una pericolosa guerriglia sul terreno. Ma la tensione sta salendo in tutto il Paese con la caccia all'uomo scatenata sulla chat di Telegram utilizzata dai No Vax che distribuisce minacce con politici, amministratori, medici presi di mira, i loro indirizzi, numeri di telefono diffusi online. «Attacchi mossi con toni inaccettabili sulla rete. Tutti questi episodi - assicura la ministra dell'Interno Lamorgese - sono oggetto di indagine da parte della polizia giudiziaria». 

NO VAX, DESTRA E SINISTRA NON C’ENTRANO

Antonio Padellaro sul Fatto critica Matteo Salvini, che mantiene una posizione ambigua sui No Vax.

«Senza offesa, ma il Salvini che bofonchia qualcosa contro la violenza e deplora il "clima da stadio no vax, sì vax" ci ricorda quei personaggi che negli anni di piombo dicevano "né con lo StatonéconleBr", perché sotto sotto tifavano Br. Quando il volpone Michele Emiliano dice al leghista "apprezzo il tuo sforzo per trovare una visione del Paese", fissando la svolta della conversione in Salvini prima di Draghi e in Salvini dopo Draghi (come per gli antichi c'era un prima di Cristo e un dopo Cristo) evita, tra i tanti "sforzi" visionari attribuiti al Matteo miracolato, di citare la questione vaccini, perché anche in Puglia c'è un limite a tutto. Eppure, il fronte sovranista, e salvinista, ci ha costruito una fortuna elettorale sulla sorda (e spesso sordida) campagna a difesa della "libertà" che ciascuno ha di non vaccinarsi, di prendersi il Covid ed eventualmente anche di rimetterci la pelle. Sorvolando sul piccolo particolare che nell'esercitare il sacrosanto diritto a finire dritti in terapia intensiva (magari non a spese della collettività ma pagandosi il ricovero, come chiede l'assessore alla Sanità del Lazio D'Amato) i fuori di testa mettono a rischio anche la salute del prossimo. Il Salvini di governo e buon padre di famiglia non è certamente un No-Vax, e siamo convinti che sia corso a vaccinarsi perché giustamente teme il contagio e vuole proteggere la salute sua e dei suoi cari (probabilmente vaccinati anch' essi). Altra cosa è il Salvini di lotta leader della Lega a cui non sentiremo mai dire ai fuori di testa se sono matti a non vaccinarsi, perché pure i fuori di testa votano e dunque molto meglio non disturbarli e tenersi le mani libere: né con i Sì-vax, né con i No-vax. Come se fossero la stessa cosa. Non sappiamo come andrà a finire oggi con i fascisti di Forza Nuova decisi a fomentare i fuori di testa per bloccare i treni nelle stazioni. Il clima è pessimo e se, speriamo di no, dovesse succedere qualcosa di spiacevole, scommettiamo che il convertito dal Draghi farà il consueto sermoncino su libertà di manifestare sì, ma la violenza no? E tanti bacioni a chi si ammala».

Giuliano Ferrara sulla prima pagina del Foglio cerca di capire che cosa anima i No Vax.

