La lezione tedesca
Meloni-Giorgetti blindano i conti: forse 1-2 miliardi alla Sanità. La Germania punta sul welfare per combattere la crisi. Sepolto Prigozhin, mancano le reclute a Mosca e a Kiev. Il cinema a Venezia
L’esame ravvicinato dei conti pubblici è cominciato. La coppia Meloni-Giorgetti vuole evitare l’assalto alla diligenza e soprattutto cerca di disinnescare le riforme, come quelle su autonomia e pensioni, che non possono essere finanziate in questa fase. Oltre al cuneo fiscale, invece, si interverrà probabilmente sulla sanità che ha sicuramente bisogno di nuovi finanziamenti. Si riuscirà a tenere a freno le pretese di alleati e vice premier? Meloni rassicura tutti, e soprattutto imprenditori e mercati, in una lunga intervista con Maria Latella del Sole 24 Ore. Dove fra l’altro conferma gli ottimi rapporti con la Cina. Per ora lo spread promuove i primi passi del governo in un autunno che sarà comunque difficile per i conti pubblici. Le scadenze sono fissate: entro il 27 settembre ci dovrà essere la presentazione della Nadef, la nota di aggiornamento del Def, mentre entro il 20 ottobre andrà varata la legge di Bilancio. Il segretario della Cgil Maurizio Landini scrive alla premier, chiedendo un incontro con le parti sociali, mentre il Manifesto esalta la linea scelta dal governo del cancelliere Olaf Scholz: più welfare per contrastare la recessione in Germania. Una linea che potrebbe essere di buon auspicio anche in vista delle trattative europee sul nuovo Patto di stabilità. I ministri della Difesa e degli Esteri si riuniscono, in modo informale, al Consiglio d’Europa proprio in queste ore ed è il primo appuntamento dopo la pausa di Ferragosto.
Oggi fra i ministri a Bruxelles si parlerà soprattutto di guerra in Ucraina, com’è fatale. Dopo l’apertura di Volodymyr Zelensky alla “soluzione politica”, da Kiev è partita una raffica di critiche e insulti a papa Francesco, prendendo a pretesto una frase detta da Bergoglio coi giovani russi e di cui peraltro la Sala stampa della Santa Sede ha chiarito il senso. Il Ministro degli Esteri ucraino da Parigi, nel giorno dei funerali di Prigozhin, ha detto che chi tratta con Mosca muore. Il Corriere, Il Foglio e La Stampa fanno oggi da risonanza alla propaganda ucraina. L’impressione è che si voglia riequilibrare le frasi del presidente ucraino, in senso bellicista e che quindi si tiri il Papa per la stola. La realtà dei fatti, come scrive Avvenire, è che c’è un’enorme “stanchezza delle armi”. A Mosca non ci sono più reclute e anche a Kiev “il nazionalismo non smuove più i giovani, nemmeno in Ucraina: la guerra fa paura”. Anche per questo una soluzione politica appare più vicina.
In Italia fa discutere un commento del giornalista mediaset Andrea Giambruno, compagno della premier, sulla brutta storia dello stupro di Caivano. Ieri sera (vedi Foto del giorno) c’è stato un corteo organizzato da don Maurizio Patriciello che aspetta, per domani, la visita della stessa Meloni. Un altro parroco, quello di Tor Bella Monaca, è oggetto di cronaca, perché colpito da un attentato. Buone notizie invece dal Pakistan, dal quale sarà estradato il padre della giovane Saman, uccisa a Novellara.
La Versione si conclude con una cronaca dalla Mostra del Cinema di Venezia, ai nastri di partenza. Dal prossimo anno a dirigerla potrebbe essere Pierangelo Buttafuoco.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae un momento del corteo di ieri “in sostegno e solidarietà alle vittime dello stupro” di Caivano cui ha partecipato don Maurizio Patriciello, il parroco anti-clan che ha invitato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La premier arriverà giovedì.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Ancora calcoli sui conti pubblici alla ripresa autunnale. Il Corriere della Sera aggiunge un capitolo: Conti, la sfida della Sanità. Il Quotidiano Nazionale fa un elenco: Manovra, tagli a bonus e agevolazioni. La Repubblica denuncia: Il diktat della Lega. La Stampa sottolinea lo stop agli incentivi: Superbonus, 30 miliardi bloccati. Il Messaggero è ottimista: Pensioni minime, c’è l’accordo. Mentre Il Giornale mette l’accento sulle spese per l’accoglienza: La manovra dei migranti. Il Domani avverte: Tutte le promesse infrante di Meloni. Il governo vuole dare la colpa alla Ue. Il Manifesto offre un focus sulle scelte coraggiose del cancelliere Scholz, che punta sul welfare per contrastare la recessione: Italia-Germania 0 a 3. Mentre La Verità sostiene: Effetto leggi green nelle tasche, le nostre case valgono già meno. Da destra e da sinistra c’è anche chi dedica il titolo principale al compagno della premier, come Libero: Quanti ubriaconi contro Giambruno. E, dall’altro versante, Il Fatto: Giambruno non si scusa e inguaia Meloni a Caivano. Il Sole 24 Ore annuncia: Intelligenza artificiale, arriva il fondo. Mentre Avvenire è centrato sulla guerra in Ucraina: Stanchi delle armi.
LA MANOVRA BLINDATA, SPAZI PER LA SANITÀ
Prima il Def, poi la legge di bilancio. I conti blindati dal Tesoro: spazi per la sanità oltre al cuneo fiscale. Meloni punta a un intervento da 1-2 miliardi nell’area della Salute. Il punto è di Federico Fubini sul Corriere della Sera.
«Da mesi i responsabili del Tesoro ripetono agli investitori esteri nel debito italiano — attuali e potenziali — gli stessi due argomenti. Il primo è che il calo del deficit disegnato nell’ultimo Documento di economia e finanza (Def) del governo garantisce il rispetto delle regole di bilancio europee, qualunque esse siano. Secondo, il sistema politico attraversa una congiuntura rara: per una volta in Italia la maggioranza che ha approvato quegli obiettivi, salvo sorprese, sarà ancora schierata in parlamento a sostegno del governo fra cinque anni; dunque gli impegni dovrebbero diventare più credibili. Se questi sono i messaggi per ancorare il finanziamento del debito italiano, l’ordine dei fattori per la legge di bilancio si inverte rispetto al dibattito fra i partiti con le loro mille proposte: prima vengono le grandezze di deficit e debito da rispettare nel 2024; dopo le misure compatibili con quelli. Incluso un intervento per la sanità — se ci saranno le risorse — dato che questa sembra essere una priorità della premier Giorgia Meloni, accanto alla conferma del taglio del prelievo in busta paga sui redditi medio-bassi. Tutto, per ora, resta subordinato alla tenuta della finanza pubblica. Non a caso il passaggio che apre la sessione di bilancio è la nota di aggiornamento al Def, a fine settembre. Quella dovrebbe diventare la griglia entro la quale scrivere la manovra. Il Tesoro non dispone ancora di tutti i dati su entrate, spese e andamento dell’economia, ma il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti sembra deciso a confermare gli obiettivi del Def: deficit pubblico in calo al 4,5% del prodotto lordo quest’anno, al 3,7% il prossimo e al 3% nel 2025; debito in calo (lentissimo) al 140% nel 2026. Sono i numeri lasciati in eredità dal governo di Mario Draghi, in apparenza. Nella sostanza non è proprio così: con le nuove regole europee sulla classificazione dei crediti d’imposta da bonus-casa, il governo ha potuto spostare sugli ultimi anni 90 miliardi di deficit che invece erano stati previsti dal governo Draghi per i prossimi anni; dunque è stato scaricato sul passato molto disavanzo che il governo Meloni avrebbe dovuto registrare fra il 2023 e il 2026. Ma dato che le attese di disavanzo per il presente e il futuro sono rimaste uguali, di fatto l’attuale governo si è ricavato uno spazio per 90 miliardi di maggiori spese o minori entrate in più per i prossimi anni; di fatto è stato un aumento netto di deficit. In politica economica i simboli comunque contano e la conferma apparente dei numeri di Draghi ha un suo potere sui mercati. Tanto più che almeno per ora Giorgia Meloni sembra condividere la griglia di Giorgetti. Tra l’altro, proprio lo sbandamento di mercato e le critiche internazionali dopo il decreto sugli «extraprofitti» delle banche potrebbero aver rafforzato il ministro dell’Economia nel governo. Nota Federico Santi, analista per l’Europa dello Eurasia Group fondato e diretto da Ian Bremmer: «La débâcle (del decreto, ndr ) probabilmente ha dato un po’ più di margini di manovra a Giancarlo Giorgetti, che si era opposto alla tassa sulle banche ed era stato messo in minoranza dai leader di partito e dal Consiglio dei ministri». Tutto questo naturalmente deve ancora sopravvivere alle prove dei prossimi mesi: il negoziato sulle regole di bilancio europee, la ratifica attesa del Meccanismo europeo di stabilità, il rischio evidente di una recessione in Italia, l’avvicinarsi delle campagna per le europee. Le tentazioni di uscire dal binario dei simbolici numeri di Draghi, per Meloni, non mancheranno. Per ora gli obiettivi di deficit sembrano lasciare spazio quasi solo a un impegno da otto miliardi di euro circa per confermare il taglio dei prelievi in busta paga e, se possibile, per uno o due miliardi di spesa in più sulla sanità. Su questo, Meloni deve ancora decidere se orientare eventualmente l’impegno verso il fondo sanitario nazionale — per il funzionamento del sistema — o sul rinnovo dei contratti. Di certo i vincoli non vengono solo dall’Europa. Con il ritiro progressivo della Banca centrale europea dai mercati, l’aumento netto dei titoli di debito su cui il Tesoro deve trovare compratori sui mercati sarà attorno ai 120 miliardi quest’anno e ai 130 il prossimo. Il massimo da quando c’è l’euro. Gli sherpa italiani, per dormire tranquilli, hanno bisogno di coerenza fra i loro messaggi e la realtà sul terreno della politica».
