La Versione di Banfi

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La nemesi della variante

alessandrobanfi.substack.com

La nemesi della variante

I mercati crollano per la variante sudafricana. Che viene dai Paesi meno vaccinati per l'egoismo di quelli ricchi. Firmato il Trattato con la Francia. Tim senza AD Gubitosi. Bergoglio e Cl

Alessandro Banfi
Nov 27, 2021
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La nemesi della variante

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Non l’Oms, né gli scienziati e neanche il tam tam alternativo (e spesso fake) dei social. Sono stati i mercati finanziari a dare un allarme globale. Questa volta a Wall Street, e anche nelle Borse europee, il Black Friday è stato davvero nero. I mercati sono crollati. Ecco la notizia: c’è una nuova variante sudafricana del Covid di cui non si conosce ancora la capacità di contagio e di resistenza agli attuali vaccini. Già ieri mattina l’Italia, primo Paese nella Ue, ha chiuso le frontiere con sei nazioni africane, come avevano già fatto Israele e Gran Bretagna. Già, perché la variante arriva dall’Africa. E qui c’è una grande questione su cui riflettere: gli esperti immunologi sostengono che le varianti nascono e proliferano laddove non c’è stata vaccinazione. Ecco quindi l’enorme responsabilità dei Paesi ricchi, e in particolare della Ue, che non hanno voluto sospendere i brevetti e aiutare la vaccinazione dei Paesi più poveri. La nemesi del virus colpisce l’Europa che, per garantire gli interessi dei Big Pharma, ha snobbato fino ad oggi l’appello del Papa del Natale 2020. Oggi Avvenire ospita un intervento illuminante di Nicoletta Dentico. Ci sono due importanti appuntamenti internazionali alle viste, dove qualcosa può cambiare. Come chiedono India e, guarda caso, proprio il Sudafrica.

In Italia intanto si fanno i conti con il Super Green Pass. Diverse le criticità sui trasporti, sui controlli, nelle scuole. Il dato positivo è l’effetto propulsivo sulla campagna vaccinale. Nelle ultime 24 ore sono state ancora 356 mila 859 le nuove vaccinazioni, fra cui anche prime dosi. Era da diverso tempo che non si vedevano questi numeri. Vedremo oggi le proteste dei No vax nelle città, mentre si scalda il fronte dei contrari alla vaccinazione dei bambini.

Ieri è stato firmato al Quirinale il Trattato Italia-Francia. Su Bruxelles l’asse Parigi-Roma peserà. È un accordo impegnativo perché unisce i cugini d’oltralpe su almeno due grandi temi che riguardano il destino dell’Europa. 1. Una linea anti sovranista, con la richiesta che il Consiglio europeo possa prendere decisioni a maggioranza e non più all’unanimità, com’è stato finora. 2. Soprattutto il sostegno ad una politica economica europea che segni un deciso stop al rigore sul debito dei Paesi membri. Non mancano però nel Trattato zone d’ombra e criticità, vedremo la discussione nei rispettivi Parlamenti.

Drammatico Consiglio d’Amministrazione per la Tim, che alla fine, su pressione dei francesi di Vivendi, ha accettato le dimissioni dell’AD Gubitosi. Resta in piedi l’offerta degli americani di Kkr, offerta che sarà esaminata da un comitato ad hoc, in questo periodo di interregno della governance dell’azienda. Gli intrecci di ieri con la Francia non finiscono qui, perché c’è anche l’altra sponda del Tevere. Cordiale incontro tra il Papa e Macron, nel giorno delle dimissioni dell’arcivescovo di Parigi.

A proposito di papa Francesco, la Versione pubblica un interessante articolo di Alver Metalli, scritto per il suo Blog, che contiene una rivelazione: già da Arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio si interrogava sul carisma di Cl, prima e dopo la morte del fondatore don Luigi Giussani.  

È ancora disponibile on line il settimo episodio della serie Podcast Le Vite degli altri da me realizzata con Chora media, in collaborazione con Vita.it e con Fondazione Cariplo. Il titolo è: LA CUOCA COMBATTENTE. È la storia affascinante di una 50enne di Palermo, Nicoletta Cosentino, che è sopravvissuta a una relazione abusante, di cui si è liberata a fatica. Oggi Nicoletta accompagna altre donne sullo stesso percorso. Insieme a chi ha avuto una storia simile alla sua ha messo in piedi a Palermo un’impresa sociale che produce dolci, conserve e marmellate. Si sono chiamate “Le cuoche combattenti” e su ogni loro vasetto scrivono una frase, un motto che aiuti le altre a essere più consapevoli. Potete trovare i loro prodotti sul web (https://www.cuochecombattenti.com), grande idea per Natale. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate il sesto episodio:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-cuoche-combattenti-v

Domani, domenica, la Versione viene recapitata entro le 12 nella vostra casella di posta in arrivo. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Un incubo aleggia sulle prime pagine stamattina. Avvenire prudente: Rischio variante. Il Corriere della Sera sottolinea che l’allarme viene dall’economia: Nuova variante, cadono le Borse. Il Domani spiega: Ecco perché la nuova variante da coronavirus spaventa il mondo. Il Giornale nota: Il virus infetta l’economia. Quotidiano Nazionale commenta: Ci mancava la variante sudafricana. Il Manifesto gioca sul fatto che questa volta sui mercati il venerdì è davvero nero: Black Friday. Il Mattino registra: Variante dal Sudafrica scontro sui nuovi vaccini. Il Messaggero è simile al Giornale: Omicron contagia le Borse. Il Sole 24 Ore non ha dubbi: Borse ko per la nuova variante Covid. Per La Repubblica: Covid, incubo Omicron. La Stampa aggiunge il blocco alle frontiere: La variante Omicron allarma il mondo giù le Borse, l’Ue blocca i voli a rischio. I giornali per così dire d’opposizione polemizzano sui vaccini ai piccoli, fra “veri” e “pochi” dati. La Verità: I veri numeri dei vaccini ai bimbi. Il Fatto: “Vaccini ai bambini, troppa fretta pochi dati”. Libero raccoglie: Le confessioni di Salvini.

LA NUOVA VARIANTE ANGOSCIA IL MONDO

Arriva dall’Africa e scatena una reazione a catena la nuova variante del virus. Si teme che sia più contagiosa e resistente ai vaccini della Delta. La cronaca sul Corriere è di Adriana Logroscino.