«Perché un certo numero di persone non si lascia convincere dai dati di fatto, considera con sospetto informazioni di base scientifica, contesta l'autorità sanitaria e civile, trasforma in protesta anche violenta l'opposizione ai vaccini contro il Covid, elabora e comunica sui social o in tv complicate teorie del complotto a narrare di un potere criminale intento a soggiogare libertà e autonomia dell'individuo, a modificare geneticamente la natura umana per scopi inconfessabili di dominio? Una ragione che forse spiega il fenomeno è nel bisogno di antagonismo ideologico. Solo un conformista non capisce che esiste una diffidenza ovvia, minoritaria ma per così dire naturale, verso rimedi medici e vaccini. In certi casi, pericolosi in un regime di epidemia, ci si deve difendere da questa diffidenza con procedure di emergenza che implicano un costo per coloro che in nome della libertà di cura, principio sacrosanto, pretendono un'impossibile tolleranza verso il rischio del contagio, per sua natura un fatto di relazione con gli altri. La libertà di cura vale anche per chi non vuole esporsi all'epidemia in un ospedale, in una scuola, in una pubblica amministrazione, in un reparto di degenza per vecchi, in un mezzo di trasporto collettivo eccetera. Ma non è quello che è in questione qui. I No vax sono sempre esistiti, ma in queste forme il movimento militante no vax è una novità, è nuova la motivazione del complotto, la mobilitazione attiva e con strumenti propagandistici e politici, l'ideologia che rigetta per ragioni antropologiche di conio libertario l'uso della mascherina, il distanziamento sociale, e si fa appello a manifestare in piazza, degenera in violenta persecuzione di operatori del settore e giornalisti, cerca di alimentare una contrapposizione di aspro sapore morale contro regole e poteri di controllo su cui si fonda da sempre la coesione di una società democratica e liberale. Il Novecento delle guerre, compresa la lunga stagione della Guerra fredda, ha dato sfogo ampiamente al conflitto latente nella condizione umana, la pace era subordinata alla battaglia tra opposti sistemi di valore. Le classi dirigenti occidentali e i poteri totalitari avevano una forte legittimazione, organizzata secondo procedure liberali nel mondo non fascista e non comunista, e realizzata con la coazione e il conformismo di stato nei regimi autoritari di massa. Nei due sistemi in conflitto vigeva il dogma del rapporto necessario con la realtà delle cose, il mondo di guerra era un universo machiavellico, razionalità e scienza erano schierate su fronti opposti ma concorrevano a una comune base culturale di tipo strumentale. Con l'esplosione della pace è cambiato tutto. Con l'unificazione del mondo, con il mondialismo e la globalizzazione, il naturale antagonismo della natura umana non ha avuto più il suo nutrimento ideologico tradizionale, ed è cominciata la ricerca di un Ersatz, di un succedaneo, con la sostituzione a quello scontro titanico fra mondi contrapposti di un sottoprodotto capace di tornare a esprimere l'opposizione di valori contro l'acquisito pensiero dominante della pace, del progresso, della tecnologia, del primato dei mercati unificati, dei diritti. Vale anche per l'ecologismo apocalittico, vale per gli estremismi fanatici del # Metoo, vale per la trasformazione dell'aborto in diritto della persona, vale per la cancel culture che riscrive la storia e delegittima le basi su cui fu edificato il mondo contemporaneo. L'opposizione alla scienza, copertura di un potere malsano e malintenzionato, e il rigetto delle tecnologie mediche, la mobilitazione in forme populiste e antidemocratiche del movimento che vuole cancellare le regole inique scritte da poteri delegittimati sono, per una minoranza chiassosa e furibonda di antagonisti, un capitolo della guerra culturale che fa da surrogato, in tempo di pace e convergenza universale, all'epoca delle grandi guerre guerreggiate».

Nuovo affondo di Alessandro Sallusti su Libero:

«Siamo nella lista nera dei cattivi perché abbiamo chiamato i criminali con il loro nome, che non è No vax ma per l'appunto "criminali". Lo ripetiamo, a scanso di equivoci: uno è libero di non vaccinarsi, a nostro avviso sbaglia di grosso, ci mancherebbe altro, ma non di sfasciare la testa a giornalisti e virologi né di minacciare di morte i politici e chiunque si dica a favore della vaccinazione e del Green pass. I movimenti e i personaggi estremisti e violenti che si stanno infiltrando nel dibattito tra i pro e i contro la vaccinazione sono un pericolo come a suo tempo lo furono tutti i terrorismi. E dirlo chiaro e forte non vuol dire essere di sinistra come gli stupidi di turno hanno sostenuto ieri. Di più, vaccinarsi non è di sinistra, è semplice buon senso. Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, i tre leader del Centrodestra, così come milioni di loro elettori, sono vaccinati e muniti di Green pass e lo stesso vale per la stragrande maggioranza di politici di destra e sinistra, anche per quelli che in queste ore strizzano l'occhio ai no vax e insistono con il liberticidio che sarebbe in atto per via del certificato vaccinale che è un obbligo esibire in determinate circostanze. Affari loro, ognuno fa il suo mestiere come meglio crede, basta non prenderci in giro. Una volta si diceva che la destra è sì libertà ma anche "ordine e disciplina" e soprattutto onore, requisiti che non vedo in quei gruppuscoli che hanno aperto una vigliacca caccia all'uomo contro chi la pensa diversamente da loro (ammesso che un pensiero ce l'abbiano). Non cadiamo nel tranello di pensare che tutti i No vax siano teppisti, ma sta di fatto che questi teppisti sono tutti No vax o almeno sostengono di esserlo e noto una certa ritrosia - quasi un consenso - dei renitenti al vaccino a prendere le distanze e a dire forte: non in mio nome. Saremo sempre in prima linea a difendere la libertà di pensiero di chiunque, ma anche sempre in prima linea a denunciare qualsiasi tipo di violenza e intimidazione. Noi siamo convintamente liberali e per questo altrettanto favorevoli alla campagna vaccinale e a tutto ciò che serve e servirà per non perdere di nuovo tutte le libertà come è accaduto nel recente passato. Il resto è soltanto demagogia da social».

