La guerra rompe la diga
Zuppi incontra Zelensky e oggi riporta al Papa. Distrutta una diga sul Dnpr: città e villaggi allagati. Mosca e Kiev si accusano a vicenda. Fiducia sul Pnrr. Meloni a Tunisi. D'Alema indagato
Si è conclusa la tappa ucraina della missione di pace del cardinal Matteo Zuppi, che ha avuto un faccia a faccia ieri con Volodymyr Zelensky. Il presidente ucraino ha ribadito le sue contrarietà sull’opportunità di un eventuale cessate-il-fuoco ora, cosa che aveva già detto a papa Francesco a Roma. Ma è rimasto aperto uno spiraglio per quanto riguarda il fronte umanitario. Come ha spiegato il nunzio, l’arcivescovo monsignor Visvaldas Kulbokas all’Avvenire, non si tratta di una visita politica. Molto interessante anche l’intervista dell’arcivescovo cattolico di Mosca, monsignor Paolo Pezzi, che traccia lo scenario di una possibile tappa russa della missione di Zuppi. Gli sforzi diplomatici della Santa Sede cadono di nuovo in ore drammatiche perché nella notte fra lunedì e martedì è stata distrutta parte della grande diga sul fiume Dnpr di Nova Kakhovka, nella regione di Kherson. Le acque hanno allagato la città e altri 24 villaggi. Difficile dire chi l’abbia colpita o se abbia ceduto per scarsa manutenzione (ipotesi che qualcuno ha fatto). Improbabile cercare lumi nel “cui prodest”. Il Cremlino ha accusato gli ucraini di voler tagliare l’acqua alla Crimea e l’esercito russo vede distrutte le fortificazioni della sua linea difensiva. Kiev (e Washington) accusano invece i russi di voler fare “terra bruciata”, in questo caso allagata, come nella tradizione militare della Russia e poi dell’Urss, per frenare la controffensiva tanto annunciata. Come sempre in guerra una vittima è la verità. Paradossalmente proprio oggi i giornali riportano che gli americani sarebbero stati informati del sabotaggio ucraino del gasdotto nel Mare del Nord.
Da Roma la notizia è che il governo incassa la fiducia sul decreto a proposito di pubblica amministrazione, che limita i poteri dei giudici contabili sul Pnrr. Passaggio importante per il ministro Fitto che sta chiudendo il negoziato con l’Europa per l’attuazione del Piano.
A proposito di Europa, l’altro tema sul tappeto è quello delle migrazioni. Ieri Giorgia Meloni è stata a Tunisi, dove ha incontrato il presidente Saied, la nostra premier è rimasta in parte delusa. È un dato di fatto che ora i migranti arrivano sulle coste italiane da quelle tunisine, non più da quelle libiche. Mentre siamo alla vigilia di un incerto Consiglio dei ministri dell’Interno Ue, che si riunisce domani a Lussemburgo. L’ incontro, nelle speranze della presidenza svedese dell’Ue e della Commissione Europea, dovrebbe portare alla stesura di un accordo di principio sul Patto sulla migrazione. Lo farà? Non è chiaro. Il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani e il leader dei popolari europei Manfred Weber firmano oggi un documento congiunto, pubblicato dalla Stampa proprio su questo. Scrivono: “La Sinistra nella Ue utilizza ancora la crisi dei migranti in maniera demagogica, per alimentare la retorica di una destra che non rispetta i diritti fondamentali delle persone, confondendo immigrazione legale e illegale”. Non sembra la premessa migliore per un accordo bi-partisan. Vedremo.
Duro scontro nel Pd di Elly Schlein che ridimensiona il ruolo di Piero De Luca, figlio del presidente della Regione Campania. Lunedì ci sarà la Direzione dei dem che dovrebbe discutere sul risultato delle amministrative. Maretta anche in casa Forza Italia, dove ci sono rumors su possibili cambiamenti delle leadership e voci di rimpasto di governo.
Alessandro Profumo e Massimo D’Alema sono indagati dalla Procura di Napoli per “corruzione internazionale aggravata” sulla vicenda di un tentativo di vendita di armi alla Colombia. L’indagine sarebbe nata da una denuncia di Gennaro Migliore. Brutta storia alla Questura di Verona dove sono stati arrestati alcuni poliziotti che infliggevano sevizie e violenze ai più deboli.
A proposito di Mediterraneo e visite in Tunisia c’è in rete il quarto episodio della serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo. Il quarto protagonista, dopo Giorgio La Pira, Taha Hussein e Pierre Claverie, è Enrico Mattei. Il titolo dell’episodio è eloquente: Il manager dalla parte dei popoli. Partigiano democristiano, non liquidò l’Agip (come gli era stato chiesto) ma ne fece uno strumento di politica economica e di politica estera. Come scrive Claudio Fontana nella presentazione di questo episodio, il suo obiettivo era costantemente quello di portare il nostro Paese fuori dalla situazione di povertà estrema in cui si trovava dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Un po’ per necessità, ma molto anche per convinzione, per raggiungere il suo scopo, Mattei proponeva una partnership paritetica ai Paesi della sponda sud del Mediterraneo, dell’Africa e del Medio Oriente che iniziavano il loro percorso verso la decolonizzazione. Il grande manager pubblico italiano muoveva dalla convinzione che l’Italia e i suoi fornitori di energia sarebbero dovuti uscire insieme, passo a passo, dalla povertà. Una povertà che non era intesa meramente nei suoi aspetti economici, tanto che Mattei insisteva sulla necessità di contribuire alla formazione della classe dirigente locale. Subito dopo la sua morte, l’Observer scriverà che «la sua comprensione della psicologia dei nuovi Paesi africani fu il grande contributo che Mattei recò all’immagine della nuova Italia. Trattava le nazioni africane su un piano di uguaglianza».
Troverete la serie su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e ovviamente qui sul sito di Fondazione Oasis... per ascoltare direttamente cliccate qui e comunque cercate questa immagine grafica:
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae Giorgia Meloni in visita ieri a Tunisi, insieme al presidente Kais Saied.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
I quotidiani sono oggi in ordine sparso sui temi di apertura. Il Corriere della Sera tematizza il passaggio parlamentare dell’esecutivo: Scontro sul Pnrr. Fiducia al governo, il sì della Camera. Così come La Stampa: Corte dei Conti, sì al bavaglio ora nel mirino c’è la Consulta. Mentre La Repubblica punta sulle ultime notizie dal campo bellico: Distrutta la diga sul Dnper, rischio Vajont. Sullo stesso tema Avvenire accosta le ultime sull’allagamento alla missione di Zuppi: Distruzione e dialogo. Il Messaggero registra: Sabotaggio alla diga, sedicimila in fuga. Le violenze dei poliziotti di Verona sono il tema del titolo del Manifesto: L’arena. E anche del Domani: Umiliazioni e violenze sui più deboli. A Verona i criminali sono i poliziotti. I giornali di destra sottolineano l’indagine sulla Colombia. La Verità: Armi alla Colombia, D’Alema indagato. Per Il Giornale ora nel mirino c’è: Il «cartello» di D’Alema. Libero vorrebbe che la sinistra ammettesse la superiorità del governo Meloni: Gufi, arrendetevi. Mentre Il Fatto rivela i benefattori dei partiti: Ecco i finanziatori dei politici. Il caso Speranza Federfarma. Il Quotidiano Nazionale annuncia: Violenza sulle donne, arresti più facili. Il Sole 24 Ore ci aggiorna sull’energia: Enel raddoppia su batterie e reti, piano da 5 miliardi.
INCONTRO ZUPPI-ZELENSKY
Faccia a faccia a Kiev. Zelensky gela il cardinal Zuppi quando dice: “Il cessate il fuoco non aiuta la pace”. L’emissario del Papa sottolinea: “La Chiesa farà tutto il possibile per proteggere la vita dei bambini”. Domenico Agasso per La Stampa.
«Sul tavolo rotondo Matteo Zuppi e Volodymyr Zelensky, seduti uno in faccia all'altro con a fianco i rispettivi collaboratori, hanno appoggiato un taccuino e una penna. Gli appunti da prendere sono al centro dell'attenzione planetaria. Di fronte al Cardinale emissario del Papa il Presidente ucraino scandisce un concetto che rovescia la base del pensiero diplomatico della Santa Sede: un cessate il fuoco e un congelamento del conflitto «non porteranno la pace». E poi, nel giorno in cui i russi distruggono la diga di Kakhovka, spiega le sue ragioni: «Il nemico approfitterà della pausa per riorganizzarsi e lanciare ulteriori attacchi, per provocare una nuova ondata di crimini e terrore. La Russia deve ritirare tutte le sue truppe dal territorio entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale». Il Presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e il leader di Kiev si confrontano sulla «Formula di pace» ucraina e sulla necessità di coinvolgere il più ampio numero possibile di Paesi, «compreso il Sud del mondo», nel Global Peace Summit. Poi, su Telegram Zelensky scriverà che «solo sforzi congiunti, isolamento diplomatico e pressioni sulla Russia possono portare una giusta pace». Chiede alla Santa Sede «di contribuire ad attuare» i dieci punti del «piano di pace ucraino», con cui si domanda «il ritiro delle forze russe, risarcimenti e persecuzione della leadership russa di guerra». E puntualizza: il suo Paese «accoglie con favore la disponibilità di altri Stati e partner a trovare vie per la pace, ma poiché la guerra è sul nostro territorio l'algoritmo per raggiungere la pace può essere solo ucraino». È la conferma - peraltro prevista Oltretevere - della presa di distanza manifestata dopo il recente colloquio in Vaticano con il Pontefice. In ogni caso quel che è certo, ha assicurato l'Arcivescovo di Bologna, è che «la Chiesa farà tutto il possibile per proteggere la vita dei bambini. È inaccettabile che la violenza di questa guerra abbia colpito i bambini. Papa Francesco, parlando dell'Ucraina, ha usato un'espressione molto bella: "Le vostre lacrime sono le mie lacrime, il vostro dolore è il mio dolore". E oggi dico che i vostri figli sono i nostri figli, posso parlare di questo perché tanti bambini sono venuti in Italia. È stato molto bello vedere l'ospitalità con cui gli italiani hanno accolto i bambini ucraini». La Santa Sede si è espressa sull'inizio della missione speciale con una nota che parla di esiti preziosi sulla strada della pacificazione: «Zuppi, Inviato di Papa Francesco, ha concluso la breve, ma intensa visita a Kiev, accompagnato da un Officiale della Segreteria di Stato, durante la quale ha avuto modo anche di soffermarsi in preghiera nell'antica chiesa di Santa Sophia». Il porporato «ringrazia cordialmente le Autorità civili per gli incontri svolti, in particolare per quello con Zelensky. I risultati di tali colloqui, come quelli con i Rappresentanti religiosi, nonché l'esperienza diretta dell'atroce sofferenza del popolo ucraino a causa della guerra in corso, verranno portati all'attenzione del Santo Padre e saranno senz'altro utili per valutare i passi da continuare a compiere sia a livello umanitario che nella ricerca di percorsi per una pace giusta e duratura». Cerca di alleggerire il clima anche monsignor Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico a Kiev, che descrive il dialogo tra Zuppi e Zelensky - a cui ha partecipato - come «sincero, cordiale e importante». Definisce la visita del capo della Cei «un segno di attenzione sia del Santo Padre verso la sofferenza ucraina, sia da parte delle autorità civili e religiose ucraine verso il Santo Padre. Venire, sentire, immergersi nel dolore come a Bucha: questo è lo scopo di questa visita che non è politica per dire "stiamo cercando delle soluzioni" ma una ricerca concreta su cui si dovrà riflettere». Zuppi ha incontrato anche la vicepremier Iryna Vereshchuk, responsabile del coordinamento sulle questioni umanitarie. Il Cardinale nei prossimi giorni riferirà al Papa i dettagli di questi due giorni nell'est Europa, e ragionerà con lui sui passi che verranno compiuti nelle settimane successive. Compresa la possibile visita a Mosca, che sarebbe in cantiere? Secondo Kulbokas è «qualcosa su cui bisognerà riflettere». In questo momento «nessuno ne sa qualcosa».
