La Versione di Banfi

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La Lega strappa con Draghi

alessandrobanfi.substack.com

La Lega strappa con Draghi

I ministri di Salvini non votano il nuovo decreto per l'emergenza Covid. Giorgetti assente. Oggi Sergio Mattarella inizia il nuovo mandato. Aumenta la tensione sull'Ucraina. Soldati Usa in Europa

Alessandro Banfi
Feb 3, 2022
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La Lega strappa con Draghi

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Giornata cruciale ieri segnata da un Consiglio dei Ministri che per la prima volta mostra di credere nella fine di una fase acuta della pandemia. Ma che paradossalmente ha visto la dura opposizione della Lega e la rinnovata assenza di Giancarlo Giorgetti. Il Ministro leghista più vicino al premier è stato di nuovo assente. Draghi ha comunque fatto il Draghi e ha tirato diritto. Niente più Dad a scuola per i vaccinati, il Green pass per chi ha fatto il richiamo diventa per ora senza scadenza. I numeri della pandemia confortano le decisioni del Governo. Rispetto ad una settimana fa ieri si sono registrati un meno 9% dei decessi. Il 70 per cento dei ricoverati (complessivamente in calo) nelle terapie intensive sono non vaccinati o vaccinati con sole due dosi. La discriminazione fra vaccinati e non vaccinati la fa il virus, con buona pace delle polemiche.

Lo strappo leghista nel governo apre uno scenario inedito per l’esecutivo. E per il centro destra. Qual è la vera intenzione di Matteo Salvini? Intanto Silvio Berlusconi apre ai centristi e pare snobbare la proposta di rinsaldare l’alleanza con la Lega. Gelo totale con Giorgia Meloni, sempre più autonoma nelle scelte. Nei 5 Stelle non è che le cose vadano meglio: lo scontro fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio è violentissimo, mentre Beppe Grillo si schiera con l’ex premier.

Oggi Sergio Mattarella inaugura ufficialmente il suo secondo mandato. Il suo discorso da Presidente, che non sarà lungo, è molto atteso da un Parlamento che lo ha fortemente voluto, anche contro il parere dei leader di partito. Che cosa dirà delle riforme che toccano alle nostre istituzioni? E dei compiti del governo? C’è chi scommette che toccherà anche temi economici.

Su questo fronte le notizie sono contrastanti. Insieme alle buone nuove sul Pil e sui nostri titoli, ieri collocati dal Tesoro e andati a ruba (all’ offerta dei BTp italiani ieri hanno risposto oltre 110 investitori per una domanda complessiva di circa 19 miliardi a fronte dei cinque proposti), l’inflazione preoccupa. Nel 2022 il rincaro dei prezzi per la Bce dovrebbe assestarsi al 3,2% nell'area dell'euro: ma questa previsione andrà aggiornata con le proiezioni di marzo e poi in corso d'anno. Oggi se ne parlerà a Francoforte.

A proposito di notizie dall’estero, la crisi sull’Ucraina rischia ancora di degenerare in un conflitto. Ieri Biden ha annunciato lo schieramento di 3mila soldati in Europa. Mosca ha risposto diffondendo le immagini delle loro esercitazioni al confine, con 130 mila militari russi coinvolti. Il filo del dialogo diplomatico non è ancora interrotto (oggi Erdogan è a Kiev) ma  Cancellerie e osservatori appaiono pessimisti.    

Più che Draghi l’idea che stiamo uscendo dal tunnel della pandemia ce l’ha data ieri sera Checco Zalone dal palco dell’Ariston, quando ha fatto la parodia del virologo in televisione. Sanremo ha avuto grande successo nella prima serata, anche perché come nota giustamente Dipollina su Repubblica, è finalmente uno show completo in una tv diventata solo reality e talent. Caverzan sulla Verità nota che il politicamente corretto è tutto centrato sui gay, tema sul quale non è mancata l’ironia di Zalone. Ironia efficace anche quella del direttore dell’Osservatore Romano Andrea Monda, che ha chiosato bene la presunta trasgressione di Achille Lauro. È morta Monica Vitti, grandissima attrice di un cinema italiano di altri tempi. Aveva 90 anni, da venti non si mostrava in pubblico. Roma le rende omaggio.  

È disponibile il terzo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa.

In questo terzo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Flavia Piccoli, deputata del Partito democratico e presidente della Commissione Cultura della Camera, figlia di Flaminio. Flaminio Piccoli era nato in Austria, nel 1915, dove la sua famiglia originaria di Borgo Valsugana era stata evacuata dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria. Nella Seconda guerra mondiale, Piccoli è stato arruolato come alpino e riuscì all’ultimo a salvarsi dall’internamento in un campo di concentramento. Nel dopoguerra inizia la sua carriera politica, che parte dall’Azione cattolica trentina per poi passare alla Dc lo porta ad essere segretario del partito nel 1969 e poi di nuovo tra il 1980 e l’82, mentre tra il 1970 e il 1972 ricoprì l’incarico di ministro delle Partecipazioni statali. Più volte deputato e senatore. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il secondo episodio.

Flavia Piccoli racconta il padre Flaminio

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

MENO 8 AL NUOVO INIZIO

Scusate se parlo ancora un po’ di me. Si avvicina il giorno, l’11 febbraio 2022, in cui La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. Nei prossimi giorni vi dirò bene il costo e le modalità dell’abbonamento. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera sottolinea la buona notizia: Draghi: L’Italia sarà più aperta. Ma Avvenire ricorda che c’è la: Dad che divide. Infatti La Repubblica tematizza lo scontro con la Lega: Draghi riapre l’Italia ma Salvini lo sfida. Molto simile La Stampa: Draghi: ora apriamo l’Italia. Ma c’è lo strappo di Salvini. Il Giornale lascia la decisione leghista in secondo piano: Fuori dall’incubo. Il Quotidiano Nazionale si concentra sulla scuola: La svolta: niente Dad per i vaccinati. Il Mattino è fiducioso: Meno divieti e meno Dad, l’Italia è pronta a riaprire. Libero festeggia: Liberati i vaccinati. Per Il Fatto: Il governo morente discrimina i guariti. La Verità polemizza ancora sui dati: Affetti avversi sugli italiani? L’Aifa li rivela solo all’Europa. Il Domani sui giovani manifestanti repressi in piazza: Per la ministra Lamorgese le botte agli studenti sono solo colpa degli “infiltrati”. Due titoli di apertura sulla scomparsa di Monica Vitti: quello del manifesto: Ma ’ndo vai e quello del Messaggero: Eterna Monica. Il Sole 24 Ore scova una buona notizia di economia: Domanda boom per il nuovo BTp.

FINE DELLE RESTRIZIONI, LA DAD DELLA DISCORDIA

Il premier Mario Draghi annuncia la svolta sulla pandemia: L’Italia è pronta a superare i divieti. I vaccinati sono liberi anche in zona rossa e il Green pass per chi ha fatto anche il richiamo diventa senza scadenza. Il Ministro della Salute Speranza dice che è iniziata una fase nuova. La cronaca di Adriana Logroscino per il Corriere.

«La stagione delle restrizioni è finita. «Vogliamo un'Italia sempre più aperta, soprattutto per i nostri ragazzi». È la premessa con cui il presidente del Consiglio, Mario Draghi, annuncia il nuovo corso. Gli allentamenti sono contenuti nel decreto legge approvato ieri dal Consiglio dei ministri e che entrerà in vigore il giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, entro lunedì 7 febbraio. Prevista l'estensione della durata del green pass, che non avrà più scadenza per chi abbia ricevuto tre dosi o sia guarito e ne abbia ricevute due. Disposta poi una rimodulazione della didattica a distanza, ormai destinata prevalentemente a bambini e ragazzi non vaccinati. Infine azzerato ogni divieto per i vaccinati, anche in caso di zona rossa. Tuttavia dal provvedimento approvato ieri si sono chiamati fuori i ministri della Lega, disertando il voto: «Pur condividendo le misure di apertura contenute nel decreto - precisano la loro posizione Giancarlo Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia - in coscienza non potevamo approvare la discriminazione tra bambini vaccinati e non vaccinati». Di rimando, fonti del Pd parlano di «un atto preoccupante» e confidano si tratti «solo di un incidente di percorso e che da domani la maggioranza torni compattamente al fianco del presidente del Consiglio». L'exit strategy Ai leghisti, Draghi avrebbe risposto così: «Capisco le perplessità, ma introdurre la distinzione tra vaccinati e non vaccinati, anche a scuola, è giusto». Confortato dal calo dei contagi e dal «numero incoraggiante di vaccinati», il premier infatti tira dritto. «I provvedimenti di oggi - dice rivolgendosi ai ministri - vanno nella direzione di una ancora maggiore riapertura del Paese. Oggi ci occupiamo della scuola in presenza, che è da sempre la priorità di questo governo. Veniamo incontro alle esigenze delle famiglie che trovano il regime attuale delle quarantene troppo complicato e restrittivo». Ma molti altri settori della vita quotidiana saranno via via investiti, in una logica di un graduale ritorno alla normalità. «Nelle prossime settimane andremo avanti su questo percorso di riapertura - continua Draghi - sulla base dell'evidenza scientifica, e continuando a seguire l'andamento della curva epidemiologica, annunceremo un calendario di superamenti delle restrizioni vigenti». Speranza: tempo nuovo È, infatti, il quadro epidemiologico a consentire di riconsiderare obblighi e divieti. «Con il calo dei ricoveri delle ultime settimane siamo in una fase e in un tempo nuovo - rileva il ministro della Salute, Roberto Speranza -. La scuola è il cuore del nostro Paese quindi abbiamo deciso che i vaccinati non andranno più in dad e nei pochi casi in cui è prevista, questa durerà non più 10 ma 5 giorni». L'altro simbolo di questo cambio di passo sarà la caduta dei divieti in zona rossa per chi è vaccinato. Insomma, la logica è chiara: i vaccini hanno messo in sicurezza il Paese, gli allentamenti ora riguarderanno chi si è immunizzato. «Non c'è alcuna discriminazione - replica Speranza alle obiezioni dei colleghi leghisti - il vaccino, scelto dal 91% degli italiani, è lo strumento che ci sta consentendo di aprire una fase nuova. Su questa linea dobbiamo insistere». I dati del giorno Il calo del contagio è confermato anche dal bollettino di ieri: i 118.994 nuovi positivi sono 14.148 in meno del giorno prima. Con meno tamponi eseguiti, però, risale al 12,3% il tasso di positività. Ancora alto il numero dei decessi: 395, cioè 32 in meno del giorno prima. Costante la discesa dei ricoveri.».