«La nuova variante è in Europa. Almeno un caso, individuato in Belgio: una giovane donna, non vaccinata, in arrivo dall'Egitto, attraverso la Turchia. E fa paura. All'Italia, che cerca di tenerla lontana bloccando l'ingresso a chi negli ultimi quattordici giorni abbia soggiornato in uno degli otto Paesi che ne sono stati investiti. All'Unione Europea che, tramite la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, invoca un aggiornamento dei vaccini «come da contratti con i fornitori». E all'Organizzazione mondiale della sanità, che è in «massima allerta». Negli Stati Uniti, intanto, il presidente Joe Biden - in una nota della Casa Bianca - dice che «l'emergere della variante sottolinea l'urgenza di rinunciare ai brevetti globali sui vaccini». E lo stesso Biden invita a riflettere sul tema i Paesi che, la prossima settimana, si riuniranno presso l'Organizzazione mondiale del commercio. Si tratta della variante B.1.1.529, ribattezzata dall'Oms Omicron, che presenta un numero molto alto di mutazioni sulla proteina Spike. Più contagiosa, con un maggior rischio di reinfezione e, si teme, resistente ai vaccini (per ora un'ipotesi) le caratteristiche che innescano le contromosse allarmate. Di «maggiore capacità» di eludere i vaccini parla l'inviato speciale dell'Oms per il Covid-19, David Nabarroanto. Maria Van Kerkhove, che guida l'area dell'Oms dedicata al coronavirus, precisa che «serviranno alcune settimane per capire l'impatto di questa variante sui vaccini». L'agenzia europea Ema frena: «È prematuro prevedere al momento se sarà necessario adattare i vaccini alla nuova variante sudafricana». Walter Ricciardi, consulente del ministro per la Salute, Roberto Speranza, chiarisce le attuali certezze. «Questa variante preoccupa per la contagiosità altissima che sembra possedere. Per calcolarne maggiore pericolosità ed eventuale capacità di sfuggire ai vaccini, bisogna attendere». Pfizer assicura di avere i primi risultati entro due settimane e «nel caso in cui emerga una variante del virus che sfugga al vaccino» di essere in grado di sviluppare e produrre un siero «su misura in circa 100 giorni». Il governo italiano, intanto, insieme con molti altri Paesi, vieta fino al 15 dicembre l'ingresso in Italia a chi negli ultimi 14 giorni è stato in Sudafrica, Lesotho, Botswana, Zimbawe, Malawi, Mozambico, Eswatini e Namibia, e sospende il traffico aereo. In linea con la sollecitazione di von der Leyen: «Le notizie sulla nuova variante sono molto preoccupanti. Gli Stati membri agiscano compatti. Attiviamo il freno d'emergenza sospendendo i voli». Giorgia Meloni e Matteo Salvini polemizzano (con Speranza e Lamorgese) per l'eventualità che la variante arrivi in Italia a causa degli sbarchi sulle nostre coste».

Ma l’allarme vero è arrivato dai mercati. Crollano le borse: Milano cede il 4,6% e vanno giù anche petrolio e gas. Il greggio è sotto i 70 dollari. Marco Sabella per il Corriere.

«I timori per la nuova aggressiva variante «Omicron» del Covid-19 individuata in Sudafrica e lo scivolone del prezzo del petrolio, a sua volta causato dai timori di un forte rallentamento dell'economia mondiale in vista di un possibile riesplodere della pandemia, hanno fatto crollare le Borse mondiali e con loro Piazza Affari: l'indice Ftse Mib ha chiuso in ribasso del 4,60% a 25.852 punti, ai minimi della durissima giornata di ieri. Appena 3 settimane fa, l'indice principale della Borsa milanese aveva «bucato» quota 28mila punti riportandosi ai livelli precedenti la crisi del 2008. Le novità di oggi hanno spinto invece tutti i mercati azionari europei in territorio pesantemente negativo: la Borsa peggiore tra le più grandi in Europa è stata Madrid che ha ceduto il 4,96%, seguita da Parigi in calo finale del 4,7% e Francoforte del 4,2%, con Londra che ha chiuso in ribasso del 3,6%. Secondo i primi calcoli le Borse europee hanno «bruciato» circa 390 miliardi di capitalizzazione. Sono in ribasso anche tutti i principali indici statunitensi, con il Dow Jones in calo del 2,52%, il Nasdaq in ribasso del 2,26% e l'S&P500 del 2,27% in una seduta chiusa anticipatamente in concomitanza con il Black Friday. Ma se in Europa i settori più penalizzati sono quelli dei viaggi, delle auto e delle banche, negli Stati Uniti alcuni titoli comparti viaggiano in controtendenza. Sono saliti i titoli dei produttori dei vaccini contro il coronavirus, con Moderna in rialzo del 20,5%, il migliore sullo S&P 500, e Pfizer del 6,1%, e le società tech che maggiormente hanno beneficiato delle restrizioni per la pandemia, come Zoom Video (+5,7%) e Netflix (+1,12%). In caduta libera anche le quotazioni del petrolio; per il greggio si è trattato della peggiore seduta da aprile 2020, con il Brent in calo dell'11,55% a 72,7 dollari al barile, mentre il Wti sprofonda del 13% a 68,15 dollari. La nuova variante del coronavirus ha spaventato gli investitori e ha aggravato le preoccupazioni che nel primo trimestre del 2022 possa esserci un surplus di offerta. Il tutto a pochi giorni (2 dicembre) dal meeting Opec+ che avrebbe dovuto decidere di un aumento della produzione per soddisfare la domanda globale. Sembra un'altra epoca. Il petrolio è sceso proprio sui timori che la variante possa frenare la crescita economica mondiale. Sotto pressione anche il gas naturale, sempre a causa di una possibile riduzione delle attività produttive, con il metano che ad Amsterdam è tornato ai livelli di ottobre. E non è andata bene nemmeno alle criptovalute: il Bitcoin che ha perso oltre il 20% dal record raggiunto lo scorso 10 novembre si è attestato su un ribasso di circa il 5,2% a 54mila e 700 dollari, mentre Ethereum cede 7 punti percentuali, 15 dal 10 novembre. Solamente l'oro, in leggera controtendenza, è in rialzo di circa l'1% a 1.802 dollari per oncia. Quella cui abbiamo assistito oggi sui mercati è stata una reazione a una notizia potenzialmente rilevante, ma ancora incompleta. «Le banche centrali, così come i mercati, aspetteranno quindi di avere informazioni più precise per decidere se e come modificare i loro piani relativi ad una normalizzazione dello stimolo monetario», ha commentato Antonio Cavarero, responsabile investimenti di Generali Insurance Asset Management».

IL VIRUS CAMBIA DOVE NON C’È IL VACCINO

L'immunologo Guidotti chiarisce molto bene in un’intervista ad Avvenire i termini scientifici della faccenda. Il Covid genera le mutazioni quando si diffonde liberamente, per questo arriva da zone dove non c’è quasi vaccinazione.

