La lettera segreta su Mr. B
Denis Verdini scrive dai domiciliari i consigli per l'elezione di Berlusconi al Colle. Fico però vuole garantire il voto libero. Covid, picco vicino, i 100 euro solo in autunno. Timori per l'Ucraina
Prima notizia sulla pandemia per consolarci dal “blue monday” (gli americani hanno calcolato che oggi è il giorno più triste dell’anno): il matematico Giovanni Sebastiani del Cnr studia da mesi la dinamica dell’epidemia ed è convinto che in 35 province italiane (su 107) si è già raggiunto il picco di Omicron. Fra 15-20 giorni potremmo avere dati molto diversi dei contagiati, se la variante seguirà lo stesso comportamento osservato in Est Europa e in Germania. La discesa potrebbe essere rapida. Intanto però si discute degli aspetti burocratici del Covid. Gli scienziati non sono certi che il metodo dell’Emilia Romagna possa funzionare: da oggi in quella regione è possibile l’auto test a casa e l’auto certificazione. Però tutti, Ministro Speranza compreso, ammettono che qualcosa va fatto in tema di quarantene, tamponi e “liberazione” degli asintomatici. Vedremo. Intanto Il Sole 24 Ore rivela che la multa di 100 euro ai No Vax al massimo può arrivare in autunno. Una presa in giro.
Nella corsa al Quirinale la notizia di oggi è una lettera di Denis Verdini a Marcello Dell’Utri e Fedele Confalonieri, scritta dagli arresti domiciliari. Tema: la candidatura di Silvio Berlusconi. In essa c’è tutta la pulsione massonica dell’ex senatore ad essere burattinaio dell’elezione del nuovo capo dello Stato, da dietro le quinte. E l’ambizione a tutelare il “genero” Matteo Salvini. Complimenti al Tirreno che l’ha scovata e pubblicata. Fra i consigli verdiniani c’è quello di aggirare il voto segreto. Per fortuna Roberto Fico sembra intenzionato a non permettere il sotterfugio che servirebbe a ricattare e condizionare la volontà dei grandi elettori.
Dall’estero, è ancora grande la preoccupazione per l’invasione dell’Ucraina. Lo storico Niall Ferguson è convinto che Putin darà l’ordine di attacco e che l’Occidente non sarà in grado di reagire nel modo giusto. Donald Trump torna a parlare in pubblico e il suo comizio è oltre ogni possibile estremismo: gli assalitori di Capitol Hill sono patrioti e il nemico degli americani è il virologo Anthony Fauci. L’ex presidente è sicuro di tornare alla Casa Bianca nel 2024. Bel reportage di Francesca Mannocchi da Kabul per La Stampa.
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Quirinale e pandemia nelle scelte dei titoli d’apertura. E spesso i due argomenti si intrecciano. Il Corriere della Sera: Colle, divisi sul voto ai positivi. La Repubblica politicizza la scelta del presidente della Camera: Fico frena Berlusconi. Il Fatto si concentra sulla lettera scritta da Verdini a Dell’Utri e Confalonieri: Due pregiudicati si scrivono per eleggere il pregiudicato. La Stampa sceglie una frase di Enrico Letta e la fa propria pur mettendola tra virgolette: “Berlusconi è un vicolo cieco”. Se non si ritira addio governo. Domani ragiona sull’asse fra Italia Viva e Lega, con foto di Renzi e Salvini: Il caso Mattei. Per Libero: È Gentiloni la carta segreta di Renzi. Solo del virus parlano il Giornale: «Ora nuove regole per i vaccinati». Il Mattino: Quarantena più breve. E il Messaggero: Arriva la quarantena “breve”. La Verità raccoglie le proteste di chi ha avuto effetto collaterali: «Noi vittime del vaccino dimenticate dallo Stato». Sull’economia vanno il Quotidiano Nazionale: Bollette e crisi, 6 miliardi per respirare. E il Sole 24 Ore del lunedì: Casa ai giovani e mutui, aiuti più lunghi.
QUARANTENE E ISOLAMENTI, SPERANZA APRE ALLE REGIONI
Al di là della polemica delle Regioni su numeri e bollettini, c’è un problema grave di burocrazia da Covid. Per cui il nostro Paese è in questi giorni chiuso in una forma di lockdown volontario, spesso però obbligato da regole troppo strette. Viola Giannoli per Repubblica.
«Guardare al domani con i piedi radicati nell'oggi». Lo slogan lanciato in tv dal ministro della Salute Roberto Speranza racconta bene cosa si muove nel governo pressato dalla spinta delle Regioni a semplificare le norme, ridurre le quarantene, diminuire i tamponi, abbandonare l'Italia a colori. Da un lato il ministro lascia aperta la porta al dialogo: «Nelle prossime settimane - dice - dovremo aprire un confronto e nelle prossime ore apriremo un tavolo tecnico per affrontare le questioni che hanno proposto». Dall'altra ricorda che «la situazione comunque non è facile, i numeri dei contagiati sono molto alti, grazie ai vaccini abbiamo una ospedalizzazione inferiore, ma comunque significativa, con una pressione molto forte che non può essere sottovalutata». L'intenzione di alleggerire le norme, «adeguare le nostre regole e il nostro modello alla fase epidemiologica che stiamo vivendo» c'è. È questione di tempo, su cui pesa anche la "pausa politica" dell'elezione al Quirinale. «L'Oms - sottolinea il ministro - ci dice che ci stiamo avvicinando al picco», con 149.512 casi e 248 morti (ieri) «bisogna stare attenti alle parole: non è né un raffreddore né un'influenza e va affrontata con la massima attenzione». Ma, certo, «siamo in una fase diversa dalle precedenti», il «vaccino (89,91% di over 12 con almeno una somministrazione e 92 mila prime dosi ieri), ci consente di fare cose che prima non potevamo fare» e «negli ultimi giorni vi sono evidenze di chiara decelerazione della curva epidemica». Sugli strappi delle Regioni - l'Emilia, il Lazio, la Liguria, la Lombardia, per dirne alcune - Speranza però frena: «La nostra comunità scientifica ci sta dicendo che se una persona è positiva deve stare in isolamento perché può contagiare anche senza sintomi ed è giusto che al momento dell'uscita si possa fare una verifica attraverso un tampone». A giorni arriverà invece la lista delle attività essenziali in cui si entrerà anche senza Pass. Subito dopo è atteso il bollettino differenziato per distinguere gli asintomatici da chi entra in ospedale per il Covid e, tra questi, i vaccinati da chi rifiuta la dose. Novità arriveranno anche sui certificati per rientrare a scuola dopo l'infezione, come annunciato dal ministro Patrizio Bianchi. Mentre le Regioni tentano di sbrogliare la burocrazia: meno passaggi per entrare e uscire da isolamenti e quarantene».
AUTO TEST, CI SI PUÒ FIDARE?
La Regione Emilia Romagna ha scelto la strada dell’auto test. Da oggi, dopo un tampone comprato in farmacia e fatto a casa, si può autocertificare la propria negatività e ritornare alle normali abitudini. Domande e risposte su questo punto proposte dal Messaggero. A cura di Giampiero Valenza.
«Basta code interminabili davanti alle farmacie. L'Emilia-Romagna anticipa le altre regioni e semplifica le regole: per uscire dalla quarantena Covid basterà un test fai da te. Il presidente del Consiglio superiore di Sanità Franco Locatelli, pur con prudenza, apre uno spiraglio a livello nazionale sull'onda della decisione del governatore Stefano Bonaccini: «È considerabile esplorare strategie di tracing, ma nell'ambito di sperimentazioni ben controllate», afferma. Sulla contagiosa variante Omicron emerge sempre di più un elemento: per scovarla, i tamponi salivari possono essere più efficaci rispetto a quelli nasali. Quanto ai test fai da te, si tratta di «valutazioni che dobbiamo lasciare alla comunità scientifica. In questa fase in cui abbiamo ancora un numero altissimo di contagiati, i nostri esperti ci dicono che se una persona è positiva deve stare in isolamento perché può essere contagiosa anche senza sintomi. Ed è giusto che all'uscita dalla quarantena si faccia una verifica attraverso un tampone», afferma il ministro della Salute, Roberto Speranza.