VACCINI PER TUTTI, NUOVO APPELLO

Angela Ianaro, farmacologa, deputata M5s e presidente Intergruppo parlamentare 'Scienza & Salute', dalle colonne di Avvenire rivolge un appello a Mario Draghi.

«Gentile direttore, le notizie di questi ultimi giorni sul tema dei necessari obiettivi della campagna internazionale di vaccinazione anti-Covid impongono alla politica e all'opinione pubblica italiana e mondiale delle riflessioni molto serie e anche delle decisioni non più rinviabili per il bene della collettività. Purtroppo sta accadendo quanto paventato da molte autorevoli personalità, e anche da me, all'inizio di quella che si sta rivelando come una delle campagne vaccinali più imponenti della storia: senza l'intervento di un'azione coordinata a livello globale, la logica di mercato sta prendendo il sopravvento e le multinazionali farmaceutiche coinvolte stanno, com' è logico che sia, approfittando della situazione per incrementare i propri profitti. E così, abbiamo appreso dallo studio congiunto Oxfam-Emergency che solo Pfizer/BioNTech e Moderna potrebbero far pagare quest' anno agli Stati 41 miliardi di dollari in più rispetto al costo di produzione stimato dei vaccini. Poi il Financial Times ha svelato quelli che sarebbero gli effettivi rincari: Pfizer/ BioNTech avrebbe aumentato il prezzo del proprio vaccino di oltre il 25% e Moderna di oltre il 10% creando, come ha giustamente sottolineato su queste pagine il professor Renato Balduzzi, un 'oligopolio' di fatto con cui si hanno pochi o nulli margini di spazio nella trattativa, essendo di fatto i vaccini a mRNA gli unici su cui si sta investendo, almeno a livello europeo. Non si tratta di mettere all'indice questi colossi farmaceutici: fanno semplicemente il loro mestiere, cioè incrementano i propri affari. Si tratta piuttosto di riaffermare il primato della politica che in un tempo di pandemia non può che mettere al centro il diritto alla Salute, che i nostri padri costituenti hanno voluto inserire, non a caso, tra i principi fondamentali all'articolo 32. È per questo che ho chiesto al presidente del Consiglio Mario Draghi e al ministro della Salute Roberto Speranza un impegno ancora più forte per sensibilizzare l'Unione Europea e tutti gli Stati di buona volontà sulla richiesta della sospensione temporanea dei brevetti che, in sede di Organizzazione mondiale del commercio, è portata avanti da India e Sudafrica. È necessario aumentare la produzione dei vaccini e garantire l'approvvigionamento anche agli Stati del Sud del mondo che sono ancora ben lontani da una copertura vaccinale sufficiente. Inoltre, si tratta di sancire il principio del 'vaccino bene comune' o, come è stato brillantemente scritto su 'Avvenire', come 'nuovo pane quotidiano della solidarietà' a cui tutti devono poter accedere a costi ragionevoli. Il mio ragionamento non vuole essere una messa in discussione della proprietà intellettuale. Dobbiamo essere grati ai ricercatori di queste case farmaceutiche che, in tempi record, hanno messo a punto dei vaccini che potrebbero presto portarci fuori dalla pandemia. Ma non dobbiamo neanche dimenticare che queste aziende hanno goduto dei finanziamenti elargiti dagli Stati per portare avanti le loro sperimentazioni. Dunque, con la sospensione temporanea dei brevetti, peraltro prevista dall'Accordo Trips nel caso di emergenze di sanità pubblica, avremo la possibilità di produrre un maggior numero di dosi e di garantirle a prezzi più contenuti. Se c'è una lezione che abbiamo imparato dalla pandemia è che l'egoismo non paga. E che se vogliamo uscirne, non dobbiamo pensare solo al nostro giardino, ma anche ai Paesi più poveri, dove si continuano a generare varianti che, prima o poi, faranno la loro comparsa anche da noi, come avvenuto per la famigerata variante Delta. Giustizia sociale, solidarietà, ma anche motivazioni di carattere sanitario ci dicono che questa è la soluzione migliore. Mi tornano in mente le parole di papa Francesco quando sottolineò l'importanza di essere guidati da «uno spirito di giustizia che ci mobiliti per assicurare l'accesso universale al vaccino e la sospensione temporanea del diritto di proprietà intellettuale». Troppo spesso noi legislatori elogiamo le parole del Papa senza poi lavorare per rendere concreti i suoi auspici. Ora è il momento di passare dalle parole ai fatti».