«Stiamo studiando. Non è il caso di allarmarsi ma constatiamo che questa variante, Omicron, presenta differenze che interessano quattro "regioni" della proteina Spike. In ogni regione ci sono mutazioni. Tradotto in soldoni, da una prima impressione non supportata da prove, dovremmo avere di fronte un virus ancora più bravo a contagiare, abile ad eludere qualche difesa anticorpale da vaccino, ma non a rendere la malattia più grave». Immunologo e virologo, Luca Guidotti, per 21 anni docente di Patologia sperimentale allo Scripps Research Institute di La Jolla (Stati Uniti), uno dei centri di ricerca biomedica più prestigiosi al mondo, è autore di studi ospitati da Cell, Nature, Nature Medicine e Science. Rientrato a Milano, è docente di Patologia generale nell'Università Vita-Salute San Raffaele e vicedirettore scientifico del San Raffaele. Professore, non sembra sorpreso dalle ultime notizie. «Abbiamo un'altra variante che emerge. È un fatto normale. Ce ne saranno tante altre ancora». Perché dice che potrebbe essere più contagiosa? «Sembra che in Sudafrica sia destinata a rimpiazzare la Delta piuttosto presto, non vedo perché questo effetto non dovrebbe verificarsi in altre parti. Succede quello che succede in tutte le infezioni. Come nell'influenza, il virus evolve. Per farlo ha bisogno di un serbatoio di non vaccinati, o di vaccinati poco rispondenti al vaccino, oppure di soggetti immunocompromessi. Alcune persone hanno anticorpi un po' deficitari e questo aiuta il virus. Se salta fuori una mutazione che supera questa "barriera allentata" può risultare più vincente nell'eludere la protezione dei vaccini». Potremmo trovarci a fronteggiare una variante capace di sfuggire a tutti i vaccini? «In questo momento è improbabile ma può accadere. Nel caso, tuttavia, ci vorrebbe poco a ricalibrare i nuovi vaccini. È una rincorsa». Ci aiuti a capire meglio. «Da un lato il virus "sente" la pressione dei vaccini nei Paesi più immunizzati, e tende a fuggire. Dall'altro, fuggendo, trova intere autostrade per replicarsi e mutare, grazie ai non vaccinati. Ora, buona parte degli esseri umani ha anticorpi, un'altra grande fetta non ne ha: in questa "macedonia" prima o poi varianti in grado di sfuggire ai vaccini emergeranno. Ecco perché dobbiamo far presto a vaccinare tutti». L'Africa offre terreni di coltura enormi al Sars-CoV-2. «Come tutti i Paesi dove si è fatto meno ricorso alla profilassi. Il Sudafrica, inoltre, ha un numero consistente di persone immunodepresse perché sviluppano l'Aids dopo l'infezione da Hiv». Che cosa succede in queste persone? «In un soggetto normale il virus "abita" circa una settimana, muta un centinaio di milioni di volte, poi non sopravvive. Ma se, invece che stare una settimana, restasse nell'organismo per 3 mesi a causa di una immuno-deficienza, muterebbe anche miliardi di miliardi di volte. A fronte di questi rischi è triste avere persone che non si immunizzano, in aggiunta a quelle più sfortunate che non rispondono al vaccino». Anche i bambini vanno vaccinati? «Sì, sono diventati un discreto serbatoio di propagazione. E il vaccino è sicuro».

LA QUESTIONE DEI BREVETTI E DEI PAESI POVERI

Come ha subito notato il Presidente Usa Biden, la nuova variante rimette in primo piano la questione della vaccinazione dei Paesi meno ricchi. India e Sudafrica sono tornati a chiedere, in vista del cosiddetto Ottawa Group sul Commercio globale, la sospensione dei monopoli sui brevetti. Che cosa farà la Ue alla conferenza del Commercio e alla sessione speciale dell'assemblea dell'Oms sul nuovo Trattato Pandemico? Insisterà nel garantire gli interessi di Big Pharma? O questa volta aderirà all’appello del Papa, lanciato già nel Natale 2020? Nicoletta Dentico, che si è sempre occupata di salute globale e diritti, scrive oggi un importante articolo per Avvenire.