MELONI AL SOLE 24 ORE: “UTILIZZIAMO MEGLIO LE RISORSE”
Intervista di Maria Latella al presidente del Consiglio, che dice: «Sulla Via della Seta discuteremo in Parlamento, senza effetti sui rapporti commerciali. Per investimenti e Patto di stabilità parleremo con tutti i Paesi, Germania compresa. In vista delle europee ci si differenzia ma nessuno metterà a repentaglio il Governo». L’integrale è nei pdf.
«Presidente Meloni è tornata da poco da un viaggio ufficiale alla Casa Bianca, a luglio, e a settembre tornerà a New York per il vertice Onu. Molti sono sorpresi per il rapporto instaurato con gli Stati Uniti, il presidente Biden è democratico mentre lei guida un esecutivo di destra. Come lo spiega e come vede questi mesi a venire, con gli Usa già in campagna elettorale per le presidenziali del 2024?
«È troppo presto per parlare della campagna elettorale americana. Per quel che concerne i rapporti con i presidente degli Stati Uniti, a me stupisce che stupisca il fatto di avere buone relazioni. Possono sorprendersi quelli che considerano la politica estera uno strumento per rafforzare il proprio partito. E ne ho visti di politici così, quelli che all’occorrenza, quando avevano problemi interni, chiedevano soccorso agli altri governi politicamente affini. Ma la politica estera è un’altra cosa, io la vedo diversamente. La politica estera non si fa per rafforzare il proprio partito, si fa per rafforzare la propria Nazione. Per questo bisogna dialogare con tutti, in particolare con gli alleati ovviamente. Gli Stati Uniti sono tra i nostri principali alleati, lo sono da sempre, storicamente e indipendentemente dal mutare dei governi. Poi, certo, le relazioni sono facilitate se si racconta un’Italia affidabile, capace anche di dire “no” se necessario, ma leale, un atteggiamento nel quale non c’è trucco e non c’è inganno. Certo che questo facilita le relazioni. Più sei serio, affidabile, più puoi chiedere affidabilità. Con Biden è stato ancora più facile, il presidente ama l’Italia, la conosce, sua moglie è di origine italiana. E non dimentichiamo quanto è numerosa la comunità italoamericana».
Ha già incontrato il nuovo ambasciatore Markell vero?
«L’ho conosciuto a Washington, al ricevimento che è stato dato in ambasciata durante il mio viaggio americano. E so che è arrivato a Roma da qualche giorno. È stato nominato proprio durante la mia visita alla Casa Bianca e anche questo è un segnale da apprezzare».
Rapporti meno fluidi si prospettano invece con la Cina. L’accordo sulla Via della Seta non verrà rinnovato. Come pensa di tenere insieme le due cose, una buona relazione commerciale con Pechino mentre dice no alla loro più pressante richiesta?
«Intanto non prevedo che il nostro rapporto con la Cina diventi complicato. Tra Roma e Pechino le relazioni sono antiche e ci sono grandi e reciproche convenienze, non solo in ambito commerciale. Penso ad esempio che la Cina possa essere un ottimo partner per il lusso italiano. Al di là dell’accordo sulla via della Seta, su cui le scelte andranno meditate e discusse in Parlamento, non c’è una relazione diretta tra quella firma e le relazioni commerciali. Il paradosso è che siamo l’unico Paese del G7 ad aver aderito alla Via della Seta ma non siamo affatto il Paese del G7 o il Paese europeo col maggior interscambio con la Cina. Il che dimostra come non ci sia un nesso tra le due cose. Ne parleremo con serenità ed amicizia con il governo cinese e sono convinta che i nostri rapporti continueranno ad essere solidi».
A proposito di rapporti, come vanno quelli con Forza Italia? La decisione da lei rivendicata di tassare gli extraprofitti delle banche non è piaciuta al vicepremier Tajani, e non solo a lui, in Forza Italia.
«Sul piano politico mi sono assunta la responsabilità della decisione. Non ho coinvolto gli alleati perché quando si interviene su queste materie bisogna farlo e basta. Chiaramente comprendo le difficoltà dei partiti di maggioranza ma con loro l’ho chiarito subito. Del resto, lavoro benissimo con Antonio Tajani, è molto capace e molto serio. Così come lavoro bene con Matteo Salvini. Gli alleati troveranno in me una persona sempre disposta ad ascoltare le loro richieste. Il centro destra è bello perché è composito».
Non solo Tajani. Tassare gli extraprofitti delle banche è una misura che non è piaciuta al Financial Times, a The Economist e ad altri media anglosassoni. Titolo “Giorgia Meloni non è poi così moderata”. Dopo gli iniziali apprezzamenti ricevuti nei mesi scorsi da FT e non solo, sono arrivate le critiche per scelte considerate poco liberali.
«Il profitto è chiaramente il motore di un’economia di mercato. Ma questo vale quando il profitto deriva dall’intraprendenza imprenditoriale. Cosa diversa è quando registriamo profitti frutto di rendite di posizioni. Gli extraprofitti delle banche sono il frutto della decisione della Bce di alzare il tasso di interesse. Gli istituti di credito hanno adeguato con grande tempestività gli interessi attivi, quelli relativi, per esempio, a un mutuo. Gli interessi passivi, invece, li hanno lasciati invariati. Tassare quel margine è una cosa di buon senso. Non c’entra con certi commenti che ho letto, “volete tassare la ricchezza guadagnata”. No. Io non tasserò mai il legittimo profitto imprenditoriale e agirò sempre per aiutare a creare ricchezza. Però non intendo difendere le rendite di posizione». (…)
A proposito del momento difficile che riguarda tanti italiani. Nel primo Consiglio dei ministri dopo le vacanze lei ha anticipato che la manovra dovrà prevedere dei risparmi. Si al taglio del cuneo fiscale, si ai provvedimenti per le famiglie, ma operare sulle pensioni, segnatamente su Quota 41, costerebbe troppo e non si farà.
«In Cdm non ho parlato di risparmi ma di miglior utilizzo delle risorse e comunque è presto per anticipare le misure. Ne stiamo ancora discutendo col ministro dell’Economia e con i ministri. Tra gli obiettivi, comunque, sì, c’è sicuramente quello del taglio del cuneo fiscale».
Se è presto per parlare di manovra, non lo è per capire che fine faranno le aspettative di riforma del Patto di stabilità. In molti e da più parti si augurano che Italia, Francia e Spagna facciano fronte comune. Con Macron e Sanchez vi vedrete più volte nei prossimi mesi. Al G20 di Nuova Delhi, a Granada nel pre Consiglio europeo e poi a Bruxelles. Pensa che riuscirete a farlo partire, questo tanto evocato fronte comune?
«Tra noi tre, Italia, Francia e Spagna, ci sono molte convergenze. Ma come dicevo prima a proposito della politica internazionale, io credo che si debba parlare con tutti. Se l’Europa non fosse miope dovrebbe capire che non puoi chiedere ai vari Paesi di puntare sugli investimenti e poi non riconoscerne il valore. Dov’è la coerenza? Come si fa a non considerare nel patto di stabilità gli investimenti nella transizione ecologica, nella difesa, nei progetti che ci siamo dati? È una domanda che pongo in generale. Ed è un tema sul quale cercheremo di costruire la più ampia convergenza possibile. Anche oltre la Francia, l’Italia, la Spagna. Bisogna parlare con tutti. Con i Paesi dell’Est Europa e anche con la Germania, certo. L’idea che si debba parlare solo con gli amici non è la mia. Io parlo con tutti». (…)
Lei cita spesso i governi del passato. Elly Schlein però nel Pd degli anni scorsi non c’era e nemmeno nei governi del passato. Quest’estate Schlein ha colto un obiettivo molto popolare e molto sentito, scegliendo il salario minimo come tema su cui incalzare voi. Voi che al governo siete ora.
«Questo è un governo che nei primi sei mesi ha già tagliato il cuneo fiscale per i redditi più bassi, figuriamoci se per me il tema dei salari non è prioritario. Ho dato mandato al Cnel perché si ragioni su una proposta che tenga conto di salari inadeguati, che certamente esistono, senza peggiorare le condizioni di chi è già pagato nove euro l’ora o anche oltre. Sono molto colpita per il fatto che l’opposizione, dopo aver governato per dieci anni, ripeto dieci anni, consideri oggi il salario minimo la panacea di tutti i mali. Perché non l’hanno fatto prima, mi chiedo. E perché non dicono dove troverebbero le coperture. Onestà vorrebbe che quando indichi un provvedimento, segnali anche dove trovare i soldi. Ciò detto, il timore è che il salario minimo posa indurre molte aziende ad uscire dalla contrattazione nazionale. Sarebbe paradossale peggiorare i salari di chi già ora guadagna più di nove euro. Credo che il Cnel sia il posto giusto per cercare una soluzione».
Nel Consiglio dei ministri di lunedì avete preso decisioni anche sulla questione sbarchi. I sindaci non sanno più come gestire l’arrivo di migranti. Il presidente della Repubblica auspica “ingressi regolari ed in numero ampio”. Lei vedrà a breve il premier greco ad Atene e immagino parlerete di migrazioni. Le chiedo: tutti questi viaggi, tutti questi contatti, penso alle sue ripetute visite in Nord Africa, serviranno a qualcosa?