MONS. PEZZI: “ORA ASPETTO ZUPPI A MOSCA”
Gian Guido Vecchi sul Corriere della Sera intervista monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo cattolico di Mosca.
«Mi sembra importante che il cardinale Zuppi sia andato a Kiev e possa venire anche qui a Mosca, quando sarà. Molto importante. Non era affatto scontato». Paolo Pezzi, 62 anni, arcivescovo di Mosca, guida la diocesi della capitale russa, con settantamila fedeli, da sedici anni.
Come si vive la guerra a Mosca, eccellenza?
«È come se tutto fosse entrato nelle case, divenuto d’improvviso vicino, con la mobilitazione d’autunno. All’inizio, era percepito dalla maggior parte delle persone come qualcosa di remoto. Adesso se ne vedono le conseguenze, un clima di preoccupazione, sospetto, sfiducia. Ci si chiede cosa accadrà in futuro, ho visto famiglie giovani nelle quali il marito era tra quelli che potrebbe ricevere la cartolina, altre che hanno già qualcuno al fronte mentre le notizie non sono sempre molto chiare… È un clima pesante, anche se non soffocante: la gente ha comunque voglia di vivere, di guardare avanti».
Eppure le cronache di guerra sembrano rendere sempre più difficile la missione di pace del Papa, no?
«Certo adesso, con queste azioni che si ripetono da una parte e dall’altra, ogni dialogo possibile appare difficile, tutto sembra volgere al peggio. Però, vede, ho imparato a guardare in positivo anche i più piccoli segni di speranza. Sia da parte di Zelensky sia del Cremlino avevo letto dichiarazioni molto negative, negli ultimi tempi, intorno a una possibile mediazione. E in una situazione così stagnante, che l’inviato del Papa sia andato in Ucraina e abbia avuto l’ok dal Cremlino per venire a Mosca, anche se non so quando, è un segno che di per sé non va sottovalutato».
In che senso?
«È un dato in controtendenza, un segnale di porte aperte. La Santa Sede ha spiegato che la missione a Kiev è anzitutto per ascoltare, per vagliare le proposte. Si vede anche l’intelligenza diplomatica: quando una strada sembra chiudersi, ne è pronta un’altra. E credo sia una buona strada, non avere la preoccupazione di arrivare già a una soluzione, molto difficile, e invece concentrarsi sull’ascolto. Che possa essere ascoltata una proposta anche da Mosca mi sembra molto importante».
Crede che Zuppi potrà incontrare Putin?
«Il portavoce del Cremlino ha detto che non era previsto, ma se questo significhi che non accadrà, non lo so».
Se la mediazione diretta è impossibile, quella umanitaria — i prigionieri, i bambini — potrà funzionare?
«Sul fronte dei prigionieri, il Papa già da molti mesi riesce ad avere dei risultati. A quello che mi consta, la mediazione della Santa Sede è l’unica che sia arrivata o ottenere scambi di prigionieri. I tentativi delle due parti da sole non hanno portato a molto, né mi risulta che altri, americani, europei o cinesi, abbiano compiuto iniziative simili. Sul piano umanitario, direi che la Santa Sede è la sola che sta facendo qualcosa».
E i bambini ucraini?
«Di questo, purtroppo, so poco o nulla, in concreto».
L’anno scorso, saltò l’incontro tra Francesco e il patriarca ortodosso Kirill. La missione sarà anche una occasione di disgelo?
«Può favorire la possibilità di riprendere il dialogo per un incontro. Quanto al dialogo in sé, però, io qui non ho avuto l’impressione che ci sia stato un raffreddamento tra le due chiese. A Pasqua sono stato dal patriarca e non ho avuto l’impressione ci fossero segni di incomprensione».
Il Papa va avanti: ne vale la pena?
«Certo, è un segno che dà speranza. La visita del cardinale Zuppi e l’impegno umanitario sono due fiammelle che fanno un po’ di luce nel buio pesto. Non sono un sognatore, sono cosciente delle difficoltà, ma non mi interessa. Mi interessano quelle piccole luci».
DON CAPRIO: “LA CHIESA PUÒ FAVORIRE UN DIALOGO”
Alessia Grossi del Fatto intervista don Stefano Caprio.
«“La pace si fa se si convince Zelensky, Mosca non vede l’ora di chiudere e il Vaticano, che ha da sempre un buon rapporto con i russi, con cui condivide la difesa dei valori tradizionali, ha mandato a Kiev il cardinale Zuppi, che a capo dei vescovi italiani rappresenta anche uno dei Paesi europei meno ostili a Putin”. Don Stefano Caprio in Russia ha vissuto dal 1989 ai primi anni Duemila, ha visto la perestrojka e insegnato a Mosca Teologia per vent’anni. Dà lezioni al Pontificio Istituto Orientale ed è ottimista sulla pace.
Don Stefano, Zelensky ha ribadito a Zuppi di non volere la tregua, ma una pace alle condizioni ucraine.
Zelensky non può fare altro che tenere il punto per tenere i fili dell’Ucraina, ma il solo fatto che accetti questi incontri, dal Papa a Zuppi è significativo. Perché seppure Zuppi non gli avrà chiesto di fermare la controffensiva, magari gli avrà chiesto di evitare stragi e conseguenze terribili. Il punto è creare un “clima” di pace, termine usato anche dal cardinale Parolin.
Come legge la visita a Bucha del cardinale Zuppi?
È legata alla compassione, alla necessità umanitaria.
Ma Putin quell’eccidio lo nega e la Chiesa così fa crollare la sua equidistanza.
Per quanto lo neghi, lì l’eccidio c’è stato. Andare a Bucha è dire agli ucraini che sono loro i massacrati.
Lei che conosce Mosca, come crede reagirà a questa visita?
Guardi, i russi hanno un rapporto con il Vaticano anche migliore di quello degli ucraini. Kiev da anni è infastidita con la Santa Sede che non ha condannato direttamente la Russia. Mosca invece, almeno il patriarcato, la parte ecclesiastica, ma anche quella politica sa che la Chiesa non vuole rompere con la Russia. E questo nel mondo occidentale è abbastanza un’eccezione.
Zuppi incontrerà Kirill?
Il filo con Kirill è rimasto. E lì c’è la questione: il Patriarca continua a giustificare la guerra come scontro di civiltà, anche religioso, oltre che culturale: l’Occidente vuole distruggere i valori che la Russia detiene. Il Papa è l’unico che in Occidente può dire che questi valori sono comuni. Il suo è un lavoro sulle motivazioni territoriali, ma molto anche culturali, storiche e religiose. E Zuppi è la persona adatta.
Zuppi in doppia veste?
Il cardinale è anche membro della Comunità di Sant’Egidio, che negli anni passati ha dato riconoscimenti a Putin, a Kirill e a tutta la dirigenza russa. È un’agenzia diplomatica alternativa non filo-russa, ma apprezzata in Russia.
Perché la Santa Sede non vuole rompere con la Russia, nonostante Putin?
La variante putinista dell’idea russa di proporsi come difesa dei valori cristiani nel mondo, pur non essendo la variante che la Chiesa cattolica sostiene, ha motivazioni che non ci sono estranee. Con Benedetto XVI c’erano i valori non negoziabili e c’era il cardinal Ruini che oggi apparirebbe come un putinista estremo.
Qual è l’obiettivo di Putin?
Coinvolgere i cattolici in una restaurazione dei valori tradizionali, cosa che i russi fanno fin dagli anni 90, dopo 80 anni di ateismo. Kirill l’ha ottenuto in modo simbolico con la restituzione delle reliquie. La Chiesa ha vinto la sua guerra.
Per questo la Chiesa può fare da grimaldello per la pace?
Certo, l’Ucraina è terra di scontro: ortodossia e cattolicesimo, Oriente e Occidente. Gli ucraini hanno voluto una Chiesa autocefala, pensata da Poroshenko, dalla politica. Ora che gli ortodossi litigano tra di loro, il Papa tiene i rapporti con tutti. Da qui la mediazione.
La visita a Mosca è vicina?
Sì, la visita a Mosca si fa non appena Kiev darà l’ok. Che l’arrivo di Zuppi in Ucraina avvenga mentre parte la controffensiva è un’indicazione importante. Kiev dice di voler riconquistare i territori presi dai russi: non ci arriverà. Ma otterrà molto e potrebbe trattare.
Putin sarebbe umiliato.
Sì, ma piuttosto che continuare, firmerebbe oggi la tregua. Il rischio è che le prossime elezioni le vinca Prigozhin, come in Ucraina potrebbe vincerle il capo di Stato maggiore Zalužnyj. Meglio chiuderla prima. E la Chiesa c’è».
PARLA L’ARCIVESCOVO KULBOKAS: “VISITA DI PACE, NON POLITICA”
Il nunzio vaticano a Kiev, l’ arcivescovo Visvaldas Kulbokas dice: «Lavoreremo per trovare soluzioni concrete». Intervista di Nello Scavo per Avvenire.
«Venire, sentire, immergersi nel dolore come martedì a Bucha: questo è lo scopo di questa visita che non è una visita politica per dire “stiamo cercando delle soluzioni”, ma una ricerca concreta su cui si dovrà riflettere». L’arcivescovo lituano Visvaldas Kulbokas è il nunzio vaticano a Kiev. E da ambasciatore della Santa Sede non ha mai lasciato Kiev, neanche quando la città stava per cadere in mano russa. È stato lui ad accogliere il cardinale Matteo Zuppi, preparando con cura i dettagli di questa visita che arriva tre settimane dopo l’incontro a Roma tra papa Francesco e il presidente Volodymyr Zelensky, il quale ieri ha ricevuto Zuppi e la delegazione vaticana tra cui Kulbokas.
Qual è stato il significato di questa missione?
La visita del cardinale Zuppi è in se stessa un segno di attenzione sia del Santo Padre verso la sofferenza ucraina, sia da parte delle autorità civili e religiose ucraine verso il Santo Padre.
Lei era presente all’incontro con il presidente Zelensky e conosce personalmente il capo dello Stato ucraino. Come giudica il colloquio di ieri?
Sincero, cordiale, importante. Un incontro di lavoro che si è svolto in un clima molto proficuo. Ricordo quanto ha detto il cardinale Zuppi arrivando qui, presentandosi come “inviato del Papa venuto per ascoltare”. Non è un gioco di parole. È la verità. Molti mi domandano quale è il senso e lo scopo di questa visita: lo scopo principale è stato ed è quello di ascoltare.
Ci saranno sviluppi?
Il cardinale Zuppi riferirà al Papa e certamente si dovrà riflettere su cosa fare dopo, ma prima di tutto si ascolta. Dunque il cardinale parlerà con il Santo Padre e lì si vedrà quali possono essere i passi successivi. Nessuno li ha stabiliti ancora, né il cardinale né altri, ma bisogna riflettere su quali siano le possibilità. È tutto un lavoro di ricerca, di ascolto, di studio. È prematuro immaginare ora i prossimi passi.
Il filo conduttore di questi incontri sembra quello dei diritti umani. Un tema ricorrente nel corso del dialogo con il commissario di governo per i diritti umani, nel colloquio con la vicepresidente Iryna Vereschuk, che coordina le iniziative per i bambini deportati e la situazione umanitaria nei territori temporaneamente occupati. Come pensate di corrispondere a queste necessità?
È stato molto importante parlare dei problemi riguardanti i prigionieri e i bambini in tutti i sensi, quelli deportati e in generale le necessità dell’infanzia. E proprio con la vice-premier si è molto parlato con una attenzione speciale anche per gli orfani. Bambini che non hanno nessuno e per i quali occorre un’attenzione speciale.
I bombardamenti nella notte e le notizie da Kherson. Quale è stata la reazione del cardinale Zuppi davanti questa continua serie di notizie che non depongono a favore di una disponibilità alla costruzione di percorsi di Pace?
Il cardinale naturalmente ha avvertito la presenza della guerra e si è immerso in questa realtà che genera nella popolazione paura e dolore. Ma allo stesso tempo ha sentito ed espresso nei colloqui una sincera gratitudine per voi giornalisti. Perché aiutate a sensibilizzare, a promuovere le azioni di solidarietà, anche a costo della propria vita come è accaduto anche di recente a Kherson e troppe altre volte in questa guerra. Anche il vostro lavoro è un contributo alla costruzione di una pace giusta».
