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La Merkel ci invidia
Covid, dice la Cancelliera: "Mi sentirei meglio se fossimo come in Italia". Da noi 467 mila vaccinazioni in 24 ore. I bimbi iniziano il 16. Il Papa a Cipro contro i muri Ue. Al Colle Meloni è Sì Cav
Nel suo ultimo atto da Cancelliera, Angela Merkel annuncia misure drastiche anti Covid. In Germania ci sarà l’obbligo vaccinale e da subito c’è una forte limitazione agli spostamenti dei non vaccinati. I contagi, ma anche i ricoveri con la conseguente pressione sugli ospedali, sono preoccupanti. Per una volta, i tedeschi fanno i tedeschi e scelgono la linea dura. Ad un certo punto la Merkel si fa sfuggire: «Mi sentirei meglio se fossimo in una situazione come quella dell'Italia». Da noi intanto continua la corsa alla vaccinazione. Giustamente non si fa trionfalismo (molto incidono le terze dosi, superati i 7 milioni e mezzo di italiani che l’hanno già fatta) ma anche ieri la cifra delle somministrazioni è da record: 467 mila 210 nelle ultime 24 ore, dato di stamattina alle 6. Ci sono poi maggiori dettagli sulla campagna vaccinale per i bambini dai 5 agli 11 anni: partirà prima del previsto, già il 16 dicembre, ha annunciato Figliuolo. Per quanto riguarda i dati delle singole Regioni, si attendono oggi i monitoraggi settimanali dell’Istituto superiore di Sanità.
Il Papa a Cipro è tornato a parlare dell’Europa e della sua responsabilità sui migranti. Non può essere definita da quelli che ha chiamato “i muri della paura e i veti dettati da interessi nazionalisti”. In Grecia Francesco visiterà il campo profughi di Lesbo. Proprio ieri la Commissione europea a Bruxelles ha dato però l’impressione di appoggiare l’operato della Polonia contro i profughi afghani.
Tante novità nella corsa al Quirinale. Il Foglio apre il pallottoliere: su 1.007 grandi elettori Mario Draghi avrebbe teoricamente dalla sua 864 voti. Ma è un po’ presto per fare i conti. Il Fatto pubblica il suo borsino dei quirinabili e, sorpresa, non ci sono né l’odiato Draghi, né l’odiatissimo Berlusconi. Ecco l’elenco di Travaglio: Casini, Cartabia, Amato e Bindi. Il Giornale si esalta per una battuta della Meloni a favore del Cav, che “torna a riaprire”. Ma allora aveva chiuso davvero… il Corriere sostiene che Renzi e Toti si stanno organizzando per condizionare il voto. Vedremo.
Oggi è la Giornata mondiale della disabilità e Gianluca Nicoletti sulla Stampa si chiede come debbano festeggiare lui e il suo figlio autistico Tommy. Brutta coincidenza: proprio oggi arriva la notizia che il Pnrr per il Sud ignora il Terzo settore. Ministra Carfagna, intervenga.
Da ieri è disponibile un nuovo episodio da non perdere nel mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: LA CITTÀ TORNA MIA. Racconta la storia di Rebecca Spitzmiller, un’americana diventata italiana e romana al 100 per cento, che ha creato dal nulla un’associazione oggi diffusa in tutta Italia. Si chiama Retake ed è un’esperienza di recupero della città dal degrado e dalla sporcizia. Lei, Rebecca, ha cominciato dal muro del suo palazzo a Roma. E ora l'associazione può contare sull'aiuto di diverse persone nelle principali città italiane. Nell'ottobre di sette anni fa ha fondato Retake insieme ad altri. Da allora offre la possibilità di diventare volontari del bello e insieme responsabili del proprio ambiente. Cercate questa cover…
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Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Ancora la pandemia sugli scudi, ma oggi in primo piano è l’ultimo discorso della Merkel. La Repubblica lo dice chiaro: L’Europa dell’obbligo. Il Corriere della Sera avverte: Ospedali, sale la pressione. Avvenire mette in primo piano le nuove regole: Dove non si pass. Quotidiano Nazionale formula un’apertura promemoria: Vaccini e pass, le date da ricordare. Il Messaggero spiega: Bus e locali, piano per i controlli. La Stampa intervista Zaia che promette di tagliar fuori chi protesta: “Nelle mie Asl niente tamponi ai No Vax”. Mentre La Verità continua a dare argomenti agli avversari della campagna vaccinale: Il super esperto tedesco: «Non vaccinerei i miei figli». Molti anche i titoli sull’economia. Libero torna sul caro luce e gas: Bollette allarme rosso. Il Mattino chiede: «Prezzi impazziti, ora gli aiuti». Il Sole 24 Ore fa il quadro delle nuove tasse: Sconti e bonus, così cambia l’Irpef. Il Domani apre un fronte polemico: Il Presidente di Ita Airways decolla con un affare in conflitto di interessi. Il Fatto accusa il Ministro della Transizione ecologica: Cingolani vuole a capo del Pnrr il McKinsey boy. Il Giornale esalta una battuta di Giorgia Meloni a favore del Cav: «Berlusconi al Colle tutelerà la sovranità». Il Manifesto sottolinea la statistica sui nuovi occupati, che penalizza le donne: Prima gli uomini.
DALLA GERMANIA OBBLIGO E LOCKDOWN
Nel suo ultimo atto da Cancelliera, Angela Merkel conferma la linea dura della Germania sul Covid. Da febbraio obbligo vaccinale e da subito lockdown per i non vaccinati, grazie alla regola del 2G (il Green Pass solo a vaccinati o guariti). Tonia Mastrobuoni per Repubblica.
«L'obbligo vaccinale arriverà attraverso una legge che sarà votata dal Bundestag». Angela Merkel conferma le clamorose anticipazioni della vigilia. Probabilmente da febbraio in Germania varrà l'obbligo vaccinale per tutti. Alla luce di una situazione «grave» e di ospedali «al limite delle loro capacità» la cancelliera uscente ha definito il nuovo pacchetto di misure anti Covid un «atto della solidarietà nazionale». Il suo erede designato, Olaf Scholz si è anche detto «abbastanza sicuro» che la legge sarà votata dalla maggioranza del Parlamento: nei giorni scorsi aveva annunciato che i parlamentari avranno libertà di voto. Ma se dalla nuova maggioranza, al netto di qualche defezione nelle file degli "aperturisti" della Fdp, il sì sembra piuttosto scontato, è prevedibile che anche la Cdu rafforzi la maggioranza dai banchi dell'opposizione. In conferenza stampa la cancelliera ha anche sospirato: «Mi sentirei meglio se fossimo in una situazione come quella dell'Italia». Intanto dall'altra parte dell'Atlantico il presidente americano Joe Biden ha confermato che introdurrà il tampone obbligatorio per chi entrerà negli Stati Uniti, a prescindere dal vaccino, ha rassicurato i suoi concittadini sul fatto che le case farmaceutiche copriranno il costo dei tamponi, ha promesso un'accelerazione della campagna vaccinale - introdurrà delle unità mobili per immunizzare intere famiglie - e si è augurato che il Paese smetta di spaccarsi sulla pandemia. «Spero che di fronte alla variante Omicron, le divergenze vengano messe alle spalle e che la nazione si unisca», ha detto Biden, «è una responsabilità patriottica non negare alle persone i diritti di base». Il presidente democratico ha auspicato che le nuove misure «ricevano sostegno bipartisan» e ha promesso che gli sviluppi della pandemia saranno affrontati «con la scienza e velocità, non con il caos». Da Berlino, oltre alla novità dell'obbligo vaccinale, sono emerse alcune decisioni che si traducono, in sostanza, in una stretta severa per i non immunizzati, un «lockdown per i non vaccinati» per dirla con il leader dei Verdi Robert Habeck. Fino a febbraio, quando dovrebbe scattare l'obbligo, i non immunizzati saranno esclusi da gran parte della vita pubblica. Ma la legge anti Covid che consentiva lockdown generalizzati e che doveva scadere il 15 dicembre verrà prolungata per consentire ai governatori di decretare eventuali chiusure di negozi, ristoranti o scuole, se dovesse essere necessario. Intanto, per scongiurare il più a lungo possibile chiusure generalizzate, la strategia è quella di procedere a un giro di vite per i non vaccinati. La regola del 2G (vaccinato o guarito) sarà estesa a molti settori della vita pubblica (ristoranti, teatri, cinema). «La cultura e il tempo libero a livello nazionale saranno aperti solo a coloro che sono stati vaccinati o guariti» ha precisato Merkel. I mercatini di Natale saranno off limits per i non vaccinati: qui varrà la regola del 2G ma potrà essere introdotto anche il 2G+ (vaccinati o guariti più tampone negativo). Per tutti varrà invece il divieto dei fuochi d'artificio a Capodanno, per evitare assembramenti nella notte di San Silvestro. Gli stadi non torneranno del tutto vuoti ma sugli spalti potranno essere ammessi al massimo 15mila spettatori o il 30% della capienza. Le discoteche e i locali notturni, invece, saranno chiusi. La mascherina tornerà obbligatoria a scuola per tutte le classi».
Massimo Gramellini nel suo Caffè sul Corriere commenta la frase della Merkel sull’Italia. Con un pizzico di ironico orgoglio.
«Mi sentirei meglio se fossimo come in Italia». Come ha detto, signora Merkel? «Mi sentirei meglio se fossimo come in Italia». Potrebbe ripeterlo tre o quattrocento volte, così lo memorizzo? Lo memorizzo e lo registro, per riascoltarlo quando faccio una coda, quando prendo una buca e in genere nei momenti tristi, per esempio questo: ho appena letto che restiamo saldamente in testa alla classifica europea degli evasori (e degli impositori) fiscali e preferirei che in Italia non fossimo come in Italia. Invece lei ci indica ai tedeschi come modello da seguire. Certo, il suo elogio non è esteso all'intero scibile italico, ma si riferisce soltanto alla gestione della pandemia. Certo, il suo giudizio benevolo sarà stato condizionato dal prestigio personale di Draghi, anche se ormai si ha quasi paura a dirlo perché si passa immediatamente per lecchini. Resta il fatto che questo sgangherato Paese, il primo in Europa a essere travolto dal Covid, se l'è cavata meglio di quasi tutti, nonostante abbia la classe politica che ha e nonostante gli italiani siano quello che sono. Però siamo anche più prudenti e meno arroganti di tanti popoli vicini e lontani che hanno sottovalutato il virus e forse hanno sottovalutato anche noi. Fino a quando arriva la leader più importante d'Europa, all'ultima settimana del suo quasi ventennale potere, e dice che cosa ha detto esattamente, signora Merkel? «Mi sentirei meglio se fossimo come in Italia». Grazie, mi sento già meglio».