SI PARLA TANTO DI GENERAZIONI DI TEST, QUAL È IL PIÙ AFFIDABILE?
Oggi i test sono alla terza generazione. L'ultima è quella microfluidica con lettura in fluorescenza, la più affidabile.
I TEST FAI DA TE FUNZIONANO?
Quelli che si possono trovare al supermercato sono di prima e seconda generazione e hanno una ridotta sensibilità che può ridursi di più se il prelievo non è svolto da mano esperta. Se con il tampone ci si ferma all'inizio del naso può esserci un ulteriore calo di attendibilità e ciò può falsare il risultato dal 10% al 90%. L'importante, per avere un buon test (almeno, per quelli nasali) è la lacrimazione. Il salivare, invece, è come un lecca lecca che va tenuto in bocca qualche minuto.
PERCHÈ I TEST DI TERZA GENERAZIONE NON POSSONO ESSERE FATTI IN CASA?
Hanno bisogno di un professionista che sia in grado di farli e della strumentazione adeguata per poterli leggere. In questi test la reazione tra l'antigene e l'anticorpo emette una luce fluorescente che la rende più evidente. Si tratta di un risultato di gran lunga diverso rispetto ai test che invece si basano su un'immunocromatografia. Per fare un esempio, con il sistema di terza generazione si riesce a vedere una presenza di virioni che va da 10 a 100. Una carica così bassa che l'antigenico non prende, perché ha bisogno di almeno 1.000 virioni.
QUANDO VA FATTO IL TEST TAMPONE?
L'importante è far trascorrere almeno quarantotto ore per permettere che la carica virale sia visibile. Quindi, non va fatto appena si ha un primo dubbio, ma è meglio aspettare un po'.
È NECESSARIO CHE VENGANO AMPLIATE LE INDICAZIONI PER I SALIVARI?
È meglio aspettare. Va bene l'indicazione data su disabili, sui bimbi o su chi ha problemi di natura clinica. I test salivari devono essere eseguito da una persona esperta, in un ambiente protetto. Questo non significa che la mamma possa far fare il salivare al figlio, in casa, prima di andare a scuola. Sono test molecolari i test salivari che vengono fatti nelle scuole sentinella': vengono portati in laboratorio per avere l'esito.
OMICRON SI NOTA MENO NEL NASO? PER CHI È INDICATO IL TAMPONE SALIVARE?
Omicron si rileva meglio a livello faringeo più che a livello nasale. La saliva è un'utile matrice per i pazienti disabili, per i bambini o per chi ha difficoltà a fare il test tampone con il prelievo dal naso. Il salivare molecolare ha un percorso ospedaliero e di laboratorio, l'autotest salivare, invece, si basa sull'antigenico.
QUALI SONO LE VARIABILI IN GIOCO NEL TAMPONE SALIVARE?
La saliva è un materiale soggetto a due varianti rilevanti. Uno è quello della carica batterica. L'altro è quello della matrice salivare che non è identica da persona a persona. Aver mangiato o bevuto prima dell'esame può incidere sull'esito proprio perché può mutare la composizione della saliva. Anche aver fumato può avere effetti sulla replicazione virale».
VICINI AL PICCO, POI COMINCIA LA DISCESA
Intanto la curva dei contagi mostra segnali di raffreddamento. In Italia ci sono oltre 2,5 milioni di positivi. Ieri 248 vittime. Il punto di Adriana Logroscino per il Corriere.
«Il Covid continua a circolare, al punto che ieri i positivi nel Paese erano più di due milioni e mezzo. Ma il picco è molto vicino, come dimostra la discesa lieve e costante dei contagi. E arriverà, secondo gli esperti dell'Organizzazione mondiale della sanità, «entro due o tre settimane», cioè prima del previsto. Il momento consente quindi di tirare primissime somme e di valutare un nuovo corso. Come fa il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri quando ipotizza una modifica imminente del bollettino che misura il contagio, come richiesto dalle Regioni. Frena, però, il ministro Roberto Speranza: «Abbiamo un altissimo numero di positivi, ora la curva mostra segnali di raffreddamento. Affidiamo le decisioni alla comunità scientifica». Una valutazione lusinghiera dell'operato del governo italiano l'ha data ieri il direttore di Oms Europa, Hans Kluge, intervenuto a Mezz' ora in più su Rai3: «Ha seguito la strada giusta, con le vaccinazioni, le terze dosi, le mascherine e con la priorità alle scuole aperte». Proprio il ritorno a scuola dopo le vacanze di Natale era stato a lungo materia di contesa tra governo e Regioni. «Il famoso disastro che doveva esserci con la riapertura, non c'è stato - rivendica ora il ministro della Pubblica istruzione, Patrizio Bianchi -. Tra i ragazzi tra i 12 e i 19 anni, l'84,5% ha ricevuto la prima dose, il 75% ha completato il ciclo: è la vaccinazione la vera difesa». I nuovi positivi rilevati ieri sono stati 149.512, decisamente meno dei 180 mila di due giorni fa, sia pure con un numero più basso di tamponi (927 mila) che fa risalire il tasso di positività al 16,1%. Tanti, ma dopo quattro giorni sotto quota 300, i morti: 248. Rispetto alla pressione sugli ospedali, la flessione ancora non c'è. Sono 14 in più rispetto al giorno prima i ricoverati in terapia intensiva, e 349 in più quelli negli altri reparti. Ma questo è sempre uno degli ultimi indicatori a scendere. È questo il quadro generale che ridà fiato alla sollecitazione, recapitata nei giorni scorsi dai presidenti di Regione e da alcuni esperti, di rivedere il bollettino quotidiano che misura l'andamento della curva pandemica. Sollecitazione che arruola, fin dall'inizio, Sileri. Ieri il sottosegretario aveva aperto uno spiraglio: «La pandemia non è ancora finita ma il progressivo emergere della variante Omicron ne sta cambiando i connotati, bisogna aggiornare la nostra strategia, alleggerire le regole». La direzione indicata sarebbe quella invocata dalle Regioni: indicare separatamente positivi sintomatici e asintomatici, distinguere tra i ricoverati quelli che hanno sintomi Covid da quelli incidentalmente positivi. Insomma, una normalizzazione, una fase di convivenza con Omicron, che per gli esperti potrebbe raggiungere quasi tutti gli italiani entro il 2022. Ma Speranza invita alla cautela. «Ho sentito spesso delle banalizzazioni. Omicron è più debole, ma non è né un raffreddore né un'influenza. Serve massima attenzione in questa fase pandemica. Guardiamo al futuro, ma restando ben piantati nel presente. Vaccino e mascherine ci hanno consentito di gestire un contagio imponente senza restrizioni. Continuiamo ad affidare alla comunità scientifica le decisioni. A breve un tavolo tecnico affronterà le questioni poste dalle Regioni». L'indicazione a vaccinarsi gli italiani l'hanno recepita. Nella giornata di sabato sono state somministrate 92 mila prime dosi, il dato più alto dall'inizio della quarta ondata. Complessivamente, comunica la struttura del commissario Francesco Paolo Figliuolo, sono state iniettate quasi 120 milioni di dosi e l'89% degli over 12 è immunizzato.».
LA MULTA DI 100 EURO PER I NO VAX? ARRIVA IN AUTUNNO
Franca Deponti e Marisa Marraffino per il Sole 24 Ore tirano fuori come stanno davvero le cose sulla multa di 100 euro ai No Vax over 50. Arriva solo in autunno.