SCUOLA, TORNANO LE ORE DI 60 MINUTI?

Sul Messaggero Lorena Loiacono racconta che in diversi istituti (è competenza dei Presidi) si sta pensando di riportare le ore scolastiche ai canonici 60 minuti.

«Un ritorno al passato, di quelli di cui si sentiva la mancanza. Le scuole infatti, quest' anno, potranno tornare alle lezioni in classe da 60 minuti. Riappropriandosi di quelle ore di studio in aula che per colpa della pandemia erano state perse, con la formula delle lezioni ridotte a 50 minuti. E non è poco, soprattutto ora che ci sarà bisogno di recuperare gli apprendimenti andati perduti negli ultimi due anni. Certificati anche dalle rilevazioni Invalsi. In classe quindi si torna alla normalità, per studiare tutti in presenza, e lo si fa alla vecchia maniera. Lo scorso anno appunto, le lezioni erano state tagliate di 10 minuti, in moltissimi casi, per far sì che gli studenti delle superiori con gli orari scaglionati non uscissero troppo tardi da scuola. In quel modo, infatti, si tagliava la giornata di un'ora o forse più: le classi vedevano tutti i docenti, per non restare indietro con i programmi, ma lo facevano con orari ridotti. E così entrando alle 10 di mattina, ad esempio, svolgevano 6 lezioni in 5 ore o poco più. Non solo, quei dieci minuti in meno servivano anche ai ragazzi delle superiori che seguendo online, da casa, avevano il tempo di staccare gli occhi dallo schermo e riposare la vista. Ora che la didattica a distanza non è più prevista, salvo casi di quarantena, non si presenta più la necessità di ridurre l'orario. Non solo, senza Dad non si potrebbe neanche recuperare quei minuti persi: «Lo scorso anno - spiega infatti Cristina Costarelli, presidente dell'Associazione nazionale dei presidi del Lazio - le scuole potevano approfittare della didattica digitale integrata per recuperare i minuti tagliati, utilizzando le lezioni online. Quest' anno non sarebbe possibile. Restiamo quindi volentieri in presenza per 60 minuti. Moltissime scuole, potendolo fare, si stanno organizzando in questo senso». Una novità che interessa soprattutto i ragazzi delle scuole superiori, che lo scorso anno trascorsero in Dad buona parte delle loro lezioni che venivano quindi ridotte, ma anche le scuole medie che, tra quarantene, zone rosse e scaglionamenti, si vedevano ridurre le lezioni di dieci minuti l'ora. La decisione non è dettata dal ministero dell'Istruzione ma spetta ai singoli consigli di istituto che, riunendosi, stabiliscono l'orario scolastico da seguire».

LA CRESCITA DEL PIL NEL SECONDO TRIMESTRE

Buoni dati dall’Istat sul Pil in Italia. Gianni Trovati sul Sole 24 Ore.