«Solo poche settimane fa, una fragorosa mobilitazione internazionale teneva alta l'attenzione sulle lobby fossili e finanziarie che interferivano sulla Cop26, fino ai suoi colpi di scena conclusivi. Meno roboante di quello climatico, ma non meno tenace, il fragore della mobilitazione si sta trasferendo in queste ore a Ginevra. Qui, per un vezzo istrionico della storia, o per una escatologica maestria di segni dei tempi, sono in calendario tra pochi giorni due eventi decisivi: la dodicesima Conferenza Interministeriale (Mc12) dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc o Wto) e la sessione speciale dell'Assemblea mondiale della Sanità (Oms). L'Omc, anche se ieri sera si parlava di un possibile rinvio del vertice, deve negoziare un piano globale di ripresa dalla pandemia, in difficoltà dopo un ventennio di Doha Round fallimentare. L'Oms discuterà l'opportunità di negoziare un nuovo Trattato pandemico per la preparazione e risposta alle prossime crisi sanitarie, interiorizzate come ineludibile destino. I delegati spiegano gli sforzi diplomatici con la necessità di 'salvare il multilateralismo', ma a Ginevra si respira un'aria di sostanziale paralisi e di incolmabile divisione sulle strategie da adottare per il futuro. A proposito di Covid, alla Mc12 al centro dell'agenda c'è la spinosa questione della moratoria dei diritti di proprietà intellettuale proposta a ottobre 2020 da India e Sudafrica. Una misura volta a sbloccare i monopoli che impediscono l'accesso alla conoscenza medica e il suo utilizzo per espandere e delocalizzare la capacità produttiva non solo per i vaccini, ma per tutti i rimedi che servono per contrastare il virus. La narrazione che i Paesi in via di sviluppo non siano in grado di fabbricare vaccini - sostenuta a ripetizione da Bill Gates, da Big Pharma e circoli affini - risulta ormai destituita di fondamento. Public Citizen, che lavora da mesi con l'Imperial College di Londra, indica circa 57 Paesi pronti ad avviare produzioni farmaceutiche. A sua volta Medici senza frontiere ha identificato in uno studio parecchi produttori in grado di rispondere alle esigenze sanitarie del tutto disattese nei Paesi a basso reddito - in Africa, solo il 27% del personale sanitario risulta vaccinato, secondo i dati dell'Oms. Ancora: un'inchiesta del 'New York Times' di ottobre ha rivelato l'esistenza di capacità manifatturiere per avviare immediatamente la produzione di vaccini mRna di qualità, in uno scenario di distribuzione diffusa del tutto desiderabile, non solo perché farebbe crescere l'immunizzazione, ma anche perché impedirebbe l'insorgenza di nuove varianti. La proposta della sospensione dei diritti di proprietà intellettuale - brevetti e non solo - gode di un consenso assai ampio dentro l'Omc: sono oltre cento gli Stati membri che l'appoggiano. Si sono espressi a favore di questa soluzione, prevista dal diritto internazionale con il Trattato di Marrakesh (1994), una vastissima gamma di organizzazioni internazionali, entità e rappresentanti della comunità scientifica, premi Nobel dell'economia ed esperti del mondo accademico. Dal Natale del 2020, papa Francesco ribadisce la necessità non più prorogabile di ricorrere a questa misura di giustizia pandemica. Una capillare mobilitazione della società civile globale è su questo tema da un anno, giorno dopo giorno, senza tregua. Oltre 700 parlamentari europei hanno sottoscritto la proposta, e il Parlamento Europeo solo pochi giorni fa ha votato a maggioranza il sostegno alla moratoria. È la terza volta che passa una risoluzione di questa natura. Ma la Commissione Europea, insieme a Gran Bretagna, Svizzera e Canada, blocca da mesi il negoziato, indebolendo l'Organizzazione già moribonda. Dentro il cosiddetto Ottawa Group - nucleo ristretto di Paesi occidentali a difesa delle ragioni dei monopoli - la Ue si agita per assicurare il deragliamento della richiesta di India e Sudafrica. L'ultima trovata è quella di una moratoria sulle licenze obbligatorie, ma tecnicismi a parte ciò che Bruxelles ha imposto al mondo, G20 compreso, è la cosiddetta Terza Via. Un sistema che punta sì a rimuovere gli attuali ostacoli all'incremento della produzione di strumenti essenziali contro Covid-19, ma tramite incentivi alle industrie farmaceutiche affinché rilascino licenze volontarie per il trasferimento di tecnologie alle aziende nei Paesi del Sud del mondo, in cambio di abolizione delle restrizioni commerciali, abbattimento delle barriere doganali, facilitazioni fiscali. Così i monopoli sono salvi. Così, anche in tempo di pandemia, la società può restare accessoria alle logiche della concorrenza e del mercato. La decisione dell'Omc di organizzare un appuntamento negoziale tra i ministri del Commercio dei 164 Stati membri 'in presenza', nel mezzo della nuova ondata di contagi in Europa, è parecchio controversa per ovvi problemi di sicurezza. Diversi rappresentanti del Sud globale non potranno comunque venire perché i loro Paesi non hanno voli commerciali che operano sull'Europa, o su Ginevra. Quelli in condizione di farlo dovrebbero farsi trafile di quarantena darwiniane sotto il profilo finanziario. I ministri immunizzati con vaccini non validati in Europa sono sorvegliati speciali con i test periodici. A Ginevra il dibattito sulla legittimità delle decisioni della Mc12 è aperto. Complica le cose la notizia che Gran Bretagna, Germania, Italia e Svizzera hanno sospeso gli arrivi dal Sudafrica per via dell'ultima variante (B.11.529) identificata nel Paese. Una variante tosta. Dotata di una «inusuale costellazione di mutazioni», dice il Ministero della Salute sudafricano. Proprio per questo il rinvio è un'ipotesi molto probabile. Il mondo sta per entrare nel terzo anno di pandemia, dal primo focolaio riconosciuto a Wuhan, e Sars-CoV-2 continua a viaggiare, a proprio agio nell'inettitudine della comunità internazionale, in un movimento feroce ma vitale, che ci parla della nostra ferocia. Smaschera la malattia come metafora di una condizione umana che si crede sana ma è disseccata nell'anima - lo ha intuito a suo tempo Susan Sontag. E i delegati presenti a Ginevra rappresentano una piccola folla «indaffarata e gesticolante alla perdizione», per dirla con l'immagine di Emmanuel Mounier, che sotto la coltre di una retorica solidaristica dell'equità ha in effetti smarrito l'ultimo briciolo di empatia. Come credere dunque alla buona fede dell'Europa, quando all'Oms esercita la sua leadership sanitaria per annunciare la inevitabilità di un Trattato pandemico, con il beneplacito della grande industria farmaceutica? All'Assemblea speciale dell'Oms, che si svolgerà online, la forte spinta al Trattato pandemico risulta sospetta. Ha tutta l'aria di un gioco sofisticato per trasformare l'Oms - favorevole alla proposta di India e Sudafrica - nel terreno di attuazione della Terza Via, da blindare all'Omc. La sofisticata strategia immunopolitica europea è pericolosa, però. Non salva il multilateralismo. Casomai lo danneggia».

EFFETTO SUPER GREEN PASS

Lo choc della nuova variante sudafricana mette in secondo piano l’Italia alle prese con le nuove norme. Ma ci sono due fatti da registrare sul Super Green pass. Primo: continuano le criticità sul fronte controlli e trasporti urbani. Secondo: c’è un effetto importante sulla campagna vaccinale. Ieri ancora sopra 350mila dosi al giorno. E ripartono anche le prime dosi. La cronaca di Repubblica.