«Obbligo di vaccino Covid per gli over 50 dal 1°febbraio, pena una "multa" di 100 euro. Ma se l'interessato si oppone, per vedere applicata la pur blanda sanzione c'è un tempo di 260 giorni. Non prima dell'autunno, insomma. Difficilmente prima. Il conto - come vedremo - è per difetto, perché i tempi sono calcolati immaginando che il non vaccinato "renitente" sia scoperto già il 1° febbraio e sul presupposto che il puzzle di competenze incrociate funzioni a puntino e immediatamente. Ma ripercorriamo i conteggi dall'inizio. La data di partenza Il Dl 1/2022 in vigore dall'8 gennaio scorso ha introdotto l'obbligo vaccinale per chi ha compiuto 50 anni o li avrà entro il prossimo 15 giugno, data in cui le disposizioni cesseranno di essere in vigore, salvo proroghe. La sanzione di 100 euro scatterà dal 1° febbraio per chi, entro quella data, non sarà vaccinato oppure avrà eseguito soltanto la prima dose o la seconda senza il richiamo nei termini previsti. Dieci giorni più dieci A notificare la sanzione sarà l'agenzia delle Entrate, mentre a irrogarla sarà il ministero della Salute. Prima dell'avviso di addebito, il no vax riceverà una comunicazione di avvio del procedimento. Potrà decidere di pagare, ovviamente. Oppure avrà dieci giorni di tempo, a pena di decadenza, per inviare all'azienda sanitaria locale competente per territorio eventuali esenzioni o altre ragioni che hanno causato il differimento del vaccino. In quest' ultimo caso si dovrà trattare di ragioni oggettive, assolute e documentate (ad esempio perché non vi erano slot liberi per la prenotazione). Potrà anche chiedere di essere sentito, ma non c'è comunque obbligo di convocazione dal parte dell'azienda sanitaria. Entro gli stessi 10 giorni il destinatario della possibile "multa" dovrà inoltre inviare una comunicazione all'agenzia delle Entrate in cui riferirà di aver mandato le proprie giustificazioni all'azienda sanitaria. Entro altri successivi 10 giorni sarà proprio quest' ultima a dover comunicare alle Entrate se la sanzione va irrogata oppure no, in quest' ultimo caso chiudendo il procedimento. Altri 240 giorni per pagare Se l'azienda sanitaria considererà inidonee le ragioni esposte dall'interessato, l'iter andrà avanti. Entro i successivi 180 giorni le Entrate notificheranno via Pec o raccomandata a/r all'interessato un avviso di addebito che avrà valore di titolo esecutivo. Il destinatario avrà 60 giorni di tempo per pagare oppure 30 giorni per presentare ricorso davanti al Giudice di pace. Come si vede, in caso di opposizione alla sanzione, i 260 giorni totali dell'iter a partire dal 1° febbraio fanno precipitare il pagamento di chi non si adegua almeno in autunno. Se è, infatti, vero che le Entrate potrebbero notificare l'addebito prima dei 180 giorni di legge, è anche vero che difficilmente i no vax over 50 saranno scoperti il 1°febbraio e che non sempre le comunicazioni tra Salute e Fisco avverranno senza tempi morti soprattutto perché la "macchina" va rodata. Il ricorso contro la "multa" Se l'interessato farà ricorso al giudice di pace dovrà ricordarsi di chiedere la sospensione dell'avviso di addebito. Se non lo fa oppure il giudice non accoglie l'istanza, le Entrate potranno avviare l'iter per il recupero coattivo della somma, maggiorata delle spese successive. Per presentare ricorso va pagato un contributo unificato di 43 euro e non è necessario l'avvocato: ci si può difendere anche personalmente. La controparte in giudizio sarà proprio l'agenzia delle Entrate per il tramite dell'avvocatura di Stato. È evidente, dati i costi, che dal punto di vista economico il ricorso è disincentivato rispetto al pagamento della sanzione. Davanti al giudice di pace il non vax over 50 potrà far valere i motivi per i quali ritiene ingiusta la sanzione, ma in caso di sentenza di condanna potrà essere condannato anche al pagamento delle spese di giudizio. Infine, se vorrà fare appello potrà impugnare la sentenza in tribunale entro 30 giorni dalla notifica della sentenza del giudice di pace. Due precisazioni Inutile, ai fini della multa, decidere di vaccinarsi dopo il procedimento: la sanzione scatterà lo stesso nel caso in cui non ci siano ragioni oggettive e documentate che abbiano impedito di fissare la data del vaccino prima del 1° febbraio. I destinatari delle sanzioni, infine, nel ricorso non potranno invocare motivi di violazione della propria privacy, dato che proprio il decreto legge ha introdotto espressamente la possibilità che le aziende sanitarie comunichino i dati cosiddetti particolari alle Entrate».
QUIRINALE 1. LA LETTERA DI VERDINI
La corsa al Quirinale registra un colpo di scena, a metà tra la trama massonica e la commedia di Totò e Peppino. Ieri mattina Il Tirreno ha pubblicato una lettera scritta da Denis Verdini, dagli arresti domiciliari, a Marcello Dell’Utri e Fedele Confalonieri. Tema: la candidatura di Silvio Berlusconi e la strategia che lo deve accompagnare. Mario Neri sul giornale di Livorno.
«Caro Marcello, Caro Fedele, è stata davvero una bella mattinata nella quale alcuni "vecchietti arzilli", come quelli di Cocoon, hanno ritrovato il gusto del sogno». Va detto, l'incipit è fulminante. Prosa ritmica, quasi. «Ed è stato bello sognare di mandare Silvio al Quirinale». Quel vecchio drago di Denis Verdini sembra un narratore navigato. Marcello e Fedele, che ve lo diciamo a fare, sono Dell'Utri e Confalonieri. La lettera è indirizzata a loro. Non è neppure certo che sia ancora arrivata sulla scrivania di Silvio Berlusconi. Ma che importa. Perché sì, sarà pur vero che a scrivere è un vecchio fedelissimo - era un'altra era, invero -, il fiorentino che fu tessitore di mille tele per il Cav ai tempi in cui il cielo sopra Palazzo Chigi era sempre azzurro, ma ora quell'amico ormai sbiadito è un padre, e soprattutto un suocero. Cosa non si fa per i figli, cosa non farebbe Denis per Francesca, dunque per Matteo. Matteo Salvini. Perché il papello agli arzilli, scritto dai domiciliari, al di là delle amicali tenerezze della captatio benevolentiae, è una fredda e lucida analisi con cui Verdini suggerisce ai consiglieri di Berlusconi una strategia per affrontare la partita del Colle. E se nell'attacco riecheggia Martin Luther King (Denis has a dream), la chiusa è alle Rino Formica. Tradotto: la politica - è il succo della missiva - dovrebbe essere utopia, nella pratica è sangue e merda. E Silvio dovrà farsi da parte alla quarta chiamata se il sogno si infrangesse e soprattutto non dovrà minare la credibilità di Salvini. Non delegittimarlo come king maker. Altrimenti il centrodestra «imploderebbe». Del resto, mandare il Cav al Quirinale sarebbe «bello per la rivalutazione di tutta la nostra storia, ed ancor più bello è stato pensare agli innumerevoli "suicidi" dei vari Travaglio, Gruber, Zagrebelsky ecc... che sarebbero provocati da questo evento», scrive Verdini con una metafora ardita, e quei condizionali sono già la spia di una grande ipotetica dell'irrealtà. Ma andiamo con ordine. «Finora si è giocato sul piano esclusivo della comunicazione. Ma fra dodici giorni - aggiunge - a ciò che si comunica dovrà seguire ciò che si fa. Altrimenti sarà un disastro». Primo avvertimento. In caso di errori, a correre