«Sono stati i consumi interni a produrre larga parte della ripresa italiana nel secondo trimestre. Il dato emerge dalla stima definitiva del Pil diffusa ieri dall'Istat, che conferma i numeri preliminari pubblicati a fine luglio (+2,7% in termini congiunturali rispetto al primo trimestre, +17,3% in termini tendenziali rispetto allo stesso periodo 2020) e ne dettaglia le componenti. I consumi delle famiglie hanno prodotto una spinta del 2,8%, un altro 0,5% è arrivato dagli investimenti fissi lordi e uno 0,3% dall'export, mentre la diminuzione delle scorte ha determinato una contrazione dello 0,8% e il contributo della spesa pubblica è stato negativo per due decimali. Nello stesso periodo, chiosa l'analisi dell'Istituto di statistica, «le ore lavorate sono cresciute del 3,9% in termini congiunturali, le posizioni lavorative dell'1,9% mentre i redditi pro capite sono risultati sostanzialmente stazionari». I nuovi conti economici trimestrali traducono dunque in cifre prima di tutto quello che si poteva vedere a occhio nudo, cioè l'effetto espansivo della ripresa delle attività con il progressivo allentamento delle restrizioni anti-pandemia che hanno accompagnato la discesa dagli oltre 20mila contagi giornalieri di fine marzo alle poche centinaia di fine giugno. Ma i numeri gettano anche qualche premessa positiva sul trimestre estivo, che potrebbe fotografare per la terza volta consecutiva un'economia italiana in risalita anche se con un tendenziale meno spumeggiante: il +17,3% confermato ieri nasce infatti dal paragone con il trimestre schiacciato dal lockdown 2020, mentre i dati di luglio-settembre 2021 dovranno confrontarsi con l'unico trimestre di (forte) rimbalzo registrato lo scorso anno. I semi positivi per il nuovo periodo sono gettati soprattutto dalla diminuzione delle scorte e dal contributo negativo della spesa pubblica, che quindi non ha dopato i dati appena elaborati dall'Istat. La dinamica del turismo estivo, favorita anche dal cambio dei parametri nella colorazione epidemica delle regioni che ha posticipato a fine agosto la ricomparsa della prima zona gialla, dovrebbe far proseguire la corsa dei servizi, che anche nel periodo aprile-giugno hanno fatto segnare un +2,9% contro il +1,6% raggiunto dall'industria mentre l'agricoltura è rimasta stabile. L'effetto rimbalzo dopo le restrizioni è evidente nella graduatoria della ripresa, che vede in testa commercio, alloggio, trasporto e ristorazione (+8,3% congiunturale) seguiti dalle attività artistiche e di intrattenimento (+7,7%). Il quadro offerto dall'Istat non è senza conseguenze. Con una crescita acquisita del 4,7%, e una Nadef in arrivo che potrebbe registrare una ripresa annuale intorno al 6% e un deficit più vicino al 10% che all'11,8% ipotizzato nel Def di aprile, sarà forte la spinta politica a considerare archiviata la crisi e a mettere in campo nuove misure di spesa, tanto più con una congiuntura tra le più vivaci dell'Eurozona (+2% medio, +1,6% in Germania e +0,8% in Francia). Ma l'Italia è stata tra i primatisti anche nel crollo del 2020, e nei numeri si incontra anche qualche allerta. È evidente l'esigenza di evitare un ritorno dell'Italia multicolore che nell'ultimo inverno ha cadenzato la geografia delle chiusure, e che riproponendosi azionerebbe un freno potente al primo motore della ripresa italiana. Ma è chiara anche l'urgenza di superare in fretta le difficoltà incontrate fin qui dall'industria nell'adeguarsi al riequilibrio della domanda, mentre l'aumento delle ore lavorate più forte rispetto al tasso di crescita conferma che la lunga stagnazione della produttività italiana prosegue».

Dario Di Vico dalla prima pagina del Corriere però avverte: niente entusiasmi per il dato del Pil. Sarà il terzo trimestre a dirci la verità sulla ripresa italiana.

«Il riepilogo sull'andamento economico del secondo trimestre 2021 va maneggiato con cura. E quel +17,3% sul secondo trimestre '20 è un numero che va letto e dimenticato. Non ci racconta niente di significativo sull'itinerario dell'economia italiana al tempo della variante Delta perché il confronto è con un trimestre tragico, condizionato dall'offensiva del virus. Caso mai vale la pena aspettare i dati sul terzo trimestre '21 che dovranno rapportarsi a un analogo periodo del '20 decisamente effervescente. Ma torniamo ai numeri di ieri: il +2,7% di aprile-giugno di quest' anno su gennaio-marzo è sicuramente un buon risultato, anche se è una mera conferma di quanto era stato previsto dall'Istat in sede di stima preliminare. Significa però che la crescita acquisita per il 2021 è del 4,7%, non poco. Di conseguenza se ne può dedurre che il dato definitivo del Pil dell'anno in corso finirà per oscillare tra il +5,5 e +6%, come sostengono diversi istituti indipendenti di ricerca. È interessante poi vedere come quel 2,7 sia stato trainato in gran parte dai consumi dalle famiglie e in misura minore dagli investimenti mentre la componente dell'export non è stata così larga come i risultati, ad esempio del food, potevano far sperare. Anche in questo caso - consumi delle famiglie - è successo solo ciò che si auspicava ovvero che per un effetto di rotazione della domanda i cittadini riprendessero a spendere laddove si erano dovuti limitare a causa delle restrizioni sanitarie. Merita una segnalazione anche l'aumento congiunturale delle ore lavorate (+3,9%) e delle posizioni lavorative (+1,9%). Detto questo, bisogna però essere molto cauti, il percorso che dovrebbe portarci verso l'auspicato 6% non è affatto in discesa. Anzi. Ce lo suggeriscono innanzitutto un paio di indicatori: l'ultima indagine a campione del Centro Studi Confindustria sulla produzione industriale riferita a luglio segnala una imprevista contrazione dello 0,7% rispetto al mese precedente e l'indice Istat di fiducia delle imprese ad agosto, dopo 8 mesi consecutivi di aumento, è calato da 115,9 a 114,2 (mentre quello delle famiglie ha subito solo una limatura da 116,6 a 116,2). Niente di trascendentale ma comunque un'inversione della tendenza. Se poi passiamo dalle statistiche alla fenomenologia economica le raccomandazioni alla cautela trovano nuovi argomenti. Il primo caveat arriva dalla crisi di approvvigionamento dei semiconduttori rivelatasi più grave e più lunga del previsto. Fermate dell'industria dell'automotive si stanno susseguendo in tutto il mondo e in Italia hanno interessato Pomigliano, la Sevel di Atessa e adesso Melfi, il più grande stabilimento di Stellantis in Europa. L'oroscopo di settembre non promette niente di buono e il rischio che la crisi dei semiconduttori si protragga nel 2022 è concreto. E a quel punto potrebbe compromettere non solo i programmi produttivi dell'auto ma anche quelli dell'elettronica e dell'industria dei macchinari. Per finire è giusto invitare a tener d'occhio il fronte dei prezzi. Se le ultime notizie indicano un raffreddamento degli aumenti di trasporti e noli, il boom delle materie prime alimentari sta creando tensione lungo la filiera, come testimoniato ieri dal dibattito dei panel di Cibus a Parma. L'industria si vedrà obbligata a trasferire a valle il maggior esborso per le commodity con il rischio concreto di determinare rilevanti aumenti dei prezzi al consumo, che andrebbero a raffreddare proprio il maggiore driver (la spesa delle famiglie) degli aumenti di Prodotto interno lordo degli ultimi mesi. Ma si può vivere di solo export? Direi proprio di no».