«È l'effetto super Green Pass», dice Lorenzo Roti, direttore sanitario dell'Ausl di Bologna. Giovedì, nel capoluogo emiliano, quasi mille persone hanno prenotato la prima dose di vaccino anti Covid. I numeri sono in aumento in tutta Italia: alle 7 di ieri ne erano state somministrate 25 mila in un giorno e per la prima volta da diverse settimane il dato ha superato quello dei richiami. La corsa agli hub riguarda soprattutto i giovanissimi, la fascia meno coperta della popolazione: le ultime misure per i No Vax stabilite dal Governo riguardano anche loro. La scalata per raggiungere gli indecisi è lunga. In Italia sei milioni e mezzo di persone non hanno ancora fatto l'iniezione. Tra i ragazzi fra i 12 e i 19 anni manca all'appello uno su quattro ma non brillano nemmeno trentenni e quarantenni. Eppure s' intravede un'inversione di tendenza, seppure da confermare. Nell'ultima settimana, in Lombardia, sono state prenotate 33 mila prime dosi: il boom negli ultimi due giorni (15 mila). Molti appuntamenti riguardano studenti, che secondo le nuove regole dovranno mostrare il Green Pass pure per salire in bus. Ma il certificato servirà per mangiare una pizza (al chiuso) o vedere un film al cinema. Lo stesso ragionamento, dunque, avranno fatto i loro coetanei di Bologna: sotto i portici sono loro a trainare le prime dosi. Il 25 novembre le prenotazioni sono state 924, un terzo riguardavano ragazzi. Il giorno prima il pallottoliere si era fermato a 650, una settimana prima a un terzo. «Un effetto generale c'è dopo le misure annunciate dal Governo e le "facilitazioni" per la vita sociale», spiega il direttore Roti. L'assessore alla Sanità dell'Emilia- Romagna Raffaele Donini dice: «Ci aspettiamo che le prime dosi continuino a crescere e ne siamo ovviamente felici, sappiamo quanto sia importante». Anche il presidente della Toscana Eugenio Giani vede il bicchiere mezzo pieno guardando ai numeri del giorno prima: «Ci sono state 1.300 prime dosi», quando ormai l'asticella si era fermata a cinquecento. «Una serie di persone, all'inizio diffidenti sulla vaccinazione, ora la stanno facendo». Calano gli indecisi ma il boom riguarda anche le terze dosi, anticipate a cinque mesi dalle seconde. «Ne abbiamo già somministrate 5 milioni», fa i conti il sottosegretario alla Salute Andrea Costa. A Vercelli si cercano vaccinatori per l'exploit di richieste, a Bolzano, che nel frattempo ha tinto alcuni Comuni di rosso, c'è stato un picco di "booster". Si moltiplicano i punti vaccinali e non mancano iniziative personali: sull'Appennino bolognese Valerio Veduti, medico di famiglia di 66 anni (compiuti ieri), oggi vaccinerà più di cento over 60 in una sala polivalente di Grizzana Morandi. Di fatto ha messo su un mini hub facendosi aiutare da quattro volontari fra amici e parenti. «Perché ci credo », racconta. Proprio in questi giorni in un Comune a un'ora di macchina, Monterenzio, è scoppiato il caso di due medici di famiglia su quattro sospesi perché non vaccinati, con migliaia di pazienti rimasti senza assistenza: «Non so per cosa abbiano studiato, è triste», dice Veduti. L'obiettivo è correre sui vaccini sia per proteggere chi non l'ha fatto sia per rafforzare lo scudo contro il Covid. Anche perché il virus corre. Ieri 13.686 contagi su oltre mezzo milione di tamponi, 51 vittime, 58 ingressi in terapia intensiva e 59 nei reparti ordinari. «L'incidenza più elevata è in particolare fra i 6 e gli 11 anni. Anche i ricoveri nella fascia pediatrica, pur limitati, sono presenti in tutte le fasce», spiega il presidente dell'Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro. Peggiora la situazione epidemiologica, con un'incidenza di 125 casi su 100 mila abitanti e un Rt «più o meno stabile a 1,23, ma comunque al di sopra dell'unità», aggiunge Gianni Rezza, direttore generale della prevenzione del ministero della Salute. Che ripete la rotta da seguire: «Continuare la campagna vaccinale con intensità e mantenere comportamenti prudenti. Mascherine, distanziamento, lavaggio delle mani».

IL TRATTATO ITALIA-FRANCIA

Ieri al Colle è stato siglato il Trattato del Quirinale. La strategia economica, la politica dei migranti, la difesa vedono alleate Francia e Italia. Collaborazione anche nello spazio e nell’energia. L’effetto immediato più importante: un piano per riformare il Patto di stabilità della Ue, con un deciso stop al rigore sul debito. Anais Ginori e Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Nove bandiere, tre per ciascun protagonista del giorno: Italia, Francia, Europa. A Villa Madama la sintonia tra Emmanuel Macron e Mario Draghi è talmente ostentata da far sembrare un po' artificiale un rapporto che, in realtà, funziona davvero e rappresenta la traccia politica da seguire nei prossimi mesi. «Vogliamo disegnare il nostro futuro - è il progetto politico di Draghi - e disegnarlo come vogliamo noi europei ». E dall'enfasi dei toni si capisce che il Trattato del Quirinale per una «cooperazione rafforzata» è solo «l'inizio di un percorso», come sottolinea Macron. Sulla strada ci sono compagni di viaggio obbligati, a cominciare dalla Germania, e forse il patto bilaterale con Parigi potrebbe essere replicato, in forma diversa, anche con Berlino. Gli sguardi sono rivolti al nuovo governo Scholz, ma se i tempi coincidono si potrebbe saldare un vagone di testa della locomotiva Europa con prima fermata la riscrittura delle regole del Patto di Stabilità. A poche settimane dall'inizio della sua presidenza di turno della Ue, la Francia sta preparando un documento da portare a Bruxelles in cui coinvolgere Italia, Germania, Spagna e Paesi Bassi. Dentro ci sono alcune proposte concrete su temi come il fiscal compact e la golden rule verde e digitale. Ancora troppe le incognite per sbilanciarsi su un'ipotesi di trattato con la Germania che ricalchi esattamente quello del Quirinale. E d'altra parte la relazione che l'Italia ha con la Francia è molto diversa, in particolare al livello economico. I tedeschi non sono mai stati dipinti come dei "predatori" del capitalismo italiano, a differenza dei cugini francesi. Se davvero si arriverà a strutturare un'intesa bilaterale con Berlino, potrebbe essere anche un patto di consultazione o un'altra formula diplomatica che possa far vivere un direttorio europeo a tre. O forse a quattro, visto che l'Italia potrebbe fare da asse e ponte con la Spagna. Tanto dipenderà anche dal ruolo che riuscirà a giocare la Germania del dopo Merkel, senza la quale nulla è possibile costruire. Lo sostengono entrambi i leader, anche se Macron lo ribadisce di più, raccontando di aver chiamato la Cancelliera poco prima di salire al Colle. «In Francia - sorride il Presidente - si dice che quando le cose vanno male con la Germania, si guarda all'Italia. Ma non funziona così: l'Europa si costruisce a 27, non bisogna cercare nelle diverse alleanze i sostituti di uno o dell'altro». Roma, insomma, non può e non riuscirebbe comunque a sostituire Berlino. Ma l'arrivo di Draghi ha modificato il peso specifico dell'Italia. L'intesa sullo Spazio, dove Roma e Parigi erano concorrenti fino a poco fa, sembra uno delle tante svolte dell'intesa bilaterale. Come il sostegno deciso alla costruzione di una difesa europea per garantire all'Unione la capacità di reagire con tempestività alle sfide: «Per essere sovrana - aggiunge il presidente del Consiglio - l'Europa deve essere capace di proteggersi e difendere i propri confini». Facile a dirsi, difficile a realizzarsi. Anche per questo nasce l'esigenza di saldare un nocciolo duro di Paesi che possa superare veti e resistenze. Nell'accordo firmato ieri, Macron e Draghi insistono sulla necessità di estendere l'uso della maggioranza qualificata nel Consiglio Ue. I due leader si sono già allineati sulla revisione del Patto di stabilità. «Le nuove regole - chiarisce l'ex banchiere centrale - devono riflettere sul passato da correggere e sul futuro che occorre disegnare. Se prima una revisione delle regole era necessaria, oggi è inevitabile. Tutto questo va fatto con l'Unione europea, insieme». A Parigi è in corso di stesura una prima bozza di proposta da presentare a Bruxelles a dicembre, qualche settimana prima dell'inizio della presidenza francese dell'Ue. Il documento, di cui hanno cominciato a parlare i ministri dell'Economia Franco e Le Maire, indica tre obiettivi per la nuova governance economica. Il primo è la revisione del fiscal compact nella "regola del ventesimo", secondo cui (nel nome del vecchio rigore) ciascun Paese è costretto a ridurre di un ventesimo all'anno lo stock di debito eccedente la soglia del 60% del Pil. In questo caso, la Francia vuole proporre una differenziazione dei percorsi di riduzione. Il secondo obiettivo è quindi permettere a ciascuno Stato membro di concordare con la Commissione un cammino "su misura" pluriennale di riduzione dello stock di debito pubblico, sulla base di un piano che Bruxelles dovrebbe monitorare periodicamente. Il terzo punto - quello su cui verosimilmente sarà più facile allargare il consenso - è la golden rule, ovvero un trattamento differenziato della spesa pubblica per investimenti nella transizione verde e digitale. Si procederà a Bruxelles per strappi e ricomposizioni. Peserà la variabile della pandemia, che proprio in queste ore torna a mordere. E tanto dipenderà anche dal ruolo che riuscirà a giocare la Germania del dopo Merkel. E però, la sfida del debito comune resta: andrà strutturato il meccanismo che è alla base della filosofia del Recovery, Liberali tedeschi permettendo».