PANDEMIA, LA LUCE IN FONDO AL TUNNEL

La situazione dei contagi nell’analisi dei numeri, siamo davvero ad una svolta? Il punto della situazione dalla cronaca della Stampa.

«Si vede la luce in fondo al tunnel. Lo dice il ministro della Salute, Roberto Speranza, mai propenso a facili ottimismi: «L'incidenza dei contagi è ancora molto alta, ma le ospedalizzazioni segnalano, dopo settimane non semplici, segni meno, che sono importanti». Si aggiunge il sottosegretario Pierpaolo Sileri: «È tempo di passare a una gestione ordinaria del Covid-19, così come avviene per l'influenza». Secondo Sileri, le cose vanno talmente bene che si lancia nella previsione che «se i contagi continueranno a calare e lo stesso trend sarà rilevato soprattutto nei ricoveri e nelle terapie intensive, non vedo ragioni per dover prolungare oltre il 31 marzo lo stato di emergenza». E allora ecco i numeri che fanno ben sperare i responsabili della nostra Sanità: sono stati 118.994 i nuovi contagiati da Covid-19 nelle ultime 24 ore (in decrescita rispetto all'altro ieri quando erano stati 133.142); sono in lieve calo anche i decessi, 395 (il giorno prima se ne contavano 427), e 187.816 invece i guariti. E anche se il tasso di positività sale al 12,3% (+1,7% rispetto al 1° febbraio) a fronte di 964.521 tamponi effettuati, ciò che più conta è che siano ancora in diminuzione i ricoverati nelle terapie intensive (-25) e i ricoveri ordinari (-323). Cala insomma la pressione sugli ospedali. La Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere, Fiaso, analizzando venti ospedali sentinella, specifica che «i letti delle rianimazioni Covid sono occupati per il 64% da soggetti non vaccinati, un dato ormai consolidato che conforta sull'efficacia del vaccino nella protezione dalle forme gravi della malattia da Covid». Quanto ai vaccinati finiti in rianimazione Covid, «la quasi totalità, l'88%, soffre di gravi co-morbidità». Di questi, nel 61% dei casi avevano fatto il vaccino da oltre 4 mesi e mancava la terza dose. Secondo la Fiaso ormai nelle statistiche bisognerebbe distinguere chi viene ricoverato «per» Covid e chi «con» Covid. Dice il presidente Giovanni Migliore: «Quelli che vengono in ospedale per curare fratture, tumori, patologie cardiologiche sono ormai quasi il 40% del totale dei ricoverati in area Covid». E dato che sono vaccinati, risultano per fortuna del tutto asintomatici».

SALVINI DI LOTTA E DI GOVERNO

Ma perché la Lega rompe, proprio quando ci si avvia verso la fine dell’emergenza? Il retroscena della riunione di governo ieri, segnata ancora dall’assenza di Giancarlo Giorgetti. Tommaso Ciriaco

«Il caos piomba in Consiglio dei ministri. Lo porta Matteo Salvini, che lavora apertamente alla destabilizzazione dell'esecutivo. Chiede ai suoi ministri di non votare il decreto, nonostante sancisca nuove riaperture decise da Mario Draghi. E prepara nuovi strappi. Tanto che ai vertici delle segreterie, a sera, si diffonde il sospetto che il leghista stia costruendo un percorso che lo avvicina all'opposizione. Provando a spaccare Forza Italia, avvicinando il rischio di una crisi. Quel che succede a Palazzo Chigi è emblematico, oltreché preoccupante. Giancarlo Giorgetti telefona in tarda mattinata al premier. Gli preannuncia che non intende sostenere le misure sui bambini non vaccinati. E aggiunge che non parteciperà alla riunione di governo per evitare un atto di rottura al momento del voto. Gli altri due ministri leghisti, però, siedono in Consiglio. E quando esprimono il dissenso, provocano una reazione glaciale di Draghi. «Prendo atto della scelta della Lega - dice Draghi - Ringrazio il ministro Garavaglia, perché conosco le difficoltà del partito su questi temi. Ma sono misure necessarie per tornare alla normalità e le prenderemo lo stesso». Una scelta meditata, perché il capo dell'esecutivo conosceva già da martedì i dubbi del Carroccio. Ma ha scelto di non frenare. Le scorie del gesto leghista si diffondono immediatamente. Il Partito democratico inizia a dubitare della volontà di Salvini di restare in maggioranza. Denuncia un «atto preoccupante», sfida via Bellerio a dimostrare che si tratta soltanto di un incidente di percorso. Enrico Letta fa di più. Fissa per le prossime ore una riunione con i big del Nazareno, dalla quale dovrebbe uscire una richiesta secca: «Serve un chiarimento definitivo, Salvini dica se è dentro o fuori dal governo». Il nodo è esattamente questo: cosa intende fare Salvini? Fonti del Carroccio lo descrivono come tentato dalla forzatura, ma comunque imprevedibile. In crisi per sondaggi sempre meno rassicuranti. Timoroso di finire addirittura cinque punti sotto Fratelli d'Italia nelle rilevazioni delle prossime due settimane. Peggio: il segretario - dolorosamente sconfitto nelle trattative per il Colle - avrebbe fissato i quattro punti di rilancio avendo in mente proprio una rottura. Così almeno andrebbero inquadrati i veti sulla scuola e sulla riforma del catasto, promessa dal premier. E lo stesso vale per i diktat sull'immigrazione, con un bersaglio chiaro: la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. Ma la preoccupazione che avvolge in queste ore l'esecutivo va anche oltre Salvini. Da tre giorni, Giancarlo Giorgetti risponde a pochi, selezionati colleghi. Nessuno sa prevedere se darà seguito allo sfogo di sabato scorso, dimettendosi per non trovarsi incastrato nell'escalation del leader. Sulla scuola, a dire il vero, è d'accordo con Salvini. Ma è evidente che il solco tra leghisti governisti e salviniani è ormai ingestibile, come dimostra la presa di posizione dei governatori del Carroccio, sostanzialmente a favore di Draghi. L'attivismo dell'ex ministro dell'Interno, tra l'altro, rischia di destabilizzare anche Forza Italia. Silvio Berlusconi è reduce da un pesante ricovero ospedaliero e si moltiplicano gli interrogativi sulla reale voglia e capacità del leader di mantenere la presa sul partito. Ma c'è di più. Quanto potrà resistere Arcore alle forzature di Salvini? E l'eventuale passaggio del Carroccio all'opposizione trascinerebbe gli azzurri fuori dalla maggioranza, precipitando il Paese verso elezioni? Interrogativi che si fanno spazio, a sera. «Dipende tutto dalla tenuta di Forza Italia», confidava ieri Andrea Orlando ai compagni di partito angosciati dalla stabilità della legislatura. In effetti, il gruppo di FI è spaccato tra l'ala filo-leghista e quella che tifa Draghi. E la linea sembra ancora confusa: il Cavaliere ha indicato ieri nel rafforzamento del centro uno degli obiettivi dei prossimi mesi, ma ha anche ribadito che va inquadrato nel centrodestra. Senza proporzionale, insomma, l'alleanza con i sovranisti appare obbligata. A rendere ancora più incerto il quadro, alcuni segnali che arrivano dal quartier generale berlusconiano. Sembra infatti imminente il passaggio di proprietà del quotidiano "Il Giornale" al gruppo del deputato Antonio Angelucci, che già possiede "il Tempo" e "Libero". Si tratterebbe di una clamorosa rinuncia a uno degli asset più importanti del ventennio berlusconiano in politica».

Dietro alla scelta di non votare il decreto, ci sarebbe un'offensiva contro il ministro Speranza. Il ministro Giorgetti assente dal Consiglio, riceve però il collega Di Maio e il segretario leghista al ministero. Antonio Bravetti e Francesco Olivo sulla Stampa.

«Matteo Salvini vuole restare al governo, ma a modo suo, facendo molto rumore. Dopo aver insistito affinché Mario Draghi rimanesse a Palazzo Chigi, la Lega torna a puntare i piedi, mettendo nel mirino Roberto Speranza. La decisione dei ministri del Carroccio di non votare il decreto Covid si spiega con ragioni di merito, la contrarietà alla presunta discriminazione dei bambini non vaccinati, e di strategia, la pressione massima da esercitare sul governo. Il protagonista di questa partita ancora una volta è Giancarlo Giorgetti, il ministro considerato il più draghiano della Lega, non ha partecipato alla cabina di regia né al Consiglio dei ministri. Un'assenza giustificata, che però, non essendo la prima, alimenta ogni tipo di sospetto e ricostruzione, anche alla luce di un'agenda molto intensa: prima un incontro con Luigi Di Maio, poi uno con Salvini e alcune telefonate con Draghi. Sin dai confusi giorni delle trattative sul Quirinale il leader della Lega è stato chiaro con Draghi: restiamo nella maggioranza, ma chiediamo un rimpasto. La richiesta è stata respinta dal premier, ma dietro l'esigenza di «rafforzare il governo», c'è l'obiettivo di entrare nei posti chiave, il Viminale e le Infrastrutture, e poi di fare la guerra al ministro della Salute, Speranza. Secondo la ricostruzione della Lega, lo stesso governo non era convinto del provvedimento sulla Dad ai non vaccinati, ma, pur con delle modifiche rispetto all'impianto iniziale, si è andati avanti «per salvare la faccia a Speranza», dice una fonte leghista. Il primo strappo del Carroccio dopo la fine della partita del Quirinale è in realtà l'ultimo di una lunga serie. Stavolta c'è un paradosso: ieri il governo ha varato delle misure che di fatto mettono fine all'emergenza Covid, accogliendo le istanze della Lega, eppure non è bastato per votare sì. I governatori leghisti, che sul Green pass hanno tenuto una posizione diversa rispetto a Salvini, hanno dato il loro assenso al decreto, ma criticando la distinzione tra bambini vaccinati e non. L'offensiva è stata portata avanti dal ministro del Turismo Massimo Garavaglia. Giorgetti era a palazzo Chigi, ma impegnato al terzo piano, in una riunione dedicata alla crisi Intel, con Vittorio Colao, Daniele Franco e il consigliere economico Francesco Giavazzi. Finito il tavolo, Giorgetti decide di non entrare nella sala del Consiglio dei ministri. Dal Mise smentiscono ogni ricostruzione maliziosa di questa assenza «si è coordinato dall'inizio con i colleghi», aggiungendo che ogni mossa è concordata con Salvini. Qualche ora prima in via Veneto, nella sede del ministero, Giorgetti ha ricevuto prima Luigi Di Maio, con il quale il rapporto è ormai consolidato e poi lo stesso Salvini, per un appuntamento fissato per stabilire la linea e anche per chiarire alcune incomprensioni sorte nell'ultimo giorno delle votazioni per il presidente della Repubblica, quando il ministro aveva ventilato l'ipotesi di dimettersi. La giornata di Matteo Salvini era cominciata in via XX Settembre, nelle stanze del ministero dell'Economia. Appuntamento con Franco e il sottosegretario leghista Federico Freni, per parlare di caro energia e fondi ai comuni. Sul tema delle bollette Salvini batte il ferro da settimane. Con Franco, Salvini trova una «sintonia operativa», secondo quanto racconta Freni. Il segretario della Lega lascia il ministero con la rassicurazione che «il governo metterà in campo le risorse necessarie per fronteggiare l'emergenza energetica». Salvini esulta per un fondo extra di 905 milioni per 169 comuni inizialmente esclusi dai fondi per la rigenerazione urbana. Salvini annuncia «presto» un incontro con Mario Draghi e assicura che per il Carroccio le priorità da discutere sono «economia, lavoro, energia». L'altro fronte è il nucleare, alla luce della decisione della Commissione Ue di includerlo nelle risorse "pulite", un'occasione per Salvini di attaccare: «Ora il governo Draghi sia conseguente e abbandoni i no ideologici».