«Io spero di sì perché sto indirizzando lì gran parte delle mie energie. Io penso..., no io sono convinta, che l’unico modo per agire strutturalmente sul problema sia discuterne con i Paesi del Nord Africa. E coinvolgere l'Europa nel suo complesso. Il cambio di passo c’è perché oggi la Ue discute prima di come contrastare l’immigrazione illegale sulle rotte mediterranee e poi di come distribuire i migranti. Negli anni passati si discuteva solo di quest’ultima parte. È un lavoro enorme, lungo. Che alla fine ci darà ragione. Ma intanto stiamo subendo una pressione fortissima e capisco che gli italiani chiedano risposte immediate. Per questo ho deciso di dare piena applicazione al decreto Cutro, in tema di rimpatri. Porteremo nuove norme ma credo che serva un coordinamento maggiore nel governo, sia sul piano nazionale che internazionale. Per questo lunedì ho convocato permanentemente il Comitato per la sicurezza pubblica».
LANDINI SCRIVE A MELONI: 6 RICHIESTE
Contro-manovra della CGIL. Maurizio Landini scrive a Giorgia Meloni e chiede un vertice su salari, pensioni e precarietà con «le parti sociali più rappresentative». Enrico Marro per il Corriere.
«Rinnovo dei contratti; aumento di salari e pensioni; una legge sulla rappresentanza e una per introdurre il salario minimo; superare la precarietà; un piano straordinario di assunzioni nel settore pubblico. Sono le sei rivendicazioni della Cgil contenute nella lettera inviata alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, dal segretario generale, Maurizio Landini, con la richiesta di una convocazione a Palazzo Chigi delle parti sociali «più rappresentative». Insomma, quasi una contromanovra che la Cgil vuole discutere con la premier prima che l’esecutivo proceda con la sua di manovra. A leggere la piattaforma sintetizzata nella lettera di Landini sembra quasi che il leader voglia marcare le distanze col governo per rafforzare la manifestazione nazionale che la Cgil ha già proclamato insieme con un centinaio di associazioni (da Acli, Anpi, Arci fino al Wwf, passando per Emergency e la Rete degli studenti) per il 7 ottobre a Roma sotto lo slogan: «La Via Maestra. Insieme per la Costituzione». Una scelta di movimentismo che ha allontanato la Cgil dalla Cisl di Luigi Sbarra, contrario a mischiare il sindacato con iniziative che giudica funzionali all’opposizione politica, e alla quale non partecipa neppure la Uil, che pure negli ultimi tempi è andata molto d’accordo con la Cgil. Tuttavia Landini non teme l’isolamento. E ha recentemente annunciato che la Cgil è pronta a raccogliere le firme per un referendum abrogativo del Jobs act (governo Renzi) e delle altre leggi che avrebbero favorito l’aumento del lavoro precario. Nella lettera a Meloni il segretario della Cgil elenca nel dettaglio le sei richieste, chiedendo su queste un «confronto negoziale», facendo quindi capire che non accetterà di essere informato all’ultimo momento, ma che vuole condizionare le scelte del governo. Solo che già per soddisfare le prime due richieste, «la crescita del potere di acquisto di salari e pensioni e il rinnovo dei contratti di lavoro pubblici e privati» servirebbe qualche decina di miliardi: 8 solo per i contratti del pubblico impiego sui quali le categorie di Cgil, Cisl e Uil, questa volta unite, sono pronte alla mobilitazione. Landini chiede di «inserire nella legge di Bilancio» le risorse necessarie, ma è noto che il governo già fatica a trovare i 10 miliardi per confermare il taglio del cuneo. Poi ci sono le altre quattro richieste, che già si sa Meloni non condivide politicamente: dalla legge sulla rappresentanza sindacale al salario minimo per legge, dal cambiamento delle leggi sul lavoro a un «piano straordinario di assunzioni in tutto il settore pubblico comprensivo della stabilizzazione» dei precari, misura, quest’ultima, che avrebbe di nuovo elevati costi per il bilancio. L’iniziativa di Landini è invece guardata con attenzione e interesse dai partiti di sinistra e dal Movimento 5 Stelle. Significativo il commento della segretaria del Pd, Elly Schlein alla lettera del leader della Cgil: «Noi saremo col sindacato in questa direzione, naturalmente aperti all’ascolto e al confronto. Condividiamo la forte preoccupazione sulla precarietà del lavoro in Italia, che ha toccato livelli assurdi. Seguiremo con grande attenzione le iniziative del sindacato».
LEGA, ADDIO ALLE BANDERINE
Manovra avara per il Carroccio: non ci sono risorse per coprire i livelli essenziali di prestazione, necessari alla legge sull’autonomia. Stop pure a Flat Tax e superamento della Fornero. “Forse troveremo qualche risorsa per le accise”. Matteo Pucciarelli per Repubblica.
«Di manovra non si parla, l’unico titolato è il segretario federale e vicepremier Matteo Salvini. E le indiscrezioni e retroscena che filtrano dalle parti di Giancarlo Giorgetti, che invita tutti a tornare coi piedi per terra? «Ha i cordoni della borsa, è l’unico che può fare qualche deroga...», rispondono da via Bellerio. La Lega di lotta — ormai tanto tempo fa — e di governo si appresta a vivere il percorso della legge finanziaria un po’ com’era stato l’anno scorso: con qualche mal di pancia, con una serie di sconfitte sul campo, ma con la sempiterna promessa dell’autonomia differenziata da agitare come vessillo. Superamento della legge Fornero, taglio delle accise su benzina e diesel, soldi per il Ponte sullo Stretto, flat tax: la lista dei desideri e delle promesse è lunga, parole d’ordine peraltro di antichissima data, il referendum del Carroccio per l’abrogazione della Fornero è datato 2014, il giornale la Padania non era stato ancora chiuso. Ma di cose da portare a casa e da rivendicarsi ce ne saranno verosimilmente poche. «Forse sulle accise un modo si troverà, daremo qualche aiuto per chi ha più bisogno, evitando una misura orizzontale. Interessa anche a Giorgia Meloni», spiega speranzoso un esponente leghista. Poi ci sono le riforme a costo zero, quelle di sistema per così dire. Il premierato interessa relativamente, il ritorno delle elezioni provinciali invece sì, e lì l’obiettivo è accorparle con le Europee. Discorso diverso invece è l’autonomia. In casa Lega ci si spertica per dire che se ne avvantaggeranno tutti e soprattutto che sarà una rivoluzione a costo zero. Per ora la stella polare leghista rimane appesa in commissione Affari costituzionali del Senato, dove il Pd ha scongiurato il voto degli emendamenti (oltre 500) prima della pausa estiva e ottenuto l’audizione del comitato tecnico sui Lep (Livelli essenziali di prestazione) che dovrebbe esserci nelle prossime settimane. Sono proprio loro il nodo su cui rischia la riforma può naufragare: è troppo oneroso garantire gli standard minimi di servizio pubblico su tutto il territorio nazionale, si parla di decine di miliardi per dare condizioni uniformi su trasporti, scuola, sanità e welfare. E se la Lega che ormai al sud ha perso gran parte del proprio consenso può serenamente tornare a mettere al centro gli interessi del nord, Fratelli d’Italia e Forza Italia temporeggiano e fanno filtrare il tema dei costi. La convinzione di Salvini e dei suoi fedelissimi è che comunque il 2024 sarà l’anno giusto per incamerare l’autonomia e alla prossima adunata di Pontida il 17 settembre, sul sacro pratone, l’obiettivo verrà presentato come ormai praticamente raggiunto. In attesa di capire come va a finire la doppia partita (manovra e autonomia), e più che altro come gestire comunicativamente una finanziaria che si preannuncia avara, ci sarà ampio spazio per i diversivi politici da pre-campagna elettorale per le Europee. L’assaggio estivo offerto dal caso Vannacci è l’esempio migliore, tanto che non a caso il vicesegretario Andrea Crippa giusto ieri ci ha aggiunto il carico: «Il generale lo aspettiamo a braccia aperte, può dare un contributo all’interno delle istituzioni». Buttarla sull’ideologia non costa nulla, e allora tra Europa cattiva per le regole di bilancio e la “burocrazia ambientalista” e le solite denunce contro il “politicamente corretto” gli argomenti per rosicchiare un po’ di consenso a FdI non mancano. Dopodiché il solco interno tra fedelissimi del capo e partito del nord-est — vedi alla voce Luca Zaia e Massimiliano Fedriga — rimane, nelle settimane scorse ci sono state plateali polemiche sul tema dell’accoglienza dei migranti. E sul congresso nazionale previsto dallo Statuto della “Lega per Salvini premier” e mai riconvocato pende l’inadempienza del fu Capitano».
CACCIA AI 2 MILIARDI RESIDUI DELL’ASSEGNO UNICO
La misura per i figli ha avuto richieste inferiori al previsto. Altri risparmi si potrebbero avere da settembre: saranno pagati importi minimi se l’Isee è difforme. Ed è “caccia “ ai fondi non impiegati. Eugenio Fatigante per Avvenire.