Nel retroscena di Marco Galluzzo per il Corriere c’è tutta la soddisfazione di Draghi.

«La parola che pronuncia più volte, per rafforzare il concetto, è quella di sovranità. Ma non per rivendicare il termine classico, legato agli interessi nazionali, che tanto hanno sbandierato negli ultimi anni i sovranisti di più fronti, europei come americani. Per Mario Draghi, oggi, la sovranità del nostro Paese si declina solo nella «ricerca di una sovranità europea», nell'accordo che insieme a Macron definisce «storico», nella capacità di disegnare il nostro futuro costruendo un'Unione più forte, più integrata, più influente nelle sfide globali. Sovranità, futuro, capacità di perseguirlo secondo i comuni interessi: il capo del governo ha accanto il presidente francese, a villa Madama, per commentare la firma del Trattato del Quirinale. L'accordo fra i due Stati, che per molti versi ricalca quello rodato negli anni fra Parigi e Berlino, è un primo passo, «l'inizio di un percorso», dice Draghi. Un percorso che non può che portare ad una condivisione di strumenti non solo per moltiplicare il peso specifico dei due Paesi in politica estera, ma anche per essere un altro moltiplicatore (dopo quello franco-tedesco) delle ambizioni economiche, sociali, militari, geopolitiche in senso lato, dell'intera Unione europea. Il capo del governo italiano ripete più volte il concetto, non si tratta solo di un'alleanza legata all'integrazione economica o diplomatica, alla ricerca di un politica migratoria comune nel Mediterraneo o in Africa, ai diversi settori di un Trattato molto articolato e provvisto di una road map amministrativa e istituzionale. No, dice Draghi, la firma dell'accordo è un primo passo nella «gestione condivisa delle grandi sfide globali». Non per nulla è previsto che uno dei due Paesi possa rappresentare l'altro nei fori internazionali principali, persino nel Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite, in ogni sede dove uno dei due Stati è assente. Si firma anche la partecipazione di un ministro dei rispettivi governi, in modo alternato e ogni tre mesi, alla riunione di governo dell'altro Stato. È un punto che ha voluto espressamente Draghi poche ore prima della firma, ed è ricalcato letteralmente dall'articolo 24 del Trattato di Aquisgrana tra la Francia e la Germania. I francesi in un primo tempo sono rimasti un po' spiazzati, hanno gestito il timore che il passaggio potesse essere mal visto a Berlino, ma alla fine hanno aderito senza problemi al desiderio del presidente del Consiglio. È sempre il premier a sottolineare il metodo e il senso profondo sul quale è stato costruito il Trattato: «Dobbiamo imparare la disciplina dell'amicizia, è importante consultarsi e agire insieme», e questo vale per gli interessi comuni in Libia come per il Patto di stabilità che entrambi vogliono riformare, vale per gli investimenti strategici in economie più moderne e integrate come per gli scambi culturali o per la costruzione dei primi nuclei di una difesa comune. Gli spazi di collaborazione sono enormi, come dimostra anche la firma dell'accordo sulla collaborazione spaziale fra Vittorio Colao e Bruno Le Maire, che praticamente non hanno quasi dormito per arrivare a un accordo finale. Macron ha quasi un attimo di commozione quando pronuncia le ultime parole della conferenza stampa, guardando negli occhi Draghi e suggellando anche con la postura «l'amicizia fraterna» fra i due Stati. Per un attimo il presidente del Consiglio gli va incontro, sembra volerlo abbracciare, ma è solo un accenno di movimento, si ritrae subito, c'è il Covid e non si può. «Da oggi siamo ancora più vicini», conclude il premier, con una stretta di mano che dura quasi un minuto, oltre ogni protocollo. Del resto si tratta di un accordo, per entrambi, «storico».

Stefano Graziosi sulla Verità sostiene che ci sono zone d’ombra nel Trattato firmato da Draghi e Macron.