PER GLI USA È STATO UN SABOTAGGIO RUSSO
Le ultime notizie dal campo bellico. L’attenzione è tutta sulla diga di Nova Kakhovka sul fiume Dnipro, che è stata danneggiata, provocando un’alluvione. Il governo americano ha raccolto informazioni di intelligence sulle responsabilità del disastro e vuole renderle pubbliche. La distruzione della diga sarebbe contro l’interesse militare e politico di Zelensky. In quell’area danneggiate le operazioni di Kiev. Daniele Raineri per Repubblica.
«Il governo degli Stati Uniti ha informazioni d’intelligence che indicano la Russia come responsabile della distruzione della diga di Nova Kakhovka sul fiume Dnipro, che nella notte tra lunedì e martedì dopo una forte esplosione ha ceduto e ha lasciato un’enorme massa d’acqua libera di inondare una regione nel Sud dell’Ucraina – per la maggior parte occupata dai soldati russi e per un’altra parte sotto il controllo dei soldati ucraini. La rete americana Nbc News ha avuto questa notizia da due fonti del governo americano e da una non meglio specificata fonte di un governo occidentale e ha anche saputo che nella serata di ieri l’Amministrazione Biden era al lavoro per “declassificare” – quindi per rendere pubbliche – quelle informazioni, cosa che talvolta richiede tempo per non compromettere il lavoro dell’intelligence. L’Amministrazione Biden è l’alleata più forte di Kiev e quindi è una parte in causa, ma i servizi d’intelligence americani sono focalizzati con una certa precisione su quello che succede in Ucraina, hanno anticipato il giorno esatto dell’invasione russa e in questi mesi hanno accusato – con leak sulla stampa – l’intelligence ucraina dell’assassinio a Mosca e a San Pietroburgo di due propagandisti filo-Putin. Le informazioni americane si aggiungono ad altri fattori che puntano verso Mosca, e che possono spiegare chi e perché avrebbe distrutto la diga. È appena cominciata una controffensiva ucraina per liberare territori occupati dai soldati russi, c’è una parte che si deve muovere e coprire grandi distanze e una parte statica che si deve difendere. L’inondazione ostacola i movimenti di chi deve avanzare (i soldati ucraini) e aiuta chi sta fermo (i soldati russi). Questo impedimento si realizza in due fasi. In una prima fase l’acqua e il fango renderanno molto difficile agli ucraini spostarsi con i mezzi pesanti, come se si fosse tornati indietro alle prime settimane di marzo. Prima di cominciare la controffensiva l’esercito di Kiev è stato costretto ad aspettare per mesi l’arrivo del tempo asciutto e che le condizioni del terreno migliorassero – quindi che il fango del disgelo primaverile si solidificasse. L’allagamento adesso prolunga in modo artificiale quelle condizioni difficili. In una seconda fase, anche quando il terreno tornasse praticabile, la distruzione della diga ha abbassato il livello del fiume Dnipro, che per centinaia di chilometri fa da barriera naturale fra le truppe ucraine e le truppe russe. Per tentare un attraversamento del fiume è meglio avere un livello dell’acqua alto oppure basso? Non ci sono dubbi: meglio un fiume alto. Ma il Dnipro non sarà più così alto per qualche anno a venire, fino a quando qualcuno non riparerà la diga. Prima dell’esplosione il livello del bacino, che negli ultimi mesi si era stabilizzato a circa quattordici metri, è salito fino al livello record di diciassette metri e mezzo – l’acqua ormai da giorni traboccava da sopra alla diga – e questo ha massimizzato l’effetto inondazione. Erano i russi ad avere il controllo del livello dell’acqua. Immobilizzare con una piena la sponda sinistra del Dnipro e poi renderla più alta rispetto al normale quando l’acqua sarà passata permetterebbe loro di concentrarsi sui settori attivi del fronte, che è molto difficile da difendere per intero perché è lungo milleduecento chilometri. I russi avevano piazzato cariche esplosive dentro alla diga già a ottobre e si pensava potessero farle esplodere nel caso le truppe ucraine avessero superato di slancio Kherson e avessero provato ad attraversare il Dnipro. Per sostenere la tesi della responsabilità ucraina bisognerebbe immaginare un’operazione rischiosa in una struttura controllata dai militari di Mosca. Infine c’è un fattore ideologico che potrebbe identificare chi ha inondato l’area di Kherson: i soldati ucraini tendono a non infierire contro il territorio ucraino, perché per loro è un terreno da liberare. È un fattore che tendiamo a trascurare, ma da sedici mesi in Ucraina conta tantissimo ed è diventato questione di vita o di morte. Per questo la teoria che l’esercito ucraino abbia deciso in modo deliberato di colpire in modo catastrofico con le acque del Dnipro una regione che in parte hanno liberato a caro prezzo e per il resto puntano ancora a liberare non torna».
LA DIGA È STRATEGICA
Gli esperti militari del Corriere Guido Olimpio e Andrea Marinelli analizzano le conseguenze del sabotaggio alla diga sul piano della controffensiva ucraina. E ricordano che potrebbe mancare l’acqua alla Crimea.
«La diga di Kakhovka distrutta martedì alle 2.50 del mattino nel territorio dell’Ucraina meridionale sotto il controllo russo ha un’enorme importanza strategica. Costruita fra il 1950 e il 1956, alta 30 metri e lunga 3,2 chilometri, la diga è parte di una centrale idroelettrica e si trova nella città portuale di Nova Kakhovka, sul fiume Dnipro, a 30 chilometri da Kherson. Prima dell’esplosione aveva un bacino idrico di 18 milioni di metri cubi da cui partiva l’acqua che riforniva gli impianti di raffreddamento della vicina centrale nucleare di Zaporizhzhia e la penisola di Crimea, annessa militarmente da Vladimir Putin nel 2014. Da allora gli ucraini avevano fermato il flusso ma a marzo dello scorso anno, dopo che l’area era stata conquistata dall’Armata di Putin, i russi avevano ripristinano il canale di Crimea e ristabilito così l’approvvigionamento idrico. Subito dopo l’esplosione di martedì mattina, il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha parlato di un «atto deliberato di sabotaggio da parte degli ucraini per privare la Crimea di acqua», mentre il comando sud dell’esercito di Kiev e il governo hanno immediatamente accusato i russi: secondo la società idroelettrica Ukrhydroenergo si è trattato di un’esplosione avvenuta dall’interno, nella sala motori, che ha portato al collasso della diga. Da mesi, del resto, il presidente Volodymyr Zelensky e i suoi uomini sostenevano che l’Armata avesse minato la diga sul Dnipro: «Se cedesse», aveva denunciato in ottobre il leader ucraino durante un intervento al Consiglio europeo, «potrebbe inondare 80 villaggi sul fronte meridionale e la città di Kherson, ci sarebbero gravi difficoltà per le forniture energetiche, si rischierebbe una nuova spinta migratoria in fuga dal Paese. Sarebbe un disastro su larga scala». Zelensky aveva paragonato una simile azione all’uso di armi di distruzione di massa. Oltre al notevole impatto ambientale, energetico e agricolo, agli enormi disagi per decine di migliaia di civili costretti a evacuare, la distruzione della diga ha però importanti ripercussioni militari, innanzitutto perché limita le opzioni ucraine per l’imminente controffensiva. «Se avevamo intenzione di compiere un’operazione nella zona, non potremo di certo farla subito», ha detto un anonimo funzionario dell’esercito ucraino al F inancial Times. «Sarà una palude». Per gli ucraini, che controllano la sponda occidentale del Dnipro, sarà ora impossibile attraversare il fiume. L’area allagata impedirebbe quindi alla resistenza di attaccare le regioni meridionali di Kherson e Zaporizhzhia, dove gli ucraini vorrebbero spezzare il corridoio terrestre che collega la Crimea alla Russia, e la obbligherebbe a concentrarsi invece sulle regioni orientali, dove per l’Armata logistica e rifornimenti sono più semplici. «L’obiettivo è ovvio», ha sintetizzato Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente Zelensky. «Vogliono creare ostacoli insormontabili per impedire l’avanzata delle forze armate». Gli stessi ucraini, nelle prime fasi dell’invasione, avevano aperto intenzionalmente la diga nei pressi di Demydiv, inondando la cittadina a nord di Kiev e i campi circostanti per rallentare l’avanzata russa e salvare la capitale. In quel caso, l’allagamento dell’area aveva permesso agli ucraini di ottenere una vittoria tattica e di guadagnare tempo per preparare le difese: spesso, nella prima fase del conflitto, la resistenza ha danneggiato le proprie infrastrutture per fermare l’esercito russo. La diga di Kakhovka però era sotto attacco già da maggio, con i due avversari che si accusavano a vicenda di bersagliarla di missili e i residenti che denunciavano l’innalzamento del livello dell’acqua: gli invasori sostenevano che gli ucraini la colpissero per facilitare l’offensiva su Kherson, la resistenza ribatteva che i benefici sarebbero stati soltanto per i russi. Ora gran parte degli indizi sembrano indicare una responsabilità dell’Armata, ma le acque del Dnipro finiranno per travolgere soprattutto la sponda orientale del fiume, quella sotto il controllo russo, e la prima linea di difesa eretta in questi mesi dall’esercito di Putin».
CON LA DIGA CROLLA UN ALTRO LIMITE ALLA GUERRA
Analisi di Anna Zafesova per la Stampa: difficile capire le responsabilità partendo dal “cui prodest”. Perché con la rottura della diga ci sono danni per tutti.
«Nessuno è in grado di dire per il momento quali danni nasconde la distesa d'acqua che sta trasformando città e villaggi ucraini in una Atlantide nella steppa: l'alluvione non ha ancora raggiunto il suo picco, ma è evidente che l'esondazione del Dnipro ha prodotto una catastrofe. Ogni stima e ogni paura – dalle decine di migliaia di abitanti che rischiano di perdere tutto alla devastazione di immensi territori coltivabili che possono distruggere il raccolto dell'estate e mettere in ginocchio l'economia del Sud-Est ucraino, dall'allarme epidemiologico a quello per la sicurezza della centrale atomica di Zaporizhzhia, definitivamente tagliata fuori dal sistema energetico del Paese – non può che essere preliminare. Così come è difficile ora valutare il danno arrecato dall'esplosione della diga di Nova Kakhovka al potenziale militare e alle mire strategiche di Kiev e di Mosca, nella ricerca dei cui prodest che spesso viene considerata una bussola nel mare delle accuse reciproche. Da un lato, la sponda più colpita appare quella sinistra del Dnipro, sotto occupazione russa, con la piena che come minimo rinvia una ipotetica avanzata ucraina che attraversi il fiume, dall'altro a venire distrutte saranno probabilmente anche quelle linee difensive che i soldati di Putin avevano costruito proprio per mantenere le proprie posizioni. Propagandisti moscoviti hanno subito accusato Kiev di aver voluto lanciare una "guerra dell'acqua" contro la Crimea, ma mentre le stesse autorità di occupazione della penisola negano il rischio siccità, la coda di automobili in uscita verso la Russia lungo il ponte di Kerch fa pensare che le smentite del regime russo spesso ottengono l'effetto contrario. Quello che spaventa, di questa calamità molto poco naturale, è la determinazione di chi ha fatto saltare la diga di superare un altro limite che sembrava impossibile. Sembra quasi fuori luogo ricorrere per questa tattica al termine della "terra bruciata", di fronte alla trasformazione della regione di Kherson in un lago, ma il senso del gesto, il messaggio che vuole lanciare, è proprio quello. Non lasciarsi nulla alle spalle, non concedere niente al nemico, come nell'agosto del 1941, quando Stalin dette l'ordine di far saltare la Dneproges, la mastodontica centrale idroelettrica diventata il simbolo dell'industrializzazione del socialismo. Un ordine che ha fatto almeno 20 mila vittime civili, e che soprattutto viene considerato da diversi storici privo di senso strategico e tattico: l'alluvione del Dnipro ha complicato i movimenti proprio dell'Armata Rossa in ritirata, mentre i nazisti non hanno avuto particolari problemi a ricostruire la diga e riavviare le turbine, solo per far saltare la centrale a loro volta prima della ritirata, nel 1943. Confermando la vecchia regola che a ricorrere alla tattica della terra bruciata è la parte in difficoltà, in un ragionamento che oltre ad aumentare il danno inflitto vuole terrorizzare l'avversario con un messaggio: siamo pronti a tutto. Ed è proprio questo a rendere l'esplosione della diga di Nova Kakhovka un punto di svolta nella guerra. Il pericolo di una apocalisse provocata dalla diga minata era stato denunciato dall'Ucraina già mesi fa, quando erano state create anche le simulazioni sulle sue conseguenze, talmente agghiaccianti da aver forse convinto i suoi autori a rinviare il ricorso a questa minaccia. Che è stata invece attuata proprio nelle ore in cui il Cremlino aspetta la controffensiva ucraina. È la storia della città invisibile di Kitezh, che aveva preferito farsi sommergere dalle acque piuttosto che arrendersi ai mongoli, una antica leggenda russa che esalta il sacrificio estremo, quella disponibilità a gesti definitivi cui Mosca allude quando minaccia di ricorrere all'arma atomica. L'esplosione della diga di Nova Kakhovka non segna solo il ricorso a un'arma nuova e terribile, con il reclutamento della natura in una guerra ecocida: ora le "linee rosse" del possibile vengono spostate a un nuovo livello di orrore».