«Tra i faldoni che si accumulano in vista della legge di Bilancio, appare anche la voce “risparmi sull’assegno unico”. In ballo ci sono un paio di miliardi di euro (1,2 miliardi nell’ipotesi minima): si tratta dei fondi residui non spesi rispetto ai 18,6 miliardi messi a bilancio quest’anno, inclusi i 409 milioni aggiunti come copertura alle maggiorazioni volute dal governo Meloni. Si sta materializzando così il rischio che Avvenire aveva già denunciato lo scorso aprile, quand’erano stati diffusi i dati dell’Osservatorio statistico dell’Inps. Paradossalmente, nell’Italia che fa sempre meno figli le richieste per il pagamento di una prestazione sociale alle famiglie con prole, diventata finalmente universale nel 2022 (prima era legata alla posizione lavorativa, con gli assegni familiari), sono state inferiori rispetto alle somme stanziate: nel primo semestre sono stati erogati 8,28 miliardi, per una proiezione quindi di 16,6 miliardi sull’anno. I circa 2 miliardi residui sarebbero una somma considerevole per un governo alla disperata caccia di risorse. Ed ecco allora che dal Pd si alza la voce per reclamare che questi soldi non cambino destinazione. «L’assegno unico familiare ha avuto una parte di risorse non spese e questo nonostante noi abbiamo più volte chiesto al governo di cambiare i criteri, senza essere ascoltati. Ora voglio dire che quelle risorse devono comunque essere destinate alle famiglie e all’infanzia», ha scandito Elly Schlein, segretaria del partito del Nazareno. I mancati correttivi sono ricordati anche da Stefano Lepri, ex parlamentare dem e relatore della legge sull’assegno unico: «Ogni giorno - afferma - leggiamo altisonanti quanto improbabili annunci della maggioranza a sostegno della natalità. Ebbene, sarebbe bastato applicare i pochi punti del parere parlamentare al decreto legislativo, da me proposto e approvato all’unanimità in commissione, ma poi rimasto inattuato». Punti e correttivi ricordati anche dal Forum delle associazioni familiari e dal suo presidente, Adriano Bordignon. Ma il rischio rimane. D’altronde, già nel 2022 l’allora ministro Daniele Franco (governo Draghi) “dirottò” a luglio circa 630 milioni avanzati dall’assegno per i figli ad altri capitoli di spesa. Da qui il pressing per mantenere almeno lo stesso vincolo di destinazione. Avallato anche dall’Inps: «L’assegno unico è una misura giovane - hil direttore generale Vincenzo Caridi -. Eventuali avanzi possono essere reinvestiti per rendere la misura ancora più efficiente». Peraltro, la somma dei residui potrebbe anche salire. Finora l’importo dell’assegno unico era riconosciuto anche in presenza di omissioni o anomalie tra l’Isee (l’Indicatore della situazione economica del nucleo) e la Dsu, la dichiarazione sostitutiva necessaria per calcolare l’Isee. Dal 1° settembre non sarà più cosi e l’Inps ha comunicato solo ad agosto che in caso di difformità, che possono avere motivazioni molteplici e a volte banali (tipo un figlio che ha lavorato a prestazione occasionale e che ha sforato di pochi euro il tetto previsto), sarà pagato soltanto l’importo minimo previsto, ovvero 54 euro. In base a valutazioni informali fatte dai Caf, la stima di famiglie che potrebbero subire un taglio dell’importo potrebbe aggirarsi attorno al 10%. In caso di regolarizzazioni entro il 31 dicembre, le somme eventualmente spettanti verranno poi recuperate. A tutto questo si somma poi la preoccupazione del governo per il fatto che su questo strumento incombe ancora una procedura d’infrazione europea. Anche per questo motivo l’esecutivo e il dipartimento della Famiglia non intendono “esporsi” troppo, concentrando tutti i fondi (residui inclusi) sui questa voce. Da qui gli annunci su misure alternative di sostegno per le famiglie con 2 o 3 per figli».
LA GERMANIA SCEGLIE LA STRADA DEL WELFARE
Il cancelliere tedesco Olaf Scholz punta sul welfare per contrastare la recessione. Aumento del reddito di cittadinanza, aiuti a medici e infermieri, un tetto per agli affitti: la ricetta sociale per risollevare la Germania. Sebastiano Canetta per Il Manifesto.
«Per la Locomotiva d’Europa, sotto il profilo economico, è destinato ad andare tutto molto peggio delle previsioni, che infatti gli esperti devono ritoccare continuamente al ribasso per poter stare dietro all’irrefrenabile picco negativo. L’ultima mazzata sul governo Scholz è il calo del Pil del 2023 assai maggiore di quanto immaginato, appena certificato dall’autorevole istituto Ifo: 0,4% anziché 0,1%; è una notizia da brividi che dimostra quanto ancora sia lontana la Germania dall’uscita dalla recessione tecnica. Lo sanno bene i ministri della Coalizione Semaforo, riuniti al completo in klausur nel castello di Meseberg, a 65 chilometri a Nord di Berlino, per avviare ciò che il cancelliere Olaf Scholz ha battezzato come la nuova «offensiva del governo federale». Un piano di dieci punti articolato su più settori che spazia dal fisco alla nuova legge sulle opportunità di crescita destinata ad attirare investimenti a tempi di record, sempre se sarà approvata dal Bundestag. Ma il cuore dell’intervento pubblico questa volta verte quasi interamente sullo stato sociale. In testa all’offensiva di Scholz, come promesso dal ministro del Lavoro, Hubertus Heil (Spd), l’aumento del 12% dell’assegno mensile del reddito di cittadinanza agli oltre cinque milioni e mezzo di beneficiari, di cui 1,7 milioni disoccupati. A partire dal prossimo 1 gennaio la cifra di base del Bürgergeld per i single passerà dagli attuali 502 a 563 euro, mentre agli adolescenti della fascia 15-18 anni spetteranno come minimo 471 euro al mese anziché 420, ai bambini 6-14 anni 390 invece degli odierni 348, e ai minori di sei 357 invece di 318. «In questo tempo di crisi e sconvolgimenti i cittadini devono poter fare affidamento sullo stato sociale» sottolinea il ministro socialdemocratico, rivendicando la scelta di «ripresa del welfare» non solo del suo partito ma dell’intera coalizione. Heil ha vinto la battaglia contro i liberali per l’allargamento dei sussidi pubblici in cambio di 7 miliardi girati al made in Germany, ma ha perso quella sugli assegni familiari su cui è stato raggiunto un compromesso: verranno accorpati in un unico assegno di base per i figli nel 2025. Sono comunque 2,4 miliardi a copertura per il primo anno e - promette il governo - il sussidio raggiungerà anche le famiglie che finora non ne hanno fatto richiesta pur avendone diritto. Con i Verdi, invece, lo scambio politico è avvenuto sul versante della svolta ambientale: il ministro dell’Economia Robert Habeck, vice-cancelliere, incassa il premio del 15% agli investimenti per la protezione del clima e l’efficienza. Fa il paio con l’altro annuncio di ieri sempre sul fronte dell’occupazione, di cui da settimane si attendeva la conferma: il salario minimo del personale sanitario salirà da 13 a oltre 16 euro l’ora, come chiesto dai sindacati usciti vincitori dalla lunga e complessa trattativa per riequilibrare il carico di lavoro e l’inflazione che continua a erodere una parte rilevanti dello stipendio. In parallelo, con sintomatico tempismo, la dirigenza Spd fa sapere di avere messo finalmente in cantiere l’introduzione del tetto agli affitti valido sull’intero territorio nazionale sul modello del mietendeckel varato due anni fa nella Città-Stato di Berlino e poi bocciato dalla Corte costituzionale perché in conflitto con la normativa federale. Politicamente l’aumento del Bürgergeld segna il ritorno del cancelliere Scholz alla linea di sinistra concordata con la segreteria Spd fin dai tempi della sua nomina a candidato-cancelliere (da perdente delle primarie) ma è anche la risposta ai sondaggi che riflettono l’insoddisfazione per il governo da parte dei milioni di tedeschi colpiti dalla crisi. «Un passo in avanti significativo» sottolinea il ministro Heil che non si è mai spostato dal suo ufficio al ministero del Lavoro occupato fin dall’ultimo governo di Angela Merkel. Uomo-chiave della Spd e ago della «Bussola per una politica economica progressista» (come da titolo del suo libro) da sempre è un sostenitore di norme rigide per il libero mercato accompagnate dal totem della piena occupazione regolata dai contratti collettivi. Tra i suoi obiettivi futuri spicca la pensione di base più elevata dell’attuale minima, ma in passato si è distinto per la legge sui corrieri-espresso che ora obbliga il contraente a pagare loro i contributi».
PUTIN NON VA AI FUNERALI DI PRIGOZHIN
Veniamo alle ultime sulla guerra. I funerali senza onori di Evgenij Prigozhin. Il capo della Wagner sepolto in periferia a San Pietroburgo, la polizia chiude il cimitero. Fabrizio Dragosei per il Corriere da Mosca.
«Gli estimatori di Evgenij Prigozhin, e ce ne sono ancora tanti, erano convinti che gli sarebbero stati riservati onori pubblici, con un funerale di Stato e la sepoltura nel cimitero di Mytishi a Mosca, dove riposano coloro che sono stati insigniti del titolo di eroe della Russia. Creato per volere di Putin, si chiama, non a caso, «Pantheon dei difensori della patria» e vi si trovano personaggi come Aleksej Leonov, il primo cosmonauta uscito nello spazio da una navicella o la vedova di Yurij Gagarin, per rimanere nello stesso settore. Altri presidiavano dalle prime ore della mattina i più importanti cimiteri di San Pietroburgo, dove la polizia era stata schierata in forze. Il Serafimovskoye, innanzitutto, dove furono portati con ogni solennità nel Duemila i corpi dei sommergibilisti del Kursk, e dove sono anche i genitori del presidente russo. Oppure il camposanto Piskaryovskoye, con i resti di centinaia di migliaia delle vittime dei novecento giorni del terribile assedio di Leningrado tra il 1941 e il 1944. Niente di tutto questo. Per l’uomo che ha dato «un importante contributo» all’Operazione militare speciale in Ucraina, come ha ammesso Putin, esequie strettamente private. Senza picchetto d’onore, senza colpi sparati a salve. E in uno dei più insignificanti luoghi di sepoltura della città baltica, il Porokhovskoye, nell’estrema periferia, vicino a un’autostrada e a uno stabilimento chimico. Il luogo dove riposa Viktor Prigozhin, il padre di Evghenij che lui aveva appena conosciuto. In quanto al capo del Cremlino, c’è una frase lapidaria del suo portavoce Peskov: «La presenza del presidente non è prevista». L’annuncio dell’inumazione è stato dato a cose fatte dallo stesso canale Telegram che il signore della Wagner usava per i suoi proclami contro i vertici della Difesa che accusava di corruzione e inefficienza. Alle quattro del pomeriggio, secondo una testimonianza, un gruppetto di parenti, in assenza di uomini in uniforme, ha messo sottoterra quelle che dovrebbero essere le spoglie di Prigozhin. Diciamo dovrebbero perché nonostante le conferme ufficiali (è arrivata anche quella del Comitato investigativo), c’è ancora chi crede che la caduta dell’aereo dei wagneriani sia stata una messinscena per consentire all’ex cuoco di scomparire e rifarsi una vita in Africa. In serata sulla sua tomba è comparso un foglio di carta incorniciato con un brano del poeta sovietico dissidente Iosif Brodskij che parla dei dubbi della Madonna dopo la crocifissione di Gesù: «Come faccio a varcare la porta di casa… senza capire… se sei morto o vivo?». Poi la polizia ha chiuso il cimitero per bloccare il continuo afflusso di persone che portavano fiori e di curiosi. Anche in altre città della Russia continuano gli omaggi all’organizzatore della Marcia su Mosca. In mattinata si erano svolte le esequie di un’altra delle vittime di quello che viene sempre più visto come un attentato. Valerij Chekalov, il capo della logistica della Wagner, era tra i dieci occupanti dell’Embraer precipitato il 23 agosto. Putin intanto avrebbe accettato l’invito di Xi Jinping ad andare in Cina a ottobre. Sarebbe il primo viaggio all’estero dopo l’emissione del mandato di cattura internazionale nei suoi confronti da parte della Corte penale internazionale».