«In alcuni casi ci si ferma infatti a delle dichiarazioni di intenti, in altri si scorge forse eccessiva ambiguità. Un elemento, questo, che potrebbe rivelarsi problematico per Roma. A pagina 3 del «Programma di lavoro» (documento allegato al Trattato), si fa riferimento allo sviluppo di un «patto mediterraneo»: un obiettivo che si inserisce probabilmente nella nuova agenda europea per il Mediterraneo, presentata ad aprile. Un'iniziativa rivolta ai Paesi extraeuropei che si affacciano appunto sul Mediterraneo, per promuovervi una «ripresa socioeconomica sostenibile», Stato di diritto, tutela dei diritti umani e transizione ecologica. Obiettivi assai ambiziosi, che non è affatto chiaro in che modo dovrebbero essere realizzati, viste le fibrillazioni che attraversano il Nord Africa (a partire dalla Libia). Un ulteriore elemento poco chiaro si trova a pagina 4 del medesimo documento: qui si prevede infatti che Francia e Italia tengano delle «consultazioni» su lotta al terrorismo e sicurezza marittima anche in riferimento all'Indo-Pacifico. Ciò significa che vi sarà un coinvolgimento di natura militare del nostro Paese in quest' area? E, in caso, sotto quale ombrello? La strategia recentemente presentata dall'Unione europea sull'Indo-Pacifico è un capolavoro di vaghezza. Mettersi invece al traino direttamente dei francesi non è chiaro quanto possa convenire, visto lo schiaffo che hanno rimediato a settembre da Washington con l'Aukus. Ma non è tutto: un altro fronte problematico riguarda lo sviluppo di una «cooperazione spaziale ambiziosa». Come evidenziato su La Verità venerdì scorso, il rischio è che, a partire dal settore della radaristica, l'Italia finisca con l'utilizzare soldi del Pnrr per finanziare aziende francesi. Anche sul fronte migratorio non è che si riscontri troppa chiarezza. A pagina 6 del «Programma di lavoro» si auspica difatti il «raggiungimento di un compromesso equilibrato che permetta un controllo più efficace delle frontiere esterne, una diminuzione dei movimenti secondari e un meccanismo efficace di solidarietà nella gestione dei flussi migratori, riservando un trattamento specifico agli arrivi legati alle operazioni di ricerca e soccorso in mare che comprenda anche la riallocazione». In che cosa dovrebbe consistere questo meccanismo di solidarietà? E soprattutto: la riallocazione su che base dovrebbe avvenire? Automatica o volontaria? Non solo: viene infatti anche valutata «la possibilità di compiere missioni congiunte in Paesi terzi di origine e di transito dei flussi, al fine di rafforzare la cooperazione migratoria con tali Paesi». Ben venga il mettere insieme le forze per cercare di risolvere i problemi migratori: ma esattamente queste missioni in che cosa dovrebbero consistere? Il timore è che gli auspici e le parole rischino di prendere il sopravvento sui fatti. Un punto interrogativo riguarda anche l'energia. A pagina 9 del Trattato si legge che «le parti si adoperano per la decarbonizzazione in tutti i settori appropriati, in particolare sviluppando le energie rinnovabili e promuovendo l'efficienza energetica». Ricordiamo però che l'Italia importa parte della propria energia elettrica proprio dal nucleare francese e, a pensar male, si potrebbe ritenere che Parigi abbia qualche interesse da tutelare su questo fronte. Altro punto poco chiaro è quello volto ad «assicurare la resilienza delle nostre società alla disinformazione, attraverso l'apprendimento dell'uso dei social network a scuola». In base a quali criteri avverrà questo «apprendimento»? Chi impartirà le lezioni? Non si correrà qualche rischio di indottrinamento? Vista la delicatezza dei temi affrontati e i vincoli previsti dal Trattato, questi punti ambigui dovrebbero forse essere adeguatamente chiariti». 

MACRON INCONTRA ANCHE IL PAPA

Nella visita romana non poteva mancare la tappa del Presidente francese in Vaticano. Incontro cordiale con Papa Francesco. Mimmo Muolo per Avvenire.

«Sorrisi, clima cordiale, persino l'uso del confidenziale 'tu' negli scambi di battute. È stato l'incontro tra due amici l'udienza che papa Francesco ha concesso ieri al presidente francese Emmanuel Macron, giunto a Roma, oltre che per vedere il Pontefice, anche per firmare il Trattato italo-francese, di cui riferiamo più ampiamente a parte. Cronaca e contenuti dell'udienza confermano i buoni rapporti tra il Vescovo di Roma e l'inquilino dell'Eliseo, che spesso si sentono anche telefonicamente. Certo, l'incontro è giunto casualmente proprio nella giornata in cui rimbalzavano da Parigi le notizie sulle dimissioni dell'arcivescovo della capitale transalpina, Michel Aupetit. Ma di questo non c'è traccia nel comunicato ufficiale della Santa Sede e non se ne è ovviamente parlato nell'ora di colloquio (all'inizio il tempo fissato era la metà), come hanno confermato fonti diplomatiche francesi, interpellate dalle agenzie di stampa. La nota della Sala Stampa vaticana distribuita ai giornalisti riferisce di un confronto su questioni globali, dalla pandemia al clima dopo la Cop26, dalle tensioni in Medio Oriente ai migranti, dallo sviluppo dell'Africa alla situazione in America Latina, anche in vista della presidenza francese del Consiglio Ue a partire da gennaio 2022. Clima molto cordiale, come si è detto, anche nel successivo colloquio con il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin (che poi in serata ha presenziato al ricevimento per i 30 anni delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l'Albania, presente il primo ministro albenese, Edi Rama, che gli ha conferito la più alta onorificenza del Paese delle Aquile). Conversando tra loro e dandosi del 'tu', Francesco e Macron si sono informati sulle reciproche condizioni. «Come stai? Ti vedo stanco», ha notato il presidente. «Come sta tua moglie?», ha chiesto a sua volta il Papa, il quale donandogli poi i documenti del Pontificato ha aggiunto: «Spero di non annoiarti». Per Macron, a cinque mesi dalle presidenziali, questa visita in Vaticano sembra essere anche un messaggio per l'elettorato cattolico. Come lo è stata la storica visita a Lourdes lo scorso luglio. Soprattutto nell'intento di non lasciare mano libera alle manovre della destra su quello stesso elettorato». 

Anche se Macron e il Papa non ne hanno parlato, proprio ieri si è dimesso l’arcivescovo di Parigi. Matteo Matzuzzi per Il Foglio.

«L'arcivescovo di Parigi, mons. Michel Aupetit, ha rimesso il mandato nelle mani del Papa. Con una lettera datata 25 novembre e che sarebbe dovuta rimanere riservata fino alla risposta del Pontefice, il presule ha detto di voler lasciare "per salvaguardare la diocesi", travolta dallo scandalo rivelato dal Point nel suo ultimo numero del 23 novembre: Aupetit avrebbe avuto una relazione con una donna nel 2012. Al di là della vicenda poco chiara - l'arcivescovo ha smentito quanto riportato dal periodico - era da tempo che la diocesi parigina navigava in acque agitate. Aupetit era stato messo sul banco degli imputati da buona parte del clero locale e dall'intellighenzia culturale che alterna la frequentazione di salotti a quella delle chiese. "E' un conservatore radicale", titolò Libération quando a sorpresa il Papa scelse proprio lui quattro anni fa per succedere al cardinale André VingtTrois. E infatti subito erano ricominciate le processioni in piazza, i ritrovi nei parchi cittadini, una rinnovata presenza dei cattolici su tutti i temi più controversi, a cominciare da quelli bioetici. Aupetit, che è medico ed è stato ordinato sacerdote in età adulta, a quarantaquattro anni, è accusato di una gestione "brutale" dell'arcidiocesi, con due vicari generali che si sono dimessi nel giro di pochi mesi. Pietra dello scandalo, per gli intellò parigini, la chiusura del centro Saint Merry, comunità fondata negli anni Settanta e fiera del suo ultraprogressismo pastorale che accoglieva cristiani lgbt e divorziati risposati. Aupetit, con una mail spedita lo scorso 15 febbraio, ordinava la cessazione di tutte le attività, chiamando al suo posto la Comunità di Sant' Egidio. Problemi anche con il College des Bernardins: due anni fa l'arcivescovo inviò un dossier con "i nuovi orientamenti pastorali" per rimettere in carreggiata un'istituzio - ne divenuta - a giudizio del presule - "poco cattolica". Insomma, la battaglia ingaggiata da Aupetit per risvegliare un cattolicesimo parigino in stato comatoso ha incontrato ostacoli troppo grandi e soprattutto radicati nella società. Rispetto ai cahiers de doléances presentati sul suo conto, la storia del presunto flirt con una donna è l'aspetto più trascurabile. Interpellato dalla Croix, ha smentito di essersi dimesso, perché dimettersi "significherebbe abbandonare il mio posto". Piuttosto, si tratta di aver rimesso nelle mani del Papa il mandato ricevuto nel 2017. Sarà ora Francesco a decidere cosa fare». 