i maggiori rischi sarebbe proprio il centrodestra. Quella di Berlusconi è «una legittima ambizione», «nessuno nel centro-destra può negargli questa opportunità». E infatti «i vari Salvini, Meloni, Lupi ecc... si sono finora dimostrati disponibili», con «comprensibile prudenza». Ma a Verdini basta un aggettivo o un avverbio qua e là per insinuare un dubbio. Con la caccia ai peones, il Cav «ha dato informalmente "certezze" su presunte disponibilità di voti» fuori dal centrodestra, e la sua candidatura, «ancora soltanto ipotizzata», ha «scavato un fossato» con il centrosinistra. Soprattutto con Pd e M5S che, teorizza, saranno «tentati dalla soluzione dell'Aventino», proprio come il centrodestra fece con Prodi, facendo emergere i 101. Dunque, se il Pd non si siede al tavolo e Matteo e Giorgia Meloni da soli «non sono in grado di allargare» il consenso intorno a Silvio, in questo scenario si «deve pretendere la lealtà degli alleati», votare compatti. Ma ciò che «non si può pretendere da Salvini è che rinunci al tentativo di esercitare un ruolo da king maker». Il centrodestra mai è stato così vicino a eleggere un Presidente. «Gli si può chiedere dunque lealtà, ma non fedeltà assoluta. Un'eventuale sconfitta sul Quirinale pregiudicherebbe la sua carriera politica». La lettera è anche un esercizio di stile. Denis per cinque volte evoca il Cav chiamandolo "il Nostro", ne dipinge gli scenari luminosi, ma mestamente richiama pure le ragioni del leghista. Che buon suocero. Del resto, «il Nostro non potrà logicamente fare il candidato e il king maker. Già stiamo assistendo ad una prima volta: mai è esistito qualcuno che si è autocandidato al Quirinale».Dunque, «che fare», si chiede leninianamente Verdini. Intanto Berlusconi garantisca che Forza Italia starà ancorata al centrodestra. Niente patti con Letta e Renzi. Via il «chiacchiericcio» dai giornali sulla possibilità che possa appoggiare, in caso di suo fallimento, «Draghi, Amato o chissà chi altro, spaccando il centrodestra». Perché «se Salvini o Meloni capissero che il Nostro ha seconde carte o piani B, sarebbe l'intero centro-destra a saltare per aria». E questo spalancherebbe le porte alla sinistra, che indicherebbe «l'ennesimo presidente di parte, camuffato da presidente di tutti». Quindi Verdini elenca 10 punti con cui provare a eleggere Berlusconi. Tentativi da condurre fino alla quarta chiamata. Tipo: Silvio non faccia «trapelare giudizi negativi su possibili candidati di centrodestra» alternativi, e dovrà riconoscere a Salvini «l'agibilità politica del risultato». E se è «accertato» che Matteo e Meloni non hanno le carte per procurare altri voti al centrodestra, è chiaro che «solo Silvio», con «tutti i suoi mezzi», può «espanderli». E se è «altrettanto chiaro che trattandosi di rapporti personali e particolari, Silvio non può, per evitare sputtanamenti, comunicare i nomi da lui conquistati», allora a tutti i voti del centrodestra (Verdini li elenca gruppo per gruppo: Forza Italia 129, Coraggio Italia 31, Lega 197, Fdi 58, Lupi 5, Regionali 33. Totale, 454), bisognerà aggiungere il pacchetto di peones. E tutti andranno resi «riconoscibili». Nel centrodestra usando varie formule per le schede. A Fdi sarà detto di votare «Silvio Berlusconi, alla Lega on. Silvio Berlusconi e così via». Anche per i peones si dovrà escogitare una firma. «È tutto nelle mani di Silvio: auguri a tutti noi», sembra quasi sospiri Verdini. Ma se «sfortunatamente» il sogno non dovesse realizzarsi, «Silvio deve permettere a Salvini (il gruppo di grandi elettori più grande) di portare a termine l'obiettivo di eleggere un presidente di centrodestra, fornendogli tutto il suo appoggio». Dovrà rassicurare gli alleati, poiché «fuori da questo schema chi smania di votare Draghi (la Meloni) o chi vuole legittimamente far pesare i suoi 215 grandi elettori (Salvini), si sentirebbe libero di fare come gli pare». In fondo, se alla quarta chiamata il Cav non fosse eletto ma avesse tutti i voti del centrodestra, potrebbe «ritirarsi con dignità». Ma se non ottenesse neppure quelli, «sarebbe un disastro. E ancora peggio per chi lo ha portato a questo punto. Un abbraccio».
Francesca Schianchi sulla Stampa sostiene: dopo la lettera di Verdini di che cosa altro c’è bisogno per ritenere la candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale non opportuna?
«Il piano A del centrodestra, dunque, è candidare un pregiudicato, un signore ancora alle prese con le aule giudiziarie, fingendo come nulla fosse che si tratti di quisquilie, che sarà mai un Presidente della Repubblica già condannato per frode fiscale che ancora deve rispondere di accuse come induzione a mentire? E il piano B prova a dettarlo un vecchio amico, Denis Verdini, l'uomo del pallottoliere dei suoi governi, che però non può elargire consigli in un vertice a Villa Grande, ma è costretto a spedirli via mail dagli arresti domiciliari dove si trova. A due destinatari, uno dei quali, Marcello Dell'Utri, ha scontato una pena per concorso esterno in associazione mafiosa. Se non bastassero le leggi ad personam, i ripetuti attacchi alla magistratura (che il Capo dello Stato presiede), gli scandali e le gaffe, se ancora la forsennata caccia agli "scoiattoli" da addomesticare per ottenere un voto in più non avesse dato l'idea di un'operazione sconveniente in un passaggio delicato e importante come l'elezione dell'inquilino del Quirinale, dovrebbe essere almeno questo discutibile gabinetto di guerra a rendere chiaro a tutti quanto sia inopportuna la candidatura di Berlusconi. Nella lettera scovata dal Tirreno e diventata di dominio pubblico, Verdini si preoccupa della "legittima ambizione" dell'ex premier, certo, "nessuno del centrodestra può negargli questa opportunità", ma si preoccupa anche e soprattutto del "ruolo di kingmaker" da riservare al leader della Lega, Matteo Salvini, "un'eventuale sconfitta sul Quirinale pregiudicherebbe la sua carriera politica". E Salvini è pure il fidanzato della figlia Francesca, in un intreccio di valutazioni personali e di partito che rende il tutto ancora più grottesco. Ma nella partita del centrodestra c'è un'altra attrice, Giorgia Meloni, che non dispone di grandi truppe in Parlamento ma che è cresciuta enormemente nel peso specifico di quello schieramento, e che oggi tutti i sondaggi danno come la probabile leader di quell'area. Se al suo debutto nella sfida del Colle vuole essere una protagonista responsabile e attendibile, se davvero sogna una destra europea e presentabile che la conduca dritta a Palazzo Chigi, provi almeno lei ad alzare la voce per dire quello che i retroscena le attribuiscono, più di una perplessità sulla candidatura dell'anziano leader in cerca di rivincita. E non lo faccia per una mera questione di numeri, ma per una fondamentale ragione di opportunità».
QUIRINALE 2. FICO NON ACCETTA LE SCHEDE SEGNATE
In un retroscena di Tommaso Ciriaco per Repubblica, si racconta che il Presidente della Camera Roberto Fico vuole contrastare il sotterfugio della schede "segnate", consigliato da Verdini. Ci sono i precedenti per evitare la conta dei voti, in realtà fatta per “controllare” il comportamento dei grandi elettori. Va garantito davvero il voto segreto.