VACCINI PER I BIMBI: SI PARTE IL 16
Parte prima del previsto la campagna vaccinale per i bambini dai 5 agli 11 anni. Il punto per il Corriere è di Alessandra Arachi.
«Le dosi dei vaccini per i bimbi saranno pronte per il 15 dicembre. E dal giorno dopo, giovedì 16, le regioni potranno cominciare le somministrazioni. Lo fa sapere la struttura del commissario Francesco Paolo Figliuolo, spiegando che per adesso a disposizione dei più piccoli ci sono un milione e mezzo di dosi. È una prima tranche che verrà integrata a gennaio, calcolando che sono tre milioni e mezzo i bambini vaccinabili tra i 5 e gli 11 anni, quelli per cui mercoledì l'Aifa ha dato l'autorizzazione. La priorità verrà data ai più fragili, circa il 10% del totale. Ogni regione deciderà i modi e i tempi della vaccinazioni e nel Lazio il governatore Nicola Zingaretti ha già fatto sapere che le prenotazioni per i bimbi cominceranno lunedì 13 dicembre. Nella regione ci saranno mini-hub dedicati, con tanto di clown ad alleviare la paura dei più piccoli. Anche in Lombardia ci saranno dentro gli hub linee dedicate ai bambini, e Letizia Moratti, vice presidente della regione e assessore al Welfare, ha spiegato che si stanno studiando comportamenti diversi e orari compatibili con le lezioni scolastiche. In Toscana l'idea è di coinvolgere i pediatri nei luoghi dei vaccini e di riservare nel portale delle prenotazioni una finestra per i bimbi. Pediatri anche negli hub della Campania, secondo il progetto che il governatore Vincenzo De Luca deve ancora mettere a fuoco. In più: il presidente della Campania vorrebbe andare a vaccinare i bambini direttamente nelle scuole.».
PRIMO SÌ SULLE TASSE
Primo sì in Senato, con la fiducia, al maxiemendamento sul decreto legge fisco e lavoro. La cronaca di Enrico Marro sul Corriere.
«Decontribuzione una tantum per tagliare il cuneo fiscale sul lavoro e più risorse per calmierare le bollette di luce e gas, per un totale di due miliardi. Sono le misure prospettate dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, a Cgil, Cisl e Uil nel vertice di ieri a Palazzo Chigi. Ma al leader della Cgil, Maurizio Landini, non basta: «Non abbiamo ottenuto le risposte che ci aspettavamo. Se su pensioni, fisco e precarietà le cose rimangono come adesso, sarà necessario valutare quali iniziative mettere in campo». Sulla stessa linea la Uil. Il leader Pierpaolo Bombardieri, come Landini, dice che per le valutazioni finali aspetterà il consiglio dei ministri di oggi che dovrebbe discutere dell'emendamento fiscale, ma conferma la sua «insoddisfazione». Se la Cgil è tentata dallo sciopero generale, la Cisl vuole l'accordo: «Abbiamo apprezzato che il governo abbia messo un miliardo e mezzo per la decontribuzione per i lavoratori dipendenti con meno di 47mila euro. Una misura temporanea che abbiamo chiesto diventi strutturale». I due miliardi verranno dalla minor spesa per il taglio dell'Irpef e dell'Irap nel 2022. Per il resto, Draghi ha difeso la proposta concordata dal ministro dell'Economia, Daniele Franco, con i partiti della maggioranza che prevede il passaggio da 5 a 4 aliquote Irpef e una rimodulazione delle detrazioni. Per respingere l'accusa dei sindacati di aver privilegiato i ricchi, il premier ha mostrato una tabella sugli effetti del taglio dell'Irpef da 7 miliardi: 4,2 miliardi andrebbero a vantaggio dei lavoratori dipendenti, 2,3 dei pensionati e solo le briciole agli autonomi. Sul totale dei contribuenti, quelli con redditi fino a fino a 28mila euro riceveranno quasi 3,4 miliardi di taglio dell'Irpef, i redditi tra 28 e 50mila euro 2,7 miliardi mentre oltre 50 mila il beneficio sarà inferiore al miliardo. Sulle bollette è intervenuto il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani: «Per adesso mitighiamo» ma non si può continuare così «ogni trimestre» e bisognerà lavorare sul «ricalcolo». Intanto, il governo ha ottenuto ieri sera in Senato il voto di fiducia sul maxiemendamento al decreto legge fisco e lavoro».
IL PNRR DIMENTICA IL TERZO SETTORE
Avvenire dà spazio ad un denuncia preoccupante: il primo avviso pubblico con le risorse del Pnrr mette da parte il Terzo settore. Secondo Borgomeo di Fondazione con il Sud è un grave errore destinare tutte le risorse alla ristrutturazione e niente ai progetti. Antonio Maria Mira.
«Nel Pnrr c'è scritta nero su bianco la necessità di «valorizzare i beni confiscati alle mafie con il contributo del Terzo settore», ma nel primo avviso pubblico per la presentazione di progetti di valorizzazione di questi beni da finanziare nell'ambito del Piano, pubblicato dall'Agenzia della Coesione Territoriale il 23 novembre scorso, il Terzo settore è stato dimenticato, rivolgendosi soltanto agli enti pubblici. È la forte denuncia del Forum nazionale del Terzo Settore, mentre un gruppo di consorzi e cooperative sociali che da anni gestiscono con successo i beni tolti alle mafie, lancia un appello chiedendo «l'immediata correzione e ripubblicazione del bando al fine di prevedere un percorso di co-progettazione fin dall'inizio». Ricordiamo che attualmente sono più di 400 le realtà del Terzo settore, o comunque legate al privato sociale, come cooperative, associazioni, gruppi scout, diocesi, parrocchie, Caritas, che hanno fatto nascere esperienze efficaci e efficienti sui quelli che erano 'beni mafiosi' e ora beni comuni. Numeri in costante crescita e per questo l'esclusione dal bando stupisce. «È una discriminazione che non comprendiamo, e che disattende l'indirizzo virtuoso definito nel Pnrr - sottolinea Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum nazionale Terzo Settore -. È sbagliato non prevedere la possibilità di forme di partenariato fra le istituzioni pubbliche e il Terzo settore. Peraltro le organizzazioni di Terzo settore, al pari delle amministrazioni pubbliche, sono assegnatarie dirette di beni confiscati alle mafie. In questo modo si commette un doppio errore: non si rispettano le indicazioni del Pnrr e si discrimina il Terzo settore invece di sostenerlo». Non meno netta è la critica di Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione con il Sud che ha finanziato, e continua a finanziare convintamente, molte delle iniziative del Terzo settore sui beni confiscati. «È una grande occasione mancata. Ricordiamo che si tratta di più di 300 milioni di euro. Ma ancora una volta c'è un intervento che non si fa carico della questione nella sua complessità ma va avanti a pezzi». E non è la prima volta, ricorda Borgomeo. «Prima della pandemia l'Agenzia nazionale per i beni confiscati ha messo al bando mille beni per il Terzo settore, ma senza prevedere neanche un euro. E quindi le organizzazioni che partecipano al bando devono poi andare in giro a cercare soldi». Ma a proposito di fondi, Borgomeo fa un'altra precisa critica. «La seconda grande obiezione che facciamo al nuovo bando è che ancora una volta i soldi servono solo per le ristrutturazioni dei beni. Ed è esattamente quanto hanno fatto nel passato i Pon sicurezza del ministero dell'Interno, che hanno combinato dei guai. Hanno sistemato dei beni, ma poi non ci hanno fatto niente. Delle belle scatole vuote, che nel tempo sono anche state vandalizzate, magari dagli stessi mafiosi. Un'immagine di spreco. Lo Stato non solo non è in grado di utilizzare questi beni, ma butta anche altri soldi. Lo stesso errore si ripete oggi. Per questo dico che è un'occasione persa. È una superficialità. Un messaggio di sfiducia nei confronti di chi da anni tira la carretta, con progetti realizzati». Dunque, conclude, «il ministro per il Sud e la Coesione territoriale, Mara Carfagna farebbe un atto di grande intelligenza politica se ritirasse l'avviso e lo ridiscutesse col Forum del Terzo settore. Una richiesta che fa anche la portavoce del Forum. «Il rischio è quello di fare un regalo alle mafie. Crediamo che sia necessario correggere l'avviso pubblico. Siamo disponibili a collaborare mettendo a disposizione le competenze e l'esperienza maturata sul campo». Oltretutto nel bando si legge che «il Soggetto proponente deve dimostrare e garantire il possesso delle capacità operative ed amministrative in termini di competenze, risorse e qualifiche professionali idonee a garantire la realizzazione del progetto». «Noi crediamo che questa descrizione ci rispecchi appieno», sottolineano i consorzi e le cooperative che hanno firmato l'appello. «Noi che la comunità la viviamo, la accompagniamo, siamo attenti e abili lettori dei problemi quotidiani e siamo in grado di fornire risposte in tempi brevi, individualizzate, concrete, con risorse altamente specializzate che operano tra i bisogni espressi e inespressi del territorio ». Storie di esperienze davvero virtuose in territori difficili, dove le mafie sono ancora forti. E così i firmatari concludono l'appello con dure parole, quasi un grido. «Basta ricorso alle competenze del Terzo settore a basso costo e solo in un secondo momento, agendo così da meri esecutori della Pubblica amministrazione».
IL PAPA A CIPRO: I MURI FRENANO L’EUROPA
Il viaggio del Papa a Cipro e in Grecia. Dice Papa Francesco: "I muri della paura e i veti nazionalisti frenano l'Europa". Il racconto di Paolo Rodari per Repubblica.