BERLUSCONI GUARDA AL CENTRO

Grandi manovre politiche nel centro destra. Silvio Berlusconi apre ai centristi e snobba la proposta di Salvini. Gelo con Meloni. La cronaca di Paola Di Caro sul Corriere della Sera.

«Ha convocato lo stato maggiore di Forza Italia e ha dettato la linea. Lo ha voluto fare per dimostrare che è tornato in campo, in salute, con le idee chiare. Assieme ad Antonio Tajani, i capigruppo Bernini e Barelli, e Licia Ronzulli, Silvio Berlusconi che martedì aveva fatto il punto della situazione con la famiglia, ha rimesso FI al centro della politica. E non per modo di dire, perché è proprio l'idea del «centro» ad attrarlo in questo momento di post-terremoto quirinalizio e ricostruzione delle coalizioni, a partire dalla sua che dovrà presentarsi alle elezioni «profondamente rinnovata». «FI è il partito che ha consentito la nascita del centrodestra. È stato e continuerà ad essere il perno della coalizione che si contrappone alla sinistra», è la premessa. Ma «il centrodestra che abbiamo come orizzonte strategico è saldamente ancorato ai valori del Ppe: europeista, atlantista, garantista, cattolico e liberale». E questi dovranno fare da faro per tutti. Per questo «FI è impegnata, insieme con le altre sigle di centro, per rafforzare l'area centrale di un centrodestra che è ancora oggi per i sondaggi la prima scelta degli italiani, la coalizione che governa la maggior parte delle Regioni e centinaia di Comuni». La traduzione? Il suo partito dovrà muoversi d'intesa con le altre sigle di centro ma non per annacquarsi in una federazione-terzo polo, piuttosto per guidare un processo di attrazione. E questo perché, spiega Berlusconi, «oggi siamo pronti per la nuova sfida dentro al centrodestra, per affrontare al meglio i prossimi appuntamenti elettorali: saremo il cuore di un centrodestra che si dovrà presentare alle prossime elezioni profondamente rinnovato». Nessun accenno diretto agli alleati, oggi distanti. Sia Salvini, con cui pure i rapporti almeno umani - giurano - sono salvi, sia Meloni, con la quale invece è gelo e forse guerra. Raccontano infatti che Berlusconi sia furioso («Una vera ingrata») per l'uscita della leader di FdI, quel suo «non gli devo niente» che ha fatto insorgere gli azzurri. A partire da Tajani, che cita Aristotele: «La prima cosa che svanisce in natura è la gratitudine». Più prosaicamente, c'è già chi sussurra che si chiuderanno molti spazi per la Meloni nelle tivù berlusconiane, come farebbe pensare qualche cancellazione di partecipazioni di FdI a trasmissioni già previste, anche se Guido Crosetto smorza: «Berlusconi non farebbe mai una cosa simile...». E, a difesa, della Meloni, ecco anche Corrado Formigli, conduttore di PiazzaPulita , La7: «Non spetta a Berlusconi decidere chi può andare in un programma Mediaset. Berlusconi è un leader politico e i leader politici non decidono chi va come ospite nei programmi di informazione. Se fosse vero, quindi, che c'è stato un veto da parte sua e sarebbe l'ennesima dimostrazione che esiste un conflitto di interessi». Insomma, il clima è tesissimo. Mentre si prevedono iniziative azzurre a breve,e anche un rafforzamento della struttura interna. Berlusconi si dice più che soddisfatto dei suoi dirigenti nazionali, ma ci sarà cooptazione di altri in ruoli operativi, da Alessandro Cattaneo a Andrea Mandelli, mentre chi sta al governo continuerà lì. Intanto il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo avverte: «Non esiste alcun progetto neo centrista proposto dalla Lega. Stiamo lavorando per creare un nuovo centrodestra solido, compatto e competitivo. Porte aperte quindi a chi ha voglia di impegnarsi per ricostituire l'unica alternativa concreta alla sinistra». Mentre Osvaldo Napoli, di Coraggio Italia, si chiede: «I partiti che non hanno il Ppe nel loro orizzonte strategico sono o no protagonisti nel centrodestra che immagina Berlusconi?».

OGGI IL NUOVO INIZIO DI MATTARELLA

Inizia oggi ufficialmente il Mattarella bis. Il Presidente giura e parla alle Camere: tra i temi il Covid, il lavoro, le sfide su migranti e clima. Non userà la frusta ma lancerà un appello alla politica perché si apra ai grandi cambiamenti contro i mali del Paese. Ugo Magri sulla Stampa.

«Il bis di Sergio Mattarella non si annuncia affatto come una stanca ripetizione del già visto, e già oggi alle 15,30 ne riceveremo un assaggio quando il tredicesimo presidente della Repubblica interverrà nell'aula di Montecitorio per illustrare il suo secondo mandato. Chi presume di sapere in anticipo che cosa dirà, immaginando un copia-e-incolla del precedente discorso inaugurale, è probabilmente fuori strada; idem quelli che si aspettano un'attenzione tutta concentrata sulle difficoltà del presente, con un respiro affannato e un orizzonte temporale di un paio d'anni esagerando. Le anticipazioni filtrate dal Quirinale sono perfino, se possibile, più avare del solito, ma da quel pochissimo si capisce che Mattarella vorrà spingere il suo sguardo molto al di là dell'emergenza attuale e ci inviterà a riflettere sui grandi cambiamenti con cui bisogna fare i conti. Questioni drammatiche, sfide epocali come il clima, le migrazioni, ovviamente la sicurezza e la pace, però non solo. Davanti ai «grandi elettori» presenti in Aula (e precedentemente "sanificati" con un tampone) il presidente dirà che dovremo meglio attrezzarci ad affrontare i nostri mali storici con le riforme degli anni a venire: incominciando con quelle concordate in Europa, finanziate dall'Unione e messe nero su bianco nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L'Italia è attesa alla prova di una impegnativa transizione che richiederà atteggiamenti maturi e comportamenti seri ancora per diversi anni a venire. Grandi protagonisti di questa adesione al nuovo, dell'apertura alla modernità sollecitata da Mattarella nel suo spirito moroteo, saranno anzitutto le forze politiche e sociali, il Parlamento, il governo. Agli interlocutori si rivolgerà senza brandire la frusta, con il solito proverbiale rispetto; però sapendo perfettamente che questa rielezione non cercata e - a quanto si sa - nemmeno festeggiata nonostante il consenso record (soltanto Pertini ebbe qualche suffragio in più) lo pone adesso in una condizione di forza, fa di lui d'ora in avanti il perno imprescindibile del sistema. Dei suoi consigli, anche solo sussurrati, i vari protagonisti faranno bene a tener conto perché una cosa era rapportarsi con un presidente ormai agli sgoccioli, depotenziato dal «semestre bianco» anzi concentrato nel trasloco quale Mattarella era fino a pochi giorni fa; tutt' altra cosa sarebbe disattendere la «moral suasion» di un capo dello Stato appena incoronato, destinato a trattenersi per un tempo biblico (sette anni) e per giunta festeggiato con una «ola» a Sanremo, prova indiscussa della sua popolarità. Corollario: chi volesse sfidare il Colle lo farebbe a proprio rischio e pericolo. Quando Mattarella parlerà nell'emiciclo, avrà già prestato giuramento di fedeltà alla Repubblica. La cerimonia, che sa di antico, prevede un breve viaggio dal Quirinale e ritorno sul sedile posteriore di una Lancia Flaminia scortata dai corazzieri, 21 salve di cannone sparate dal Gianicolo, onori militari e infine la visita dei presidenti di Regione, dei ministri e del premier Mario Draghi. Il quale, seguendo il protocollo, gli offrirà le proprie dimissioni però senza alcun patema d'animo, perché non solo verranno queste rifiutate ma il presidente lo esorterà a proseguire dritto per la sua strada, senza tentennamenti».

I politici stentano a capire la distanza dall’opinione pubblica. Aldo Cazzullo nell’editoriale del Corriere.

«Non è difficile immaginare lo spirito che segnerà la giornata di oggi. Il giuramento del presidente della Repubblica avviene sempre in un'atmosfera, se non solenne, seria; a maggior ragione se a giurare è, per la seconda volta, una personalità della statura di Sergio Mattarella. A Montecitorio ci saranno grisaglie da cerimonia e sorrisi da scampato pericolo. Una sorta di catarsi collettiva. Allegria di naufragi, avrebbe scritto Ungaretti: «E subito riprende/ il viaggio/ come/ dopo il naufragio/ un superstite/ lupo di mare». E lupi di mare ce ne sono parecchi, nel luogo detto non a caso Transatlantico. Sabato sera hanno tirato un sospiro di sollievo, e oggi si congratuleranno l'un l'altro, felici. La rielezione di Mattarella è certo un elemento di stabilità ed equilibrio per il sistema; ma è stata il frutto anche di altre motivazioni, non tutte così nobili. Non è solo l'indennità da riscuotere sino all'ultimo, e la pensione da maturare. I peones hanno alzato un fuoco di sbarramento contro i «tecnici», confermando di essere prigionieri di un'idea un po' invecchiata della politica, e dimenticando che, quando arrivano i professori, è perché i professionisti hanno fallito. Forse i politici sottovalutano il discredito che ancora li circonda nell'opinione pubblica, anche perché non sono stati scelti dai cittadini, bensì designati dai capi partito».