«C'è una mossa capace di cambiare la storia di queste elezioni per il Presidente della Repubblica. E di complicare enormemente la rincorsa di Silvio Berlusconi al Quirinale. La sta studiando Roberto Fico in queste ore. Non è legata ovviamente al singolo caso del leader azzurro, ma avrà valore generale e sarà applicata per l'intera durata delle elezioni presidenziali. L'effetto, comunque, sarebbe quello di stroncare la ferrea volontà del Cavaliere di "contare" i voti del centrodestra e tenere a bada i franchi tiratori. Di cosa si tratta? In estrema sintesi: il Presidente della Camera potrebbe limitarsi a pronunciare solo il cognome di chi riceve i voti. Senza nome di battesimo, abbreviazioni, appellativi alternativi o creativi. Fico ci sta pensando. Annuncerà la decisione soltanto la mattina del 24 gennaio. Come consuetudine, riunirà l'ufficio di Presidenza per pianificare gli ultimi dettagli e dirà come intende procedere. Gli uffici tecnici di Montecitorio gli hanno consegnato un dossier che contiene i tre possibili modi di procedere, che trovano fondamento nel comportamento dei suoi predecessori. Uno di questi tre precedenti prevede proprio la possibilità di limitarsi al solo "cognome". Un gigantesco problema, per il leader di Forza Italia. Il Caimano, mai come stavolta, si nasconde nei dettagli. Il suo "dettaglio" è preso in prestito dal collaudato manuale dei "trucchi" parlamentari, consentiti dal regolamento e utilizzati in passato anche da coalizioni di centrosinistra. Per difendere la sua scalata al Colle, il Cavaliere intende assegnare un "segno" di riconoscimento a ogni partito alleato: Forza Italia voterà "Berlusconi", la Lega sceglierà "Silvio Berlusconi", i parlamentari di Fratelli d'Italia scriveranno "Berlusconi Silvio", i cespugli centristi si orienteranno su "S. Berlusconi" e "Berlusconi S.". Di più: a potenziali grandi elettori di centrosinistra che decidessero di appoggiarlo, il fondatore di Forza Italia riserverà un altro ventaglio di opzioni di "riconoscimento": "presidente", "Cavaliere", "senatore", "onorevole", "sen.", "Cav.". Come detto, tutto è in mano a Fico. Il quale non ha che l'imbarazzo della scelta. Laura Boldrini, nel 2015, scelse di affrontare lo scrutinio che portò alla Presidenza della Repubblica di Sergio Mattarella leggendo in modo integrale ogni scheda, senza alcun tipo di filtro. Luciano Violante, invece, guidò Montecitorio dal 1996 al 2001 e in occasione dell'elezione di Carlo Azeglio Ciampi, nel 1999, si limitò a pronunciare il cognome. Esiste anche una terza strada. È stata sottoposta al Presidente della Camera. Si tratta di una soluzione mediana, utilizzata ad esempio dal vicepresidente Roberto Giachetti in occasione proprio dell'elezione di Roberto Fico sullo scranno più alto di Montecitorio. Chi legge le schede non pronuncia eventuali appellativi diversi dal nome e dal cognome. Nessuno spazio, insomma, per "senatore" e "Cavaliere" (o per le relative abbreviazioni). Lettura pubblica invece di "Berlusconi", oppure "Silvio Berlusconi". Questa opzione prevede anche due ulteriori decisioni da prendere: sarà Fico, infatti, a scegliere se tradurre l'eventuale "S." in Silvio, oppure restare fedele alla lettera della scheda. E sarà sempre lui a stabilire se attenersi comunque alla formula "Silvio Berlusconi" anche quando il voto è stato espresso con "Berlusconi Silvio". Berlusconi, questo è certo, spera ancora di poter invece controllare al meglio i grandi elettori. Il "trucco" gli è stato anche consigliato da Denis Verdini, attraverso un appunto inviato a Marcello Dell'Utri e Fedele Confalonieri, che lavorano al progetto "Berlusconi Presidente". A dire il vero, Verdini consiglia anche di non giocare altre partite, se sconfitti nelle urne. E di non trattare separatamente con il centrosinistra su altri nomi, concordandolo invece con gli alleati sovranisti. E se Giorgia Meloni pare voler puntare su Giulio Tremonti (in ottimi rapporti anche con Giancarlo Giorgetti), Matteo Salvini sembra invece preferire due profili moderati: Marcello Pera e Letizia Moratti».
QUIRINALE 3. PARLA RENZI: MR. B NON HA I NUMERI
Maria Teresa Meli intervista per il Corriere della Sera Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva rafforza il messaggio “verdiniano” all’altro Matteo, Salvini.
«Senatore Renzi, il centrosinistra sembra aver scelto come interlocutore del centrodestra Salvini, ma le carte continua a darle Berlusconi. «Io parlo con tutti. Vedremo se il centrodestra avanzerà formalmente una candidatura. Nel vertice di venerdì è emerso che il sogno quirinalizio di Berlusconi non ha i numeri. Che tristezza leggere di telefonate ai singoli parlamentari. Non ho la doppia morale tipica di certa sinistra: giudicavo ridicolo che Ciampolillo fosse chiamato da Conte un anno fa per sostenere il governo e giudico ridicolo che Ciampolillo venga chiamato oggi da Sgarbi per passargli Berlusconi. Questi show telefonici squalificano la politica sia quando lo fa Conte sia quando lo fa Berlusconi. Torniamo alla sana politica e troviamo un nome di prestigio per l'Italia, in patria e all'estero». Lo ha detto a Berlusconi? «No, non lo vedo da sette anni, da quando lui ha rotto con me perché abbiamo scelto Mattarella. Sette anni dopo non mi aspetto un "grazie" per tale scelta ma la rifarei. Berlusconi non mi ha chiamato; se mi cerca glielo dico a viso aperto e in faccia, come ho sempre fatto. E come feci quando a Palazzo Chigi tentai di convincerlo a sostenere Mattarella. Io non sono uno degli yesman che ha intorno: gli dico ciò che penso. E chi gli vuole bene deve dirgli la verità, non mandarlo a sbattere». Sembra che la politica ritenga che Draghi al governo per 14 mesi sia una garanzia maggiore per l'Italia di averlo per 7 anni al Colle. Non è singolare? «Per avere Draghi ho pagato un prezzo personale altissimo ma ne valeva la pena. Giudico valide entrambe le ipotesi. Draghi a Chigi è una garanzia per il Paese nell'anno di legislatura che ci rimane. Draghi al Quirinale ha un ruolo meno impattante ma garantisce l'Italia, qui e all'estero, per sette anni. Sono entrambe buone soluzioni. L'importante è che nell'uno e nell'altro caso non si spieghi questa scelta come un commissariamento della politica. Draghi è arrivato a Palazzo Chigi quale frutto di una straordinaria battaglia politica. Se andrà al Quirinale dovrà esserci un accordo politico contestuale sul governo. Non ci possiamo permettere elezioni politiche nel 2022 e nemmeno un governo fotocopia senza il premier: il valore aggiunto di questo esecutivo è Draghi, non i singoli ministri». Salvini ha proposto un governo dei leader se Draghi va al Colle. «Non è probabile ma ha un senso. Crisi energetica, Pnrr da attuare, riforme da calendarizzare: può avere un senso coinvolgere le prime linee dei partiti. Ho l'impressione però che Salvini debba decidersi. Talvolta sembra voler uscire di maggioranza, lasciando spazio al cosiddetto governo Ursula. Talvolta sembra volersi immolare su Berlusconi, facendosi del male e facendolo anche al Cavaliere e al centrodestra. L'elezione del presidente della Repubblica è una partita seria, una finale di Champions, non un'amichevole precampionato. Ci sono leader che sul Quirinale si sono bruciati e hanno perso ogni credibilità: pensi a quello che ha combinato Bersani in quella scriteriata gestione del 2013. Su questa partita il mio omonimo si gioca molto ma credo lo sappia». Lei ha detto che votereste un candidato del centrodestra di alto profilo. Ma lo fareste anche nel caso in cui Pd e M5S non lo votassero? «Se il candidato o la candidata sono di livello certo che lo votiamo. La Costituzione stabilisce l'identikit del presidente della Repubblica. E non c'è scritto da nessuna parte che il capo dello Stato non debba venire dal mondo della destra. Se non è mai accaduto, è perché la destra non ha mai vinto le elezioni nell'anno del Quirinale: casualità, non precetto costituzionale. Il punto non è la provenienza ma la capacità di rappresentare l'unità della nazione. Che venga da destra o da sinistra, dal nord o dal sud, ateo o credente, politico o espressione del mondo accademico e della società civile, poco importa: l'importante è che sia all'altezza della sfida. E che sia credibile per gli italiani e nel mondo. Quanto al Pd e ai Cinque Stelle, non so dirle. Mi pare che Enrico Letta abbia proposto al centrodestra un accordo complessivo da qui al 2023 in modo serio e ragionevole. Mi sembra saggio». I 5 Stelle hanno una pattuglia parlamentare di notevoli proporzioni ma paiono divisi. Lei ha capito che cosa vuole Conte? «No, non l'ho capito. Ma la tranquillizzo: non l'ha capito nemmeno Conte. Cerca solo di dare l'impressione di essere in partita. Lo fa soprattutto per i suoi: la dialettica interna ai grillini è pesante. Conte vorrebbe andare ad elezioni nel 2022: sa che se si vota a scadenza naturale, Di Maio gli riprende il posto». Ma perché spetta al centrodestra fare un nome? «Banalmente perché hanno più grandi elettori. Al centrodestra spetta la prima mossa ma non è un diritto divino. Se hanno un nome che può farcela, lo tirino fuori. Altrimenti il Parlamento in seduta comune troverà una soluzione diversa. È sempre andata così, andrà così anche stavolta».
TRUMP: “MI RIPRENDERÒ LA CASA BIANCA”
Donald Trump torna a parlare e va all’attacco: “Biden non sa neanche dove si trova. Aveva detto che ci avrebbe liberato dalla pandemia, e invece gli ospedali sono pieni”. Per i suoi fan gli assalitori del Congresso sono prigionieri politici e il nemico è il virologo Anthony Fauci (“Io non lo ascoltavo” dice Trump). Giuseppe Sarcina per il Corriere della Sera.