«L'Europa, spiega Papa Francesco, «ha bisogno di riconciliazione, coraggio e slancio per camminare in avanti». Perché «non saranno i muri della paura e i veti dettati da interessi nazionalisti ad aiutare il progresso, e neppure la sola ripresa economica potrà garantire sicurezza e stabilità». E, insieme, ricorda a chiare lettere come deve essere una Chiesa fedele al Vangelo: «Non ci sono e non ci siano muri nella Chiesa cattolica», avverte. «È una casa comune, è il luogo delle relazioni, è la convivenza delle diversità». Non è un caso che il trentacinquesimo viaggio apostolico di Francesco abbia come destinazione Cipro e Grecia (da ieri fino a lunedì). Mentre l'Europa è attraversata da venti nazionalisti, con Paesi sulla carta "cattolici" come la Polonia e l'Ungheria che alzano muri e fili spinati per proteggersi dall'"invasione" dei migranti, il vescovo di Roma sceglie come destinazione l'ultima capitale ancora divisa da un muro, Nicosia, ogni giorno meta ambita da centinaia di persone in cerca di fortuna dai territori turchi, e insieme la Grecia, anch' essa approdo di migrazioni di massa dal mare, quel Mediterraneo «luogo di conflitti e di tragedie umanitarie». Francesco lancia un messaggio all'Europa non solo a parole, ma anche coi fatti: grazie al suo interesse, infatti, entro Natale cinquanta immigrati lasceranno Cipro e arriveranno in Italia attraverso un corridoio umanitario. Una enorme bandiera turca scolpita nella roccia delle montagne di Kyrenia domina Nicosia. La città è divisa in due dall'invasione dei turchi avvenuta nel 1974. La Green Line è un confine composto da filo spinato e da alcuni tratti di mura al cui interno si trova una zona cuscinetto pattugliata dai caschi blu. È da qui che Francesco, pur senza citare direttamente l'occupazione, chiede l'avvento di un'Europa diversa: «La pace - dice - non nasce spesso dai grandi personaggi, ma dalla determinazione quotidiana dei più piccoli». E ancora: «Sono venuto pellegrino in un Paese piccolo per la geografia ma grande per la storia; in un'isola che nei secoli non ha isolato le genti, ma le ha collegate; in una terra il cui confine è il mare; in un luogo che segna la porta orientale dell'Europa e la porta occidentale del Medio Oriente». L'Europa di Francesco è la stessa che sognarono i suoi padri fondatori, accogliente e aperta. Mentre quanto sta accadendo in Polonia, Ungheria ed anche in Serbia e Grecia è ferita che sanguina. Cipro ha una presenza di immigrati che in percentuale è la più rilevante tra i Paesi dell'Unione: «È importante, in questo senso - osserva ancora Francesco -, tutelare e promuovere ogni componente della società, in modo speciale quelle statisticamente minoritarie». Gli ultimi, del resto, a cominciare dalle popolazioni migratorie, sono al centro del pontificato in corso. Dal primo viaggio a Lampedusa fino all'ultimo di questi giorni, sono i confini che il Papa vuole valicare. Non a caso, sul volo Ita Airways che lo porta a Cipro dice salutando i giornalisti che è un viaggio che tocca «diverse piaghe». I migranti, ha spiegato due giorni fa, sono trattati come «moneta di scambio», «pedoni sulla scacchiera», «vittime delle rivalità politiche». Parole sentite, che verranno ribadite anche in Grecia, in particolare domenica quando entrerà nel campo profughi di Karà Tepè prima del ritorno lunedì a Roma».
L’EUROPA APPOGGIA VARSAVIA CONTRO I MIGRANTI
La Commissione europea diventa complice degli abusi alla frontiera polacca? Bruxelles sembra legittimare i respingimenti dei rifugiati afghani. Francesca De Benedetti per Domani.
«La Commissione europea avalla e sostiene le politiche respingenti e disumane della Polonia alla frontiera d'Europa. Lo fa usando gli stessi dispositivi di emergenza che invece ha lasciato volutamente inutilizzati questa estate, quando l'emergenza era dare accoglienza ai rifugiati afghani. Solerte nel facilitare alla Polonia i respingimenti e complicare il diritto di asilo a chi lo chiede, Bruxelles è invece inerte di fronte alle limitazioni messe in pratica da Varsavia alla frontiera nei confronti delle ong, dei media, dei deputati e persino degli stessi europarlamentari, ai quali pure la Polonia ha impedito di vedere cosa accade alla frontiera Ue. La scelta di Bruxelles La Polonia ha già legalizzato i respingimenti illegali. Ora la Commissione si attiva per dare un quadro di legalità a quanto fatto da Varsavia. A metà ottobre, la coalizione di governo polacca si è compattata in parlamento per l'espulsione di chi prova a entrare nel Paese - e quindi nell'Ue - anche se è richiedente asilo. Significa ignorare che chi prova a entrare abbia una domanda di protezione internazionale, a dispetto della convenzione di Ginevra sui rifugiati. Mercoledì la commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson, pur sollecitata sul tema dai giornalisti, non ha espresso parole di condanna per questa «legge polacca sull'espulsione». Al contempo ha presentato una proposta che accompagna e asseconda proprio la linea di Varsavia. Alla Polonia, come a Lituania e Lettonia che confinano con la Bielorussia «responsabile di un attacco ibrido all'Ue», Bruxelles vuol consentire per almeno sei mesi di rinviare la registrazione delle domande di asilo: invece dei 3-10 giorni regolari, ci sarà un intero mese di tempo. La procedura di asilo alla frontiera può essere applicata entro quattro mesi. Mentre i tempi vengono dilatati, i luoghi vengono ristretti: agli Stati in questione è consentito circoscrivere la possibilità di registrare la richiesta di asilo a specifici punti. Oltre a complicare le cose ai richiedenti asilo, Bruxelles facilita i rimpatri: «Procedure semplificate e più rapide». Le espulsioni concordate La proposta di Bruxelles si avvicina molto alla legalizzazione dei respingimenti, nota il giornalista polacco Witold Gowacki, che conclude: «Questa è l'ennesima conferma che la Commissione Ue sta autorizzando informalmente almeno una parte della dura politica applicata dal governo Pis al confine». A ciò si accompagna l'iperattivismo di Bruxelles per evitare che chi vuol chiedere asilo riesca anche solo ad arrivare alla frontiera europea; e se ci arriva, che se ne vada. È scritto nella proposta stessa: «La Commissione, l'Alto rappresentante, gli stati membri hanno intrapreso un intenso sforzo diplomatico coi paesi di origine e transito per prevenire ulteriori arrivi attraverso la Bielorussia». A metà novembre, Ursula von der Leyen ha «incaricato il vicepresidente Schinas di impegnarsi immediatamente con i Paesi chiave. È stato in Iraq, Emirati Arabi Uniti, Libano, Turchia e Uzbekistan». In quella stessa fase, l'Iraq ha cominciato i voli di rimpatrio. Una scelta di campo A chiarire ancor più la volontà politica che sta dietro la proposta di Bruxelles, c'è il raffronto con altri casi. La premessa è che, stando ai dati dello stesso gabinetto Ue, «nel 2021 ci sono state 6.730 richieste di asilo in Polonia». Come ha notato Piotr Buras, che dirige l'ufficio di Varsavia dell'Ecfr, questi numeri sono gestibili; negli anni Novanta i polacchi hanno assorbito senza problemi l'arrivo molto più massiccio dei rifugiati ceceni. A ogni modo la Commissione ha ritenuto che bisognasse far ricorso a un dispositivo di emergenza. «Qualora uno o più stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio degli stati interessati»: questo è il Trattato di Lisbona, articolo 78, paragrafo 3. Proprio questo stralcio è anche la base giuridica utilizzata da Bruxelles per avanzare la sua proposta mercoledì. Quando questa estate è cominciato l'esodo dall'Afghanistan, la Commissione è stata sollecitata da eurodeputati e difensori dei diritti perché invocasse quello stesso paragrafo d'emergenza per garantire a livello europeo un'accoglienza immediata. Non lo ha fatto. Nel 2011, quando il governo italiano si è rivolto alla Commissione per una redistribuzione a livello europeo di circa 10mila tunisini, l'allora commissaria Cecilia Malmström ha risposto che «non vedo un afflusso massiccio» e nessuna leva di emergenza è stata attivata, per l'accoglienza in Ue. La linea della Commissione, che introietta gli argomenti della destra sovranista, è in sintonia coi governi riuniti nel Consiglio europeo, al quale ora spetta deliberare sulla proposta; l'Europarlamento può solo dare un parere, e protestare come stanno infatti già facendo socialdemocratici, sinistra e verdi. L'approccio securitario di Bruxelles è esasperato dal fatto che «da una dozzina di anni il tema migratorio è in mano a chi ha la delega agli Interni, e affronta la cosa solo in questa chiave», dice Emilio De Capitani, ex segretario della commissione Libertà civili (Libe) dell'Europarlamento e ora visiting professor alla Queen Mary University di Londra. Il tema migratorio è in mano ai ministri dell'Interno Ue e alla Commissaria Ylva Johansson, la stessa che manifesta condivisione per la politica dei muri praticata dalla Polonia. A tirare le fila nella Commissione poi è il vicepresidente Margaritis Schinas, che viene dalla destra di Nea Dimokratia. «Proprio lui di recente ha gongolato perché finalmente l'Ue aveva una "agenzia per le espulsioni", così l'ha chiamata», ricorda Capitani. L'europarlamentare del Pd Pierfrancesco Majorino è appena tornato dal confine polacco; anche lui, come i deputati polacchi, i media, le ong, non ha potuto entrare nella "zona rossa" stabilita dal governo a ridosso della frontiera. La Commissione almeno su questo reagisce? «Macché. E intanto chi porta acqua o coperte nella zona rossa rischia la galera», dice Majorino. Il paradosso è che mentre i respingimenti diventano norma, «l'attività umanitaria viene criminalizzata». E la Commissione? «Se ne frega».
Reportage da Calais, costa francese della Manica. Qui il 24 novembre c’è stata la strage dei migranti: “Ci dicono che è un lago ma poi la gente affoga”. I gommoni nascosti tra le dune e i bunker. Anais Ginori per Repubblica.