FIDUCIA SUL PNRR, REGIONI IN FERMENTO
Veniamo alle vicende italiane. Via libera della Camera: limitati i controlli dei giudici contabili sull'utilizzo dei fondi europei. I governatori contrari a spostare le opere nazionali nei progetti locali. Luca Monticelli per La Stampa.
«Il governo incassa la fiducia della Camera al decreto che limita i controlli della Corte dei Conti sul Pnrr tra polemiche e veleni. Quello che doveva essere un provvedimento sulle assunzioni nella Pubblica amministrazione è diventato il teatro di uno scontro tra poteri dello Stato. La premier Giorgia Meloni e i suoi ministri rivendicano di aver prorogato per un altro anno una norma già attuata dai governi Conte e Draghi - lo scudo erariale - e di aver bloccato i controlli in itinere dei magistrati contabili sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, lasciando però le verifiche ex post. «Nessuna deriva autoritaria, siamo in linea con l'esecutivo Draghi», si difende il ministro Raffaele Fitto, lui che ha portato avanti in prima persona queste misure dopo i rilievi della Corte sui ritardi del Pnrr. Le toghe la pensano diversamente: «Lo scudo fu varato durante l'emergenza Covid, ora che la pandemia è finita non c'è alcun fondamento giuridico per salvare i responsabili di condotte gravemente colpose nella gestione dei fondi pubblici». Il decreto, infatti, limita il danno erariale ai soli casi di dolo ed elimina il controllo concomitante, ovvero l'istituto che permetteva alla Corte dei Conti di vigilare su ritardi e target a rischio. Due anni fa, come ricorda Stefano Patuanelli dei 5 stelle, Fratelli d'Italia aveva proposto un disegno di legge per rafforzare il controllo concomitante, oggi lo abolisce. Matteo Salvini ribadisce il refrain della maggioranza: «Abbiamo fatto esattamente come Conte e Draghi. A sinistra o erano distratti o hanno cambiato idea», sottolinea il leader della Lega, che aggiunge: «Tutti gli organi dello Stato devono remare nella stessa direzione». Nonostante i 203 voti di fiducia (134 contrari e 3 astenuti) la partita non è finita qui, non perché il decreto corra pericoli al Senato (sarà blindato), ma perché i giudici - riferisce una fonte - promettono di impugnare le norme sul Pnrr, soprattutto lo scudo perché «in contrasto sia con la Costituzione sia con i regolamenti della Commissione europea», come ha già detto il presidente Guido Carlino in audizione. «Non c'è alcuna guerra con la Corte dei Conti», prova a stemperare gli animi il ministro dei Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani: «Siamo sicuri che i controlli di legalità ci saranno, però non possono bloccare le opere», sottolinea. La tensione in Parlamento è alta: Antonio Misiani del Pd fa notare che «se il tema era la razionalizzazione dei controlli, bastava chiamare la magistratura e farla insieme, invece il governo ha scelto l'ennesimo colpo di mano». È «un regolamento di conti di Fitto che si vendica dei giudici», rincarano i 5 stelle, mentre Augusta Montaruli di FdI parla di «accuse surreali». Anche il Terzo Polo ha votato contro la fiducia, non per le misure sulla Corte quanto per «gli interventi inefficaci sulla macchina della Pa». Superato per il momento lo scoglio delle toghe, Fitto ha un altro problema: arrivare a un'intesa con le regioni sul Pnrr. Tra le priorità c'è lo spostamento delle opere nazionali, considerate irrealizzabili da qui al 2026, nei programmi regionali legati ai fondi di coesione, mossa che permetterebbe di avere tre anni in più per spendere le risorse e più soldi da mettere sul Repower Eu. Ieri Fitto ha avuto un secondo round di incontri con i governatori e alla fine di quest'altra serie di bilaterali è emerso come l'accordo sia in salita: i presidenti delle regioni di centrodestra si dichiarano collaborativi, tuttavia nessuno ha intenzione di rinunciare ai propri progetti. A sinistra, a sposare la linea intransigente di Vincenzo De Luca, c'è Michele Emiliano: «Salvare il Pnrr con i fondi di coesione è una soluzione sbagliata - spiega il presidente pugliese - basterebbe sostituire qualche opera, senza toccare i soldi per il Mezzogiorno». Intanto, le organizzazioni civiche del Forum Disuguaglianze chiedono un piano più partecipato e trasparente, attraverso la pubblicazione sul portale Italia Domani di tutti i dati sui progetti con cadenza almeno semestrale. Il governo, invece, deve ancora trasmettere alle Camere la relazione sul Pnrr presentata da Fitto una settimana fa alla cabina di regia. Nel documento, l'esecutivo avanza un'ipotesi di metodo da applicare agli interventi che hanno maturato ritardi nella fase di avvio: «La revisione - si legge - potrebbe prevedere lo slittamento di alcune "milestone" intermedie, corrispondenti a fasi amministrative dell'investimento, senza modificare il target finale della misura».
SI LAVORA PER UN NUOVO ACCORDO UE SUI MIGRANTI
Emergenza migranti. Sul trattato di Dublino si pensa a modifiche solo parziali. L’ottimismo della commissaria Johansson: svolta possibile. Ma pesa l’ostilità alla solidarietà europea dell’asse di Visegrad: ora si fa strada l’ipotesi di un rinvio. Per Avvenire Giovanni Maria Del Re
«È suspense sul Consiglio dei ministri dell’Interno Ue, domani a Lussemburgo. Un incontro che, nelle speranze della presidenza svedese dell’Ue e della Commissione Europea potrebbe veder raggiungere l’agognato accordo di principio sul Patto sulla migrazione. «C'è una grande possibilità che possiamo avere una svolta molto importante » diceva ieri la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson. Molti diplomatici riscontrano uno «slancio positivo e costruttivo». Il problema, dice uno di loro, è che «non è affatto chiaro se sarà sufficiente. Un accordo è tutt’altro che scontato». Toni negativi trapelano da Parigi, che ha fatto capire di non vedere ancora maturi i tempi per un’intesa, la presidenza svedese sta già ipotizzando un vertice straordinario dei ministri dell’Interno tra circa due settimane. Lunedì c’è stato un non facile incontro degli ambasciatori dei Ventisette, oggi ne è previsto un altro. L’intenzione della presidenza svedese, con il sostegno di Francia e Germania oltre che della Commissione, è di procedere (come previsto dai trattati Ue in materia di migrazione) a un voto a maggioranza qualificata. Negli anni passati, dopo i disastri dei falliti accordi del 2015, i Ventisette avevano scelto di procedere per consenso. L’idea del voto a maggioranza si è affermata dopo la selva di veti posti nelle più diverse materie da Polonia e Ungheria. «Varsavia e Budapest – dice un ambasciatore – hanno già fatto capire che sia come sia vogliono silurare il Patto». Il problema del voto a maggioranza è un altro: l’Italia. Il governo, pur rilevando miglioramenti, non è pienamente soddisfatto, e non ha ancora deciso. «A parte il fatto – commentano diplomatici Ue - che senza l’Italia non sarà facile raggiungere la maggioranza qualificata, quand’anche i numeri ci fossero è difficile fare un accordo avendo contro il più importate dei Paesi di prima linea». Tra le insoddisfazioni italiane rimane un punto: l’impianto base del vecchio Regolamento di Dublino sull’asilo, che l’Italia voleva superare, rimane, a cominciare dal concetto che il Paese di primo arrivo di un migrante irregolare è quello che poi ne è responsabile. Almeno, le proposte della Commissione e poi della presidenza svedese hanno apportato alcune modifiche che lo ammorbidiscono. Anzitutto sul fronte della solidarietà, che dovrà essere «obbligatoria», ma flessibile: ogni Stato membro potrà scegliere se accogliere migranti irregolari (si parla anzitutto di persone vulnerabili e suscettibili di diritto di asilo, sul tavolo è una quota minima di 30.000 l’anno); oppure aiuti finanziari. Sul tavolo è un «compenso» per ogni migrante che un Paese rifiuta di accogliere: si parla di 22.000 euro. Nell’ultimo testo della presidenza svedese circolato ieri si parla di un totale di 600 milioni di euro in totale. I Paesi dell’Est (non solo Polonia e Ungheria, ma anche la Slovacchia) rifiutano questa cifra, altri come l’Austria la vorrebbero far scendere a 10.000 euro, la Germania però non vuole scendere sotto i 22.000 euro, del resto la Commissione spiega che già questa è insufficiente a coprire tutti i costi. Altro punto di battaglia, per i “Med5”, e cioè i Paesi di prima linea, Italia in testa, è la soglia massima di procedure di frontiera (migranti irregolari rinchiusi in centri di accoglienza o detenzione) oltre la quale decade l’obbligo di applicarle. Sul tavolo è la cifra di 30.000 per tutta l’Ue (sarebbero 12.000 circa per l’Italia), ma i Med5 vogliono abbassarla, mentre Francia, Germania e Olanda la considerano già così troppo bassa e chiedono almeno 40.000. Per Roma di positivo c’è un altro alleggerimento: il Paese di primo ingresso potrà rifiutarsi di riprendersi i migranti irregolari approdati sul suo territorio e poi spostatisi in modo illegale in altri Stati membri se questi ultimi non hanno soddisfatto il 50% delle quote di accoglienza concordate. In compenso si allungano i tempi di responsabilità per gli Stati di primo ingresso per un migrante irregolare che lasci il suo territorio, nel testo di ieri si parla di due anni. Problemi ha anche la Germania, che insiste affinché dalla procedura di frontiera siano escluse le famiglie con bambini, ma è isolata e potrebbe astenersi. Su un punto i Ventisette sono d’accordo: la necessità di frenare le partenze a monte, cavallo di battaglia di Meloni. Per l’Italia cruciale è il sostegno alla Tunisia, a detta di vari diplomatici proprio questo aspetto potrà influire sul sì di Roma».
TAJANI E WEBER SUI MIGRANTI: “CONTROLLO SUL MEDITERRANEO”
La Stampa pubblica un intervento scritto dal vicepremier Antonio Tajani, insieme al leader del Ppe al Parlamento europeo Manfred Weber sul tema delle migrazioni. Nei primi quattro mesi di quest'anno 80 mila persone hanno attraversato illegalmente i confini europei, il 150% in più del 2022. La Tunisia ha sostituito la Libia come Paese di transito nel Nord Africa.