«Il movimento trumpiano è ancora lì. Sabato sera i supporter dell'ex presidente sono accorsi a migliaia a Florence, un villaggio a sud di Phoenix, sospeso nei grandi spazi dell'Arizona. Sono arrivati dalla California, dal Texas, dal New Mexico. Hanno sopportato code in auto anche di due ore, prima di raggiungere i parcheggi. E un'onda formata soprattutto da adulti, tra i quaranta e i sessanta anni. Tante donne, pochi giovani. Con una forte presenza del mondo evangelico iper conservatore. Nessuno ha la mascherina e quasi tutti guardano con stupore i pochi che la indossano. C'è qualche volto truce, qualche felpa che rimanda alle milizie dell'estrema destra. Ma l'atmosfera è distesa. Non sappiamo se questa spinta basterà a riportare Donald Trump alla Casa Bianca. L'esule di Mar-a-Lago ne è certo: «Nelle elezioni di midterm di quest' anno conquisteremo la Camera e il Senato; poi nel 2024 noi ci riprenderemo la Casa Bianca». Dove quel «noi», come è sempre stato chiaro, significa «io». Lo schema è più o meno quello della campagna 2016. «The Donald» agita, fomenta la piazza. La usa come spalla per la sua performance. A Florence per la prima mezz' ora Trump sembra aver ritrovato lo smalto dei suoi tempi migliori. Ha aggiornato il repertorio delle sue battute che disgusta metà dell'America ed entusiasma l'altra metà. Joe Biden? «Un disastro totale, non sa neanche dove si trova». Seguono «Kamala», cioè la vice presidente Kamala Harris, la Speaker della Camera Nancy Pelosi, la repubblicana «rinnegata» Liz Cheney. Il più fischiato è Anthony Fauci: «Dava consigli anche a me, solo che io non lo ascoltavo. Ora, invece, sembra il re di questo Paese». Dall'audience sale lo slogan una volta riservato a Hillary Clinton: «Lock him up», mettetelo dentro. Il comizio dell'Arizona era molto atteso. Joe Biden è oggettivamente in difficoltà su vari fronti: dalla pandemia alla riforma del diritto di voto. Trump aveva l'occasione per parlare all'intera nazione, non solo ai fedelissimi. Ci ha provato solo nella prima parte, la più breve, attaccando duramente le politiche del rivale: «Il contagio? Biden aveva detto che l'avrebbe sradicato e invece eccoci qua con gli ospedali ancora pieni». Immigrazione: «Stanno entrando a milioni e milioni illegalmente; Biden ha bloccato il muro che stavamo per finire, mancavano solo tre settimane». E poi l'inflazione, l'energia, la catena delle forniture: «Non ne avevamo mai neanche sentito parlare. Ci voleva Joe per avere anche questo problema». Insomma, pur con tante inesattezze ed esagerazioni, un discorso da leader dell'opposizione, con un posizionamento politico-sociale: «Sono contro l'obbligatorietà del vaccino, Fauci e Biden hanno chiuso tutto, rovinato la nostra economia, chiuso in casa le persone. Hanno trasformato gli Stati Uniti nel Venezuela. Ma noi ci riprenderemo la nostra libertà e il nostro Paese». Il problema, però, specie per la larga fascia di conservatori moderati, è che «i contenuti» sono una parte accessoria della campagna «Save America», Trump 2024. Sul palco di Florence, con il passare dei minuti, emergono le vere priorità e le ossessioni di un politico rancoroso e vittimista, incapace se non di accettare, almeno di superare la sconfitta netta e indiscutibile del 2020. La reazione del suo pubblico è sorprendente. Lo asseconda per un po', poi, complice un vento gelido, sprofonda in un insolito silenzio. Si fa fatica a seguire una serie di numeri, di percentuali. Tutto falso, come provato da decine di verifiche degli Stati e dalle sentenze dei giudici. Per Trump la storia è un'altra. E l'assalto a Capitol Hill è la conseguenza delle «elezioni rubate»: «Tutti parlano di quelli che sono entrati nell'edificio, ma nessuno della più grande protesta che si sia mai vista nella storia. La gente era andata a Washington per rivendicare i suoi diritti». Segue l'appello più sconcertante: «Aiutiamo i prigionieri politici», che sarebbero i miliziani e gli sbandati che hanno sfasciato vetri, uffici e bivaccato nelle aule parlamentari. Ma ora ciò che conta qui, nel prato del ranch, è che la performance stia diventando addirittura noiosa. Molti se ne vanno con largo anticipo. Lo spiazzo affollato si svuota rapidamente, mentre Trump sta ancora parlando».
AFGHANISTAN, I LASCIATI INDIETRO DALL’OCCIDENTE
Reportage di Francesca Mannocchi sulla Stampa che racconta gli afghani lasciati indietro dall’Occidente. “Abbiamo dormito in aeroporto per giorni, nessuno ci ha fatti salire”. E adesso vivono nell’incubo dei Talebani.
«È il corpo, qui, a resistere, prima della mente. Il corpo dei soldati in battaglia, delle vittime di guerra con i monconi di braccia e di gambe, i corpi dei bambini che si trascinano lugubri in cerca di qualcosa da vendere in cambio di cibo. E i corpi delle donne su cui, ovunque, si scrive la storia degli uomini che si fanno la guerra. La resistenza di Anisa è il suo volto senza velo, i capelli che le scendono sulle spalle e poi lunghi si ammorbidiscono fino a metà della schiena. Le ciocche si colorano del castano scuro della giovinezza, la radice, invece, ha il bianco dei suoi cinquantasette anni. Le sfumature del capo di Anisa sembrano seguire i decenni che la sua vita ha attraversato: il colpo di stato di Mohammed Daoud Khan nel 1973, l'abolizione della monarchia, la proclamazione della Repubblica, e le guerre infinite, l'invasione sovietica, i mujaheddin, il primo Emirato islamico, nel 1996, la guerra americana, l'occupazione, e poi di nuovo, oggi, l'Afghanistan dei talebani. Per ogni capitolo della storia, Anisa, ha una fotografia: una la vede sorridente nell'abito bianco del matrimonio, un'altra indossa un completo estivo mentre balla in un giardino fiorito a Kabul negli anni Settanta, una ancora mostra i suoi folti capelli neri, cotonati e tenuti fermi sul lato destro della fronte da una spilla d'argento, seduta sorridente accanto all'anziana madre, dell'ultima - che trascina con cura fuori dalla velina protettiva - Anisa indica le gambe scoperte. Sono le sue, ha vent' anni. Lavora per il Ministero delle Miniere e del Petrolio. Intorno altre due donne, sono in piedi e parlano, sostengono plichi di carta con l'avambraccio. L'immagine le trattiene nei loro gesti quotidiani: il lavoro, la relazione col mondo, la bellezza che irradia tutto intorno. Sono passati più di trent' anni da quella fotografia, Anisa vive ancora a Kabul, oggi indossa un paio di pantaloni felpati, due maglioni e una sciarpa a proteggerla dal freddo, sulle unghie i resti di uno smalto rosso steso troppo tempo fa e sul volto un'armatura di bellezza, viva ma mai esibita, portata addosso con l'eleganza e la fermezza di chi non si è mai rassegnata a coprirla: piuttosto chiusa in casa, dice il campo di battaglia che è il suo corpo, ma coperta mai. È la resistenza di Anisa, che non ha mai voluto vedere il mondo dalle grate di un burqa. Lo sguardo radioso delle fotografie di giovinezza si è trasformato in una disposizione austera e vigile. Ha tutto sotto controllo: i nipoti privati della scuola che siedono nell'unica stanza calda della casa, la nuora che prima lavorava come consulente per l'Undp, l'Agenzia per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, e oggi passa le giornate a sgranare melograni e i due figli, Mustafa e Omid. Il primo era un funzionario dell'agenzia nazionale di sicurezza afghana, l'intelligence