«Quando il tempo è bello, si possono vedere le bianche scogliere di Dover. «I passeurs dicono ai migranti che questo è un lago ed è facile attraversarlo, ma non è vero. Il Canale tradisce anche i migliori navigatori». Volto scavato dalla salsedine, Charles Devos non ha dimenticato quella notte. «Il nostro mestiere è salvare persone, non raccogliere cadaveri». Una settimana fa è partito con la sua imbarcazione non appena si è sparsa la voce di un gommone alla deriva. A bordo c'erano trentatre persone. Devos è riuscito a dare soccorso agli unici due sopravvissuti. Di naufragi ne aveva visti tanti, ma una strage così non era mai accaduta nella Manica. «Pensavamo di poterci abituare, e invece è ancora scioccante, in particolare quando ci sono bambini», racconta negli uffici della Société nationale de sauvetage en mer, un cubo di cemento battuto da raffiche di vento. Nell'ultimo anno le chiamate sono quotidiane perché quel tratto di mare, poco più di trenta chilometri, è l'ultima strettoia per raggiungere il Regno Unito. La zona del porto è ormai protetta da telecamere e alte recinzioni di filo spinato, in un'atmosfera lugubre che fa pensare alla Germania Est, mentre il traforo dell'Eurotunnel è circondato da profondi fossi riempiti d'acqua che ricordano battaglie medioevali contro i barbari. «Qualche giorno fa continua Devos - c'era una donna che urlava in mare con il suo bambino di tre mesi in braccio». Erano partiti da Loon Plage, landa desolata verso Dunkerque. Uomini, donne e bambini stipati in una sorta di "piscina gonfiabile" come racconta il marinaio. A volte è anche peggio. I migranti salgono a bordo di piccole canoe, materassini gonfiabili, un uomo è stato ritrovato morto con indosso una ciambella fatta di bottiglie di plastica. Mohammed Sheka è uno dei sopravvissuti della strage del 24 novembre. Il canotto ha cominciato subito a prendere acqua. «Abbiamo chiamato la polizia francese», ricorda Mohammed. «Hanno chiesto la nostra posizione e hanno detto che eravamo in acque britanniche, non era possibile intervenire». «A quel punto - prosegue l'iraniano di ventuno anni - abbiamo telefonato agli inglesi. Ci hanno risposto: parlate con i francesi». Nell'assurdo rimpallo, il mare era ormai diventato una trappola. «Ci siamo presi per mano, per darci coraggio». Le autorità francesi smentiscono di aver ignorato un Sos quella notte. L'allarme ufficialmente è arrivato da un pescatore di Boulogne- sur-Mer, uno dei tanti in lotta per le licenze bloccate dal Brexit. L'inchiesta dovrà ricostruire la dinamica dei fatti e trovare i responsabili. Mohammed non vuole parlare dei trafficanti che smistano le partenze e si comportano ormai da padroni sulla Côte d'Opale francese, la costa tra Dunkerque, la frontiera belga e la foce della Somme. I rumeni sono la comunità insediata da più tempo tra i passeurs. Poi ci sono i curdi, i vietnamiti. Ognuno ha la sua rotta, la sua clientela a cui far pagare anche tremila euro per una traversata. Mohammed glissa le domande, spiega di essere stato minacciato dai contrabbandieri. I quasi duecento chilometri di costa sono pattugliati dalla guardia costiera e dalla gendarmeria francese per conto degli inglesi. Non devono respingere sbarchi o ingressi clandestini, come capita in altre frontiere dell'Ue, ma impedire a persone di fuggire. Un'assurdità che risale al 2003, quando il presidente Jacques Chirac e il premier Tony Blair negoziarono gli accordi bilaterali del Touquet. Da allora, la frontiera della Gran Bretagna corre sul continente e la Francia si impegna a fermare i migranti. Il governo di Londra paga tutto, dalle recinzioni ai visori termici usati dai gendarmi. «I colleghi sono motivati ma poi, sul campo, ricevono proiettili e si trovano in situazioni complesse da gestire», racconta Bruno Noël, segretario regionale del sindacato di polizia Alliance. I passeurs nascondono i gommoni tra le alte dune di sabbia o i vecchi bunker costruiti durante la guerra. Hanno imparato tattiche di diversione, usando "barche esca" che attirano le motovedette francesi per organizzare partenze in altre zone. Da qualche ora è atterrato a Lille un aereo dell'agenzia europea Frontex che aiuterà la sorveglianza del litorale. Più volte al mese ci sono retate, ma i tempi della giustizia sono lunghi e qualche settimana dopo i poliziotti ritrovano gli stessi criminali di nuovo in azione. «Ci domandiamo a cosa serve il nostro lavoro», confida il sindacalista. Davanti alle critiche del Regno Unito, le autorità francesi sono costrette a chiarire: «Sulla terraferma lottiamo contro l'immigrazione illegale, ma appena c'è un centimetro d'acqua non possiamo più farlo. A quel punto la priorità è il salvataggio», spiega un portavoce della Prefettura. A scanso di equivoci, davanti alla Côte d'Opale non si può fare come se si fosse al largo della Libia».
QUIRINALE 1. MELONI CI RIPENSA SU MR.B
Sui giornali tantissimi articoli, con spigolature, schemi e grafici sulla prossima elezione del Capo dello Stato. È iniziato il romanzo Quirinale. Fabrizio De Feo sul Giornale racconta che la Meloni “torna a riaprire” alla candidatura di Silvio Berlusconi al Colle.
«Il centrodestra riprende il suo cammino di avvicinamento verso il grande appuntamento politico del 2022, quell'elezione del capo dello Stato dove per la prima volta Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia potranno, numeri alla mano, orientare la scelta dei Grandi Elettori. Un segnale questa volta arriva da Giorgia Meloni che torna a riaprire la porta alla candidatura di Silvio Berlusconi. «Penso sia assolutamente normale che le forze politiche si sentano, non ci farei grandi retroscena sopra: quello che io penso, tuttavia è che il centrodestra in questa trattativa si muova assolutamente compatto, perché abbiamo la grande occasione di far contare un'altra visione anche per raggiungere l'obiettivo di un presidente che faccia l'interesse della nazione» dichiara Giorgia Meloni a margine della presentazione del libro di Gianfranco Rotondi La variante Dc. E a un cronista che le chiede conto delle dichiarazioni di esponenti del centrosinistra, secondo i quali il nome di Berlusconi sarebbe un problema per il Paese, la risposta è piuttosto esplicita: «Io penso invece che sul tema della difesa della sovranità nazionale non sarebbe un problema, anzi». In serata a Porta a Porta chiarisce: «Berlusconi è un'ottima carta, però non è una partita facilissima. Bisogna avere un "piano B" e, forse, anche un "piano C". Ho chiesto alla coalizione compattezza dall'inizio alla fine». Dalla Lega e Forza Italia non arrivano commenti alle parole della presidente di Fratelli d'Italia. Dalle parti del Carroccio si ricorda che bisogna concentrarsi sulla manovra e su altre priorità come il nucleare. Informalmente però si fa notare che, al di là di alcune narrazioni giornalistiche, i tre leader si sentono con una certa frequenza e con buona armonia. Lorenzo Cesa, invece, intervistato dal direttore della Dire Nicola Perrone, si dice convinto che ci sia «un dovere nei confronti di colui che ha guidato il centrodestra negli ultimi 25 anni, e che si chiama Silvio Berlusconi». Giorgia Meloni, peraltro, si prepara a far riaprire i battenti alla festa di Atreju in una versione invernale dal 6 al 12 dicembre a Piazza Risorgimento a Roma. Un appuntamento a cui prenderanno parte, tra mercatini natalizi e una pista di pattinaggio sul ghiaccio, i leader del centrodestra, ma anche Giuseppe Conte, Luigi Di Maio che si confronterà con Giancarlo Giorgetti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Marcello Pera, Luciano Violante e Sabino Cassese. Il titolo della manifestazione è «Il Natale dei conservatori», un nome scelto «prima delle deliranti linee guida dell'Unione europea - dice Meloni - quindi incentrare Atreju sul Natale è stata una scelta azzeccata. Col Natale dei conservatori intendiamo la nascita di un'alternativa al pensiero dominante, che metta insieme tante destre». Ci saranno anche ospiti internazionali come i due vicepresidenti del gruppo Ecr, un esponente del Likud, l'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani. «Sarà un grande villaggio natalizio, ci sarà anche il vin brulé». Non passa inosservato, naturalmente, il ritorno del termine conservatore a scapito della dizione sovranista. Non bisogna però dimenticare che Giorgia Meloni dal settembre del 2020 guida la famiglia dei Conservatori europei e non è un mistero il desiderio di allargare il perimetro di azione di Fdi verso altre realtà. Un percorso di crescita che individui come unica legittimazione quella proveniente dagli elettori, superando, spiegano, il consueto meccanismo della «vidimazione delle idee responsabili» da parte del centrosinistra».
QUIRINALE 2. “DI MAIO DEVE SMENTIRE”
Anche Il Fatto propone oggi un borsino di candidati al Colle e pubblica 4 nomi con foto: Casini, Cartabia, Amato e Bindi. Marco Travaglio nel commento in prima pagina se la prende con l’indiscrezione pubblicata ieri sulla “confidenza” che avrebbe fatto Di Maio ad alcuni diplomatici stranieri.
«Magari è tutto falso, ma allora ci vorrebbe una netta smentita dei due interessati, Draghi e Di Maio. Che invece, per tutta la giornata di ieri, non è arrivata. La notizia, data da Repubblica citando "fonti diplomatiche", è questa: "nel corso di un vertice internazionale, Di Maio si sarebbe lasciato andare a una confidenza Mario Draghi starebbe lavorando a una staffetta con Daniele Franco. L'attuale premier andrebbe al Quirinale, il ministro dell'Economia traslocherebbe a Palazzo Chigi". Ora, noi siamo uomini di mondo e ne abbiamo viste di tutti i colori. Ma una democrazia parlamentare ridotta a impresa traslochi, anzi autotraslochi, che per giunta opera aumma aumma fregandosene della Costituzione e anche del comune senso del pudore, è una novità assoluta. Ed è la naturale conseguenza della scelta sciagurata compiuta a febbraio dal Quirinale e da quasi tutti i partiti di risolvere la crisi del Conte-2 con un'invereconda ammucchiata, riverniciata da Governo dei Migliori, anziché con le elezioni (che, chissà perché, si possono tenere in tutto il mondo anche in piena pandemia, fuorché nella povera Italia). Da quella jattura discende la presa del potere di un circoletto di "tecnici" mai eletti né indicati da alcun partito che si riuniscono nelle segrete stanze per fare e disfare leggi di Bilancio, modifiche peggiorative al Pnrr, controriforme della giustizia, Green pass per lavorare, aperture al nucleare, nomine pubbliche, spartizioni della Rai e patti segreti con la Francia, smantellando quasi tutto ciò che di buono avevano fatto i due governi espressi dal voto del 2018, aggirando non solo il Parlamento (ricattato dalla perenne urgenza con fiducie a raffica e decreti che neppure vengono convertiti in legge perché cambiano alla velocità della luce o durano poche settimane), ma pure il Consiglio dei ministri (chiamati a timbrare testi mai letti prima). Ora è l'apoteosi dell'aumma aumma: il premier aspira a salire al Colle (sarebbe la prima volta nella storia repubblicana) e fa sapere all'inner circle dei draghetti (fra cui Di Maio) che una volta eletto passerà il testimone a tal Franco, noto frequentatore di se stesso. Certo: il premier lo nomina il capo dello Stato, dunque se Draghi lo diventa è tutto normale. Ma prima il capo dello Stato consulta le forze parlamentari per sapere quale premier e quale governo appoggerebbero. E soprattutto: Draghi non è stato ancora eletto presidente, né può sapere se mai lo sarà, dunque a che titolo si sceglie il successore senz' averne alcun titolo? Il cortocircuito è talmente grave e grottesco che non abbiamo dubbi: ieri Draghi e Di Maio erano molto impegnati o molto distratti, ma oggi smentiranno tutto. O no?».