“NON CI SONO PIÙ RECLUTE PER LA GUERRA”
Lo stallo della guerra non è solo questione di manovre militari. C’è una grande stanchezza. «A Mosca sono in crisi gli arruolamenti», anche a Kiev è in calo la corsa alle armi, nonostante il pugno duro contro obiettori e pacifisti. Francesco Palmas per Avvenire.
«Non ci sono più reclute per alimentare la guerra». Per gli 007 norvegesi, russi e ucraini sono al capolinea. In 19 mesi di battaglie, l’Armata Rossa ha pianto non meno di 2mila ufficiali, irrimpiazzabili come i fanti, morti a migliaia. Si parla di 120-200mila caduti in tutto. Il Cremlino non sa più dove sbattere la testa. Ogni mese, gira ai volontari di truppa non meno di 5mila euro, il triplo di quanto guadagna un impiegato civile. Ma i soldi non fanno tutto. Solo i ceti delle regioni più svantaggiate della Federazione rispondono ancora all’appello: si arruolano per comprare casa e metter su famiglia, non certo per denazificare l’Ucraina o sconfiggere l’Occidente. Le retrovie sono sempre più disincantate: l’istituto sondaggistico Levada dà al 30% la popolazione ancora favorevole alla guerra. E le madri dei troppi ragazzi che non tornano a casa cominciano a insorgere. Sordo alle tante sirene d’allarme, il Cremlino fa spallucce: sta aumentando il bacino dei coscritti, l’età dei riservisti e il mercenariato militare. Le cose non vanno meglio per Kiev che, a fine luglio, è stata costretta a silurare i responsabili del reclutamento militare, intenti a trafficare esenzioni dalla leva in cambio di tangenti. Il nazionalismo non smuove più giovani, nemmeno in Ucraina: la guerra fa paura. Tutti cercano scappatoie da una morte certa e da una vita da invalidi. Chiedete ai caduti dell’ultimo giorno di scontri: i russi rivendicano di aver ucciso in 24 ore non meno di 540 ucraini. E le testimonianze di fonte occidentale parlano di un’impennata recente dei morti ucraini, tipica delle offensive claudicanti. La Bbc ha nel Donetsk l’inviato Quentin Sommerville: dai suoi reportage emergono «pile di cadaveri straziati, ricomposti giornalmente in un gigantesco obitorio a ridosso del fronte». Da febbraio 2022, Kiev conterebbe già 70mila morti e 120mila feriti. E che i morti siano tanti lo testimonia la giornata commemorativa del 29 agosto, in cui l’Ucraina piange i caduti in battaglia. Non c’è più margine. Il bacino di reclutamento si sta prosciugando: «da almeno un anno, l’esercito di Zelensky non cresce più», ci confida il generale d’armata Jacques Langlade de Montgros, direttore dell’intelligence militare francese. Senza scomodare gli 007, è lo stesso campo di battaglia a tradire le difficoltà. Kiev non riesce più a concentrare forze superiori al nemico in nessuno dei 1.000 chilometri di fronte. La coperta si è fatta talmente corta che gli ufficiali euro-americani, giunti in Polonia nei giorni scorsi, hanno intimato ai generali ucraini di redigere piani di battaglia più realistici: niente più voli pindarici ma azioni circoscritte al solo quadrante meridionale, il meno problematico. Zelensky pare aver ingoiato il rospo: parla di una smilitarizzazione della Crimea e non più di riconquista, inarrivabile. Anche i successi di avant’ieri a Rabotyno vanno contestualizzati: in due mesi e mezzo di controffensiva gli ucraini hanno smosso il fronte di appena 10 chilometri. Nel 1918, in Francia, i fanti tedeschi ci misero un solo giorno per avanzare di 15 chilometri. Ma nemmeno questo bastò loro per vincere. Ecco perché il negoziato è sempre meno improbabile».
KIEV: “CHI NEGOZIA CON PUTIN MUORE”
Dopo le aperture di Zelensky sulla Crimea, il ministro degli Esteri ucraino dice da Parigi: chi negozia con Putin muore. La notizia è dalla Stampa.
«Negoziare con Putin? Chiedete a Prigozhin». Così il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha commentato la possibilità di aprire un dialogo con Mosca, durante una conferenza stampa con la omologa francese, Catherine Colonna, a Parigi. «Per quanto riguarda le richieste di negoziati con Putin, chiunque chieda questo dovrebbe chiedere al signor Prigozhin, non a noi. Ha avuto un conflitto con Putin. Ha negoziato con successo con Putin, ha posto fine al conflitto, ha concordato garanzie di sicurezza e poi Putin lo ha ucciso», ha detto il capo del ministero degli Esteri ucraino. «Non c'è motivo di credere che Putin si comporterà diversamente in qualsiasi altro negoziato», ha aggiunto Kuleba escludendo qualsiasi dialogo col Cremlino. Il ministro ucraino ha poi incontrato il presidente francese Emmanuel Macron. L'Eliseo fa sapere che Macron «ha assicurato a Kuleba il suo impegno al fianco dell'Ucraina». I due - continua la presidenza - «hanno «fatto insieme il punto della situazione militare sul terreno e dei bisogni dell'Ucraina. Il presidente ribadirà anche la sua volontà di proseguire gli sforzi diplomatici in occasione delle prossime scadenze internazionali, affinché l'Ucraina ritrovi la sovranità e l'integrità territoriale».
NUOVA BUFERA SU GIAMBRUNO
Veniamo alle cose italiane. Polemiche per le frasi in diretta tv del giornalista mediaset, Andrea Giambruno, compagno di Meloni. Le opposizioni lo criticano: “Così colpevolizza le donne”. E lui: “Avete seri problemi di comprendonio”. Stefano Baldolini per Repubblica.
«Nuovo scivoloso capitolo degli affari di famiglia Meloni. Ennesimo incidente di Andrea Giambruno, compagno della premier e giornalista di Rete 4, che così è intervenuto sui recenti casi di stupro di Palermo e Napoli: «Se vai a ballare, tu hai tutto il diritto di ubriacarti, ma se eviti di ubriacarti e di perdere i sensi, magari eviti anche di incorrere in determinate problematiche perché poi il lupo lo trovi». Parole che generano una bufera perché portano inevitabilmente a colpevolizzare la vittima. Come osserva la senatrice dem Cecilia D’Elia, vicepresidente della commissione d’inchiesta sul femminicidio, «alla fine si giudicano le donne e i loro stili di vita. Non è possibile, non è più tollerabile». Le parole di Giambruno, insomma, finiscono per produrre un duplice esito. Un vespaio politico e un motivo di imbarazzo per la premier, che peraltro nelle stesse ore manifestava l’intenzione di voler andare proprio a Caivano, teatro di uno stupro che ha coinvolto due cuginette di 12 e 13 anni. Scivolone tanto più rilevante, se si considera che non è il primo per l’anchorman di “Diario del Giorno” e arriva dopo le polemiche per il suo negazionismo sul clima («È luglio, Il caldo non è poi una grande notizia») e le accuse al ministro della Sanità tedesco Lauterbach in vacanza in Italia («Se fa troppo caldo stai a casa tua nella Foresta Nera»). Una miscela esplosiva con cui la compagna, da ottobre 2022 anche inquilina di Palazzo Chigi, non può non fare i conti. Tanto più che, com’era prevedibile, le parole di Giambruno diventano un caso politico. «Mediaset prenda le distanze », sollecita il Movimento 5 Stelle; «intervenga Meloni», è l’attacco del Pd al giornalista; «studi prima di parlare», l’invito di Alleanza Verdi e Sinistra. Sono proprio due donne chiave della segreteria Schlein a criticare apertamente Giambruno. Una di queste è Chiara Braga, capogruppo Pd alla Camera dei Deputati che twitta: «Abbiamo dato la piena disponibilità a lavorare insieme contro la violenza di genere. Ma non accettiamo alcuna forma di ambiguità. Meloni prenda le distanze da queste parole che ancora una volta insinuano che a volte è anche “colpa” delle donne. È inaccettabile». Per la vicepresidente Pd Chiara Gribaudo, si tratta di «Victim blaming allo stato puro. Dimentica di dire agli uomini, gli unici colpevoli, di evitare di stuprare. Ripugnante, offensivo, inadatto a stare dove sta». «Prima di Caivano, ci si deve augurare che Meloni affronti la questione in casa propria», sottolinea con amaro sarcasmo Alessandro Zan, deputato e responsabile Diritti dem. La vicenda compatta l’opposizione. Condanne anche da Italia Viva, +Europa («Parole che normalizzano la bestialità») e M5S. Durissima l’ex sindaca di Torino Chiara Appendino: «Abbiamo la prima premier donna della storia che, a parole, tanto si batte contro la violenza di genere e si propaganda come donna, madre e cristiana: prenda le distanze dalle gravissime affermazioni del suo compagno perché il suo silenzio significherebbe esserne complice». Mentre Vittoria Baldino, vice capogruppo del Movimento alla Camera, chiede un intervento della dirigenza di Mediaset. «Quanto alla presidente Meloni, aggiunge - fossi in lei mi affretterei a consigliare al mio compagno di chiedere scusa». Scuse che però non arrivano. Anzi. Lo stesso Giambruno si giustifica, ma senza mostrare alcun ripensamento. Definisce la polemica «surreale», e ricorda di aver definito «bestie» gli autori e «abominevole » l’atto. Per poi rincarare la dose: «Quindi tutti coloro che in maniera strumentale hanno utilizzato in maniera fuorviante, distorcendo la realtà di quanto da me detto, lo stanno facendo o perché in malafede o perché hanno seri problemi di comprendonio».