Alessandro Sallusti si aspetta, dalle colonne di Libero, che Sergio Mattarella affronti il nodo della giustizia:

«Oggi il presidente Sergio Mattarella esporrà al Parlamento il piano del suo secondo settennato al Quirinale. Lo ascolteremo con rispetto e attenzione senza aspettarci colpi di scena e cambi di rotta, del resto è stato riscelto proprio perché nulla cambi nel già fragile equilibrio raggiunto dalla politica per arrivare alla fine della legislatura con il minor danno possibile. E fin qui capiamo. Meno comprensibile se Mattarella, nella sua qualità anche di confermato presidente del Csm - l'organo di autogoverno dei magistrati - si astenesse dal mettere al centro dell'attenzione sua e del parlamento il non più rinviabile problema di una riforma della giustizia che vada oltre i timidi correttivi introdotti a valle del sistema dalla ministra Cartabia. La questione è semplice. Nel luglio di quest' anno scade il quadrienno del Csm, magistrati e politici dovranno quindi rinnovare i 24 componenti che lo compongono e a oggi, nonostante proclami e promesse, nulla lascia intendere che saranno cambiate le regole per evitare che si ripeta un nuovo "caso Palamara", cioè una lottizzazione politica e clientelare del vertice della giustizia. Se Mattarella non si farà garante di una vera riforma e non spronerà il parlamento ad avere in tal senso più coraggio dimentichiamoci che nei prossimi quattro anni qualche cosa cambi: la giustizia resterà in balia delle correnti politicizzate perché morto un Palamara se ne farà un altro, o meglio Palamara è già stato sostituito al vertice di quel "sistema" inquinato emerso negli ultimi tre anni e che ha fatto parlare lo stesso Mattarella di una «pericolosa pochezza etica della magistratura». Parole dure, quelle del presidente, ma che sono rimaste inascoltate, nella sostanza nulla è cambiato. Chi pensa che tutto possa magicamente tornare a posto solo con un bel processo a Palamara è in totale malafede, oppure ha convenienze personali che tutto resti così oppure ancora è sotto ricatto. Il "sistema", come ha ben documentato Palamara, sa usare all'occorrenza argomenti e armi assai convincenti e non voglio neppure pensare che Mattarella si possa fare condizionare da tanta arroganza. Oggi ascolteremo attentamente il presidente, rimuovere questo tema dall'agenda dei prossimi sette anni sarebbe un danno enorme per il Paese e perla sua economia».

SCONTRO VIOLENTO NEI 5 STELLE

Luca De Carolis per Il Fatto racconta la “faida” interna al Movimento 5 Stelle fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Beppe Grillo si schiera con l’ex premier.

«L'avvocato non può cacciare il ministro, lo Statuto parla chiaro. Così Giuseppe Conte e i suoi meditano di fare il vuoto intorno a Luigi Di Maio. Togliendo i dimaiani dai comitati del M5S . Escludendo i candidati dell'ex capo dalle liste per le prossime Amministrative. E tenendolo fuori dalle riunioni operative, dove si decide la rotta. Ma molto prima dovrà arrivare un confronto "nelle sedi opportune, perché la nostra base merita chiarezza e trasparenza" fa trapelare il presidente del M5S Conte. E quando parla di chiarimenti sempre a lui si rivolge, a Di Maio: l'avversario, con cui vorrebbe fare i conti pubblici in un'assemblea, forse la prossima settimana, "o comunque con qualcosa che coinvolga tutti gli iscritti" traducono dal M5S . Proprio ciò che provano a scongiurare, o almeno a sminare, mediatori vari: dal capogruppo alla Camera, Davide Crippa, al Garante, Beppe Grillo. Per arrivare a un gruppo di senatori che ieri ha invocato un'assemblea congiunta con Conte e il ministro. Perché magari la guerra a 5Stelle non sarà lampo, forse neppure frontale. Però si dilata, nel mercoledì in cui Conte recapita altri dardi a Di Maio: "Non dimentico chi ha sabotato un'occasione unica per portare una donna al Quirinale, le condotte che non sono in linea con i nostri principi e i nostri valori non sono accettabili". Così avverte l'avvocato, che ieri sembra aver incassato anche il sostegno di Grillo, tramite un post dai toni misticheggianti: "Non dissolvete il dono del padre nella vanità personale, il necessario è saper rinunciare a sé per il bene di tutti, che è anche poter parlare con la forza di una sola voce". La voce del leader, si affannano a tradurre i contiani, mentre lui, Conte, sotto il post piazza un like. D'altronde dai piani alti del M5S mettono in luce un altro passaggio del testo: "Se non accettate ruoli e regole restano solo voci di vanità che si (e ci) dissolvono nel nulla". Insomma, sillabe che proverebbero l'appoggio del fondatore a Conte, confermano anche non meglio precisate "fonti" vicine a Grillo: il quale però, giurano, "lavora anche a una mediazione". Ma i dimaiani fanno spallucce: "Luigi con Grillo parla continuamente". E comunque il tema è un altro, cioè "il chiarimento politico che non arriva, che non si vede". Considerazioni fuori taccuino, in un diffuso silenzio. Perché ora ogni dichiarazione nel M5S può essere presa come un segno di affiliazione a una delle due parti. Ma tanti eletti prima di scegliere vogliono capire chi vincerà. Di certo Di Maio può giocare di guerriglia politica, anche a lungo. Grazie proprio a Grillo, è uno dei tre membri del Comitato di garanzia, il luogo dove si deve passare per norme e regolamenti, quindi anche per la probabilissima revisione del totem dei due mandati: la partita delle partite, quella in cui si deciderà chi sarà fuori o dentro le liste per le prossime Politiche. Ergo, un Comitato come le possibili Termopili per quel Conte che ha più truppe ma meno esperienza sul campo. Anche perché tra i tre garanti c'è anche Virginia Raggi, ex sindaca tutt' altro che contiana, che gli ha già fatto muro sull'approvazione di vari regolamenti. E poi ha tanti amici in tanti partiti, Di Maio. I centristi di vario ordine e grado, che gli tendono le braccia. E quel Giancarlo Giorgetti con cui ieri ha avuto un lungo incontro al Mise: ovvero il leghista con cui ha fatto asse per portare Mario Draghi al Quirinale, e con cui mangia regolarmente la pizza. L'ennesimo incontro delle ultime ore, per il Di Maio che vuole ostentare la sua rete. "Molti ci corteggiano, è evidente" confermano dal giro del ministro. Ma Di Maio non parla di strappo o uscita del M5S . Per lo meno non ora. Adesso chiede altro. Una revisione dell'assetto del Movimento, innanzitutto, partendo dai cinque vicepresidenti. E garanzie. Perché il sospetto dei dimaiani, da tempo, è che l'avvocato voglia ridurli a riserva indiana nel M5S . Figurarsi ora, in tempi di guerra».

Massimo Gramellini dedica “il caffè” sulla prima pagina del Corriere alle vicende interne ai 5 Stelle e in particolare alla presa di posizione dell’Elevato. Titolo: Il grill(o) delle vanità.

«Pietà, il Grillo Mistico no. C'è più trasgressione in quel cantante stonato che si è battezzato da solo sul palco di Sanremo, e ho detto tutto. Grillo che posta una sua foto travestito da Gesù in un film di quarant' anni fa diretto dal nonno di Calenda. Grillo che cita Gandhi e, senza fare nomi come nei messaggi criptici di certi vecchi capataz democristiani, invita il figliolo non più prodigo Di Maio a rinunciare a vanità ed egoismo per lasciare spazio a una sola voce, quella afona di Conte. Tutto questo detto da un uomo che sulla vanità arroventata e sull'egoismo vittimista ha costruito ben due carriere: prima il comico del «Ve la do io», poi il politico del «Vaffa». E che adesso, per salvare quel che resta del progetto originario dei Cinquestelle (un po' di giustizialismo e nulla più) si erge a santone, anzi a mammasantissima, con il tono di chi si finge autoironico per prendersi meglio sul serio. Superfluo ricordargli che Gandhi attirò proseliti predicando la non violenza anziché la rabbia, e che non era immerso come lui nel materialismo consumista: un particolare che rende l'Elevato molto più simile al Cavaliere che al Mahatma. Il Grill(o) delle vanità ha una biografia che fa a cazzotti con le sue prediche. Forse il concittadino De André immaginava già questa sua foto da illuminato male quando cantava che la gente si sente come Gesù nel tempio e dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio».

IL CASO BELLONI, SERVIZI SEGRETI NELLA MISCHIA

I vertici dei servizi segreti, con la candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale, sono finiti nella mischia fra i leader politici. La foto postata da Di Maio del pranzo con la responsabile del Dis ha suscitato critiche. La bagarre politica rischia di danneggiare l’immagine di tutti. Giovanni Bianconi sul Corriere.