L’autore dell’articolo di ieri che ha provocato l’irritazione di Travaglio, Tommaso Ciriaco di Repubblica, torna anche lui sull’argomento.
«Esiste un "partito dei ministri". Rigorosamente draghiani. Alcuni, per ovvie ragioni, preferirebbero che il presidente del Consiglio restasse a Palazzo Chigi. Ma tutti sono pronti ad assecondare, almeno ufficialmente, la possibile ascesa di Mario Draghi al Colle. Di certo non escludono nelle dichiarazioni pubbliche una staffetta alla guida del governo. Quella staffetta racchiusa nella confidenza di Luigi Di Maio ad alcuni diplomatici, che vorrebbe un passaggio di consegne tra l'ex banchiere centrale e l'attuale ministro dell'Economia Daniele Franco. Uno scenario che però, nelle ultime ore, continua a scontrarsi con i dubbi di settori della maggioranza. E che produce una spinta uguale e contraria a favore del bis di Sergio Mattarella. La staffetta non è tanto - o soltanto - questione di nomi. È evidente, ad esempio, che anche Marta Cartabia si candida come una possibile alternativa all'attuale premier. Indiscrezioni che dimostrano soprattutto un fatto: la "campagna" a favore di Draghi al Quirinale non accenna a esaurirsi. I ministri a lui vicini, come detto, si espongono ballando sempre sul filo del non detto: l'ex banchiere è un patrimonio da preservare, dicono, una figura da lasciare alla guida del Paese ben oltre gennaio. Lasciano però sempre aperte le due opzioni - Palazzo Chigi e Colle - proprio per non bruciarlo. Lo fa Mara Carfagna. Di Maio sostiene che «l'Italia non può permettersi di perdere Draghi», senza dettagliare il ruolo che dovrà ricoprire. Tifa Draghi al Quirinale soprattutto Renato Brunetta. E Giancarlo Giorgetti, il primo ad aver lanciato il Presidente del Consiglio per il Colle. L'effetto, nei partiti, si avverte. Quaranta giorni sono lunghi, le manovre tattiche si sprecano. Ma il Pd, ad esempio, continua a muoversi con cautela. Preferirebbe lasciare Draghi a Palazzo Chigi. Ampi settori del Nazareno, ad eccezione della sinistra del partito, continuano a ritenere fondamentale la difesa degli equilibri attuali, con un bis di Sergio Mattarella. Lo si intuisce anche dai ragionamenti di Dario Franceschini: «Credo che dopo l'elezione del Quirinale la legislatura debba continuare. Sarebbe irrazionale interrompere questo processo. Siamo ancora in pandemia, come dimostrano le mascherine che ancora indossiamo. Dobbiamo continuare, al di là delle singole convenienze per il voto». A pochi minuti dalle sue dichiarazioni, escono allo scoperto anche alcuni senatori dem - Luigi Zanda e Gianclaudio Bressa - storicamente vicini al Capo dello Stato. Assieme a Dario Parrini, depositano un disegno di legge costituzionale che modifica gli articoli 85 e 88 della Costituzione e vieta la rieleggibilità del presidente della Repubblica. In un attimo si scatena la caccia all'interpretazione autentica della mossa, finché proprio Bressa chiarisce: «Nella migliore delle ipotesi il ddl non potrebbe entrare in vigore prima della fine del 2022. Non è un'iniziativa legislativa che guarda all'elezione di gennaio». E infatti, l'obiettivo dei tre sembra quello di rassicurare chi teme un eventuale bis, considerandolo la conferma di una nuova prassi (dopo la doppia elezione di Giorgio Napolitano). Creando inoltre le condizioni per spingere l'attuale Capo dello Stato a superare alcune perplessità sulla rielezione. Tutte speculazioni, almeno a questo punto della partita. Certo è invece l'attivismo degli altri leader di partito. Silvio Berlusconi continua a marcare stretto i grillini senza casa, in una vera e propria campagna di reclutamento per la sua candidatura al Colle. È, questo, un altro ostacolo alla staffetta di Draghi. Proprio le truppe 5S sono l'altra incognita sul cammino del premier. Difficile, infatti, convincere deputati e senatori grillini che l'elezione del premier al Quirinale non metta a rischio la legislatura. Alcuni, nell'urna, potrebbero opporsi a Draghi. Generando una pericolosa dinamica che rischierebbe di depotenziarlo anche nel suo ruolo di guida dell'esecutivo».
QUIRINALE 3. A DRAGHI SERVE UN PERCORSO
Il Foglio si occupa del "percorso" che serve per eleggere Draghi al Quirinale. Tocca ai partiti decidere: sulla carte fra i 1007 grandi elettori 864 sarebbero teoricamente per lui. Carmelo Caruso.
«Sono incapaci di formulare la domanda ma pretendono di ricevere la risposta: o non lo sanno corteggiare o fingono solamente di desiderarlo. La domanda che i partiti non riescono a rivolgere a Mario Draghi, se non attraverso la mezza frase, la mezza porzione, è "ci dica cosa vuole fare a gennaio". E si racconta che i leader della maggioranza siano addirittura infastiditi e che tutto il loro smarrimento nasca da questa incomunicabilità. Ma sul serio credono che Draghi li debba convocare e comunicargli: "Sono d'accordo, votatemi presidente della Repubblica?" o dire "preferisco fare il premier?". E' scaduta fino a questo punto la sintassi istituzionale? Chi aspetta un segnale da parte sua resterà deluso. Non arriverà. Dovrebbe arrivare un segnale da loro, dai partiti. Qualcosa sta accadendo. Le conversazioni incrociate sono iniziate. Si registrano telefonate fra Conte- Salvini- Di Maio. Negli scorsi giorni, per merito del segretario del Pd, si è imposta una parola. E' "perimetro". Quella nuova è invece "percorso". Il senso di quello che si sta per dire, ed è il senso di pensieri scambiati con chi "abita" Palazzo Chigi, è questo: "Chi pensa che la figura di Draghi si possa salvaguardare meglio eleggendola al Quirinale può disegnare un percorso". E' un percorso che i partiti possono favorire ma intervenendo come chiede la democrazia: agire sui parlamentari, gli unici depositari della scelta. I numeri a favore di Draghi sono plebiscitari. Su 1.007 grandi elettori ne avrebbe dalla sua 864. Al momento, quello che molti chiamano silenzio, il silenzio del premier, è il "distacco attento". I dubbi sono infatti più delle conferme e le conferme nutrono i dubbi. Primo. Ci sono "grandi registi" chiamati a gestire questa partita? Non si vedono, si attendono. Ancora. I partiti hanno una soluzione da consegnare a Draghi per il dopo Draghi? Per elevarlo bisogna avere in mente un nome per portare avanti le due priorità di governo: economia e pandemia. Priorità, attenzione. Non emergenze. Quanto di più scorretto è infatti raccontare questo paese come un paese a un passo dalla catastrofe. E' solo un alibi che i partiti si stanno costruendo per celare un difetto di volontà e la loro impreparazione. Il paese di ora, dopo un anno di governo, ha superato la Germania come numero di vaccinati. Agiografia? Che stupidaggine. E' sufficiente prendere i giornali dell'anno precedente e misurare la differenza. E' la differenza che corre tra la vetta e l'abisso. Perché si evidenzia? Perché presto ci sarà un momento di verità. Sarà la conferenza di fine anno. Si può già immaginarla come il saldo di quanto il governo ha compiuto. I bandi del Pnrr sono partiti. Il Mims del ministro Enrico Giovannini ha già assegnato 57 miliardi di euro di fondi ( il 93 per cento della somma a sua disposizione). La promessa fatta da Draghi, raggiungere i target delle riforme entro dicembre, è meno di una promessa e più che quasi vicina. Significa che verrà erogata, a inizio 2022, la seconda parte dei fondi del Pnrr e che da allora in avanti i soggetti attuatori saranno gli enti locali. Sarà dunque un bilancio "sano" e non il bollettino di una nazione che sta per entrare nell'età della nuova sciagura. A chi conviene ripeterlo? A chi non riesce a controllare questa fase e rimane fermo. Sono i partiti, i confusi che dicono "ci confonde lui". L'elezione presidenziale avrebbe già dovuto esaltarli. Cosa aspettano? Sono entrati nella zona Ionesco, quella dell'assurdo: hanno un primo attore che non riescono a fare recitare».
QUIRINALE 4. RENZI E TOTI, ATTENTI A QUEI DUE
Anche il centro si muove, Renzi e Toti metterebbero assieme una settantina di grandi elettori. Sul Corriere l’articolo di Maria Teresa Meli.