ATTENTATO AL PARROCO DI TOR BELLA MONACA
Roma, un uomo ha tentato di investire don Antonio Coluccia, durante una marcia della legalità organizzata dal parroco nel quartiere di Tor Bella Monaca. Nell’attentato al prete anti-spaccio è stato ferito un agente della scorta. La cronaca di Valeria Costantini per il Corriere.
«Uno spacciatore ha provato a investire con lo scooter il prete anti-spaccio don Antonio Coluccia, un agente della scorta del parroco gli ha fatto da scudo ed è stato travolto. Sono stati momenti di paura ieri a Tor Bella Monaca, periferia difficile della Capitale, dove il sacerdote 47enne promuove ogni settimana una «marcia della legalità», una passeggiata con megafoni e preghiere per contrastare la malavita. Erano da poco passate le 18 quando uno scooter ha affiancato il «prete-coraggio» sulle strisce pedonali. Il motociclista gli urlato contro parole indecifrabili e ha provato a metterlo sotto. Uno dei poliziotti della scorta, nel tentativo di proteggere il parroco, è stato investito. Il motocliclista è scappato, ma gli altri due agenti della scorta hanno sparato due colpi: uno ha ferito all’avambraccio l’aggressore, che è caduto a terra. Dopo un violento corpo a corpo, i poliziotti lo hanno arrestato. Si tratta di Sergio Del Prete, 28enne, di origine bielorussa con un lungo curriculum criminale. È uno spacciatore, proprio il tipo di persona che don Coluccia fermerebbe nei suoi giri a Tor Bella Monaca per invitarla a pregare e a lasciar stare la droga. Sia l’agente che lo spacciatore sono adesso ricoverati al Policlinico Casilino, ma le ferite riportate da entrambi non sono gravi. Sul caso indaga l’Antimafia: l’ipotesi è quella di un attentato su commissione. «L’aggressione non mi fermerà — sono state le prime parole del prete, abituato purtroppo alle minacce e per questo sotto protezione —. porterò avanti la mia battaglia contro la criminalità che controlla le piazze di spaccio di Roma». Nemmeno gli insulti o le bombe carta che l’anno scorso lo avevano accolto al Laurentino hanno fermato la missione del parroco leccese. «Avevamo appena finito la marcia, gli avevo detto che c’era un’aria strana nel quartiere», racconta Tiziana Ronzio, paladina antimafia di Tor Bella Monaca. Solidarietà e pieno sostegno sono stati manifestati dal ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi in una telefonata a don Coluccia. Il titolare del Viminale ha anche sentito il capo della polizia, Vittorio Pisani, per accertarsi delle condizioni dell’agente. Anche Matteo Salvini in un tweet ha inviato tutto il suo «appoggio» a un «uomo di Chiesa che combatte ogni tipo di droga per salvare ragazze e ragazzi». «Roma è vicina a don Coluccia», ha ribadito il sindaco Roberto Gualtieri».
SAMAN, IL PADRE SARÀ ESTRADATO IN ITALIA
Arriva l’autorizzazione del governo del Pakistan: il padre della giovane Saman, uccisa due anni fa a Novellara, sarà estradato in Italia. Il fidanzato dice: “Finalmente avrò giustizia”. Giuseppe Baldessarro per Repubblica.
«Le ultime immagini che lo ritraggono in Italia, risalgono al primo maggio del 2021. Le telecamere lo inquadrarono, assieme alla moglie Nazia Shaheen, al check-in dell’aeroporto di Malpensa. Poche ore prima avevano ordinato l’omicidio della figlia Saman perché aver rifiutato un matrimonio combinato, immediatamente dopo la fuga in Pakistan. Ora Shabbar Abbas, 47 anni, sarà consegnato alle autorità italiane e mandato a Reggio Emilia, dove si sta svolgendo il processo per il delitto della 18enne, assassinata perché voleva vivere col suo fidanzato, Saqib Ayoub, e non con l’uomo deciso dalla sua famiglia. Nel tentativo di fermare l’estradizione concessa dal governo del Pakistan, Akhtar Mehmood, il legale di Abbas, ha fatto appello all’Alta corte di Islamabad (Ihc). Un’istanza che chiede la sospensione del trasferimento, ma che in teoria non dovrebbe bloccare l’iter che porterà l’imputato in Italia. Saqid, ha avuto la notizia dai suoi legali Claudio Falleti e Barbara Iannuccelli, e le uniche parole dette sono state: «La sofferenza non accenna a diminuire, ma adesso la giustizia potrà fare il suo corso come è giusto che sia». Abbas, secondo l’accusa, è colpevole di omicidio premeditato assieme alla moglie (ancora latitante nel suo Paese), al fratello Danish Hasnain e a due nipoti, Nomanulhaq Nomanulhaq e Ijaz Ikram (tutti e tre detenuti a Reggio). La ragazza, appena 18enne, venne uccisa la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021, a Novellara (nel Reggiano), perché si rifiutava di sposare l’uomo che era stato deciso dalla famiglia con un matrimonio combinato. Una «offesa intollerabile» per il padre che si era già impegnato a darla in sposa a un cugino, molto più grande di lei, nel suo paese d’origine. Shabbar è considerato un padre padrone, violento. Arrivato a Novellara, dove lavorava per un’azienda agricola, nel marzo del 2013, tre anni dopo era stato raggiunto dalla moglie Nazia e dai figli Saman e Ali Haider. Le informative dei carabinieri lo descrivono come «un tipo litigioso, facile all’ira, dedito all’alcol ». Non era solo un capofamiglia intransigente, ma un vero e proprio capoclan. Nell’atto d’accusa del processo si legge che è stato lui a «determinare » il delitto assieme alla moglie. Ed è sempre la magistratura a dire che Saman «è stata punita perché non viveva secondo i dettami culturali musulmani e pachistani». Per il padre, aveva «disonorato la famiglia». Per sfuggire al suo destino Saman aveva chiesto aiuto ai servizi sociali ed era stata mandata in una comunità. Appena maggiorenne, si era fidanzata con Saqid un giovane connazionale che viveva in Italia, commettendo l’errore di fare ritorno a casa per recuperare i documenti e andarsene definitivamente. Quando i genitori hanno saputo della relazione hanno deciso la sua morte. Il padre prima l’aveva tenuta segregata «con violenze e minacce», nel tentativo di farle cambiare idea. Poi, la sera in cui Saman stava per andare via l’ha fatta ammazzare dallo zio e dai cugini, per poi seppellirla in una buca, all’interno di un casolare abbandonato, dove il suo corpo è stato ritrovato un anno e mezzo dopo. Le ultime immagini che ritraggono Shabbar e Saman assieme sono quelle dell’azienda agricola dove vivevano. I due e Nazia si allontanano dall’abitazione e Saman ha uno zainetto sulle spalle. Pochi istanti dopo i genitori rientrano senza la figlia. Shabbar esce di nuovo da solo, e fa rientro con lo zainetto della figlia. Saman, secondo la ricostruzione, era appena stata uccisa. All’alba la fuga verso Pakistan, pianificata da tempo. Il processo riprenderà il prossimo 8 settembre, giorno in cui in aula sarà sentito il fratello di Saman. Fu lui, ancora minorenne, a raccontare tutto agli investigatori: è il testimone chiave dell’accusa».
IL VIAGGIO DEL PAPA IN MONGOLIA
Papa Francesco parte domani sera per la Mongolia, nel suo 43 esimo viaggio. Incontrerà una comunità cattolica composta da circa 1.500 fedeli. Previsto anche un evento ecumenico e interreligioso. Stefania Falasca per Avvenire.