«L'inedito coinvolgimento nella corsa per il Quirinale del vertice dei Servizi segreti, con la candidatura per una sera della responsabile del Dipartimento per l'informazione e la sicurezza Elisabetta Belloni, non ha smesso di provocare conseguenze. Non sul piano istituzionale bensì su quello politico, ma quando la politica gioca con gli apparati non è un bel segnale per nessuno. Che Belloni sia rimasta incastrata nella disputa tra i partiti, prima come candidata bruciata in poche ore e poi come vessillo esibito o conteso, è sotto gli occhi di tutti. In primo luogo del presidente del Consiglio Mario Draghi, che ha confermato il suo sostegno alla direttrice del Dis. E il sottosegretario ai Servizi Franco Gabrielli, a fronte di indiscrezioni che lo volevano irritato e pronto a discutere col premier le dimissioni di Belloni, ieri sera è uscito allo scoperto: «È tutto falso, il direttore del Dis gode della mia piena fiducia». Gabrielli è l'autorità delegata da Draghi sui temi della sicurezza, e invita tutti a un maggiore rispetto verso una servitrice dello Stato di straordinaria capacità ed alla sua delicata funzione». Consapevole o timoroso che le zuffe intorno al nome della direttrice non siano finite. I luogotenenti di Italia viva, il partito di Matteo Renzi che prima e con più forza di altri ha segnalato l'inopportunità che il capo degli agenti segreti diventasse dalla sera alla mattina presidente della Repubblica, insistono ora sul sequel del pranzo - fotografato e pubblicizzato da Luigi Di Maio - tra Belloni e il ministro degli Esteri. Ieri è stato il deputato Michele Anzaldi a polemizzare: «Il divieto di incontri tra agenti dei Servizi e politici vale solo negli autogrill?», ha chiesto polemicamente ricordando il polverone sollevato dal summit in autostrada tra il suo leader Renzi e l'ex funzionario del Dis Marco Mancini, poi pensionato in anticipo. È però evidente che la circolare emessa all'epoca da Gabrielli per fermare le relazioni politiche personali dei dipendenti non vale per il vertice del Dipartimento, tanto meno se a colloquio con un esponente del governo che fa parte del Comitato ministeriale per la sicurezza. Ma Anzaldi pone un'altra domanda, meno peregrina: «È normale che la pagina Facebook di un politico diventi lo strumento per diffondere presunte dichiarazioni del direttore dei Servizi a favore di quel politico?». Il problema, in questo caso, riguarda più Di Maio che Belloni. È stato lui ad annunciare che nel pranzo immortalato la direttrice avrebbe ribadito l'amicizia «sempre più solida» verso una persona «sempre leale». Difficile pretendere una smentita dell'interessata a simile affermazioni, senza innescare ulteriori incidenti. Del resto il ministro ha voluto pubblicizzare l'incontro per ribadire l'obiettivo del suo stop ai capi-partito che la sera di venerdì 28 gennaio avevano incoronato Belloni in diretta tv come prima donna presidente della Repubblica: non danneggiarla bensì preservarla da una molto probabile bocciatura in Parlamento. Di Maio si sarebbe mosso per fermare una manovra, insomma. Alla quale per Belloni era quasi impossibile sottrarsi, visto che tutti alludevano a lei ma nessuno dei presunti sponsor aveva fatto esplicitamente il suo nome: un particolare che le avrebbe impedito, se pure avesse voluto, di chiamarsi fuori dalla corsa. Così è intervenuto Di Maio, dopo l'allarme di Renzi e insieme alla retromarcia del Pd. Solo che poi, oltre a chiarire i suoi rapporti con Belloni, ha pensato bene di brandirne il nome nella guerra interna ai Cinque Stelle contro Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Cioè due tra i promotori della candidatura della discordia, sebbene l'ex premier non mancò di protestare con Draghi quando quest' ultimo scelse Belloni per sostituire alla guida del Dis il generale Gennaro Vecchione, designato a suo tempo da Conte. Un cortocircuito tutto interno ai partiti che però può provocare effetti negativi sul comparto dell'informazione per la sicurezza, mettendo il difficoltà il suo vertice tecnico. Se i rapporti con il premier e l'autorità politica delegata non si sono incrinati, tirarla da una parte e dall'altra dello schieramento politico (o addirittura delle fazioni interne agli stessi partiti) significa rischiare di appannarne l'immagine fori e dentro l'apparato. Non a caso, sempre ieri, l'annuncio della doppia audizione di Di Maio e Belloni per la prossima settimana al Copasir, il comitato parlamentare di controllo sui Servizi, è stato subito messo in relazione al «caso Quirinale», sebbene fosse programmato da tempo e su altri temi. Tuttavia nulla impedisce che i parlamentari chiedano chiarimenti anche sui fatti dello scorso fine settimana. Per un organismo di controllo potrebbe essere l'occasione di dissipare le ombre residue (vere o presunte) e stemperare le tensioni; oppure di alimentarle ulteriormente, con ricadute imprevedibili».

L’INFLAZIONE È UN RISCHIO SOCIALE

Inflazione al 4,8%, record dal 1996. L'Istat lancia l'allarme: l'andamento dei prezzi è “un rischio sociale”. Il governo prepara un terzo intervento per sterilizzare gli effetti del caro energia. Rosaria Amato e Valentina Conte per Repubblica.

«Accelera la corsa dell'inflazione, che a gennaio raggiunge il 4,8%, ai massimi dall'aprile 1996. Quasi un punto in più rispetto al 3,9% di dicembre. Ma quello che è ancora più abnorme è l'aumento dei prezzi al consumo su base mensile, più 1,6%, rileva l'Istat nelle stime preliminari. Per trovare un dato analogo bisogna andare indietro di 40 anni, all'ottobre 1982. Un tasso più che doppio rispetto al 2% che «la Bce considera un livello sano», ricorda Federico Polidoro, responsabile Istat delle rilevazioni dei prezzi al consumo. Una normalità che già ora è lontanissima: l'inflazione acquisita per il 2022 (se non ci fossero cioè ulteriori aumenti) è già al 3,4%. Se questo trend si consolidasse fino a diventare un «elemento patologico », anziché cominciare a ridursi a partire dal secondo trimestre, come si attendono gli analisti, anche per l'Istat sarebbero legittime le preoccupazioni per gli effetti sulla crescita del Pil, conferma Polidoro. Il rialzo è dovuto soprattutto alla corsa dell'energia, ma non solo. Ormai sono alle stelle anche i prezzi di tutto quello che fa parte della vita quotidiana, dal cibo alle attività culturali e del tempo libero ai servizi per la cura della persona. L'inflazione di fondo, quella che cioè esclude i beni energetici, è all'1,8%, perché i rincari del gas e dell'elettricità, uniti a quelli del costo delle materie prime, stanno producendo aumenti a catena anche su altri beni e servizi. E per i prodotti ad alta frequenza di acquisto l'inflazione è già al 4,3%. Ecco perché la corsa dei prezzi «desta preoccupazione non solo per le conseguenze economiche ma anche per quelle sociali», sottolinea Cristina Freguja, direttore centrale per le Statistiche Sociali dell'Istat. L'impatto inflazionistico è «più ampio per le famiglie più povere», costrette a utilizzare una quota maggiore del proprio reddito per le bollette e i generi di prima necessità rispetto alle famiglie più abbienti. Già nel 2021 l'inflazione dei più poveri era al 2,4% e quella dei più ricchi all'1,6%, un divario che non potrà che crescere. Per l'Unione Nazionale Consumatori l'inflazione al 4,8% si traduce, per una coppia con due figli, in un aumento del costo della vita pari a 1.715 euro su base annua. Anche le organizzazioni imprenditoriali, da Fipe a Federdistribuzione, lanciano l'allarme per la perdita di potere d'acquisto delle famiglie. La fiammata dei prezzi preoccupa il governo. «C'è molta attenzione, ma non allarme, sui possibili impatti: dal Pil alle imprese e famiglie », dice una fonte. Al centro dei ragionamenti di queste ore finiscono le bollette, visto che i due terzi del super rialzo inflattivo è legato ai costi energetici. Un rialzo però che i tecnici dell'Economia e di Palazzo Chigi ritengono, al pari di molti economisti e della stessa Bce, ancora legato a fattori temporanei: dalla repentina ripresa mondiale che ha intasato le catene di fornitura alle tensioni geopolitiche. Ecco perché si ragiona su un altro decreto legge di importo pari al Sostegni ter di gennaio: 5 miliardi per aiutare le imprese piccole e grandi in sofferenza e ancora le famiglie. Il governo ha stanziato già 5,5 miliardi nel 2021 e altrettanto sul primo trimestre 2022, per un totale di 11 miliardi. Un decreto Sostegni quater sarebbe di analogo peso e coprirebbe il secondo trimestre dell'anno, quando il costo del gas - già oggi dimezzato rispetto al picco: 70 anziché 145 euro al kilowattora - scenderà ancora per ragioni climatiche, con la bella stagione. Ne hanno parlato ieri il ministro dell'Economia Daniele Franco che ha ricevuto il leader della Lega Matteo Salvini accompagnato dal sottosegretario leghista Federico Freni. Il ministro ha ascoltato le richieste - «proteggere le piccole imprese per non inceppare la ripresa, dal barista al ciabattino, al ristoratore» - e ha confermato di avere «allo studio altri interventi». Non ci sarà però un nuovo scostamento di bilancio, richiesto ancora ieri anche dal leader M5S Giuseppe Conte. «Per ora niente deficit», ha messo in chiaro Franco. I fondi saranno recuperati nelle pieghe del bilancio dello Stato».

PNRR. DRAGHI AI MINISTRI: “ORA BISOGNA CORRERE”

Il Premier incalza i suoi ministri nella nuova riunione del Governo. Il racconto di Enrico Marro sul Corriere della Sera.

«Mario Draghi pronuncia poche parole, che riassumono alcuni concetti chiave, nel giro di tavolo con i ministri: «Ora bisogna correre». Il capo del governo spiega anche perché cambiare passo: la fase di attuazione del Piano, quella che si apre quest' anno, è la più difficile. Anche per questo «ognuno di voi deve rispettare i tempi previsti». E ricordate che «siamo sotto esame dell'Unione europea». Detto questo, la riunione non è solo una ricognizione. Serve anche a prendere decisioni. Un po' tutti si lamentano del problema delle autorizzazioni, dalla Via, Valutazione di impatto ambientale, al giudizio preventivo di legittimità della giustizia amministrativa, sino alla scara progettualità degli enti locali del Sud. Draghi, per la seconda volta in pochi mesi, annuncia che si arriverà a un nuovo decreto di semplificazioni ad hoc per questa seconda fase: «Sappiamo tutti che le difficoltà vengono ora - aggiunge - e per questo dobbiamo essere granitici». Si tratta dunque di serrare i ranghi, per motivi quantitativi e qualitativi. I primi hanno a che fare col raddoppio degli obiettivi assegnati all'Italia per il 2022: 100 in tutto. I secondi determinati dal fatto che nel corso dell'anno andranno conseguiti non solo quelli che Bruxelles definisce «milestone», in pratica norme e procedure propedeutiche agli investimenti, ma anche i primi «target», ovvero obiettivi misurabili: dalle assunzioni nei tribunali e nei centri per l'impiego all'attuazione della legge annuale sulla concorrenza all'aumento del numero delle lettere con cui l'Agenzia delle entrate chiede di adeguare l'importo delle imposte versate e del gettito conseguente. Per questo il ministero dell'Economia sta incontrando tutti i ministeri per monitorare i problemi via via emersi. Bisognerà prestare maggiore assistenza alle amministrazioni del Mezzogiorno. Si è visto infatti che i progetti per la realizzazione degli investimenti vengono sopratutto dal Nord e questo rende problematico il rispetto del vincolo del 40% delle risorse del Pnrr al Sud. Infine, si spera che, col progressivo ritorno alla normalità dopo le restrizioni imposte dalla pandemia, si possano superare i rinvii di alcune prove concorsuali per le assunzioni nella Pa. L'analisi si è soffermata in particolare sui 44 milestone e sul target da centrare entro il 30 giugno 2022, per un totale di 45 obiettivi. L'unico target va raggiunto nel secondo trimestre dell'anno e prevede l'avvio di 168 assunzioni nei tribunali amministrativi (mentre quelle nei tribunali civili e penali sono previste nel quarto trimestre). Tra i milestone più importanti, l'adozione di obiettivi di risparmio della spesa pubblica (spending review) per il triennio 2023-25, la riforma del codice degli appalti, l'aggiudicazione di tutti gli appalti per la banda ultralarga, l'entrata in vigore del programma nazionale di gestione dei rifiuti, l'aggiudicazione di tutti i contratti per lo sviluppo dell'idrogeno, la riforma della carriera degli insegnanti, gli appalti per la rigenerazione urbana ad almeno 300 comuni con più di 15mila abitanti».