«A quanto pare, nonostante le dichiarazioni di rito, nessuno ha voglia di aspettare gennaio per buttarsi nella partita del Quirinale. Del resto, i giochi per il Colle si sono sempre aperti prima della scadenza. Il che, naturalmente, non vuol dire che si siano ogni volta chiusi in anticipo. Matteo Renzi, cultore della velocità e della tattica parlamentare, si vuole portare avanti col lavoro. Si susseguono perciò gli incontri tra Italia viva e Coraggio Italia, la formazione guidata dal governatore della Liguria Giovanni Toti e dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. L'ex premier è in buoni rapporti non solo con il primo cittadino del capoluogo veneto, ma anche con il sindaco di Genova Marco Bucci, legato a filo doppio con Toti, e ospite, non a caso, dell'ultima Leopolda. I tre si sentono e si consultano. Davide Faraone e Gaetano Quagliariello, a Palazzo Madama, Maria Elena Boschi e il presidente dei deputati di Coraggio Italia Marco Marin, a Montecitorio, stanno lavorando all'idea di una federazione tra i rispettivi gruppi. Una federazione che non ha (ancora) una valenza politica, ma che dovrebbe nascere in funzione dell'elezione del successore di Sergio Mattarella. Non è ancora detto che il progetto vada in porto. Però le basi ci sono: si sta parlando di un pacchetto di più di settanta grandi elettori. Un drappello parlamentare non indifferente, nel caso in cui, a gennaio, per scegliere il nuovo presidente della Repubblica, si dovesse arrivare alla quarta votazione, ossia a quella in cui non c'è più bisogno della maggioranza di due terzi prevista dalla Costituzione. Allora, al quarto scrutinio, più di una settantina di voti potrebbero fare la differenza. D'altra parte, Renzi lo aveva detto: «Sul Quirinale non starò a guardare». E Boschi qualche tempo fa confidava ad alcuni parlamentari amici: «Vedrete che Matteo darà del filo da torcere nelle elezioni del capo dello Stato». E anche i leader di Coraggio Italia avevano avvertito Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni: «Il nostro movimento si riterrà libero di effettuare proprie scelte su tutti i principali temi, a partire dall'elezione del presidente della Repubblica». Come si diceva, quella centrista è un'operazione al momento esclusivamente parlamentare, in vista del cambio della guardia al Quirinale, ma è ovvio che i protagonisti dell'una e dell'altra parte stiano guardando anche al dopo (nessuno è disposto a scommettere che, alla fine, per un motivo o per l'altro, non si arrivi alle elezioni anticipate). Renzi lo aveva sottolineato anche alla Leopolda: «Il centro c'è già. Qualcuno lo rappresenterà. A me piacerebbe che a farlo fosse un soggetto plurale, come ha fatto Macron in Francia. Ma quest' area c'è già e sarà decisiva anche nella prossima legislatura». Di movimenti al centro ce ne sono tanti in questo periodo. Per il sei dicembre, per esempio, l'ex leader dei metalmeccanici della Cisl Marco Bentivogli, ha indetto un convegno in cui è riuscito a rimettere insieme Italia viva e Azione: a quell'appuntamento saranno presenti sia Carlo Calenda che Maria Elena Boschi».
SPUNTANO I VIDEO DELL’ACCUSATORE DI BECCIU
Novità giornalistica sul fronte del maxi processo vaticano al cardinal Becciu e agli altri uomini d’affari accusati con lui di corruzione. Spuntano i video con gli interrogatori di monsignor Perlasca, teste chiave dell’accusa, rimasti finora segreti e che i Pm hanno dovuto depositare agli atti. Li pubblicano per il Corriere Fabrizio Massaro e Mario Gerevini, autori di un nuovo libro sullo scandalo, intitolato I Mercanti nel tempio.
«Un monsignore di alto rango, un tavolaccio da caserma, un armadio a vetro pieno di fucili. Siamo dentro la Città del Vaticano, in una stanza della Gendarmeria e il grande pentito si sta «confessando». Alberto Perlasca è la figura centrale dello scandalo che ha scosso la Chiesa Cattolica, quello sui soldi dell'Obolo di San Pietro. Il Corriere è riuscito a ottenere documenti esclusivi: i video delle deposizioni del monsignore davanti ai magistrati del Papa. Sono ore e ore di confronto, anche drammatico all'inizio. È il testimone chiave, l'accusatore numero uno nell'inchiesta sul palazzo di Londra e sulle spericolate operazioni della Segreteria di Stato. In gran riservatezza negli uffici della Gendarmeria tra la primavera 2020 e i primi mesi del 2021, Perlasca racconta la sua versione su anni di segreti della finanza vaticana. È stato per un decennio, fino al 2018, il capo dell'ufficio che gestiva, fuori da ogni controllo, i 600-700 milioni della cassa dell'Obolo. Di quei soldi sa tutto. Il monsignore è l'arma legale, insieme a una montagna di carte, che i promotori di giustizia utilizzeranno per chiedere il rinvio a giudizio di dieci tra laici ed ecclesiastici, compreso il cardinal Angelo Giovanni Becciu, che è stato suo diretto superiore e Sostituto alla Segreteria di Stato; ovvero, il numero tre del Vaticano. Nell'inchiesta si ipotizzano i reati di truffa, estorsione, appropriazione indebita, riciclaggio. Il processo si è aperto a luglio. Ma le difese sono agguerrite e l'impianto accusatorio fatica a reggere l'urto. Lo snodo chiave è proprio la deposizione di Perlasca, di cui finora si conoscevano solo pochi stralci di verbalizzazione sintetica scritta. Gli avvocati hanno ottenuto dal presidente del tribunale, Giuseppe Pignatone, l'annullamento dei rinvii a giudizio, perché, tra l'altro, i video degli interrogatori non erano stati depositati. I promotori di giustizia Gian Piero Milano e Alessandro Diddi hanno cercato di resistere; poi hanno obbedito al giudice, depositando le registrazioni con alcuni minuti coperti da omissis. I legali hanno ribadito l'esigenza di avere gli atti integrali. Prossima udienza il 14 dicembre. Il Corriere ha visto i filmati e una sintesi è da oggi disponibile su Corriere.it. Nei file c'è il disarmante racconto di come venivano gestiti gli affari in Segreteria di Stato: ingenuità, incapacità, ignoranza tecnica e forse (lo dirà il processo) malversazioni, tangenti, soldi rubati. Ma c'è anche altro. Per esempio la storia delle 12 mila medaglie d'oro, d'argento e di bronzo trasferite dai sotterranei dell'Apsa in armadi incustoditi della Segreteria di Stato. «Tutti sapevano dov' erano le chiavi». Ma ci sono anche passaggi estremamente delicati: il riferimento a Papa Francesco che secondo Perlasca, sul punto rintuzzato dal magistrato che confuta la sua ricostruzione, avrebbe dato via libera alla trattativa con Gianluigi Torzi, il broker accusato dagli inquirenti vaticani, tra l'altro, di estorsione. È andata davvero così? Torniamo dunque a poche decine di metri da San Pietro, nella stanza della Gendarmeria con le armi in vetrina che un po' inquietano. È il 29 aprile 2020. Per sette ore Perlasca, assistito da un legale, viene torchiato dagli inquirenti. Il suo racconto parte da lontano. Il Vaticano nel 2013-2014 entra in affari con un finanziere spregiudicato, Raffaele Mincione. Becciu e Perlasca gli affidano 200 milioni di dollari, metà dei quali usati per investire in un palazzo nel centro di Londra, al 60 di Sloane Avenue. I magistrati sospettano un giro di tangenti: «Nella maniera più assoluta!», si difende Perlasca. «Mincione ci ha stregati, è un incantatore». L'affare del palazzo va male, la Santa Sede vuole rompere con Mincione. Siamo a novembre-dicembre 2018. A chi si affida? Allo sconosciuto broker Gianluigi Torzi che con un contratto capestro - secondo l'accusa -, firmato da Perlasca, si impossessa di fatto dell'immobile. Il monsignore, ritenuto responsabile del pasticcio, viene allontanato da Edgar Pena Parra, succeduto a Becciu. E con Torzi parte una trattativa che porterà a liquidare il broker con 15 milioni. «Io ero per la denuncia», si difende Perlasca. E poi alza il braccio con l'indice puntato all'insù: «L'indicazione dall'alto era di trattare». Il riferimento è al Papa. Gli inquirenti insorgono, fanno scudo: «Non può dire queste cose, siamo andati dal Santo Padre e gli abbiamo chiesto che cosa è accaduto e di tutti posso dubitare fuorché del Santo Padre! Il Santo Padre è stato tirato in mezzo!». Sono minuti drammatici, il magistrato alza la voce, Perlasca abbozza: «Io ero per denunciare, la mia posizione era più intransigente». Anche più del Papa, sembra intendere. Passano quattro mesi. A fine agosto Perlasca ricompare davanti agli inquirenti. Sceglie di deporre senza avvocato. È l'inizio della collaborazione. Racconta ogni dettaglio e respinge i dubbi sulla sua onestà: «I regali di Crasso? Eccoli, li ho portati». E dallo zaino tira fuori una penna Parker, un Ipad ,«una borsa per pc che il computer neanche ci entra», uno swatch «pronto a essere riciclato come regalo». E due biglietti per l'Arena di Verona. Come a dire: corrotto con così poco? E Becciu? Il potente cardinale, ex dominus della Segreteria, è l'imputato eccellente. Il Papa l'ha defenestrato a settembre 2020. Perlasca racconta dei soldi dati alla sedicente agente segreta Cecilia Marogna. «Io non sapevo neppure che fosse una donna, l'ho saputo qui. Per me quella persona era un numero di conto!». Il cardinale - racconta Perlasca - era molto prudente nelle comunicazioni. «Un giorno mi disse: scarica Signal». È una chat criptata, anti-intercettazioni».
USA-RUSSIA A CONFRONTO SULL'UCRAINA
Dall’estero, possibile schiarita sui venti di guerra che soffiano dalle parti dell’Ucraina. Potrebbe a breve esserci un colloquio tra Putin e Biden. Antonella Scott per Il Sole 24 ore.