del governo fuggitivo di Ghani, il secondo un «combat interpreter», interprete di combattimento, dell'esercito americano. Il primo ha perso il lavoro, il secondo si nasconde. La loro dunque, più che un'abitazione, è un rifugio. La casa, quella vera, l'hanno abbandonata in fretta il 2 settembre quando un vicino li ha informati che stessero arrivando i taleban per portare via Omid, cominciavano le retate casa per casa per far sparire tutti quelli che avevano lavorato con le truppe statunitensi e quelle della Nato. Il nome di Omid era tra i primi della lista. Così sono scappati. Sua madre ha portato via le fotografie e lui le lettere di raccomandazione, una per ogni missione compiuta con l'unità operativa dei marines con cui lavorava. Le sfoglia, le legge: «Le forze statunitensi ringraziano Mahmoud Omid per il coraggio dimostrato sul campo. Lui da oggi, non è solo un collaboratore delle truppe ma un amico, perciò raccomandiamo il suo inserimento nel programma Siv». Omid è uno dei 20 mila afghani che hanno chiesto di trasferirsi negli Stati Uniti attraverso il programma Siv, il visto speciale di immigrazione americana. La prima domanda l'aveva presentata alla fine del 2020, i mezzi e gli uomini sul risiko afghano erano già stati spostati, gli accordi di Doha tra l'amministrazione Trump e i taliban avevano stabilito vincitori, vinti e esclusi, restava solo da definire la data, reale, del ritiro delle truppe. I generali suoi amici sostenevano la sua richiesta di visto con lettere e telefonate, attestati e medaglie, la richiesta però è stata rigettata: troppo severi i requisiti di controllo, troppo spinosa la prova del poligrafo, la macchina della verità. Omid ha superato le prime due selezioni e fallito l'ultima, come centinaia di altri interpreti. Il poligrafo ha notato una sospetta alterazione del respiro, le emozioni che muovevano gli aghi sul diagramma indicavano un livello di stress non compatibile con gli standard richiesti, sul grafico burocratico della verità il turbamento di Omid poteva rappresentare un «pericolo per la sicurezza statunitense», così da «amico dei marines» è diventato uno dei left behind, i lasciati indietro. Nei giorni della rabbia dell'aeroporto, Omid ha dormito con sua madre in una tenda per una settimana, aveva con sé solo la cartellina trasparente con le lettere di raccomandazione: «guardate qui, sono uno dei vostri, diceva ai marines che presidiavano l'ingresso». Ma non c'è stato niente da fare. Mentre i soldati decollavano via, Omid ha visto la partenza dell'ultimo volo da terra, dallo scalo in cui il caso e il caos hanno separato i salvati e gli abbandonati. Ha pianto, ha voltato le spalle all'aeroporto, ha cambiato numero di telefono e ha cominciato una vita da fuggiasco. Le sue giornate oggi hanno mantenuto una disciplina da campo militare, si sveglia, si lava e si veste come se dovesse uscire per andare alla base. Ma non ci va. Resta chiuso nella sua stanza e studia. La prova che la vita di prima c'è stata davvero è nelle lettere che non sono servite a niente e in qualche giga di memoria del suo telefono: in una foto è in uniforme, in volo su un Chinook americano verso Helmand, in un'altra abbracciato ai marines, mentre gli consegnano l'attestato di coraggio per aver salvato la vita alle forze speciali statunitensi e quelle afgane. L'ha fatto due volte, nel 2017 intercettando e facendo arrestare un membro della rete Haqqani che si era infiltrato nell'esercito afghano, e nel 2019, traducendo delle conversazioni di un gruppo di talebani sotto controllo nel distretto di Kabul 10, che stavano organizzando un attacco kamikaze all'ambasciata statunitense. Ecco perché, quando i taliban lanciavano un attacco contro gli eserciti occidentali nei villaggi, il mandato era uccidere per primi i traduttori, ed ecco perché, quando hanno preso Kabul, prima di punire gli altri nemici, le minoranze religiose ed etniche, i giornalisti e le donne, hanno cercato gli interpreti: perché erano la bocca e le orecchie degli americani, le spie degli occupanti, peccato più esecrabile dell'apostasia. I taleban non hanno perdonato loro di essere stati il ponte tra le forze di occupazione e la comunità, lo stesso ponte di cui per vent' anni le forze di occupazione hanno sottovalutato l'importanza. Gli americani combattevano contro i gruppi terroristici, inauguravano scuole e cliniche, costruivano strade, pozzi e parvenze di istituzioni nel tentativo di conquistare le menti e i cuori delle persone, senza sapere però per quali valori battessero quei cuori e quali tradizioni proteggessero le menti. Così, quando Omid oggi, nelle sue giornate fatte di niente, riflette su quale sia stato il principale errore degli occidentali, non parla di tattiche e strategie militari, dice piuttosto che nelle conversazioni che aveva coi soldati mancasse il cuore del problema, la cosa più difficile da tradurre: la cultura della diversità. «Con la forza delle armi puoi conquistare qualche chilometro quadrato ma è con l'autorevolezza e il rispetto dei valori altrui che la trattieni», dice. È anche per questo che gli Stati Uniti e gli alleati hanno perso la guerra afghana, perché insieme alle nozioni geografiche, alle catene montuose in cui si nascondevano i taleban, alle traiettorie seguite dall'Isis Khorasan sulla strada che unisce Kabul a Jalalabad e Jalalabad al Pakistan, era necessario costruire un'alfabetizzazione culturale, sapere che non si rifiuta mai una tazza di tè verde in una casa afghana perché è lì che scorre l'ospitalità, che in un villaggio rurale rivolgersi direttamente a una donna equivalga a violare gravemente una rigida norma di comportamento, che non si tenda la mano per salutarle, ma che in segno di riguardo si porti la mano al petto, chinando leggermente il capo, che scambiarsi versi del Corano, a mo' di saluto, sia tradizione condivisa e non estremismo religioso. Così per vent' anni gli afghani e le forze di occupazione hanno parlato lingue tra loro intraducibili, da un lato quella della società afghana che vedeva le sue campagne trasformate in campi di battaglia, le case disintegrate, i campi inutilizzabili, i figli e i mariti feriti, amputati o morti, dall'altro quella delle truppe di combattimento prima sempre più corazzate poi sempre più in ritirata, nelle basi militari blindate per paura di essere attaccate o nella Green Zone, fortino e altare dell'occupazione. Per gli afghani delle campagne, l'unico contatto con l'Occidente è avvenuto così, parlando lingue che non si sono mai comprese, mentre i taleban raccoglievano consensi, tra i due mali - ha cominciato a pensare la gente - meglio il minore, quello che almeno conosce la cultura della comunità. In mezzo lo sforzo vano degli interpreti come Omid, i ponti tra le culture, i traditi, i lasciati indietro».
UCRAINA, “LA GUERRA È ALLE PORTE”
Sul Foglio internazionale, lo storico Niall Ferguson spiega che il Presidente russo Vladimir Putin vuole l’Ucraina per ricreare non l’Unione sovietica ma il Paese che fu dello zar. La tesi di fondo è che, se Putin dovesse invaderla, l'Ucraina non riceverebbe alcun aiuto militare rilevante dall'Occidente. Ci saranno le solite sanzioni. Ma il costo di queste sanzioni sarà più alto per gli europei che per gli americani, e non sarà abbastanza alto per la Russia da contenere Putin. Gregorio Sorgi, figlio d’arte.