UCRAINA, BIDEN INVIA TREMILA SOLDATI

Sale la tensione sull’Ucraina. Il Presidente Usa Joe Biden annuncia l’invio di 3 mila soldati in Europa. Il Pentagono spiega: «Proteggiamo i nostri interessi nella regione». Mosca dice: «Decisione ingiustificata». A preoccupare gli Usa è l’afflusso di tank, batterie anti-missili e aerei al confine insieme agli oltre 130 mila soldati russi ammassati lungo la frontiera con l’Ucraina. Mosca vuole la garanzia che Kiev non venga mai accolta nella Nato. Giuseppe Sarcina per il Corriere.

«Crisi Ucraina: lo scenario si complica ancora. Il Pentagono ieri ha annunciato lo schieramento di tremila soldati nell'Est Europa. Nel dettaglio: duemila arriveranno dalle basi americane e prenderanno posizione in Polonia e in Germania. Gli altri mille verranno spostati dalle basi tedesche in Romania. Il portavoce del ministero della Difesa, l'ammiraglio John Kirby ha spiegato: «Questi non sono cambiamenti strutturali, ma rispondono a esigenze contingenti. Vogliamo proteggere i nostri interessi nella regione e quelli dei nostri alleati». La reazione di Mosca è stata immediata e durissima. Il vice ministro degli Esteri, Alexandre Grouchko, parla di «decisione ingiustificata, distruttiva, che aumenta le tensioni militari e riduce i margini per le azioni politiche». La tensione tra Stati Uniti e Russia, dunque, torna ai massimi livelli. La mossa di Biden, in realtà, era maturata nel fine settimana del 22-23 gennaio, in una riunione a Camp David con il consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, il segretario alla Difesa, Lloyd Austin e il Capo di stato maggiore, Mark Milley. Il presidente americano si convinse che avrebbe dovuto fare di più per arginare la pressione di Vladimir Putin. In un primo momento il ministro Austin annunciò la mobilitazione di 8.500 uomini e donne in divisa, pronti a partire per il Vecchio Continente, ma solo dopo l'eventuale sconfinamento russo. Ma gli ultimi sviluppi hanno spinto Biden ad anticipare i tempi. Il Pentagono osserva con preoccupazione i movimenti delle forze armate russe. In particolare il massiccio afflusso di tank, batterie anti-missili, aerei ed elicotteri al confine tra Bielorussia e Ucraina. La diplomazia, invece, sembra in stallo. Il Dipartimento di Stato avrebbe offerto un nuovo negoziato al Cremlino, come ha rivelato ieri El Pais . Il quotidiano spagnolo ha pubblicato il contenuto di due documenti inviati da Washington a Mosca nei giorni scorsi. Il Dipartimento di Stato respinge la pretesa di Putin: Ucraina mai nella Nato. Ma in cambio propone meccanismi di controllo per dimostrare ai russi come nelle basi in Polonia e in Romania non siano installati missili da crociera Tomahawk. In cambio gli Usa chiedono di poter fare la stessa verifica in due siti russi. Sul punto, Putin non si è pronunciato in pubblico. I leader di Francia e Regno Unito si stanno sforzando per mantenere aperto il dialogo con il Cremlino. Il presidente Emmanuel Macron si prepara a «un colloquio imminente con Biden». E non esclude un viaggio a Mosca. Anche il cancelliere tedesco, Olaf Sholz, ha annunciato una visita nella capitale russa. Il premier britannico Boris Johnson ieri ha telefonato a Putin. I due hanno concordato «sulla necessità di trovare una soluzione pacifica».

La visita del Presidente turco Erdogan a Kiev: l'alleanza che non piace a Mosca. Paolo Brera per Repubblica.

«Chissà se oggi il premier turco Recep Tayyip Erdogan, prima o dopo l'incontro a pranzo a palazzo Mariinskij con il presidente ucraino Volodimir Zelenskij, farà un salto qui a Vasilkiv, una cinquantina di chilometri a Sudest di Kiev, all'Unita A0704 della base militare dell'aviazione ucraina. Casermoni anonimi, soldati di vedetta, filo spinato. Lì dietro sta per iniziare la produzione di una fabbrica di droni di nuova generazione: tecnologia turca e manifattura mista, metà progetto si farà in Turchia e metà qui. Il primo parto è previsto a dicembre: servirà ad armare meglio l'esercito di Kiev. Al Cremlino non piace affatto, ma nessuno meglio di Erdogan sa come tenere comodamente i piedi in due scarpe diverse. Maestro d'equilibri funambolici, oggi Erdogan si gioca il jolly a Kiev. Aspettando di ricevere questo mese in Turchia il presidente russo Vladimir Putin, il Sultano incontra Zelenskij con in mano la penna per firmare accordi importanti di libero scambio, ma c'è ben altro al fuoco. «Abbiamo ottimi rapporti con entrambi, bisogna assolutamente agire per evitare una guerra tra Russia e Ucraina», ha detto ieri prima di mettere i piedi sul volo che avvia il suo tentativo di mediazione in cui cercherà la chiave per sedare le tensioni. Perché litigare va bene, lo fa da anni con Mosca e pure con la Nato di cui fa parte; ma gli affari sono affari. Sapete chi è il proprietario della Baykar Technologies che produce i micidiali droni in Turchia? Selçuk Bayraktar, un ingegnere 42enne. Sua moglie Sümeyye è la figlia di Erdogan. Che il Sultano sappia giocare a scacchi non c'è dubbio: membro Nato con l'esercito più forte dopo quello americano, nel 2014 si rifiutò di riconoscere l'annessione russa della Crimea; ma a secco di gas per sostenere la crescita economica, nel 2016 ha tagliato fuori l'Ucraina avviando il Turkish Stream, il gasdotto in fornitura diretta dalla Russia senza più passare da Kiev. E guarda caso quell'anno, la notte del 16 luglio, mentre fuggiva a un tentato golpe, telefonino ed è proprio lui, Vladimir Putin, a offrirgli per primo solidarietà. Tutti gli altri leader aspettavano prudenti l'esito, ancora incerto. Nel 2018, però, Erdogan ha aiutato gli ucraini vendendo i primi sei dei suoi micidiali droni Bayraktar, che in Libia salvarono Tripoli dall'assalto di Haftar e dei suoi mercenari russi: una fornitura poi raddoppiata e con prezzo scontato. Lo scorso ottobre Kiev ne usò uno per distruggere le postazioni filorusse da cui era partito un attacco di artiglieria pesante, vietato dagli accordi di Minsk, facendo infuriare Mosca, che protestò formalmente. A novembre, con la scusa dei «troppi pesticidi Chlorpyrifos rilevati», la Russia per punire l'affronto ha vietato l'importazione delle clementine turche. Nel frattempo, a fine 2020, Erdogan ha acquistato da Mosca il sistema di difesa aerea e missilistica S-400, un gioiello marziale capace di colpire contemporaneamente più di 30 bersagli volanti a centinaia di chilometri di distanza: a infuriarsi, stavolta, sono la Nato e gli americani. Per punizione la Turchia vie ne sbattuta fuori dal programma degli F-35, di cui era coproduttrice e acquirente finale, con minaccia di sanzioni e la tensione che va alle stelle pure se sono tutti Paesi membri Nato. Erdogan non si scompone e gioca a braccio di ferro piazzandoli qua e là dove meno sono graditi. Camminando sul filo teso tra i due mondi, nel 2015, mentre giocava sporco in Siria, la sua aviazione abbatté un Sukhoi Su-24 russo spedito in missione contro le linee islamiste. Putin vietò i voli charter ai turisti russi. Nel frattempo la Turchia è diventata il quinto partner commerciale ucraino, mentre la Russia fornisce al Sultano il 40% del gas che gli serve. Tra Kiev ed Ankara si viaggia senza visto, in Ucraina c'è una vasta comunità di lavoratori turchi e sulle spiagge turche gli ucraini si sdraiano accanto ai russi: tolto l'embargo, ne sbarcano ogni anno a milioni».

MYANMAR, UN ANNO DAL GOLPE MILITARE

Il Myanmar a un anno dal colpo di stato, papa Francesco dice: «Non possiamo voltare lo sguardo» e incoraggia ogni sforzo per la pace. Stefano Vecchia per Avvenire.

«La situazione del Myanmar ha spinto ieri ancora una volta il Papa a chiedere il dialogo alle forze in conflitto nel Paese. «Da un anno a questa parte ormai assistiamo con dolore alle violenze che insanguinano il Myanmar. Faccio mio l'appello dei vescovi birmani affinché la comunità internazionale si adoperi per la riconciliazione delle parti interessate - ha detto papa Francesco al termine dell'udienza generale -. Non possiamo voltare lo sguardo da un'altra parte di fronte alle sofferenze e di tanti fratelli e sorelle. Chiediamo a Dio nella preghiera la consolazione per quella popolazione martoriata a Lui affidiamo gli sforzi di pace». Parole importanti e necessarie che indicano quello che al momento sembra un obiettivo lontano. Il regime non vuole farsi da parte e l'opposizione ha mostrato, anche durante quella che avrebbe dovuto essere una giornata di commemorazione del golpe del primo febbraio 2021, di non essere intimidita dalla repressione. Due morti e una quarantina di feriti sono il bilancio dell'esplosione che ha colpito i partecipanti a una manifestazione filo-governativa a Tachilek, nello Stato Shan. In un Paese in buona parte sospeso per lo sciopero generale indetto dalle opposizioni è stata accolta positivamente la voce di una candidatura al Nobel per la Pace del Governo di unità nazionale (Gun) attivo nella clandestinità che pure chiede alla comunità internazionale atti concreti. Servono iniziative urgenti e in nuovi dati sulle vittime delle violenze lo confermano: 1.500 i morti (per diverse fonti molti di più) tra cui 120 bambini; quasi 12mila gli oppositori o loro congiunti arrestati, migliaia quelli scomparsi mentre i profughi interni, si avvicinano al mezzo milione. Nel caos crescente in cui l'ex Birmania va sprofondando azioni e ritorsioni si susseguono. Così, mentre l'Assemblea popolare del Myanmar, assise del Consiglio consultivo per l'unità nazionale che riunisce la maggior parte dei gruppi di opposizione ai militari al potere ha ribadito l'impegno di portare i leader delle forze armate davanti alla Corte penale internazionale, alla vigilia dell'anniversario del colpo di stato il regime ha annunciato l'avvio di un nuovo processo contro Aung San Suu Kyi, a sua volta agli arresti da un anno. Questa volta l'accusa è di frode elettorale per presunte irregolarità commesse in occasione delle elezioni del novembre 2020, vinte in modo quasi plebiscitario dalla sua Lega nazionale per la democrazia».