«Da una parte c'è la Russia di Vladimir Putin, che considera una minaccia per la propria sicurezza il legame tra l'Ucraina e l'Occidente. E con questo - il desiderio di Kiev di avvicinarsi all'Unione Europea, e di farsi proteggere dalla Nato - giustifica la decisione di intervenire in Crimea, tra febbraio e marzo del 2014, con un blitz che in pochi giorni portò all'annessione della penisola ucraina nella Federazione Russa. Unilateralmente, in seguito a un referendum organizzato senza chiedere il parere degli ucraini e prima che le forze dell'Alleanza Atlantica potessero immaginare di avvicinarsi troppo a Sebastopoli, base della Flotta russa del Mar Nero. Ciò che avvenne nel Donbass nelle settimane successive - una rivolta contro l'Ucraina che sfociò nella separazione di fatto delle regioni di Luhansk e Donetsk, una guerra mai conclusa che presenta un conto di più di 14.000 morti - è qualcosa da cui Mosca prende le distanze, definendola questione interna tra ucraini. Ma è alla Russia che Denis Pushilin, capo dell'autoproclamata repubblica separatista di Donetsk, afferma di voler chiedere aiuto militare in caso di attacco ucraino. Dall'altra parte c'è la Nato, che ripete - con Antony Blinken, segretario di Stato americano - che l'Alleanza non ha alcun intento aggressivo verso la Russia: «La Nato stessa è un'alleanza difensiva. E l'idea che l'Ucraina possa rappresentare una minaccia per la Russia sarebbe un pessimo scherzo, se la cosa non fosse così seria». Non c'è dunque alcuna ragione che giustifichi la mobilitazione russa di più di 90.000 uomini ai confini con l'Ucraina, uno spiegamento di forze che - secondo l'intelligence americana - tradisce l'intenzione di invadere. Una decisione per cui Mosca, ha ripetuto ieri Blinken, pagherebbe «un prezzo altissimo». Dopo settimane di moniti a distanza, di questa crisi ad alto rischio di riesplodere Blinken ha parlato ieri a Stoccolma con Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri russo, ai margini della riunione ministeriale Osce (l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Un incontro «serio, sobrio e concreto», ha riferito per parte americana un alto funzionario del dipartimento di Stato. Servito a trasmettersi i rispettivi avvertimenti ma anche a tentare la ricerca comune di una soluzione: «Una strada diplomatica c'è», aveva anticipato Blinken. Questo accenno a un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nel negoziato potrebbe essere l'appiglio su cui proseguire i prossimi contatti: «Siamo interessati a unire le forze per la regolazione del conflitto ucraino - ha detto Lavrov, commentando l'esito del colloquio con Blinken -. I nostri colleghi americani ripetono spesso di voler aiutare, senza sciogliere il "formato di Normandia" ma ricreando un canale separato di dialogo che esisteva con la precedente amministrazione. Noi siamo pronti». Il "formato Normandia" è il negoziato a quattro - Russia e Ucraina, Francia e Germania - istituito nel 2015, l'unica forma di dialogo diretto tra russi e ucraini che consentì di definire gli Accordi di Minsk, il percorso per arrivare a una composizione del conflitto nel Donbass per fasi. Compiuti i primi passi - scambi di prigionieri e l'allontanamento delle armi pesanti dalla linea di controllo che separa le forze ucraine dalle regioni separatiste - il dialogo si è bloccato di fronte ai passaggi più impegnativi: elezioni, il futuro status della regione, il controllo dei confini. Ora la reciproca diffidenza ha riportato la tensione sopra il livello di guardia: temendo una nuova aggressione da parte russa, l'Ucraina rivendica il diritto di scegliere in che campo stare, e chiede protezione militare alla Nato. Dall'altra parte del fronte, Mosca definisce inaccettabile la presenza di armamenti trasferiti alle forze ucraine da Paesi Nato. Bombardieri americani a pochi km dai confini russi, navi da guerra nel Mar Nero. «La minaccia alle nostre frontiere occidentali cresce ogni giorno», ha avvertito Putin. Diversi osservatori sospettano che la Russia non abbia alcuna intenzione di risolvere la crisi nel Donbass e la alimenti "da remoto" per continuare a destabilizzare l'Ucraina e tenere lontana la Nato da un focolaio troppo pericoloso. Del resto Putin, mercoledì scorso, è tornato a chiarire che dal suo punto di vista la radice del problema è l'espansione della Nato verso Est, attuata dopo la fine dell'URSS malgrado gli impegni presi con Mosca. Verbalmente: ora Putin chiede «garanzie giuridicamente vincolanti». Per questo insiste per tornare a incontrare il presidente americano Joe Biden, dopo il summit dell'estate scorsa a Ginevra. La Nato gioca con il fuoco, avvertiva ieri Lavrov, se dice che la Russia non ha voce in capitolo riguardo ai piani di allargamento. La proposta di Mosca è negoziare un nuovo patto di sicurezza europeo. «È probabile - ha concluso Blinken ieri in conferenza stampa - che i due presidenti si parlino presto».
CONGO, LE MINIERE DI COBALTO
Massimo Basile su Repubblica racconta le estrazioni del Cobalto nelle miniere del Congo.
«Nel giugno 2014 un uomo cominciò a scavare, affannosamente, sulla terra rossa che occupava il retro della sua casa, alla periferia di Kolwezi, città di mezzo milione di abitanti nel sud della Repubblica democratica del Congo. Ai vicini raccontò che voleva creare una nuova toilet, ma la sua attività cominciò a insospettire. Dopo una settimana la buca aveva superato i tre metri. Un giorno erano spuntati pezzi di metallo argenteo con gradazioni blu e turchese: cobalto. L'uomo era certo di aver trovato una vena di cobalto, il nuovo oro dell'era tech, l'elemento richiesto in tutto il mondo per auto elettriche, cellulari e laptop. L'uomo di Kolwezi era convinto che la sua vita sarebbe cambiata. Aveva scavato gallerie ovunque, tirando su una piccola fortuna, diecimila dollari. Ma poi la sua "vena" mineraria si era esaurita. Non per il Congo - il più grande produttore di cobalto al mondo - dove la Cina sta strappando agli Usa il controllo sulle miniere. La China Molybdenum ha rilevato dal gigante americano minerario Freeport- McMoRan il sito di Kisanfu. A giugno, sei mesi dopo la vendita, l'amministrazione Biden ha avvertito la Cina di non ostacolare le aziende americane. C'è anche altro in gioco. Il New York Times , con un'inchiesta, sta raccontando il lato oscuro della corsa alla transizione green del pianeta. In Congo centinaia di migliaia di persone scavano ogni giorno nelle miniere, persone muoiono per le cattive condizioni di lavoro, decine di bambini nascono con malformazioni. E solo un congolese sembra arricchirsi: Albert Yuma Mulimbi, presidente dell'impresa mineraria statale Gécamines, che lavora con compagnie internazionali. Yuma è accusato di aver sottratto allo Stato ricavi per quasi 8,8 miliardi di dollari, e di aver messo in piedi un sistema di corruzione per arricchire se stesso, i familiari e gli amici del cerchio magico. Il cobalto è chiamato "diamante insanguinato" o "diamante di sangue delle batterie" per il costo di vite umane. Il dipartimento di Stato americano ha presentato una denuncia nei confronti di Yuma, ma l'uomo sembra ben saldo, anche perché questo metallo è la risorsa che rende centrale il Congo. Soltanto nella zona sud, secondo cifre citate di recente dal New Yorker , ci sarebbero 3,4 milioni di tonnellate di cobalto, pari a quasi metà del fabbisogno mondiale. Centinaia di migliaia di persone si sono mosse verso le zone remote del Paese. Molti lavorano nelle miniere come dipendenti, altri come 'scavatori artigianali', senza esperienza, vestiti di infradito e magliette logore, privi di elmetto protettivo. Gli incidenti mortali sono frequenti. Scavatori precipitano per metri dentro i cunicoli rompendosi l'osso del collo. Il resto lo fa l'esposizione al cobalto, estratto a mani nude e stipato in sacchi di nylon. I lavoratori sono persone di tutte le età, tra cui molti bambini, mandati in miniera dai genitori per guadagnare meno di dieci dollari al giorno, ma sufficienti a tirare avanti. Secondo uno studio pubblicato da The Lancet, le donne nel sud del Congo presentavano una concentrazione di metallo mai vista in donne in gravidanza. Lo studio aveva riscontrato anche un forte legame tra il lavoro dei padri, minatori, e le malformazioni dei figli. Nel frattempo il prezzo del cobalto è cresciuto del quaranta per cento, a più di quaranta dollari al chilo. Ovunque si cerca il "diamante di sangue". La vita dei villaggi viene sconvolta appena qualcuno comincia a scavare per terra. Ma mentre il Paese resta povero, Yuma si fa servire calici di Dom Pérignon. E non accetta insinuazioni. «A vent' anni - racconta al Times - quando stavo in Belgio già guidavo la mia prima Bmw, di cosa stiamo parlando? ». È un uomo ricco e potente: nel 2018 Yuma venne accolto a Washington da alti esponenti della Banca Mondiale, dei ministeri della Difesa, Energia e Interni. A New York incontrò alla Trump Tower uno dei figli dell'allora presidente Donald Trump, Donald Jr. Nonostante le conoscenze, due mesi dopo gli venne vietato di rientrare negli Stati Uniti. Da allora sono aumentate le accuse, ma anche l'interesse di investitori americani, che hanno chiesto il rispetto dei diritti umani e di chiarire le voci sulla corruzione. Yuma ha promesso che presto i lavoratori verranno dotati di elmetti e stivali, e pagati attraverso un sistema elettronico per evitare frodi. Sul fronte della corruzione, dovranno fidarsi delle sue parole. E questo, in nome del mercato, potrebbe bastare».
AFGHANISTAN, BAMBINI IN VENDITA
Nell’Afghanistan ridotto alla fame dilaga la prostituzione maschile e minorile, col vicino Pakistan. La cronaca sulla Stampa.