MONOPATTINI, SI PENSA AD UNA LEGGE

Nuovi tragici episodi nell’uso dei monopattini elettrici in città spingono al varo di una legge ad hoc. Sul Quotidiano Nazionale Guido Bandera.

«Una giovane mamma finita sotto un Tir, lo stagionale caduto sull'asfalto e trovato morto la mattina dopo da un passante. E poi il tredicenne ucciso da una scivolata su una pista ciclabile lunedì a Sesto San Giovanni. In comune tutti avevano una sola cosa: il monopattino elettrico sul quale viaggiavano al momento in cui il destino li stava aspettando. Otto vittime dal 2020, sei soltanto da gennaio 2021, per 546 incidenti censiti in Italia, di cui 123 gravi, con 11 ricoveri in rianimazione e 24 feriti con conseguenze di lunga durata. Poche cifre, raccolte dall'Aci e dall'Asaps, l'associazione degli amici della polizia stradale, raccontano il prezzo versato alla mobilità sostenibile, alla passione che ha invaso le città nell'epoca della svolta elettrica e del lockdown. Le tavolette a batteria, veloci, poco costose, pratiche, a posto con la coscienza ecologica, non sono ancora così numerose da insidiare neppure da lontano il primato del tributo di sangue che ogni anno esigono motociclette e automobili: 106 morti nella sola provincia di Milano nell'arco di 12 mesi. Ma l'allarme per la mancanza di regole certe sull'uso dei nuovi dispositivi, accolti dal legislatore con entusiasmo nel 2020, cresce insieme al bollettino dei feriti, gravi, che specie nelle metropoli aumentano al pari dei comportamenti scorretti. «Casco e assicurazione obbligatoria», invocano ora sindaci, come Dario Nardella di Firenze, o amministratori regionali, come l'assessore alla sicurezza lombardo Riccardo De Corato. A Milano, Beppe Sala, la cui giunta è stata fra le prime ad aprire alle società di sharing, il noleggio libero dei monopattini, arrivati a quota seimila, con tanto di sequestri e inchiesta della Procura della Repubblica, rivendica di essere stato «tra quelli che da più tempo sollecitano una regolamentazione. E se non la farà lo Stato, ci dovranno pensare le città». Roberto Di Stefano, sindaco di Sesto San Giovanni, dove lunedì il piccolo Fabio Mosca, con l'entusiasmo dei suoi 13 anni, è salito sul mezzo elettrico di un amico per provarlo e si è schiantato perdendo la vita, è invece intervenuto subito con un'ordinanza: per chi viaggia con le tavolette a batteria obbligo del casco e limiti di velocità di 20 chilometri all'ora (non 25 come in tutta Italia) sulle ciclabili e 5 nelle aree pedonali. Resta il problema, irrisolto, dei controlli e del rispetto delle regole, ma più ancora della consapevolezza di chi viaggia su questi mezzi della poca protezione che offrono e della vulnerabilità a cui espongono. Un esempio per tutti? L'anonimo ragazzo ripreso, cappellino in testa, sfrecciare fra le auto a Roma, lungo il tratto urbano dell'autostrada per L'Aquila. Il problema dell'inconsapevolezza dei rischi rimane sul tavolo, anche perché, se i mezzi da noleggio sono limitati a 25 chilometri orari di velocità, «truccare un monopattino è un gioco da ragazzi - spiega il segretario delle scuole guida Christian Filippi - e non serve un ingegnere». Resta, comune, la progressione nei numeri degli incidenti fatali. Dai 2 dell'intero 2020 ai sei dei primi 8 mesi del 2021».