«L'Europa sta camminando bendata verso una nuova crisi migratoria. Nei primi quattro mesi del 2023 più di 80.000 persone hanno attraversato illegalmente i confini della Ue. Se guardiamo alla sola rotta del Mediterraneo centrale, gli attraversamenti illegali sono aumentati di quasi il 150% rispetto allo stesso periodo del 2022. Queste cifre si traducono in centri per rifugiati sovraffollati, aumento dei controlli alle frontiere interne della Ue e, soprattutto, in più uomini, donne e bambini che rischiano la vita cercando di raggiungere l'Europa. L'Unione Europea ha urgente bisogno di correggere la sua politica migratoria, prestando particolare attenzione al Mediterraneo centrale, dove gli arrivi irregolari continuano ad aumentare nonostante lungo le altre rotte si osservi una diminuzione dei flussi. Per avere successo, occorrerà costruire una politica migratoria che dimostri l'unità di tutti gli Stati membri e la volontà di trovare soluzioni condivise. Non centreremo mai l'obiettivo se continueremo a chiudere i confini nazionali e a discutere su chi dovrebbe accogliere gli ultimi migranti sbarcati sulle nostre coste, se invece della solidarietà europea a prevalere saranno gli egoismi nazionali. Il Mediterraneo è il confine meridionale dell'Unione Europea. I tanti porti italiani che faticano a tenere il passo con il crescente numero di barconi di migranti, sono le porte d'ingresso dell'Europa. Per riprendere il controllo della situazione, abbiamo bisogno di una strategia basata su due pilastri: una protezione rafforzata delle frontiere esterne e una maggiore solidarietà europea verso le persone bisognose, come coloro che fuggono dalle guerre. Accogliendo oltre 4 milioni di rifugiati ucraini, le nostre comunità locali hanno già dato una straordinaria dimostrazione di solidarietà. Allo stesso tempo però, i cittadini chiedono soluzioni pragmatiche per contrastare il fenomeno dell'immigrazione clandestina. Qui essere ingenui significa essere irresponsabili e alcuni partiti hanno trascurato troppo a lungo l'aspetto della sicurezza della migrazione. Socialisti e Verdi ad esempio, insieme agli estremisti di sinistra, si sono opposti allo stanziamento di risorse europee per le infrastrutture di protezione delle frontiere. È solo l'ultima di molte decisioni irresponsabili. I Verdi al Parlamento europeo hanno sistematicamente cercato di bloccare tutte le iniziative per creare condizioni ordinate alle nostre frontiere esterne, votando anche contro l'accordo Ue-Turchia sui rifugiati e contro l'estensione dei poteri dell'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex. La Sinistra nella Ue utilizza ancora la crisi dei migranti in maniera demagogica, per alimentare la retorica di una destra che non rispetta i diritti fondamentali delle persone, confondendo immigrazione legale e illegale. In questo modo questi partiti hanno indebolito l'Europa e danneggiato i suoi cittadini. Per avere più sicurezza nell'Unione Europea, dobbiamo trovare misure più efficaci, che impediscano alle organizzazioni criminali e agli Stati stranieri di sfruttare i migranti. Continuare ad essere ingenui sarebbe un regalo per i contrabbandieri di disperati. Una politica migratoria efficace, basata sulla solidarietà e sulla sicurezza, deve iniziare col rendere sicuri i nostri confini. Sono le autorità degli Stati Membri a dover decidere chi entra in Europa, non i trafficanti. I contrabbandieri fanno parte di un giro d'affari illegale multimiliardario. Solo sostenendo l'applicazione delle norme internazionali ed europee lungo tutti i nostri confini, possiamo spezzare il modello di business di questi criminali. L'Europa deve agire con decisione nel Mediterraneo. La Ue dovrebbe anche stabilire un codice di condotta per le navi delle Ong in missione di salvataggio per garantire il controllo democratico e proteggere la nostra sicurezza comune. Negli ultimi dieci anni nel Mediterraneo sono morte oltre 26mila persone, ingannate da trafficanti che spacciano false speranze. Per fermare questa tragedia umana, dobbiamo collaborare con i Paesi di transito e istituire centri di registrazione e accoglienza anche al di fuori dell'Europa, che fungano da piattaforme di sbarco per pattugliamenti e missioni di soccorso. Alla nostra guardia di frontiera e costiera deve essere affidata una nuova missione di pattugliamento nel Mediterraneo, in stretta collaborazione con i Paesi di transito. Dobbiamo impedire che tante persone intraprendano viaggi della disperazione, creando al contrario percorsi legali e corridoi umanitari. Il viaggio verso l'Europa deve essere sicuro, legale e dignitoso. La cooperazione con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo è fondamentale per controllare i flussi migratori. La Tunisia ha sostituito la Libia come Paese di transito più importante del Nord Africa: degli oltre 45mila migranti che hanno raggiunto l'Italia quest'anno, più della metà è partita dai porti tunisini. Raggiungere un accordo globale con la Tunisia, simile a quello con la Turchia nel 2016, è una priorità se vogliamo riprendere il controllo del Mediterraneo. Per risolvere il problema migratorio nella sua complessità, non basta concentrarsi solo sull'ultima e più visibile tappa di un percorso che parte da lontano. Dobbiamo continuare a lavorare a stretto contatto con i nostri partner in Africa sub-sahariana per affrontare le cause profonde della migrazione. Investendo in aree come l'agricoltura, l'energia e la tecnologia in questi Paesi, possiamo creare le condizioni affinché le persone non rischino più la vita attraversando il deserto e il mare. Insieme, possiamo offrire possibilità concrete a uomini, donne e bambini, nelle proprie terre d'origine. Dobbiamo definire urgentemente la politica migratoria europea, per proteggere sia i cittadini europei, sia coloro che hanno bisogno del nostro aiuto. Non possiamo commettere gli stessi errori del 2015 e andare incontro ad una nuova crisi migratoria, solo perché non siamo in grado di unirci e trovare soluzioni comuni. L'Unione europea deve restare unita per riprendere il controllo del Mediterraneo e mostrare il meglio della solidarietà europea».
MELONI DELUSA DA TUNISI
Il viaggio della premier Giorgia Meloni a Tunisi. Il colloquio col presidente della Repubblica di Tunisia Kais Saied è stato interlocutorio e alla fine la leader ha fatto solo dichiarazioni senza domande, escludendo i giornalisti. Il primo ministro libico Dbeibeh oggi a Roma, pronto un accordo da 2 miliardi con Eni. Ilario Lombardo per La Stampa
«Giorgia Meloni non è soddisfatta quando risale sull'aereo che quattro ore prima l'aveva portata a Tunisi. Un'ora e quaranta minuti di colloquio con il presidente Kais Saied significheranno pure, come si affrettano a far sapere da Palazzo Chigi, che «il feeling è stato buono», ma non sono serviti a smuovere un leader che sta assumendo i lineamenti dell'autocrate, arrestando oppositori, giornalisti, sigillando il Parlamento. Meloni sorride, stringe mani, si mostra disponibile. Lo fa al suo arrivo, durante la passerella con la premier Najla Bouden, poi con Saied al palazzo presidenziale. Le immagini sono quelle del fotografo ufficiale e degli smartphone dei collaboratori. I giornalisti arrivati al seguito restano lontani e non la vedranno mai. Così, senza domande, Meloni può offrire la sua ricostruzione del bilaterale con il presidente tunisino dietro a un podio, davanti a una telecamera, con in un'inquadratura sbilenca, come all'interno di una nave piegata dalle onde. Si intuisce subito che il confronto non è andato come avrebbe voluto, ma si è chiuso come si aspettava. Con Saied che dice «no ai diktat del Fondo monetario internazionale», no alle riforme che l'organizzazione internazionale pretende per scongelare il finanziamento da 1,9 miliardi, vitale per Tunisi. Meloni è preoccupata, e non lo nasconde. A Saied spiega che l'Italia sta facendo di tutto per ammorbidire gli alleati, sia a livello di Europa che di G7. Racconta di un «approccio pragmatico», della proposta del vicepremier Antonio Tajani di rateizzare i finanziamenti rendendo più progressivo il percorso delle riforme. Saied scuote la testa. Considera le proposte del Fmi «imposizioni», come «medici che prescrivono farmaci senza prima diagnosticare la malattia». Una posizione sprezzante che viene rilanciata in un comunicato stampa, dove le richieste del Fondo vengono bollate come «una malattia» che potrebbe «minacciare la stabilità interna della Tunisia e avere conseguenze che si estendono a tutta la regione». A Saied è stato chiesto di togliere i sussidi alla farina, alla benzina, di cominciare a ristrutturare un sistema economico vicino al collasso, ferito dalla corruzione, e stremato da un'amministrazione pubblica gonfia di assunzioni ma senza soldi per pagarle. Il presidente, però, non vuole mollare la posa populista e considera prioritario «il tema della cancellazione del debito che grava sullo Stato tunisino». La Tunisia vuole prima i soldi, poi farà le riforme. Ma è una promessa a cui gli americani credono poco. Lunedì prossimo Tajani volerà a Washington per parlare nuovamente con il segretario di Stato Blinken e la direttrice del Fmi, Kristalina Georgieva, che conosce dai tempi in cui erano entrambi commissari europei. Era stato proprio Blinken ad avere un colloquio telefonico di oltre un'ora con Saied, durante il volo verso il G7 in Giappone. Secondo fonti italiane, dopo lunga insistenza la linea in aereo è caduta e Blinken avrebbe ammesso: «Con questo qui non c'è niente da fare». Il governo italiano però non vuole farsi scoraggiare dalla mancanza di fiducia americana. Meloni ha intravisto una maggiore flessibilità dall'Ue. A Saied ha garantito che l'Italia sosterrà l'apertura di una linea di credito per il bilancio tunisino, a favore soprattutto delle piccole e medie imprese. Inoltre, c'è la possibilità che arrivi un pacchetto integrato di finanziamenti, su cui sta lavorando Bruxelles, anche per alleggerire Tunisi nella gestione dei migranti. «Per accelerare l'attuazione di questo pacchetto – spiega Meloni – ho dato a Saied la disponibilità a tornare presto in Tunisia con Ursula Von der Leyen». Meloni avrebbe proposto come data domenica prossima, per un viaggio che assieme alla presidente della Commissione europea avrebbero dovuto fare tempo fa, ma che è saltato per il rifiuto di Saied: a suo dire, avrebbe dato l'impressione di essere commissariato dall'esterno. La premier italiana ha fretta, loda il lavoro fatto da Saied sui migranti, accoglie la proposta tunisina di una conferenza internazionale sul tema delle migrazioni e offre Roma come sede, ma ammette la paura che con la stagione estiva l'esodo possa moltiplicarsi. La stabilità della Tunisia è fondamentale. Il rischio di una nuova Libia è troppo alta. Dall'altra parte del Mediterraneo Meloni si gioca molto della credibilità della sua strategia. Oggi, come anticipato da La Stampa, sarà a Roma il primo ministro ad interim del governo di unità nazionale di Tripoli Abdul Hamid Dbeibeh, in cerca di una legittimazione internazionale per la possibile candidatura alle future elezioni in Libia. Verrà firmato un nuovo memorandum tra i ministeri dell'Interno e probabilmente, secondo fonti libiche, anche un accordo di 2 miliardi con Eni. A Tunisi Meloni non ha dedicato neanche una parola in pubblico per la stretta brutale operata da Saied sullo stato di diritto. Nessuno glielo ha potuto chiedere, perché ai giornalisti, convocati il giorno prima con appena 23 minuti di preavviso, non è stato permesso avvicinarla. Saltato il punto stampa, inizialmente previsto in ambasciata, Meloni trova comunque il tempo di rilasciare dieci minuti di dichiarazioni davanti a una telecamera, prima di lasciare il palazzo presidenziale. Che poi è il format che la premier predilige: senza domande, come avviene per la rubrica "Gli appunti di Giorgia" o come quando il primo maggio evitò la conferenza stampa sul decreto lavoro, preferendo il piano sequenza tra gli stucchi di Palazzo Chigi ideato dal suo social manager».
SCHLEIN, NUOVO SCONTRO INTERNO
Guai anche a sinistra. Elly Schlein toglie a Piero De Luca, figlio del presidente della Regione Campania, il ruolo di vicepresidente vicario dei dem. Sul Corriere della Sera ne scrivono Maria Teresa Meli e Simona Brandolini.