«Aspettano che cali il buio per andarsi a offrire ai camionisti in arrivo dal Pakistan. È questa la realtà dei bambini afghani nel regno dei taleban. Il loro portavoce, Zabihullah Mujahid, aveva annunciato: «Con noi saranno sempre al sicuro». Ma basta guardare che cosa succede al valico di frontiera di Torkham, l'incrocio più trafficato al confine con il Pakistan, per scoprire quale tragedia sta accadendo ai piccoli orfani scappati dalla guerra. Torkham, la porta nord occidentale tra Afghanistan e Pakistan, è un continuo via vai di automezzi dove i camionisti pachistani portano la frutta fuori dall'Afghanistan per poi tornare con i mezzi pieni di cemento. Gli autotrasportatori a volte aspettano due o tre notti per attraversare il confine, e questa lunga attesa è una buona opportunità per soddisfare i loro bisogni sessuali con ragazzi afghani dai 12 ai 14 anni nel cuore della notte. I giovani di solito sono venditori ambulanti che consegnano ai viaggiatori in transito cibo e bottiglie d'acqua. A svelarci i segreti degli schiavi del sesso è Ashraf, questo non è il suo vero nome, preferisce rimanere nell'anonimato. È un ex poliziotto di frontiera che ora vive in un rifugio segreto nei pressi dello sbarramento di confine. «È facile identificarli. Sono tutti giovani di sesso maschile che salgono e scendono in continuazione dai vecchi mezzi arrugginiti. Intorno alle 2 di notte, iniziano a vendere il proprio corpo. La maggior parte sono adolescenti ma anche bambini. Nel primo punto di ritrovo sono sparsi in gruppi da cinque a dieci in attesa dei loro «padroni» pachistani, che in moto li accompagnano nel parcheggio dei camionisti, schierati in fila vengono scelti e rimangono nelle cabine fino all'alba. Li ho sentiti spesso gridare, ma non potevo fare nulla, una situazione straziante. La tariffa può variare ma non supera i 100 afghani a prestazione (poco meno di un euro), per lo più sono orfani e non hanno un alloggio». L'Afghanistan, con la salita al potere dei taleban, è collassato economicamente, la crisi ha provocato un forte aumento della prostituzione di donne, uomini e bambini. Seppur giudicata come un male sociale e condannata con pene violente dagli studenti coranici, sta diventando l'unica via di sostentamento per buona parte di loro. Meglio rischiare di essere rinchiusi in un carcere che morire di fame. Forte l'allarme lanciato da Save The Children: «Quest' anno l'Afghanistan affronterà la sua peggiore crisi alimentare mai registrata, quasi 800mila bambini dovranno convivere con un inverno gelido senza ripari adeguati. Circa 8,6 milioni di loro vivono in famiglie che non hanno coperte a sufficienza e più di 3 milioni non hanno il riscaldamento per tenersi al caldo e sono costretti a bruciare materiali dannosi, segregati in campi per sfollati dove un telo di plastica è tutto ciò che hanno. Alcuni tra i più giovani sono già morti di fame a causa dell'aumento dei prezzi del cibo, che le famiglie non possono più permettersi, e 5 milioni sono a un passo dalla carestia. I costi del carburante sono aumentati del 40% nell'ultimo anno e la legna sufficiente per una famiglia durante l'inverno costa circa 200 dollari». A queste condizioni per molti di loro non c'è altra scelta che accettare denaro in cambio di un rapporto sessuale. Una situazione che ci riporta indietro negli anni quando il dramma dei Bacha-bazi (bambini violentati per gioco) era all'ordine del giorno in Afghanistan. Solo nel 2016 il governo Ghani approvò una legge che puniva con il carcere e nei casi più gravi con la pena di morte chi abusava di questi giovani costretti a vestirsi da donna e sottoposti a violenze sessuali dagli adulti. Una piaga sociale che potrebbe ripresentarsi con il nuovo governo, seppur giudicata anti-islamica. Oggi questa orribile pratica di sottomissione e di pedofilia potrebbe provocare ben più gravi sanzioni per i giovani disperati, in quanto accusati di omosessualità, reato punito con la pena di morte, soprattutto nelle zone rurali dove i capi locali dei villaggi godono di un potere assoluto. Un detto afghano dice: «Per i signori della guerra le donne sono utili per crescere i figli, i ragazzi per il piacere».
OGGI È LA GIORNATA MONDIALE DELLA DISABILITÀ
Secondo un sondaggio della Swg, gli italiani sono poco informati sulla condizione dei più svantaggiati, mentre crescono sentimenti di indifferenza e pregiudizio. I dati diffusi nella Giornata internazionale per le persone con disabilità. Fulvio Fulvi per Avvenire.
«Invisibili, anzi di più. Due terzi degli italiani ritengono che le persone con disabilità siano quasi del tutto dimenticate dallo Stato ma anche dal sistema dell'informazione e dai singoli cittadini che non farebbero abbastanza per favorirne l'inclusione e far conoscere le loro principali esigenze. Non mancano, beninteso, atteggiamenti concreti di sensibilità e solidarietà, ma neppure, purtroppo, discriminazioni e pregiudizi: c'è un'attenzione assai limitata, insomma, verso coloro che sono stati colpiti da menomazioni fisiche o psichiche e sulla loro condizione di vita, oggi aggravata dalla pandemia. È quanto emerge dal primo rapporto dell'Osservatorio Cittadini e Disabilità curato da Swg e presentato oggi a Milano durante la cerimonia di assegnazione del Premio Bomprezzi. Dall'indagine risulta che il 63% degli italiani pensa che la divulgazione sulla disabilità sia insufficiente e il 79% ritiene che giornali, radio e televisioni non diano spazio al tema. Eppure si tratta di un mondo che riguarda il 15% della popolazione, tra soggetti direttamente coinvolti e loro familiari. Dove avere, allora, le informazioni utili sul "dopo di noi", sulle barriere architettoniche, i trasporti e la vita indipendente, che risultano gli ambiti più ignorati? I canali scelti sono, in ordine di preferenza, l'azienda sanitaria locale, Internet e il medico di base. E se alla domanda su quale atteggiamento culturale prevalga in Italia sulla disabilità si impongono sensibilità e solidarietà, dalle risposte saltano fuori numeri che forse non ci si aspettava su voci come "tendenza al pregiudizio" (66%), "indifferenza" (62%) e "impreparazione" (53%). E non basta. Il dossier mette in evidenza anche come un terzo dei cittadini intervistati ha assistito a episodi di discriminazione. E c'è la convizione che lo Stato destini pochissime risorse per le persone con disabilità: in media il 2,7% del Bilancio, nonostante quello reale sia più del doppio (5,6%). Bisognerebbe comunque fare di più perchè le famiglie con persone disabili sono, in genere, fragili economicamente: gli italiani ritengono che il loro reddito sia inferiore ai 18mila euro, quindi sotto la soglia media nazionale. Una cifra insufficiente a sostenere le spese di mantenimento e cure mediche, i servizi educativi e la riabilitazione, oltre che per l'acquisto degli ausili per la mobilità e la ristrutturazione dell'abitazione, spesso necessaria per eliminare barriere e ostacoli. Una condizione economica che diventa ancora più precaria quando il caregiver familiare deve rinunciare al proprio lavoro per poter assistere a tempo pieno il parente disabile. E non vanno dimenticati gli effetti negativi della pandemia sul costo della vita e sull'occupazione, che incidono pesantemente sulla condizione dei più fragili (il 30% del campione preso in esame pensa che le famiglie dei disabili siano state "del tutto penalizzate"). Un altro fattore poco considerato è il "Dopo di noi": appena il 19% degli interpellati infatti ritiene che sia determinante la costruzione del futuro delle persone con disabilità "alla scomparsa dei genitori". «La ricerca svela quanta strada ancora ci sia da fare per aumentare la consapevolezza delle esigenze e dei bisogni delle persone con disabilità e delle loro famiglie - spiega Simone Fanti, vicepresidente del Premio Bomprezzi-. Abbiamo indagato quali tra una serie di azioni possibili agevolerebbe il superamento degli ostacoli che queste persone devono affrontare. Alcune sono prioritarie per l'opinione pubblica: occorre fare chiarezza sui diritti, ed è responsabilità dei media e di tutte le istituzioni. E subito dopo c'è il tema del lavoro, considerato importantissimo. Tra le ultime, per mancanza di comprensione, il "Dopo di noi", il cohousing e il diritto alla sessualità. Sono gli italiani - conclude Fanti - a dirci che c'è ancora una scarsa conoscenza della disabilità, una presa di distanza o non accettazione significative, una consapevolezza di muoversi poco in modo inclusivo. L'Osservatorio nasce proprio per far sì che si parta da qui per fare un vero cambiamento culturale». Il premio, alla prima edizione, è intitolato a Franco Bomprezzi (affetto da osteogenesi imperfetta e deceduto nel 2014), giornalista, scrittore e blogger che tanto ha contribuito a cambiare la comunicazione sulla disabilità in Italia: viene assegnato da una giuria guidata dalla presidente dell'Associazione Premio Bomprezzi, Simonetta Morelli, di cui fa parte anche Marco Tarquinio, direttore di "Avvenire", mediapartner della manifestazione che si svolge nella Giornata Internazionale per le persone con disabilità».
Ma dov’è la festa per me e Tommy? È la domanda che Gianluca Nicoletti, un figlio austistico, si pone sulla Stampa.
«Oggi è la Giornata internazionale delle persone con disabilità. Che faccio? Metto il vestito buono ed esco con mio figlio? Qualcuno però mi dica dov' è oggi la festa. Davvero, non vedo l'ora di battere le mani a quanti taglieranno nastri, faranno discorsi, visiteranno opere pie, laici istituti, associazioni benefiche. Altri abbracceranno degli infelici, asciugheranno lacrime delle madri. Tutti di sicuro prometteranno, si impegneranno, solidarizzeranno. Da stasera però è certo che nulla cambierà. Ci sarà la passerella di impegnati sociali, testimonial storici, rammentati per un giorno. Anche brave persone, senza dubbio, che sempre più somigliano a mio nonno reduce e invalido della Grande Guerra. Era prassi che ogni quattro novembre andasse alla sfilata in ricordo della vittoria, si metteva l'abito blu, con tutto il suo medagliere attaccato che occupava metà torace. Aspetto come ogni anno, nella folta schiera dei nostri politici, qualcuno che oggi rivendicherà a piena ragione il diritto di appuntarsi una medaglia, un meritato riconoscimento per compiuto un'impresa memorabile per la disabilità. È vero che non si dovrebbe aver bisogno di eroi, però se lo facesse avrebbe l'immediato consenso di ben quattro milioni di concittadini disabili. Rappresentano un esercito sterminato, cittadini con diritto di voto che poi andrebbero moltiplicati almeno per quattro, se vogliamo mettere nei loro ranghi anche chi se ne fa ogni giorno carico. Aggiungiamo ogni genitore, ogni coniuge, ogni figlio, ogni caregiver, terapista, operatore. Sarebbe un bel pacchetto di consensi sicuri e incondizionati. Non vorrei sbagliarmi ma a me pare che nessuno di coloro che vivono di politica si sia azzardato a dire riguardo tale moltitudine: «Prima questi italiani».
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