«“La guerra sta arrivando - e sarà una non- così- grande guerra del nord. Non siate distratti dall'ultima conversazione tra il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo americano Joe Biden, e dalla promessa di proseguire i negoziati a gennaio. Quando un partito vuole la guerra, questo genere di attività diplomatica spesso continua fino a poche ore prima dell'inizio dello scontro. Non dobbiamo farci illusioni: Putin è intenzionato a entrare in guerra con l'Ucraina”. Così inizia l'articolo su Bloomberg di Niall Ferguson sulle ambizioni del presidente russo. Lo storico si sofferma su un lungo saggio scritto da Putin lo scorso luglio, in cui sosteneva che l'indipendenza ucraina fosse un'anomalia storica. Secondo Ferguson, l'ambizione di Putin è assorbire l'Ucraina seguendo l'esempio dell'Anschluss dell'Austria a opera della Germania nazista. Nell'ultimo anno, il presidente russo ha delineato più di una volta le "linee rosse" della sicurezza russa. Il 17 dicembre Putin ha dato un ultimatum di fatto alla Nato, ponendo alcune condizioni: l'alleanza non deve fare entrare nuovi membri, inclusa l'Ucraina; gli Stati Uniti e la Nato non devono collocare missili a corto o medio raggio in prossimità del territorio russo; gli Stati Uniti non devono posizionare armi nucleari al di fuori dei propri confini; l'alleanza non deve dispiegare armi o truppe nei Paesi membri che si sono uniti dopo il Founding Act tra Nato e Russia del maggio 1997. Questo include tutti i Paesi un tempo appartenenti al Patto di Varsavia, come la Polonia e le ex Repubbliche sovietiche dei Paesi baltici. Bisogna ammettere che alcune delle richieste russe sono in linea con gli accordi firmati tempo fa con la Nato, mentre altre sono improponibili. Ad esempio, è improbabile che la Nato rinunci alla promessa di fare entrare l'Ucraina e la Georgia nell'alleanza. Nel loro insieme, le linee rosse di Mosca equivalgono a una "nuova Yalta" che darebbe alla Russia una sfera di influenza che si estende fino alle ex Repubbliche sovietiche dell'est Europa. Vale la pena discutere queste richieste solo se la Russia offre in cambio qualcosa di importante - ad esempio, il ritiro delle sue truppe dal territorio ucraino. Ma Putin non ha alcuna intenzione di fare concessioni. Sta preparando il casus belli. Secondo Ferguson, molti commentatori occidentali credono erroneamente che l'obiettivo di Putin sia quello di ricreare l'unione sovietica, citando il suo famoso commento del 2005: "Il crollo dell'impero sovietico è stata la più grande catastrofe geopolitica del secolo". A giudicare dalla ferocia con cui il regime ha messo al bando l'organizzazione Memorial, che si occupa di preservare la memoria storica dei crimini commessi dal sistema sovietico, è chiaro che Putin sente ancora un certo attaccamento a quel passato. Tuttavia, il presidente russo non sogna di fare tornare il suo Paese ai tempi all'Unione Sovietica di Stalin, ma a quelli dell'impero russo di Pietro il Grande. Il presidente ha espresso questa convinzione in un'affascinante intervista nel 2019 con Lionel Barber, l'allora direttore del Financial Times. "Una torreggiante statua di bronzo svetta sulla scrivania del suo ufficio", ha scritto Barber. Lo Zar Pietro I è il "leader preferito" di Putin. "Lui vivrà - ha detto il presidente - finché la sua causa sarà viva". "Per capire cosa volesse dire Putin bisogna tornare indietro di tre secoli, ai tempi della Grande guerra del nord (1700- 1721). All'epoca la potenza militare dominante nell'europa del nord non era la Russia ma la Svezia, sotto la guida del più straordinario leader vichingo, Carlo XII", scrive Ferguson, che si sofferma sulla battaglia di Poltava del 1709, in cui Pietro il Grande sconfisse la Svezia e conseguì la sua vittoria militare più importante. La città di Poltava si trova a duecento miglia a sud di Kiev, nei territori contesi vicino Luhansk e Donetsk che sono oggi occupati dai separatisti filo-russi. Il mito della battaglia di Poltava, in cui lo zar riuscì a sopravvivere miracolosamente, è tuttora vivo. Basta pensare che i soldati russi ancora riascoltano il discorso di motivazione dello zar al suo esercito prima di andare in battaglia. "Questa storia ispira lo zar Vladimir molto di più del regno del terrore di Stalin - sostiene Ferguson - che verrà sempre associato nella testa degli ucraini all'holodomor, una carestia indotta dal collettivismo sovietico (...). Putin è solamente un sognatore quando si vede come l'erede di Pietro il Grande? Non necessariamente". La Russia ha dei grandi punti di forza: la sua popolazione è aumentata ogni anno dal 2009 al 2020. Vero, il suo prodotto interno lordo è un quinto di quello americano ma la storia dimostra che non bisogna essere Golia per iniziare una guerra. Inoltre, per quanto gli ucraini siano disposti a combattere per il proprio Paese, non hanno grandi possibilità di resistere senza l'aiuto esterno. Ma purtroppo, sostiene Ferguson, nessuno sembra volere aiutare. Per anni i governi ucraini hanno provato a entrare nella Nato e nell'Unione Europea, senza alcun successo. Il motivo ufficiale per cui l'Ucraina non può entrare nell'Ue è che ancora non rispetta i criteri di accesso. Il timore reale dei governi comunitari è quello di fare entrare nel club un'altra autocrazia semi illiberale che può fare sponda con Polonia e Ungheria, e ostruire il processo di integrazione. La tesi di fondo di Ferguson è che, se Putin dovesse invadere, l'Ucraina non riceverà alcun aiuto militare rilevante dall'Occidente. Infatti l'8 dicembre il presidente americano Biden ha escluso l'invio di truppe americane, e la Casa Bianca ha posticipato la consegna di equipaggiamenti militari a Kiev nel timore di provocare Putin. Quindi cosa intende Biden quando sostiene, come ha detto a Putin alcune settimane fa, che gli Stati Uniti "risponderanno in modo deciso se la Russia invaderà ulteriormente l'Ucraina"?. Il 7 dicembre la sottosegretaria di stato agli affari politici, Victoria Nuland, ha detto al Congresso che gli Stati Uniti e l'Ue stanno preparando delle "misure per il giorno uno, misure per il giorno cinque e misure per il giorno dieci". Non è entrata nei dettagli delle sanzioni, ma ha detto che finiranno per "isolare la Russia completamente dal sistema finanziario globale". Questo probabilmente significherebbe, tra le altre cose, cancellare Nord Stream 2, sanzionare il debito sovrano russo sul mercato secondario, punire le banche di Stato e limitare le conversioni tra rublo e dollaro. "Queste sanzioni sarebbero molto più dure di ciò che è stato imposto nel 2014 ( dopo l'annessione della Crimea, ndt). Tuttavia, le misure impatterebbero seriamente sulla Russia ma avrebbero delle conseguenze molto gravi anche per l'Occidente. Questo la Russia lo sa bene, specialmente dopo che le sanzioni del 2018 sulla compagnia di alluminio United Co. Rusal International PJSC hanno sconvolto il mercato globale dell'alluminio, e costretto gli Stati Uniti a fare marcia indietro. Il tallone d'Achille della strategia occidentale è, ovviamente, la dipendenza dell'Unione Europea dal gas naturale russo, che rappresenta il 43 per cento delle importazioni totali di gas nell'Ue nel 2020. Il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno incontrato di recente il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e ribadito le solite promesse sulle "enormi conseguenze" e sui "costi severi" di un'eventuale azione militare russa ai danni dell'Ucraina. Ma questa retorica dura è stata indebolita dall'ambizione di Scholz - espressa nel suo primo discorso da Cancelliere - di dare vita a una nuova Ostpolitik, un'allusione alla strategia del cancelliere della Germania dell'ovest Willy Brandt di normalizzare i rapporti tra la Repubblica federale e il blocco sovietico. La non- cosí- grande Guerra del nord che sembra stia per scoppiare sarà asimmetrica per molti versi. Le forze russe probabilmente sconfiggeranno le difese ucraine. L'Occidente reagirà all'azione sul campo con delle sanzioni finanziarie. Ma il costo di queste sanzioni sarà superiore per gli europei che per gli americani, e non sarà abbastanza alto per la Russia da contenere Putin. Per farla breve, è difficile vedere delle circostanze più propizie per quella che sarebbe finora la mossa più audace di Vladimir. Qualche altra settimana di chiacchiericcio diplomatico non cambierà nulla. "Temo che la guerra sia alle porte - conclude Ferguson -. E non sarebbe la prima volta per l'ucraina e i suoi vicini, una parte del mondo che lo storico di Yale Timothy Snyder ha giustamente chiamato le ' Terre Insanguinate' ( Bloodlands) per via degli orrori a cui a cui sono state sottoposte negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Tuttavia, non è questa l'epoca storica a cui pensa per primo Vladimir Putin. Non vi stupite se i festeggiamenti per la vittoria avessero luogo a Poltava"».
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