«Per il suo 43° viaggio apostolico Francesco vuole incontrare da vicino una Chiesa nascente, spuntata da poco nel mezzo della vastità dell’Asia orientale tra la Russia e la Cina. E tutto è ormai pronto per la partenza domani verso Ulan Bator del primo Pontefice deciso a mettere piede nelle steppe mongole, sferzate da venti siderali, nella volontà di condividere, dopo quasi dieci ore di volo, tre giorni con una comunità giovane e minuscola di poco più che un migliaio di cattolici. Un piccolo gregge senza diocesi, dato che l’intera e immensa Mongolia, l’antico impero del condottiero Gengis Khan, è un’unica Prefettura Apostolica guidata oggi dal giovane cardinale missionario Giorgio Marengo. Una piccola comunità rifiorita dal 1992, con l’approvazione della nuova Costituzione che garantisce libertà di espressione e di religione, dopo settant’anni di comunismo, e dopo che il cristianesimo, giunto con la Chiesa nestoriana nell’VIII secolo, era scomparso per centinaia di anni. Centro della visita apostolica sarà quindi l’incontro con la piccola comunità cattolica: «Il Papa si reca in Mongolia per rivolgere parole di incoraggiamento e di speranza a questa realtà che offre un importante contributo nei campi della convivenza umano» ha affermato il direttore della Sala Stampa Matteo Bruni nel presentare le tappe del viaggio, ricordando anche i lavori per un accordo della Mongolia con la Santa Sede e l’opera di un frate inviato da papa Innocenzo IV in missione diplomatica alla corte del Gran Khan Guyuk già nel XIII secolo. Dopo l’arrivo il 1° settembre, il secondo giorno sarà dedicato agli appuntamenti istituzionali: la mattina con le autorità civili, tra cui il presidente Ukhnaagiin Khürelsükh e il primo ministro, il pomeriggio con la realtà della Chiesa locale nella Cattedrale. Costruita in una struttura che ricorda le Ger – le tradizionali tendeabitazioni della popolazione nomade – è presente una statua della Madonna rivenuta da una donna nella spazzatura anni fa, poi venerata come Madre del Cielo e a cui il cardinale Marengo ha consacrato la Mongolia. Il terzo giorno è dedicato alla celebrazione eucaristica a cui assisteranno circa 2.500 fedeli. Insieme ai 1.500 residenti in Mongolia, dei quali il 90% risiede nella capitale, parteciperanno pellegrini di altri Paesi dell’area. Saranno presenti anche fedeli provenienti dalla Russia, da Hong Kong, Macao e dalla Cina continentale. Al mattino il Papa presiederà invece l’evento ecumenico e interreligioso nell’Hun Theatre della capitale con rappresentanti dello sciamanesimo, scintoismo, buddismo, dell’islam, dell’ebraismo, dell’induismo e altre confessioni. Un segno della vocazione all’armonia, alla convivenza pacifica – si è voluto sottolineare – che caratterizza il nomade popolo mongolo ed è il compito delle fedi religiose. A riguardo i giornalisti hanno chiesto al direttore della Sala Stampa se il fatto che il Papa incontri i rappresentanti del buddismo tibetano, fede maggioritaria in Mongolia, possa creare problemi di rapporti, ad esempio con la Cina. Il portavoce Bruni ha spiegato che si tratta di un incontro interreligioso, quindi il Papa «incontra le comunità religiose presenti nel Paese e dunque incontra i rappresentanti del buddismo tibetano come quelli di altre fedi ». L’ultimo giorno sarà dedicato agli operatori della carità e all’inaugurazione della Casa della Misericordia. Illustrando nel dettaglio il programma del viaggio, Matteo Bruni ha infine riferito che il Papa partirà il 31 agosto alle 18.30 da Fiumicino e in nove ore e mezzo di volo sorvolerà, tra gli altri Paesi, Georgia, Azerbaigian e Cina. La rotta stabilita non contempla la Russia. Anche al ritorno da Ulan Bator, il 4 settembre, sorvolerà nuovamente la Cina ma non la Russia. C’è attesa quindi per il telegramma che il Papa invierà al presidente Xi-Jinping al momento di sorvolare la Cina continentale. Per quanto riguarda quest’ultima circostanza «di solito si sceglie la rotta a seconda di quella che è più conveniente in un tale momento – ha detto Bruni rispondendo alle domande dei giornalisti – non sono al corrente che ci siano altre motivazioni».
IL DIVIETO DELL’ABAYA DIVIDE LA SINISTRA FRANCESE
Le altre notizie dall’estero. In Francia grande dibattito sul divieto a scuola dell’Abaya, il tradizionale vestito femminile musulmano. La parola ora va al Consiglio di Stato mentre la misura divide la sinistra francese. Anna Maria Merlo per Il Manifesto.
«Sarà il Consiglio di stato a stabilire se la regolamentazione, promessa dal nuovo ministro dell’Educazione nazionale Gabriel Attal, sulla proibizione dell’abaya nelle scuole pubbliche francesi, è conforme alla legge in vigore. La France Insoumise ieri ha fatto ricorso all’alta corte dopo l’annuncio di Attal, domenica sera, di considerare l’abaya una “violazione” della legge del 2004, che proibisce nelle scuole pubbliche segni o abiti che «manifestano ostensibilmente» un’appartenenza religiosa, anche nel caso siano indossati dagli allievi. Secondo il Consiglio francese del culto musulmano, l’abaya (parola araba che significa “toga”, “mantello”) non è una prescrizione religiosa, ma nel 2021 una precisazione della legge del 2004 ha fatto rientrare nelle manifestazioni “ostensibili” di appartenenza religiosa anche «segni o tenute che non sono, specificamente, propriamente religiose», che possono rientrare nella proibizione «se portati per manifestare ostensibilmente l’appartenenza religiosa». Il professore di diritto pubblico Serge Slama sottolinea che sulla base del diritto attuale «il ministero dell’Educazione nazionale non può proibire in modo generale questo abito» che può essere messo al bando solo nei casi in cui venga portato «con connotazione religiosa». Le sottigliezze dell’interpretazione della legge lasciano però aperta la polemica che si è sollevata negli ultimi giorni attorno a questo abito. Attal ha giustificato la nuova regolamentazione sulla base di un aumento del 120% delle segnalazioni di violazioni della laicità nelle scuole pubbliche (4.710 casi nell’anno scolastico 2022-23, contro 2.167 l’anno precedente) e ricorda che la neutralità della scuola deve fare in modo che quando un insegnante «entra in classe non deve essere in grado di identificare la religione degli allievi guardandoli». Esiste una domanda di chiarezza da parte dei presidi, che devono far rispettare le regole e giustificare decisioni di fronte alle famiglie: riguarda soprattutto i circa 150 istituti scolastici (medie e licei) sulle migliaia che esistono nel paese, dove il problema si pone. Destra e estrema destra approvano la decisione di Attal, mentre la sinistra è profondamente spaccata, come lo è stata su questi temi fin dal 1989, quando scoppiò il primo caso del “velo” in una scuola di Creil. Sophie Binet, la nuova segretaria della Cgt che viene dal mondo scolastico, non contesta la decisione sull’abaya, ma sottolinea che è una strumentalizzazione del governo per non parlare dei veri problemi del nuovo anno scolastico, a cominciare dalla mancanza di insegnanti. Il Partito socialista, che già nel 2004 aveva votato a favore della legge sulla proibizione dei segni religiosi ostentatori, mantiene la tradizione laica, il Pcf (che nel 2004 si era spaccato) difende ora la neutralità, mentre France Insoumise e Europa Ecologia «hanno una concezione più accomodante», spiega il politologo Jérôme Fourquet, «in nome della difesa delle minoranze» e anche «di interessi elettorali» (9 deputati della France Insoumise sono eletti del dipartimento della Seine-Saint-Denis, nella banlieue parigina). L’abaya è un nuovo fattore di divisione nella Nupes. Il socialista Jérôme Guedj invita la sinistra a non essere «angelica» sul proselitismo religioso. Jean-Luc Mélenchon denuncia invece una «nuova assurda guerra di religione interamente artificiale a proposito di un abito femminile». L’eco-femminista Sandrine Rousseau paragona l’abaya al crop top (già oggetto di forti polemiche): «Come sempre, un controllo sociale sul corpo femminile».
BOSNIA, RICONOSCIUTI I “FIGLI DIMENTICATI”
Bosnia, le vittime degli stupri di guerra vengono «riconosciute» dopo trent'anni di lotte. Approvata in Parlamento la legge che concede ai «figli dimenticati» e alle donne dignità giuridica. La Federazione garantirà ai giovani e alle madri una pensione d’invalidità o un assegno mensile di assistenza. Riccardo Michelucci per Avvenire.
«Ci sono voluti anni di battaglie legali, di petizioni e iniziative di protesta. Oltre alla caparbietà di chi non si è mai voluto arrendere di fronte a una colossale ingiustizia. Alla fine, però, i «figli dimenticati» della guerra di Bosnia hanno vinto: sono riusciti a farsi riconoscere come categoria sociale e giuridica, a far valere i loro diritti, forse persino a tracciare un percorso replicabile in altre parti del mondo. Trent’anni dopo la guerra che sconvolse i Balcani, la nuova legge approvata dal Parlamento della Federazione di Bosnia-Erzegovina riconosce per la prima volta i bambini nati dagli stupri e le donne che subirono violenza come vittime civili di guerra, offrendo loro la possibilità di scegliere tra una pensione di invalidità e un assegno mensile di assistenza. Fino ad oggi, sebbene la violenza sessuale sia stata riconosciuta come crimine contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, la burocrazia aveva continuato a gettare sale sulle ferite delle donne che subirono gli stupri e sui figli nati da quelle violenze, non riconoscendoli come vittime di guerra. La società bosniaca li ha a lungo stigmatizzati e discriminati, facendoli spesso sentire in colpa per quello che avevano subito. Finora in quasi tutti i documenti ufficiali è stato obbligatorio indicare il nome del padre: quello della madre non basta. E per chi era costretto a lasciare quel campo vuoto, richiedere un sussidio o fare domanda per una borsa di studio poteva rivelarsi impossibile. Lo stesso stigma aveva pesato fino ad oggi anche sulle donne, i cui figli non erano equiparati agli orfani di guerra. La nuova legge sulla tutela delle vittime civili del conflitto – che entrerà in vigore il primo gennaio 2024 – cancella finalmente questa ingiustizia indicando nel dettaglio la procedura di riconoscimento e le modalità di erogazione delle indennità, stabilendo che tutti i genitori ne avranno diritto, a prescindere dalla loro condizione economica. Si tratta di una vittoria storica, in particolare per l’associazione Zaboravljena Djeca Rata (Figli dimenticati della guerra, Zdr) di Sarajevo, una Ong bosniaca che riunisce i bambini nati da violenze sessuali commesse durante la guerra, che adesso hanno tra i 25 e i 30 anni. Sono stati loro ad avviare e ad alimentare la battaglia per il proprio riconoscimento sociale e giuridico riuscendo a trovare una sponda nel potere esecutivo e in altre realtà della società civile bosniaca. La presidente di Zdr, Ajna Jusic, è da sempre l’attivista-simbolo della campagna. Laureata in psicologia all’università di Sarajevo, Jusic ha oggi 29 anni: ne aveva appena quindici quando scoprì che sua madre era sopravvissuta a uno stupro di guerra. «L’adozione di questa legge è un passo importante verso la creazione di una società basata sull’uguaglianza di tutti i cittadini della Bosnia Erzegovina », ha commentato. Nei fragili equilibri dei Balcani, con le tensioni mai placate in Kosovo e le continue minacce di secessione del presidente della Repubblica serbo- bosniaca Milorad Dodik, la legge sulla tutela delle vittime civili approvata dal parlamento di Sarajevo rappresenta una svolta di buon auspicio per il futuro. Anche se l’incertezza politica resta un’incognita. Proprio ieri una sentenza della Corte Europea dei diritti umani (organismo del Consiglio d’Europa, non della Ue ndr) ha affermato che «la rappresentanza etnica, in Bosnia-Erzegovina, risulta più rilevante di quella politica, economica e sociale, amplificando le divisioni nel Paese e minando il carattere democratico delle elezioni».