IL CASO LINO BANFI: PORCAPUTTÉNA NON SI DICE

Il Moige ha ottenuto che venga censurato Lino Banfi. Massimo Gramellini sulla prima pagina del Corriere.

«Prima o poi la smania purificatrice doveva arrivare anche lì: a Lino Banfi che dice porcaputténa. Lo dice da quarant' anni, senza particolari conseguenze sulla psiche di svariate generazioni. Lo ha ripetuto Ciro Immobile in mondovisione dopo il primo gol agli Europei e ha portato pure bene. Ma adesso che a New York hanno tolto dal menu gli spaghetti alla puttanesca, non poteva durare. Il Moige che invoca la censura per lo spot di Banfi è un capolavoro del grottesco. Prima tira in ballo fantasmatici genitori preoccupati dagli effetti del porcaputténismo su una prole cresciuta con i ditirambi dei rapper. Poi cita nientemeno che Nanni Moretti - «le parole sono importanti» - per spiegare che certe volgarità «sulla lunga sono controproducenti», anche se forse intendeva dire «alla lunga» (le parole sono importanti). Infine, notizia di ieri, spaccia esultante un programmato cambio di slogan - ogni episodio dello spot ne ha uno diverso, l'ultimo è «lapalissienemente» - per una vittoria della censura, intestandosi un demerito che non ha. Se proprio si volesse salvaguardare l'infanzia dalle oscenità degli adulti, basterebbe cominciare dai telegiornali. «Anche da noi chi parla in tv ha i fucili puntati addosso?» ha chiesto un bambino dopo avere visto le immagini del talk show talebano il cui conduttore era sotto il tiro di un manipolo di invasati. Col permesso del Moige è stato bello rispondergli: «No, perché qui siamo in democrazia e ci teniamo ancora alle apparenze, porcaputténa».

TORNA LA PAURA IN CAMERUN: RAPITO UN PRETE

Ritorna la paura in Camerun. La cronaca di Avvenire.

«Continuano le violenze nel Camerun anglofono. Un prete cattolico è stato sequestrato nella regione sud-occidentale dai miliziani che lottano per una maggiore autonomia delle due regioni anglofone ricche di risorse naturali. I responsabili del rapimento hanno chiesto un riscatto di 30mila euro. «Nell'ovest del Camerun è stato preso da un commando armato padre Julius Agbortoko, il vicario generale della diocesi di Mamfé - hanno confermato ieri le autorità -. Il rapimento è avvenuto domenica mentre il religioso si trovava in visita presso il nuovo seminario di Kokobuma». I miliziani separatisti sono noti per i numerosi rapimenti che coinvolgono religiosi, studenti e autorità locali. Nella maggior parte dei casi i sequestrati vengono liberati dopo alcuni giorni. Nel giugno del 2020 i separatisti anglofoni avevano rapito il cardinale Christian Wiyghan Tumi, 90 anni, arcivescovo della diocesi di Douala. Il religioso era stato liberato qualche ora dopo. Insieme a lui era stato sequestrato il re di Kumbo, il Fon di Nso, una delle maggiori autorità tradizionali nella regione. «Facciamo appello affinché cessino le persecuzioni a danno di sacerdoti e missionari - aveva dichiarato più volte in passato la Conferenza episcopale del Camerun -. Chiediamo al governo camerunese che la sicurezza nelle regioni anglofone del nordovest e sud-ovest sia ristabilita». Nonostante ripetute promesse di dialogo tra i ribelli e le autorità del governo francofono nella capitale, Yaounde, nessuno accordo di pace è stato concretamente avviato. Il presidente camerunese, Paul Biya, non sembra avere intenzione di risolvere una crisi che va avanti da quasi sessant' anni e che si è aggravata dal 2017. Anche le organizzazioni umanitarie continuano a denunciare gli ostacoli che devono superare per accedere alle due regioni e assistere la popolazione locale. «Dopo oltre sei mesi di sospensione siamo stati costretti a lasciare la regione camerunese del nord-ovest - aveva detto ad Avvenire Laura Martinelli, coordinatrice di Medici senza frontiere (Msf) in Camerun -. Secondo il governo avremmo aiutato i separatisti quando noi siamo sempre stati un'organizzazione imparziale». Nel nord-ovest, tra le varie organizzazioni, lavora il Comitato internazionale della croce rossa (Cicr). Un membro dello staff, Diomede Nzobambona, canadese di 62 anni, è rimasto ucciso la settimana scorsa nella città di Bamenda. Nonostante il Camerun anglofono rappresenti circa il 20 per cento del territorio camerunese, gran parte delle risorse come petrolio, legname e prodotti agricoli viene da questa regione».