MIGRANTI UCCISI DAL FREDDO TRA TURCHIA E GRECIA

L'odissea degli ultimi sconvolge l’Europa. «Dodici migranti sono rimasti uccisi dal freddo», la Turchia accusa: erano stati respinti da Atene. Lucia Capuzzi per Avvenire.

«Li hanno trovati nel villaggio turco di Pasakoy. Dodici corpi privi di scarpe e vestiti, stesi sul terreno a meno di dieci chilometri dalla frontiera greca, da sette anni porta principale della "fortezza Europa". Là, giorno dopo giorno, sfilano, nascosti nella boscaglia, uomini, donne, bambini in fuga dal Medio Oriente o dall'Asia in fiamme. Obiettivo: attraversare il fiume Evros, in bilico tra Turchia e Grecia, e varcare la soglia del Vecchio Continente. La gran parte delle volte non ci riesce. Come i dodici di Pasakoy, nel distretto di Ipsala, nell'Edirne. Secondo le autorità turche, le vittime facevano parte di un gruppo più ampio, di ventidue persone. Il ministro dell'Interno Suleyman Soylu ha denunciato sui social che i profughi sarebbero riusciti a raggiungere la Grecia ma sarebbero stati bloccati e ricacciati indietro della guardie di confine. Non prima, però, di essere privati dei pochi avere, inclusi gli indumenti indispensabili per proteggersi dal freddo che, dunque, li ha stroncati. Quando la polizia di Ankara li ha trovati, undici erano già morti congelati. Il dodicesimo si è spento poco dopo in ospedale. «Ancora una volta, l'Europa si è dimostrata priva di soluzioni, debole e insensibile», ha tuonato Soylu che non ha precisato la nazionalità, il genere o l'età dei profughi. Dalle foto, diffuse dallo stesso ministro su Twitter, uno sembra un ragazzino. Gli ha fatto subito eco il capo della Comunicazione del governo turco, Fahrettin Altun, che ha definito l'Unione Europea «complice » di Atene. Bruxelles «non sa cosa significhi accogliere chi cerca di salvarsi la vita», ha affermato il presidente Recep Tayyp Erdogan. La Grecia, da parte sua, non ha risposto alle accuse, per altro non nuove. Da tempo Ankara, che ha chiesto più fondi all'Ue per i profughi, sostiene che Atene faccia respingimenti sistematici. Una pratica illegale perché impedisce loro di presentare richiesta di asilo, come garantito dal diritto internazionale. Affermazioni confermate da vari attivisti e associazioni. Appena tre settimane fa, l'Aegean monitor reporter ha rivelato l'espulsione di oltre 26mila profughi in due anni dalla guardia costiera greca lungo la rotta dell'Egeo. È di poco tempo fa, inoltre, la vicenda dell'interprete di Frontex scambiato per migrante e ricacciato in Turchia. Quest' ultima, dalla guerra in Siria, si è ritrovata al centro dell'esodo: nel suo territorio ci sono circa 3,7 milioni di profughi. Il braccio di ferro con la Grecia è cominciato due anni fa quando Erdogan ha spinto questi ultimi a sconfinare. Le immagini dei profughi nella morsa delle polizie dei due Stati che li rimpallavano come merce hanno fatto il giro del mondo. Poi di nuovo il silenzio. Eppure, intrappolati tra i conflitti fra Stati e l'indecisione europea, i migranti muoiono. Di malattie e di fame. Annegati o congelati. Corpi in genere senza nome, a volte perfino senza vestiti, abbandonati lungo le linee di faglia della geopolitica».

DOMANI INIZIANO I GIOCHI DELLO YUAN DIGITALE

Olimpiadi invernali di Pechino domani al via. Il vero campione dei Giochi, dice Il Sole 24 Ore, è lo yuan digitale. Arriva infatti il debutto della moneta elettronica, controllata dallo Stato, in coincidenza con l'inaugurazione. Rita Fatiguso per Il Sole 24 ore.

«Non teme il Covid-19, si sposta come un fulmine e, per mesi e mesi, si è allenato duramente in pista superando tutti i test. È lo yuan digitale, lo scattista più atteso ai blocchi di partenza delle Olimpiadi invernali, dove debutterà con la benedizione della Banca centrale cinese. L'evento sportivo più importante per la Cina dall'Olimpiade del 2008 diventa la cassa di risonanza di un progetto strategico che, partendo da lontano, per la precisione dal 2014, ha prodotto la valuta smaterializzata, l'e-CNY, un portafoglio digitale che si affiancherà a quello cartaceo dando impulso ai pagamenti telematici e alla globalizzazione della divisa di Pechino, ancora non convertibile. Lo yuan digitale diventa un potenziale sostituto del contante fisico e un efficace strumento di commercio internazionale. Il messaggio lanciato dal presidente Xi Jinping è forte, per questo il taglio del nastro avverrà sotto gli occhi del mondo intero e degli alleati più fedeli, dalla nutrita delegazione russa ai partner del Rcep, l'accordo a 15 di libero scambio ormai a regime dal 1° gennaio che raggruppa anche i dieci Paesi Asean, e che già vede Corea, Singapore, Thailandia, coinvolti in intese bilaterali per il cross-border della divisa digitale. La moneta correrà sui bit degli smartphone delle delegazioni straniere invitate alle Olimpiadi, ben oltre quindi gli esperimenti locali spot di Shenzhen, Suzhou, Hong Kong che pure hanno coinvolto 140 milioni di persone. Basterà scaricare un'App per pagare in modalità telematica con la moneta elettronica garantita e controllata dallo Stato. Le ripercussioni di questa svolta si sentiranno a livello internazionale, molte Banche centrali, circa l'80% del pianeta, studia come introdurre una moneta virtuale, ma i progetti coinvolgono un campione appena del 10 per cento. Lo State Council, dal canto suo, ha appena varato il piano quinquennale dell'economia digitale pari al 10% del Pil entro il 2025, nel quale l'e-CNY, utilizzabile anche da chi non ha un conto corrente, avrà un ruolo cruciale. La Banca centrale ha acquisito il pieno controllo dei flussi, i codici QR di pagamento di Tencent (WeChat) e Alipay (Alibab) sono stati appena unificati e, soprattutto, ha sbarrato la porta alle criptovalute, proprio per dar via libera al nuovo. Quale palcoscenico migliore per lanciare l'e-CNY? Mentre consolida l'esistente - è il caso del rinnovo al 2026 dello swap da 50 miliardi di dollari con la Banca d'Inghilterra, a inizio 2021 Londra ha registrato un +38,8% degli scambi in yuan - Pechino guarda ai Paesi Rcep ma anche a Vladimir Putin per attirare la Russia nell'orbita del Cips, il circuito dei pagamenti internazionali, grande rivale dello Swift (che è otto volte più grande per volume di scambi). Se Xi Jinping non molla sulla cooperazione della "Silk Road e-commerce", dobbiamo attenderci nuove grane geopolitiche dal velocista e-CNY? «L'operazione e-CNY ha una grande valenza dal punto di vista politico, potendo impensierire il dollaro USA e, di riflesso, l'economia americana - osserva Giovanni Trovato, professore di statistica economica del Dipartimento di economia e finanza dell'Università di Roma Tor Vergata. Del resto l'idea di una moneta elettronica controllata dallo Stato può senza dubbio essere una caratteristica da non sottovalutare nell'ottica di una politica economica globale. Questa visione, peraltro, è condivisa da economisti americani, tra cui Kenneth Rogoff, il quale ha osservato come gli Stati Uniti - quantomeno dal punto di vista di una moneta elettronica centrale - debbano recuperare uno svantaggio competitivo sulla Cina di almeno dieci anni».

ADDIO A MONICA VITTI

È morta nella sua casa di Roma, a 90 anni, l’attrice Monica Vitti, da tempo malata e lontana dalle scene. Insolito ricordo di Luciana Castellina sul Manifesto.

«Non avrei potuto incontrare un'attrice così anomala come Monica Vitti che in un luogo assolutamente anomalo come la redazione del settimanale della Federazione giovanile comunista che ho poi diretto per molto tempo. Dovevano essere gli anni '50, circa la metà, e Monica non era ancora diventata Monica Vitti. Cioè no, ho detto una stupidaggine : era già Monica Vitti, perché lo era già prima e poi lo è restata sempre. Volevo solo dire che non era ancora un'attrice famosa, era appena uscita dall'Accademia di arte drammatica, ma lei non era certo una donna che sarebbe cambiata solo perché famosa, anzi famosissima. Quello che voleva era non essere una diva. Essere un'attrice è cosa diversa. Aveva già allora, e poi lo ha conservato sempre, un carattere forte e deciso che non si è fatto turbare dall'esser passata da tante esperienze diverse: da protagonista di Shakespeare a teatro, a star della commedia all'italiana, a protagonista di qualcosa che non so nemmeno se posso chiamare soltanto cinema. Mi sembra riduttivo, perché i film girati con Antonioni - quelli chiamati «dell'incomunicabilità (L'Avventura, La notte, L'eclissi), ma poi anche Deserto rosso, sono parecchio di più di una pellicola cinematografica che, per straordinaria che sia, raramente riesce ad essere portatrice di una diversa percezione della vita e idea del mondo. Merito di Michelangelo Antonioni, certo, ma non riesco nemmeno ad immaginare chi altro se non Monica avrebbe potuto interpretare quei film. Tanto è vero che quando Antonioni è morto e sua moglie Enrica mi chiese di scrivere su di lui qualche cosa in un libro collettivo che aveva curato, io scrissi che i suoi film mi avevano insegnato ad essere comunista in modo diverso e migliore, meno rozzo, più attento a una dimensione della persona senza la quale non si capisce nemmeno come è fatta per davvero l'umanità, cioè il mondo che si vuole cambiare. Furono chiamate, quelle narrazioni cinematografiche, anche «i film dell'alienazione», e forse questa definizione spiega meglio come e perché avevano potuto colpire così in fondo una come me, e tanti altri un po' schematici militanti. Ancora adesso, passati tanti anni, ricordo con precisione le immagini inusuali dell'Avventura, gli altrettanto inusuali scenari di un'isola come Panarea, allora un altro mondo, sconosciuto agli italiani: ci si arrivava con un traghetto che passava ogni venti giorni e i suoi abitanti erano quasi tutti emigrati in Australia. E così la struggente disperazione intima che si respira nei fumosi scenari ravennati dove venivano costruiti i primi monumenti petroliferi di quella antica modernità. Ecco, anche questo c'era in quei film che Monica ha saputo rendere in modo straordinario: la miseria di un progresso che non coincide con quello umano. Forse volevo dire anche questo quando ho scritto che mi hanno fatto diventare una comunista migliore. A portarmela in redazione quella prima volta, quando la conobbi, fu Mara Chiaretti, poi diventata, prima di una triste prematura scomparsa, valida regista di documentari. A quel tempo era prestigiosa critica d'arte del mio settimanale, e poiché di Monica Vitti sono sempre rimasta incantata, le sono restata grata per avermela fatta conoscere. Perché è vero che quegli sono gli anni in cui l'immagine dell'attrice cinematografica cambia, non ci sono più «le attricette», ma in tante diventano persone, soggetti. E però Monica resta fra tutte «speciale». Non era poi così anomala la sua visita in una sede della Fgci, ma questo l'ho scoperto dopo, via via. Quando morì Berlinguer la trovai a fare il picchetto alla bara a via delle Botteghe Oscure, ma anche prima e dopo in occasioni politiche della sinistra. Oggi poi ho letto che a dare la notizia della sua scomparsa è stato, per conto di suo marito, Walter Veltroni».