«Nella politica italiana spesso i meriti dei padri giovano ai figli. Ma capita anche che le presunte colpe dei genitori illustri cadano sulla loro progenie. E ora la decisione di Elly Schlein di silurare Piero De Luca non rinnovandogli l’incarico di vicepresidente vicario dei deputati dem ha aperto un caso. Anche perché all’esponente del Pd in cambio è stato offerto un posto di segretario con delega al Pnrr inventato per l’occasione. De Luca, orientato a rifiutare lo strapuntino, l’ha presa male: «Si è consumata una sorta di vendetta trasversale che non fa onore». E ancora: «Forse ad alcuni di rafforzare questo partito interessa poco». E ora tutti attendono la reazione di un altro De Luca, Vincenzo, che è già entrato in rotta di collisione con la nuova leader che gli ha negato il terzo mandato alla presidenza della Regione Campania. «Parlerò e saranno fuochi d’artificio», va dicendo in giro il governatore, che è anche parecchio urtato per l’altro schiaffo ricevuto a «casa sua»: domenica a Napoli si terrà l’assemblea nazionale di scioglimento di Articolo 1. Schlein è invitata. Il sindaco Manfredi anche. Enzo De Luca no e se l’è legata al dito. Ma quel che più gli brucia adesso è la «vigliaccata» fatta al figlio. La sua prossima mossa? Organizzare l’opposizione interna, tirare calci su tutto: Pnrr, autonomia differenziata, riforme, terzo mandato compreso. Il suo settimanale appuntamento della diretta Facebook del venerdì, c’è da scommetterci, tornerà a essere l’arena di un tempo. All’assemblea dei deputati Schlein ha taciuto. È stata presente solo all’inizio quando insieme al gruppo del Senato si discuteva del decreto Lavoro. Dopodiché è andata via e ha lasciato a Chiara Braga l’onere di ufficializzare le sue decisioni: «Mi assumo io tutta la responsabilità. Non c’è una volontà punitiva, né un giudizio sulla persona. Anzi il lavoro fatto in questi anni va preservato e chiedo a Piero di occuparsi di Pnrr». Il suddetto Piero non era presente, perché sapeva come sarebbe andata a finire. All’assemblea nessuno ha sostenuto le ragioni di Braga. Più d’uno, invece, è intervenuto contro quella decisione. Lorenzo Guerini, con determinazione: «Non posso accettare processi a un cognome. Si è sbagliato a trasformare questo passaggio nella ricerca di uno scalpo politico. E questo è ancora più ingiusto nei confronti di una persona stimata da tutti i suoi colleghi». Il presidente del Copasir non ha partecipato alla votazione. E non è stato l’unico. Marianna Madia lo ha annunciato subito: «Non partecipo al voto, perché non partecipo a questo metodo. Predicare il cambiamento per poi fare un’operazione punitiva e puntare su una persona solo per il suo cognome… Se vogliamo affrontiamo i problemi del Pd, che sono innumerevoli, ma in modo serio». Piero Fassino ha giudicato «non motivata e divisiva» la non riconferma di De Luca ed Enzo Amendola ha lamentato la «scarsa considerazione per il Sud». Al momento del voto in diversi (anche chi non era intervenuto, come Matteo Orfini) sono andati via. Base riformista, la corrente di Guerini, comunque da ieri ha Simona Bonafè vicepresidente vicario alla Camera al posto di De Luca, e Alfredo Bazoli con lo stesso ruolo al Senato. L’emiliano, nonché bonacciniano, Alfredo De Maria è tesorerie dei deputati. Già, ogni corrente ha avuto il suo: dalla sinistra di Orlando agli ex lettiani. Ma il bilancino usato da Schlein non è servito a stemperare le polemiche. Lunedì la tanto attesa direzione post amministrative. In quella sede nessun redde rationem: molti parleranno a nuora perché Schlein intenda».
SE IL PD PERDE I CETI PRODUTTIVI
Commento di Stefano Folli per Repubblica sulla linea della segretaria del Pd.
«In attesa che il Pd avvii una riflessione sul risultato delle amministrative, riflessione di cui molti avvertono l’urgenza, la contesa con il destra-centro resta aspra nei toni e povera nella sostanza. Viene raffigurata una destra sempre più estremista, fascistoide, nemica dello Stato di diritto, votata a trasformare l’Italia in una seconda Ungheria. Questa fotografia, che a qualcuno sembra eccessiva, ha senso se è utile al centro-sinistra per risalire la china, recuperando porzioni di elettorato perdute nel recente passato. Altrimenti si aggiunge alle ragioni per cui è opportuno che il Pd rifletta su dove vuole andare. Elly Schlein ha chiesto tempo per costruire la sua politica e non si può darle torto. Ha tuttavia fatto capire che non si fida del vecchio partito, al di là delle cortesie formali, e questo è forse meno comprensibile. L’esperienza insegna che la corsa solitaria è un rischio eccessivo nel nostro sistema. Occorrerebbe quanto meno che la solitudine della leadership fosse puntellata da una visione precisa di ciò che si vuole per l’Italia. Altrimenti la tendenza al radicalismo rischia di essere fine a se stessa e i cosiddetti “temi identitari” raggiungono solo chi è già convinto, in genere una minoranza. Del resto, anche l’americana Ocasio-Cortez, espressione senza dubbio brillante dell’attitudine “liberal” in Usa, è relegata ai margini del partito democratico e nessuno immagina che possa un giorno aspirare alla presidenza. Di recente, in un’intervista a Domani , un esponente autorevole del cattolicesimo democratico come Pierluigi Castagnetti, ultimo segretario del Partito Popolare e ai tempi stretto collaboratore di Martinazzoli, sollevava un interrogativo pertinente: al di là degli applausi nelle piazze, che cosa propone in concreto il Pd? E rispondeva: “Ho fatto fare una ricerca nella stampa specialistica dei settori dell’agricoltura, dell’artigianato, delle piccole e medie industrie, su quante volte in questi tre mesi è stata registrata una posizione del Pd. Il risultato: zero. Se vogliamo tornare a governare questo Paese, possiamo non avere rapporti con i settori produttivi? Fare una proposta prescindendo da tali realtà?”. Castagnetti tocca un punto sensibile. Il “riformismo” non è una parola astratta, come pure talvolta è “massimalismo”. È invece la capacità di farsi carico delle esigenze dell’Italia che lavora, delle imprese che formano il tessuto produttivo. In anni lontani era qui la forza della Dc e dei suoi alleati di governo, ma anche del Pci nei propri territori. Forze produttive e ceto medio: non sembra che siano questi oggi gli interlocutori di Elly Schlein. Viceversa il “terzo polo”, ormai in cenere, tentava e ancora tenta, per quanto possibile, di rivolgersi a questi mondi. Renzi e Calenda si detestano, come sappiamo, tuttavia vogliono essere in sintonia con quei ceti senza i quali non si governa l’Italia. Il problema è che la percentuale di Azione e Italia Viva insieme oscilla intorno al 6 per cento. I “macroniani” nostrani sono in bilico nel voto europeo. È chiaro, in ogni caso, che “riformismo” non è solo parlare di sommi sistemi: premierato, semi-presidenzialismo. Per un partito come il Pd, che vuole riacquistare la sua centralità, riformismo è rivolgersi ai tanti segmenti della società e legarli insieme in base alle loro necessità. Resta da capire se ciò possa accadere a breve. Renzi sconta un’ostilità proverbiale e spesso ricambiata, per cui chi guida il Pd lo esclude in via pregiudiziale. Tuttavia Elly Schlein deve ancora definire una strategia per ritrovare il ceto medio e produttivo. Proprio quel ceto a cui guarda non da oggi Meloni: dipinta come estremista, in realtà si sta inoltrando lungo la via più insidiosa per il centro-sinistra. Può fallire, certo, ma gli altri non possono affidarsi solo alla speranza che l’avversario inciampi».
NUOVE MANOVRE AL CENTRO
Nuovi tentativi al centro del sistema politico: venerdì viene lanciata a Roma una piattaforma popolare da Tarolli a Fioroni. Fra i relatori Moratti, Magatti, Sodano, Bonanni e il presidente di Coldiretti Prandini. Angelo Picariello su Avvenire.
«Verso un pensiero politico nuovo e condiviso». Il variegato mondo del centro alla ricerca di una ripartenza (nonché di un’alternativa al Terzo polo renzian-calendiano) si dà ora un nuovo appuntamento venerdì 9 a cura della “Piattaforma popolare 2024” promossa dall’ex senatore dell’Udc Ivo Tarolli (a sua volta reduce dall’esperienza del laboratorio di “Insieme”), con l’obiettivo di dare vita a una lista «larga e composita» alle elezioni europee in programma per la primavera del prossimo anno. Si tratta di un nuovo tentativo di rassemblement al centro, che dopo una serie di incontri sul territorio (ne sono previsti circa 8/10 su base interregionale), dovrebbe dar vita a un nuovo appuntamento nazionale deliberativo da realizzare in autunno, per tirare le fila. A partire dalle ore 10, venerdì, con l’obiettivo di «riportare la spiritualità e l’umanesimo » al centro della vita politica, presso la casa Bonus Pastor, in via Aurelia a Roma, saranno chiamati a confrontarsi politici e intellettuali, di area cattolica, ma non solo. Dopo l’introduzione affidata a monsignor Gianni Fusco, docente alla Lumsa, coordinati dall’ex senatore Lucio d’Ubaldo relatori saranno i docenti Mauro Magatti, della Cattolica; Giovanni Ferri, della Lumsa, e Flavio Felice dell’università del Molise. Fra gli interventi previsti quelli dell’ex ministro ed ex presidente della Rai, Letizia Moratti, ora (dopo l’uscita dal centrodestra) alla guida della Confederazione civica popolare; del presidente della Coldiretti, Ettore Prandini; dell’ex ministro ed ex leader dei popolari del Pd, Beppe Fioroni, e di Giampaolo Sodano, ex dirigente Rai e Mediaset, ora esponente della federazione nazionale delle Alleanze civiche ed espressione dell’area socialista, a confermare l’intento inclusivo dell’iniziativa. «L’obiettivo immediato è superare quanto prima la frammentazione e la conseguente irrilevanza nella vita politica italiana delle esperienze cristianamente ispirate». Trattandosi poi di una iniziativa mirata a dar vita a una “piattaforma europea”, «si dovrà dare a questa azione un respiro necessariamente sovranazionale»,si ripropongono gli organizzatori. Fra i contributi previsti, quelli su antropologia e famiglia a cura di Domenico Menorello e Luisa Santolini; quello dell’economista Gustavo Piga; poi l’ex eurodeputato Nino Gemelli parlerà della geopolitica europea; Giuseppe Gargani di Costituzione e presidenzialismo; mentre l’ex segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, interverrà sui temi del lavoro; di sussidiarietà e territori parlerà invece Giuseppe De Mita, per citare solo alcuni. Le conclusioni saranno affidate a Tarolli: «Si tratta di una iniziativa organica e strutturata - rivendica - che va interpretata come la manifestazione concreta di un risoluto e generoso impegno di animazione cristiana del mondo, senza il quale facile sarebbe la caduta nel genericismo o nel corto respiro». Il prossimo appuntamento della “piattaforma popolare” è già fissato per il 30 giugno « per una prima condivisione dialettica rivolta a tutte le espressioni del mondo cattolico italiano». È prevista anche la creazione di un centro studi e di una fondazione che si occuperà del tema delle risorse in modo trasparente».
D’ALEMA E PROFUMO INDAGATI PER LE ARMI ALLA COLOMBIA
Indagine della Procura di Napoli su una fornitura da 4 miliardi di Leonardo e Fincantieri al governo sudamericano della Colombia: “Corruzione internazionale aggravata”. Massimo D’Alema e Alessandro Profumo perquisiti e indagati. Manuela Galletta per Repubblica.