SUDAN, MEDIAZIONE DI AL SISI
Il generale golpista Abdel Fattah al-Burhan, capo dell'esercito sudanese, è vola in Egitto ed è stato ricevuto dal presidente Al- Sisi. Gli egiziani sono i favoriti in una possibile mediazione per il Sudan. La cronaca è di Avvenire.
«Lo stillicidio si consuma, nel silenzio. Almeno 39 persone, per la maggior parte donne e bambini, sono state uccise ieri a Nyala, la capitale del Darfur meridionale, a causa di razzi caduti sulle loro case durante i combattimenti tra l'esercito e i paramilitari, hanno riferito alle agenzie di stampa internazionali una fonte medica e dei testimoni. Dall'11 agosto, secondo le Nazioni Unite, più di 50.000 persone sono state costrette a fuggire da Nyala, dove le reti di comunicazione sono praticamente interrotte in modo permanente a causa dell'intensità del tremendo conflitto in atto. Un passo in avanti nella soluzione diplomatica di un conflitto che insanguina il Paese da metà aprile, potrebbe però venire dall’Egitto. L'esercito di Khartum non ha intenzione di restare al potere in Sudan ed è favorevole alle elezioni con l'obiettivo di mettere fine alla guerra. Lo ha detto il generale golpista Abdel Fattah al-Burhan, capo dell'esercito sudanese, nel corso di un incontro al Cairo con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Parlando del corso della crisi in Sudan, Burhan ha ringraziato al-Sisi per il ruolo dell'Egitto nell'accoglienza dei rifugiati sudanesi. È la prima volta che Burhan lascia il Paese dall'inizio del violento conflitto in corso dal 15 aprile contro i paramilitari delle Forze di supporto rapido del Sudan (Rsf). Burhan aveva dichiarato lunedì, prima della partenza per la capitale egiziana che non è disposto negoziare con «i traditori» delle Rsf, capeggiati dall’ex alleato Mohamed Hamdan Dagalo, detto «Hemetti». Il peso specifico dell’Egitto e di al-Sisi nella regione però è elevato e una mediazione capeggiata proprio dall’uomo forte del Cairo viene vista da molti osservatori come l’unica via percorribile per uscire dall’impasse in cui versa lo scontro armato che ha costretto alla fuga oltre tre milioni di persone, i prevalenza nel vicino Ciad dove solo nel campo profughi di Adré ne ospita ormai quasi 400mila».
VENEZIA, AL VIA LA MOSTRA DEL CINEMA
Prende il via la prima mostra del cinema di Venezia, nell’era del governo di Giorgia Meloni. Il Red carpet è a «rischio» per via dello sciopero ad Hollywood, massiccia la presenza italiana, molte sorprese nel cartellone. Dal prossimo anno toccherà a Pierangelo Buttafuoco dirigere la Mostra? Cristina Piccino per il Manifesto.
«Venezia 80, la prima Mostra dell'era Meloni e l'ultima con la presidenza di Roberto Cicutto il cui successore nei desiderata del ministro Sangiuliano - ma la nomina non è stata ancora ratificata – dovrebbe essere Pierangelo Buttafuoco, l'intellettuale di destra come è definito a sanare quel complesso freudiano di esclusione dalla cultura che in Italia è stata sempre «cosa della sinistra». È anche la penultima Mostra con la direzione di Alberto Barbera, molti credono possibile una sua riconferma visti i risultati in termini di prestigio internazionale - quest'anno più che mai con un tutto esaurito che nemmeno nel pre-Covid nonostante i prezzi e i disagi del luogo non tra i più felici. Nulla è certo però con un governo che fagocita ogni spazio culturale con voracità inaudita, e che dopo la Rai e la «decapitazione» del Centro sperimentale con un decreto legge ad hoc per azzerarne i vertici, a cominciare dalla presidente Marta Donzelli - vorrà sempre di più: e cosa di meglio che possedere il «giocattolo» prezioso della Mostra del cinema di Venezia? È poi (o soprattutto) l'edizione dello sciopero di sceneggiatori e attori a Hollywood che si è abbattuto come un tornado sul programma di Venezia 80 strapieno di star costringendo all'ultimo momento a cambiare il titolo dell'apertura, The Challenger di Luca Guadagnino con uno dei sei italiani in concorso, Comandante di Edoardo De Angelis. A parte qualche deroga - come accaduto per Priscilla, il nuovo film di Sofia Coppola ispirato alla moglie di Elvis Presely – in molti non ci saranno dimezzando le potenzialità mediatiche del «Tappeto Rosso». E questo dà anche un po' il senso della cifra che caratterizzerà la Mostra con molta Italia (nel film di De Angelis c'è il divo nostrano Pierfrancesco Favino) non solo per la quantità sterminata di produzioni nazionali disseminate tra le sezioni - molte in rapida uscita in modo da approfittare del tax credit che scade il 14 settembre - ma anche per le attrici e gli attori nostrani divenuti protagonisti principali con altri europei seppure per una «casualità». Netflix anche quest'anno è abbastanza presente, Venezia a differenza di Cannes dove gli esercenti contano nel festival, non pone ostacoli a mettere i suoi film in concorso compresi quelli come El Conde di Pablo Larrain (in piattaforma dal 15 settembre) che non usciranno mai in sala - non da noi almeno, forse qualche uscita oltreoceano - l'importante è la corsa agli Oscar e questi titoli grazie alle nuove regole dell'Academy sono una garanzia. Dei sei italiani che gareggiano per il Leone d'oro (su 23 candidati, percentuale alta, nessun documentario dopo la vittoria lo scorso anno di Laura Poitras e del suo All the Beauty and the Bloodsheed) - Io capitano di Matteo Garrone; Enea di Pietro Castellitto; Finalmente l'alba di Saverio Costanzo; Lubo di Giorgio Diritti; Adagio di Stefano Sollima - si è detto tra le altre cose che colpisce la mancanza di una sola regista. Male gaze che inizia nelle economie essendo i suddetti film tutti a budget elevatissimi – cifre che l'industria cinematografica mette in mano ancora a poche filmmaker. Se potrebbero esserci più possibilità con un concorso a budget più disomogenei non lo sappiamo ma certo linea editoriale e economie si rispecchiano come in «cul de sac» per citare uno dei capolavori di Roman Polanski di cui vedremo il nuovo The Palace fuori concorso (vedremo ahinoi anche il film del suo produttore Luca Barbareschi ...). Insomma che Mostra sarà questa che si apre stasera, madrina della cerimonia Caterina Murino (e performance canora di Malika Ayane) dopo la burrasca Poppea che ha allagato il Lido col rischio di rovinare la passerella nonostante il meteo rassicuri lasciando sperare nel ritorno del sole? Un festival che scommette quasi tutto - dal punto di vista mediatico sul suo concorso (il che dà l'idea della portata drammatica dello sciopero hollywoodiano) ma del resto si ha sempre più l'impressione che i film nel sistema cinematografico siano un accessorio, non necessariamente il principale a favore dei loro protagonisti o dell'«impact» - il tema, il soggetto di attualità, e a proposito a Venezia in questi giorni sarà lanciata la prima edizione del Premio impact – cosa che spaventa filmmaker e produttori più liberi in tutto il mondo. Per questo gli sguardi corrono al di là dei Leoni (possibili), in quelle zone del programma «periferiche» dove vedremo quello che è diventato l'ultimo film di Friedkin (The Caine Mutinity Court Martial); ritroveremo Tsukamoto (Hokage) e Fred Wiseman con il suo doc epico Menu Plaisirs – Les Troisgros. La mostra non è però solo la selezione ufficiale, sono le tante e belle proposte nei programmi della Settimana della critica diretta da Beatrice Fiorentino - apertura con Dieu est une femme di Andres Peyrot. E delle Giornate degli Autori con la direzione artistica di Gaia Furrer, anche la loro programmazione ha scommesso su un film italiano per l'apertura ma completamente «fuoriclasse» quale Los oceanos son los verderos continentes di Tommaso Santambrogio a dichiarare una selezione che segue ancora il desiderio di esplorare quelle forme cinematografiche contemporanee più inattese».
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