SANREMO AL TOP CON FIORELLO E CHECCO ZALONE

Sarà dura senza Fiorello, sostiene Maurizio Caverzan sulla Verità, replicare i record di ascolto della prima serata. Nonostante un ottimo Checco Zalone. La presunta trasgressione di Achille Lauro nasconde le sue stonature.

«Sarà dura senza Ciuri. Sarà dura restare così in alto senza il fuoriclasse Rosario Fiorello. Ieri Amadeus e i dirigenti Rai gongolavano per gli ascolti della prima serata: 10,8 milioni di telespettatori e il 54,84% di share medio fra prima e seconda parte (l'incremento rispetto alla prima serata del 2021 è del 30,4%). È stata premiata la leggerezza. È stata premiata la scelta musicale. È stata premiata l'amicizia, ma perché no, anche l'arte, il genio, la scienza infusa, il mix di tutte queste cose, hanno detto in coro il conduttore e direttore artistico, il direttore di Rai 1, Stefano Coletta, l'ad Rai Carlo Fuortes. Un trionfo, insomma, un'apoteosi. Più pragmaticamente, forse, è stata premiata la buona professionalità che tutti riconoscono ad Amadeus e alla sua squadra. E magari anche le partecipazioni ben dosate degli ospiti. In particolare la presenza all'Ariston di Fiorello, oltre che quella dei Måneskin, accolti come rockstar dei due mondi. Il picco di audience (16,5 milioni di telespettatori) è stato registrato non a caso alle 21,46, durante l'esibizione di Rosario con Ama.Sarà dura tenere queste percentuali in assenza del talento dell'intrattenimento più eclettico di cui disponiamo. Ieri sera ha provato Checco Zalone, altro fuoriclasse, a sgangherare certe compostezze con la sua comicità irriverente. Mentre Laura Pausini ha assolto al compito di soddisfare il pubblico più tradizionale e romantico del Festival. Stasera toccherà a Roberto Saviano riempire il palco, ricordando Giovanni Falcone, ucciso a Capaci il 23 maggio 1992, ci auguriamo senza eccedere in prediche. La serata di venerdì tracimerà invece di ospiti per i duetti dedicati alle cover e quindi, verosimilmente, Fiorello se ne resterà tranquillo in poltrona «con il plaid e la tisana di tiglio». Fino a sabato quando, se lo augura anche Amadeus, ricomparirà per il gran finale. Intanto, tiene banco la polemica puntualmente innescata da Lauro De Marinis, in arte(?) Achille Lauro. Il vescovo di Sanremo, monsignor Antonio Suetta, non ha digerito la sua esibizione «che ha deriso e profanato i segni sacri della fede cattolica evocando il gesto del Battesimo in un contesto insulso e dissacrante». Il prelato ha sottolineato «che non ci si può dichiarare cattolici credenti e poi avvallare ed organizzare simili esibizioni». Più diplomatico il messaggio postato su Twitter dal cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura: «II Battesimo è il più bello e magnifico dei doni di Dio. Lo chiamiamo dono, grazia, unzione, illuminazione, veste d'immortalità, lavacro di rigenerazione, sigillo, e tutto ciò che vi è di più prezioso». Chiamato in causa, Amadeus ha replicato che «in quanto cattolico e credente non si è sentito turbato. Lauro è un artista libero di esprimersi secondo il linguaggio dell'attualità. Se non ne teniamo conto rischiamo di allontanare i giovani dal Festival oltre che dalla Chiesa». Senza peccare d'ingenuità bisogna ammettere che quel paraguru del De Marinis è riuscito ancora una volta a occultare con la messa in scena la pochezza canora. Le sue canzoni si guardano, perché se si ascoltassero ci si accorgerebbe di testi che recitano: «L'amore è un'overdose/ 150 dosi/ Oh sì sì/ Fanculo è Rollin'Stone/ Ah ah ah». Eppure negli ultimi quattro Festival nessuno è presente quanto lui, tre volte da concorrente e una da superospite. Parlando qualche giorno fa con il Corriere della Sera ha paragonato le sue partecipazioni ad altrettanti sacramenti, la prima volta è stata una specie di Battesimo, la seconda come l'Eucarestia, quest' anno è arrivata la Cresima... Ergersi a (presunti) dissacratori è sempre una furbata perché il sacro tira. Il vero problema è che di sacramenti ce ne sono altri tre, ma sarebbe preferibile andare dritti all'Estrema unzione. Per il resto, bisogna rilevare che la casella più gonfia della kermesse è quella della fluidità, sempre se non si vuol parlare apertamente di Ariston gaio. Qualcuno, per esempio, l'ha paragonato a una sorta di gay pride. Senza arrivare a tanto, sicuramente la gaiezza è uno dei fili conduttori più smaltati dell'edizione numero 72, ancor più delle scorse. Esibizione dei Måneskin a parte, dei quali continua a sfuggire il confine tra il contributo alla causa del rock e quello all'universo glamour, hanno stupito durante l'interpretazione di Brividi le simulazioni piuttosto esplicite di Mahmood e Blanco, già scelti dalla critica come candidati al successo finale e casualmente balzati in vetta alla classifica della prima serata. A completare la recita in chiave omosex è arrivato anche il bacio tra Amadeus e il direttore di rete Stefano Coletta. Effusione che oltre a citare l'analogo bacio portafortuna tra lo stesso Fiorello e l'allora direttore di Rai 1 Fabrizio Del Noce, era densa di sottotesti. Stasera la madrina della serata sarà Drusilla Foer. Sarà dura senza Ciuri. Buona visione a tutti, bambini compresi».

Nella tv di oggi basta tornare a fare lo show come si deve ed è subito Broadway. Antonio Dipollina per Repubblica.

«E ora ci siamo davvero perché Poco Ricco e Checco Zalone tracciano la linea dell'asticella che sarà impossibile superare. Missione compiuta per l'attesissima seconda serata e, quindi, per il Festival tutto: a patto di considerarlo come la rassegna in uscita dalla buriana, quella in cui si doveva riguadagnare normalità e fare con quello che si aveva (le promozioni delle fiction di Rai 1 come momenti forti, per dire). Gli ascolti notevolissimi della prima serata saldano gli italiani al loro spettacolo tv preferito: a quel punto con Fiorello la prima sera e soprattutto con Checco Zalone la seconda è come infierire sui deboli di spirito e quelli che trovano sempre da ridire. E lì ci si può concedere tutto, anche la correttissima e faticosa prima parte, ma a fin di bene e quindi per carità, con Lorena Cesarini, ragazza che mostra il dileggio social su grande schermo e stamani qualcuno di quelli che hanno scritto quelle sublimi facezie si vanterà pure con gli amici. Comunque Sanremo va: e ieri mattina il risultato numerico ha probabilmente tolto qualunque velleità superiore a chi ha scritto e pensato questa normalissima edizione, perché di normalità c'è bisogno. Meglio comunque non dimenticare che gli ascolti clamorosi hanno, volendo, un'altra motivazione assai pratica. Sanremo, oltre a essere Sanremo, è rimasto l'unico luogo televisivo dove si fa show in senso tradizionale, esibendo numeri di vario tipo alternati, saltando da canzoni a cose di comicità, monologhi etc. Tutto, ma proprio tutto l'intrattenimento tv è da tempo fagocitato da talent, talentini e talentucci, gare di ballo da sagra, confessioni intime di gente comune, esibizioni di sconosciuti travestiti da cantanti famosi e cantanti un minimo famosi che si esibiscono dentro costumi di gommapiuma. Ovvero, appena arrivano Checco o Fiorello e ci danno dentro è come saltare di colpo a Broadway, per l'impressione che fa e per l'attesa che si era creata. E lì, anche loro, possono anche limitarsi all'indispensabile, che non è poco, nel Festival della normalità che però è anche il meglio, ecco, che ci possa capitare».

Lettera al Direttore dell’Osservatore Romano sullo scandalo suscitato da Achille Lauro, titolo Trasgressioni a Sanremo:

«Chiamati in causa da Fiorello alla cui simpatia non si può resistere, eccoci qui a dire la nostra, come richiesto, su Achille Lauro. In punta di piedi. Perché Sanremo è Sanremo. L’Osservatore è L’Osservatore. E in questo caso si limita ad osservare che, volendo essere a tutti i costi trasgressivo, il cantante si è rifatto all’immaginario cattolico. Niente di nuovo. Non c’è stato nella storia un messaggio più trasgressivo di quello del Vangelo. Da questo punto di vista difficilmente dimenticheremo la recita del Padre Nostro, in ginocchio, di un grande artista rock come David Bowie. Non ci sono più i trasgressori di una volta».

Leggi qui tutti gli articoli di giovedì 3 febbraio:

https://www.dropbox.com/s/r9mr0y9jzbp2kql/Articoli%20La%20Versione%20del%203%20febbraio%202022.pdf?dl=0

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2022-02/quo-026/trasgressioni-a-sanremo.html

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La Lega strappa con Draghi

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