«La Digos di Napoli si muove all'alba (di ieri) per raggiungere Roma e Milano. Ci sono 4 perquisizioni eccellenti da eseguire: Massimo D'Alema, ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri, è il primo della lista. Seguono Alessandro Profumo (ex amministratore delegato del colosso Leonardo), Giuseppe Gordo (direttore generale della Divisione Navi Militari di Fincantieri) e Gherardo Gardo, che è stato contabile dell'ex premier. Sono tutti indagati, insieme ad altre 4 persone, per corruzione internazionale aggravata, legata alla compravendita (saltata) di aerei militari e navi che dovevano essere venduti dai colossi Leonardo e Fincantieri al governo colombiano. La procura di Napoli, che un anno fa ha aperto il fascicolo di inchiesta a seguito di un esposto presentato dall'ex parlamentare di Italia viva Gennaro Migliore, fa richieste mirate: sequestrare documenti, «pizzini», appunti, pc, cellulari e qualsiasi supporto informatico, che possa potenzialmente contenere elementi utili alle indagini. Utili cioè a sostenere l'accusa di corruzione internazionale aggravata dal fatto che il reato sarebbe stato commesso con l'ausilio di un gruppo criminale organizzato attivo in diversi Stati, tra cui Italia, Usa, Colombia e anche in altri. I magistrati indicano alla Digos persino la possibilità di imbattersi in consistenti somme di denaro, un'allusione a presunte «mazzette» di cui si discute in questa storia da intrigo internazionale. Per gli inquirenti, Leonardo e Financatieri avrebbero dovuto fornire alla Colombia aerei M 346 e corvette, piccoli sommergibili e allestimento cantieri navali, incassando per l'operazione 4 miliardi di euro; per ottenere la commessa c'è chi sarebbe stato disposto a pagare laute mazzette sul versante dei mediatori italiani e su quello dei mediatori colombiani. E D'Alema, sostiene la procura, fu «mediatore informale nei rapporti con i vertici delle società italiane». Il diretto interessato però respinge ogni accusa e agli agenti della Digos che lo raggiungono nell'abitazione a Roma consegna alcuni documenti. Il mondo politico resta in silenzio, tranne il leader della Lega e ministro Matteo Salvini: «Non godo delle disgrazie e delle inchieste altrui, mentre a sinistra gioiscono quando qualcuno è indagato o perquisito».
VIOLENZA E ODIO RAZZIALE: POLIZIOTTI DI VERONA SOTTO ACCUSA
Ai domiciliari quattro agenti e un ispettore della squadra Volanti di Verona. Indagini aperte su impulso della stessa Questura scaligera. Gilda Maussier per il Manifesto.
«Calci e pugni fino allo svenimento, giochi sadici, spray al peperoncino negli occhi e poi insulti e risate, commenti sprezzanti alla luce del sole nella sicurezza di una completa impunità, mentre nei documenti ufficiali il comportamento dei tutori dell’ordine appariva irreprensibile. Alla Gip del Tribunale di Verona, Livia Magri, le accuse della Procura - dopo otto mesi di indagini condotte dalla Squadra mobile scaligera - sono apparse talmente comprovate da disporre ieri l’arresto di un ispettore e quattro poliziotti della squadra Volanti della Questura di Verona accusati a vario titolo di tortura nei confronti di persone sotto la loro custodia, quasi sempre immigrati, tossicodipendenti e senzatetto, oltre che lesioni, falso, omissioni di atti d’ufficio, peculato e abuso d’ufficio. Per due di loro c’è anche l’aggravante dell’odio razziale. I quattro agenti e l’ispettore, accusati di violenze perpetrate tra il luglio 2022 e il marzo 2023 e sottoposti da ieri alla misura cautelare degli arresti domiciliari, non appena chiuse le indagini già qualche mese fa erano stati trasferiti ad altri incarichi. E subito dopo, il Questore di Verona Roberto Massucci aveva disposto la rimozione anche di altro personale dell’autorità di pubblica sicurezza che, pur non avendo preso parte agli episodi di violenza, «si presume possa non aver impedito o comunque non aver denunciato i presunti abusi commessi dai colleghi», riferisce la stessa questura in una nota. Ma la particolarità di questa inchiesta, stando a quanto fatto trapelare dagli stessi investigatori scaligeri, sarebbe la totale autonomia con la quale sarebbe stata avviata. Per una volta non ci sarebbero video sfuggiti dal muro di omertà, né pentiti, e neppure denunce da parte delle vittime. L’indagine, riferisce all’Ansa una fonte investigativa, «non è nata da pressioni dell’opinione pubblica o da filmati postati in rete. Un segnale positivo sulla presenza di un sistema che anche dall’interno consente di intercettare (e non nascondere) episodi di derive illegali». L’indagine sarebbe partita nel luglio 2022 dall’interno della stessa questura, grazie ad un’intercettazione telefonica compiuta nell’ambito di un’altra indagine. Nella conversazione captata, un agente si sarebbe vantato di aver «messo al suo posto» una persona fermata dandogli due schiaffi. Da quel momento le indagini avrebbero appurato e documentato, anche attraverso telecamere nascoste, almeno altri sette casi, l’ultimo nel marzo di quest’anno. Uno degli agenti arrestati «raccontava alla fidanzata, inframezzando il narrato con risate e commenti divertiti, il pestaggio ai danni di una delle vittime», scrive nell’ordinanza la Gip. E ancora altri stralci di conversazioni: «...Che pigna che gli ho dato»; «ho detto vabbè, oggi le devi prendere anche da me!». In un’altra: «Gli ho fatto una presa io, gli ho calciato fuori e poi l’abbiamo portato dentro insieme, no, e vabbè gli abbiano tirato due, tre schiaffi a testa, no, ma così, giusto per...». Uno dei colpi sferrati sui detenuti in queste circostanze, scrive la giudice Magri, è stato talmente «vigoroso da fargli perdere i sensi per alcuni minuti». «Stai zitto, altrimenti entro dentro e vedi cosa ti faccio», sarebbe la frase che gli agenti ripetevano ai fermati. Spray negli occhi ma non solo: «Ti spruzzo nel culo», era la minaccia dell’ispettore alla vittima che i suoi colleghi continuavano a percuotere. In un altro caso, un fermato per l’identificazione sarebbe stato costretto a urinare nella stanza mentre un altro sarebbe stato trascinato «come uno straccio per pulire il pavimento». «I soprusi, le vessazioni e le prevaricazioni poste in essere dagli indagati risultano aver coinvolto, in misura pressoché esclusiva - scrive la Gip -, soggetti di nazionalità straniera, senza fissa dimora, ovvero affetti da gravi dipendenze da alcol o stupefacenti, dunque soggetti particolarmente "deboli"». «È innegabile - continua la giudice che tutti gli indagati, con le condotte sopra descritte abbiano tradito la propria funzione, comprimendo i diritti e le libertà di soggetti sottoposti alla loro autorità offendendone la stessa dignità di persone, creando essi stessi disordine e compromettendo la pubblica sicurezza, commettendo reati piuttosto che prevenirli, in ciò evidentemente profittando della qualifica ricoperta, anche compiendo falsi ideologici in atti pubblici con preoccupante disinvoltura».
CRESCITA AL +1,2%, INFLAZIONE IN FRENATA AL 5,7%
Economia. Gli ultimi dati Istat: Pil italiano a +1,2% nel 2023 inflazione in frenata al 5,7%. Per il 2024 crescita stimata all’1,1% e il caro prezzi ancora in calo al 2,6%. L’Italia va meglio di Germania e Francia, ma prossimi mesi si sconteranno nuove difficoltà nell’export e le conseguenze dell’alluvione in Emilia-Romagna.
«Il Pil italiano è atteso in crescita dell’1,2% nel 2023 e dell’1,1% nel 2024. Le previsioni per il biennio diffuse ieri dall’Istat prefigurano un rallentamento rispetto al 2022, ma per l’anno in corso si tratta comunque di un dato superiore di tre decimali rispetto alla crescita acquisita che lo stesso istituto nazionale di statistica, sulla base del primo trimestre, qualche giorno fa ha fissato allo 0,9%. È l’effetto della domanda interna a farsi sentire di più, mentre le esportazioni marceranno a ritmo più lento e proprio questo elemento, insieme alle conseguenze dell’alluvione in Emilia-Romagna, incideranno su una dinamica meno sostenuta nella seconda parte dell’anno. L’Istat segnala anche una crescita del mercato del lavoro in linea con quella del Pil e il dato dell’inflazione in calo. Nel 2023 il Pil registrerà una crescita (+1,2%) trainata dalla domanda interna che, al netto delle scorte, dovrebbe contribuire positivamente per 1 punto percentuale mentre la domanda estera netta fornirebbe un apporto di 0,3 punti. La fase espansiva proseguirà nel 2024 (+1,1%) con il Pil sostenuto nuovamente dal contributo della domanda interna al netto delle scorte (+0,9%) e in misura minore dalla domanda estera netta (+0,2%). In questo scenario, il saldo della bilancia commerciale tornerà in avanzo già nel 2023 (+0,1% in percentuale del Pil). Gli investimenti resteranno in crescita - del 3,0% nel 2023 e 2,0% nel 2024 - anche se in decelerazione rispetto al biennio precedente. I consumi delle famiglie non dovrebbero risentire dall’impatto inflazionistico, segnando un aumento nel 2023 dello 0,5% e del 2024 dell’1,1% grazie proprio all’ulteriore riduzione dell’indice dei prezzi al consumo associata a un graduale recupero delle retribuzioni e al miglioramento del mercato del lavoro. In particolare, considerando «l’ipotesi di normalizzazione dei prezzi delle materie prime agricole e del gas naturale nei prossimi mesi e di una stabilizzazione delle quotazioni del petrolio e del cambio», nell’anno in corso la dinamica dei prezzi, dal +7,4% del 2022 è prevista in calo al +5,7% nel 2023 e al +2,6% nel 2024. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, nel primo trimestre è proseguito il miglioramento con una ripresa congiunturale delle ore lavorate e delle unità di lavoro (Ula) per il totale dell’economia (+1,3% e +1,1% rispettivamente). In questo scenario la crescita delle Ula nel biennio di previsione (rispettivamente +1,2% e +1,0%) si manterrà in linea con quella del Pil. E il tasso di disoccupazione, aggiunge l’Istat, segnerà un miglioramento nel 2023 (7,9%) che proseguirà nel 2024 (7,7%). Nel complesso, le nuove previsioni segnalano una revisione al rialzo delle stime presentate dall’Istat a dicembre: +0,8 punti per il Pil (da 0,4% a +1,2%), +1% per gli investimenti e +0,7% per le unità di lavoro. Ne deriva, per il 2023 ma non per il 2024, un quadro migliore rispetto a Francia (rispettivamente Pil +0,7% e +1,4%) e Germania (+0,2% e +1,4%). Ma viene anche segnalato che, nonostante il primo trimestre particolarmente positivo, un rallentamento potrebbe concretizzarsi nel prosieguo dell’anno. Soprattutto come conseguenza di «una netta decelerazione» degli scambi con l’estero, «in un contesto caratterizzato da un rallentamento della domanda mondiale, con l’economia di importanti partner commerciali come Germania e Usa che è attesa frenare». L’export vedrà la crescita scendere dal 9,4% dello scorso anno al +1,5% del 2023 e +2,5% del 2024. Un ulteriore fattore di rischio potrebbe venire dalle conseguenze economiche, soprattutto sul settore agricolo, dell’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna. Di certo, osserva l’Istat, sarà decisiva l’attuazione del Pnrr, cui è legata in gran parte la possibilità di controbilanciare, per gli investimenti, effetti delle politiche monetarie restrittive sulla domanda interna e il venir meno della spinta degli incentivi all’edilizia».
LA GUERRA DI HARRY CONTRO LA STAMPA ROSA
Il principe Harry va in Tribunale a Londra, testimone al processo contro il “Daily Mirror”. E dice: “Io e Meghan intercettati. I tabloid mi hanno distrutto l’adolescenza”. La cronaca di Repubblica.