IDENTITÀ CRISTIANA, PARLA BASSETTI

Proseguono le interviste del Giornale dopo l’articolo di Silvio Berlusconi sull’identità cristiana. Ieri era stata la volta di padre Georg Ganswein, oggi parla il cardinal Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani. A cura di Serena Sartini.

«La difesa della vita dal suo concepimento fino al termine naturale, le radici cristiane, la sfida per un cristiano in politica. Ed ancora la centralità dell'essere umano, l'attenzione al bene comune, la dignità del lavoro, l'ambiente e le sfide della Settimana Sociale che si terrà a ottobre a Taranto. Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani, interviene sul tema dell'identità cristiana sollevato dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, e indica la rotta che un politico cristiano deve seguire: «Difendere la cultura della vita». Eminenza, grazie per aver accettato il confronto. Identità cristiana significa incarnare i valori non negoziabili. Quali sono e quanto è difficile testimoniarli nel proprio ambito di vita? «Al tramonto della vita saremo giudicati sull'amore ha scritto San Giovanni della Croce. Per capire di quale amore si tratta bisognerebbe, per prima cosa, meditare sul capitolo 25 del Vangelo di Matteo. In particolare quando dice: Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. Questa è la concretezza del cristianesimo che non mette al centro un principio disincarnato ma Dio e la persona umana. Occorre perciò difendere sempre la cultura della vita, in ogni momento e in ogni luogo dell'esistenza: nei nascituri e nei bambini, nella scuola e nei luoghi di lavoro, nella malattia e nell'emarginazione sociale, nella famiglia e nella povertà, nella maturità e nella vecchiaia». Come è possibile vivere un'autentica identità cristiana nella società odierna? «Tenendo a mente due grandi insegnamenti. Il primo è di Giovanni Paolo II nell'enciclica Centesimus annus: Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l'uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il secondo è di Francesco nell'enciclica Fratelli tutti: Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell'economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna. In un tempo così complesso come il nostro siamo dunque chiamati a riconoscere sempre che siamo creature, e non creatori, e che il Vangelo è la nostra bussola». Benedetto Croce scrisse Perché non possiamo non dirci cristiani. Quanto è attuale questo affermazione? «Senza dubbio la nostra civiltà non può non dirsi cristiana. Ma non solo nel significato che ne ha dato Croce nel suo pamphlet. Paolo VI quando proclamò san Benedetto patrono d'Europa disse che il monaco di Norcia aveva unito il Vecchio Continente con la Croce, il libro e l'aratro. Oggi, ancor più di ieri, nel nostro mondo secolarizzato, è la Croce di Cristo ad illuminare il cuore, ad alimentare la testimonianza e a stimolare le opere. E infatti tanti credenti, nonostante l'individualismo e l'utilitarismo così diffuso, continuano a incarnare il Vangelo con semplicità e gioia. Basti pensare a tutti coloro che vivono felicemente una vita di contemplazione e preghiera; oppure alle donne e agli uomini che credono nel matrimonio cristiano e realizzano una famiglia con figli; e infine ai volontari che si donano completamente al servizio dei poveri».

Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 1 settembre:

https://www.dropbox.com/s/u4h4oa9n4b23yyz/Articoli%20la%20Versione%20dell%271%20settembre.pdf?dl=0

Per la Versione si prepara un altro grande balzo in avanti (Copyright Mao Tse Tung). VI ASPETTA UNA NUOVA SORPRESA. Intanto scrivete suggerimenti, considerazioni, reazioni all’idea di postare il link degli articoli della rassegna in pdf, usando la casella lelio.banfi@gmail.com. Vi aspetto.  

Per chi vuole, ci vediamo poi dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.

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Kabul, ultimo atto

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