«Dal comandamento della regina Elisabetta II «mai lamentarsi, mai spiegare» a «giuro di dire la verità, nient’altro che la verità » in un’aula di tribunale “plebea”. Come spesso quando c’è di mezzo Harry, non si era mai vista una cosa del genere nella Royal Family. Certo, 132 anni fa, nel 1891, il principe ereditario poi re Edoardo VII venne chiamato a testimoniare perché un suo amico aveva barato a carte. Allora la regina Vittoria s’infuriò, re Carlo invece ha fatto in tempo a riparare in Transilvania per una vacanza il più lontano possibile dal suo secondogenito. Perché ieri Harry è stato protagonista di uno show unico nel tribunale dell’Alta Corte di Londra, dove prosegue il processo contro il gruppo editoriale del Daily Mirror , accusato di intercettazioni e altre pratiche illegali nella vita privata di reali e vip britannici. Le telecamere non sono ammesse, qualche reporter sì. Dopo aver giurato sulla Bibbia, il principe ribelle inizia sciabolare tutta la rabbia: «I tabloid incredibilmente invasivi mi hanno ascoltato i messaggi sulla segreteria telefonica, persino a scuola. Alcuni direttori e giornalisti hanno le mani sporche di sangue e hanno causato indirettamente la morte di altre persone». Tra cui, ne è certo, sua madre Diana. «Mi hanno distrutto l’adolescenza », continua Harry, «i tabloid avevano cose accessibili solo con le intercettazioni », come gli scoop sul suo uso di cocaina e anfetamine e il costume da gerarca nazista indossato a una festa. «Anche mio padre potrebbe esser stato intercettato. Inoltre, hanno seminato discordia tra me e mio fratello William», rimbomba in aula l’ira di Harry: «Non solo: i rumour pubblicati dai giornali per cui il mio vero padre sarebbe il militare James Hewitt da ragazzino mi terrorizzavano: temevo di essere cacciato dalla famiglia». Il legale del Mirror Andrew Green ribatte, prova a impantanarlo: «Molto di quanto lei considera rubato da conversazioni private in realtà era già di dominio pubblico. Le sue sono assolute speculazioni!». Harry tentenna: «Non ho la certezza che il mio telefono fosse spiato». Poi riparte, senza freni. Da alto membro della Royal Family, seppur autoesiliato, strappa clamorosamente un’altra regola di questo Paese: commentare questioni politiche. «La stampa ha toccato il fondo, come il governo britannico». Gelo a Buckingham Palace. Poi passa a Piers Morgan, gotha del giornalismo oltremanica, allora direttore del Daily Mirror e oggi fustigatore incallito della “bugiarda” Meghan: «Ha sempre attaccato e intimidito in maniera orrenda me e mia moglie. Spera che molli. Ma io non mollerò mai, fino a quando lui non pagherà per quello che ha fatto a me e mia madre Diana». Insomma, il figlio del sovrano si è calato nella fossa dei leoni. Ma così facendo Harry si è anche tragicamente esposto ad avvocati e giudici che ora potrebbero rivalersi su di lui e citarlo in giudizio eventualmente per falsa testimonianza. Perché questo non è un documentario su Netflix e neanche un’autobiografia magnificata dalla classe narrativa di JR Moehringer: qui ogni cosa detta può essere usata contro di lui. Per questo potrebbe essere un “suicidio” mediatico, come il padre Carlo definì la crociata di Harry contro i media. O come accaduto al famigerato zio Andrea, con quella catastrofica intervista alla Bbc , nel 2019, sul caso Epstein. Non a caso, l’attuale erede al trono e fratello William, anni fa raggiunse un compromesso con il Sun su un risarcimento principesco dopo le intrusioni indebite del tabloid. Ma tutto questo al principe ribelle non interessa. Harry, che ha altre due cause in corso proprio contro il Sun e il Daily Mail che pubblicò la corrispondenza privata tra Meghan e suo padre, vuole vendicare sua madre, rompere quella connivenza per lui fetida tra monarchia e tabloid e far capire a padre e fratello, con la forza, che la famiglia viene prima anche della leggendaria Royal Family. Come in una drammatica partita di poker, Harry ha deciso di fare “all-in”. Di giocarsi tutto, comprese reputazione e credibilità qualora i navigati principi del foro lo mettano all’angolo. E oggi ritorna in tribunale per una nuova battaglia: la guerra è appena iniziata».
SUDAN, NUOVI COLLOQUI DA IERI
Si combatte ancora a Khartoum e nel Darfur. Timori anche per i reperti del Museo Nazionale occupato dai paramilitari. Riparte il balletto dei colloqui in Arabia Saudita. Marco Boccitto per il Manifesto.
«Interrotto alla fine della scorsa settimana dagli stessi mediatori per le troppe tregue firmate e non rispettate dalle parti, il balletto in corso a Gedda sotto l’egida saudita e statunitense tra le delegazioni del generale Abdel Fattah al-Burhan e quella del generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti è ripreso ieri. Nuovi colloqui in forma indiretta, riferiscono fonti citate da al Arabiya, con al centro sempre la stessa cosa: l’urgenza in Sudan di un cessate il fuoco vero, che darebbe tregua a una popolazione civile stremata e permetterebbe di rispondere a un imperativo umanitario, dopo che le agenzie internazionali - a partire dall’Onu - sono state travolte dalla crisi, delegittimate, saccheggiate, paralizzate dall’insicurezza che perdura nelle aree dove più intensamente si combatte. Dalla capitale al Darfur occidentale e a quello settentrionale, in particolare a Kutom, città devastata per il controllo della locale base militare, con decine di vittime e una montagna di abusi denunciati. Proprio in Darfur i paramilitari delle Forze di supporto rapido di Dagalo (Rsf), un tempo noti come janjaweed, hanno costruito la loro cattiva fama. In questa situazione di caos Unitams, la missione delle Nazioni unite già attiva nel paese per seguire la transizione, è stata prorogata ma per soli sei mesi anziché un anno com’è prassi. D’altro canto Volker Perthes che la guida, nei giorni scorsi è stato dichiarato persona non grata da al-Burhan, in aperta sfida al segretario generale dell’Onu António Guterres, costretto a rinnovare piena fiducia al suo rappresentante ma impossibilitato a garantirgli gli strumenti per un’azione incisiva sulla crisi in atto. Di tanta presunta diplomazia, ai sudanesi in balìa da otto settimane di due signori della guerra senza scrupoli, che provano ad accreditarsi anche all’esterno come salvatori della patria, non arriva nulla. Sulle piattaforme social i due contendenti raccontano tutto e il contrario di tutto, come sarà anche normale nelle guerre moderne. Ci si comincia a chiedere se lo sia lasciare aperti gli account di due criminali di guerra conclamati; sul campo il dramma che si consolida ogni giorno di più, orrori che corrono sugli smartphone, i civili intrappolati in un copione di scontri abbastanza consolidato, almeno nella capitale: le Forze di supporto rapido di Dagalo (Rsf), bene armate e in grado di spostarsi agilmente, spadroneggiano a terra; l’esercito di al-Burhan risponde con i tank e l’aviazione, con la perizia che ci si può immaginare quando a essere colpite sono zone ancora densamente abitate. Per effetto di uno di questi raid aerei sono morti anche 10 studenti congolesi e diversi altri sono rimasti feriti. Se ne lamenta il ministro degli Esteri di Kinshasa, Christophe Lutundula , chiedendo un corridoio umanitario per evacuare i feriti. E possibilmente un’inchiesta. Dopo l’agghiacciante vicenda dell’orfanotrofio di Khartoum, in cui dall’inizio della guerra sarebbero morti di stenti 60 bambini, un diverso allarme riguarda adesso l’isola di Tuti, che divide Khartoum dalle "gemelle" Omdurman e Bahri, nel punto in cui il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco diventano una cosa sola. Il modernissimo Tuti Bridge, il ponte sospeso che collega l’isola alla terra ferma è stato occupato dalle milizie di Dagalo, convinte forse che al-Burhan ci penserà due volte prima di distruggere un’opera da primato. Gli abitanti denunciano un sequestro di massa e l’esaurimento delle scorte di cibo. Non lontano da qui le Rsf che finora si erano concentrate sui palazzi del potere e i pochi ospedali ancora agibili hanno occupato anche il Museo nazionale. In questo caso si è temuto - si teme ancora - per i resti di un patrimonio unico al mondo sulla storia dell’antica Nubia».
USA, FINANZIAMENTO ALLA SCUOLA CATTOLICA
Stati Uniti. Per la prima volta a un istituto religioso dell’Oklahoma, gestito privatamente, viene accordato il particolare statuto che garantisce finanziamenti pubblici alla struttura cattolica. Elena Molinari per Avvenire.
«A sorpresa, una commissione scolastica statale statunitense ha approvato di concedere sovvenzioni pubbliche a una scuola cattolica. Si tratta della prima volta che un istituto di stampo religioso viene accettato sotto lo statuto di “charter school”, vale a dire scuola finanziata pubblicamente ma gestita privatamente. La novità viene dall’Oklahoma, dove la commissione ha detto di sì al piano per creare la scuola virtuale cattolica di Sant'Isidoro di Siviglia, uno sforzo congiunto dell'arcidiocesi di Oklahoma City e della diocesi di Tulsa. Il voto finale è stato di 3 sì contro 2 no. Lo stesso consiglio ad aprile aveva respinto un primo piano presentato dall’arcidiocesi e dalla diocesi, chiedendo maggiori dettagli, soprattutto sulle modalità di insegnamento per gli studenti disabili. Ora si è detto in maggioranza soddisfatto dei cambiamenti apportati al progetto, e la scuola potrà aprire i battenti (virtuali) a settembre dell’anno prossimo, accogliendo dapprima 500 studenti per arrivare fino a 1.500 nel giro di tre anni. I membri del consiglio hanno sottolineato ripetutamente che non stavano votando sulla costituzionalità della scuola, ma solo se la domanda soddisfaceva gli standard educativi dello Stato. Non la vede così il procuratore generale dell’Oklahoma, il repubblicano Gentner Drummond, che ha criticato la decisione, temendo che esponga lo Stato a costosi processi. «L’approvazione di qualsiasi scuola religiosa finanziata con fondi pubblici è contraria alla legge dell'Oklahoma e non è nel migliore interesse dei contribuenti», ha affermato. Il voto innescherà sicuramente una battaglia legale sulla separazione tra Chiesa e Stato che verterà sull’interpretazione della “clausola istitutiva” del primo emendamento della Costituzione Usa, che impedisce al governo di sostenere una particolare religione rispetto ad altre o all’assenza di religione. La scuola non nasconde il fatto che «la religione sarà intessuta in ogni materia, dalla matematica e scienze alla storia e alla letteratura — come spiega Brett Farley, direttore esecutivo della conferenza episcopale dell’Oklahoma —. Il nostro obiettivo è continuare a fare quello che già facciamo nelle scuole cattoliche». Il gruppo “Americani uniti per la separazione tra Chiesa e Stato” ha già annunciato una causa, ma Farley, l’Arcidiocesi ed altri osservatori cattolici impegnati nell’educazione religiosa negli Stati Uniti sono convinti della solidità del loro caso e sperano che il contenzioso raggiunga la Corte Suprema degli Stati Uniti, portando a un ampliamento delle agevolazioni pubbliche per le istituzioni religiose negli Usa. Negli ultimi anni, i giudici della Corte Suprema hanno esteso i diritti degli americani di praticare la loro fede con una serie di sentenze, compresi casi che coinvolgono scuole nel Maine e nel Montana. Nella sentenza del Maine, la corte ha dato ragione a due famiglie cristiane che sostenevano di avere diritto al programma statale di assistenza scolastica che aveva escluso le scuole religiose. I magistrati hanno infatti deciso che il Maine è tenuto a sovvenzionare gli studenti che frequentano scuole religiose se lo fa per le scuole private laiche. Nel 2020, inoltre, la Corte ha approvato i crediti d'imposta scolastici del Montana per gli studenti per gli studenti di istituti religiosi. E nel 2017 in un caso del Missouri il tribunale costituzionale Usa ha stabilito che alle entità religiose non può essere categoricamente negato il denaro pubblico. La scuola virtuale cattolica di Sant'Isidoro di Siviglia offrirà solo apprendimento virtuale: una scelta fatta dalle due diocesi per contenere le tasse scolastiche e rendere la scuola accessibile alle famiglie rurali dello Stato che cerca di servire. Costerà ai contribuenti circa 25 milioni di dollari nei primi cinque anni di attività».
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