LA MANICA È PIÙ LARGA

Sullo scontro in atto fra Francia e Gran Bretagna, per la vicenda dei migranti naufragati nella Manica, interviene Michele Serra nella sua rubrica “L’Amaca” su Repubblica.

«Tra gli effetti di Brexit, c’è che Johnson si rivolge a Macron come se la Francia fosse una specie di Libia spostata molto più a Nord, e l’Eliseo lo stato maggiore del traffico di migranti. Oppure è vero il contrario: Brexit non è una causa, è solo una logica conseguenza. Per la grande isola a Nord della Manica il Commonwealth, che è l’eufemismo del vecchio Impero (vuol dire “bene comune”, probabilmente è il primo, clamoroso esempio storico di ipocrisia politicamente corretta), è pur sempre molto più prossimo, familiare e importante dell’Unione Europea. Le città inglesi pullulano di migranti, asiatici soprattutto, ma sono, come dire, un prodotto interno, un imponente flusso post-coloniale (come i magrebini in Francia). Ma i migranti africani che traversano l’Europa no, quelli non sono sudditi o post-sudditi della Corona Inglese, quelli sono affare interno di chi sta dall’altra parte della Manica. Se li tengano. È un modo di ragionare che non fa una grinza, a patto che ci si rassegni al provincialismo che sta sotto e dietro il cosiddetto sovranismo. Impossibile anche solo concepire una comune politica dei Paesi europei (l’Inghilterra lo è, almeno sul mappamondo) per il governo dei fenomeni migratori, fino a che un braccio di mare che si traversa anche con le pinne e il materassino, la Manica, politicamente è vasto e procelloso come un oceano. Lo sanno bene gli ultimi annegati di una lunga serie, che hanno almeno avuto il discutibile vantaggio postumo di occupare le prime pagine di tutti i Paesi nord-europei, e fatto discutere quei Parlamenti e quei governi. Migliaia di annegati nel Mediterraneo non hanno potuto godere di un cordoglio così diffuso. Se si vuole attirare l’attenzione, conviene annegare nella Manica».

TIM. VIA GUBITOSI, L’OPA VA AVANTI

Ieri drammatico Consiglio di amministrazione della Tim, durato quasi sei ore, che ha accettato le dimissioni dell’Ad Gubitosi, su pressione dei francesi di Vivendi. L’Opa del fondo americano Kkr sarà comunque esaminata. La cronaca da La Stampa.

«Scatta il ribaltone a Tim. Luigi Gubitosi rimette le deleghe da amministratore delegato e queste passano ad interim al presidente, Salvatore Rossi, mentre Pietro Labriola, che è pure numero uno di Tim Brasil, diventa direttore generale del gruppo, di cui avrà in sostanza la guida operativa. Eccolo l'esito del consiglio di amministrazione straordinario invocato dai sindaci, dal socio forte Vivendi (suo il 23,8%) e da molti consiglieri indipendenti. Una riunione che comincia nel primo pomeriggio e si protrae per quasi sei ore: riunione al vetriolo in cui si esamina anche lo stato dei conti che, secondo le indiscrezioni rimbalzate dal collegio sindacale, registrerebbero rispetto alle previsioni uno scostamento notevole. Tutto comincia come da copione anticipato da Gubitosi nella lettera della vigilia, con la remissione da parte sua delle deleghe di ad e di direttore generale. Il consiglio ne prende atto e gli revoca le cariche da capoazienda, dopo tre anni. Il suo è un addio a metà. Resterà come semplice consigliere. Anche per questo non è stato possibile cooptare immediatamente un nuovo ad. Ma sarà questione di tempo e nemmeno molto: secondo alcune fonti è possibile che nel giro di un mese l'assetto di governo trovi un assetto più ordinario. Nel frattempo il consiglio ieri per agevolare i processi interni, in una fase in cui certo il lavoro non manca, decide anche di dotarsi di un «lead independent director», sostanzialmente il coordinatore dei consiglieri indipendenti: il ruolo verrà ricoperto da Paola Sapienza. Ci sarà anche lei nel comitato che è stato costituito - su proposta del comitato controllo e rischi - per avviare le attività per esaminare la manifestazione di interesse di Kkr. A presiedere il comitato sarà lo stesso Rossi e ne faranno parte, oltre a Sapienza, altri tre consiglieri indipendenti, vale a dire Paolo Boccardelli, Marella Moretti e Ilaria Romagnoli. Tale commissione, stabilisce il cda, avvierà tempestivamente, con l'ausilio di advisor finanziari, tutte le attività istruttorie propedeutiche all'analisi dell'offerta del fondo americano che ha prospettato, senza però assumersi ancora impegni, un'offerta pubblica d'acquisto a 50,5 centesimi per azione. Poco, secondo alcuni consiglieri, quando il solo patrimonio netto a seguito di impairment e suddiviso per le azioni valorizzerebbe i titoli circa 1,25 euro. Anche da qui si capisce come le discussioni sulla proposta americana (che rischia di non essere nemmeno l'ultima) saranno assai vivaci. Tim, in ogni caso, prova a voltare pagina anche con l'assenso della Cdp, secondo azionista di Telecom con il 9,8%. Il presidente Salvatore Rossi, tra le altre deleghe assumerà quelle relative alle alleanze, alla comunicazione istituzionale, alla gestione degli asset e delle attività di rilevanza strategica per la sicurezza nazionale. Labriola, invece, indicato dal comitato nomine, assumerà da direttore generale la guida operativa dell'azienda, restando anche a capo del Brasile. Nei prossimi giorni dovrebbe essere nominato suo vice Stefano Siragusa, che avrà le deleghe su rete e operations. Tra i primi commenti al ribaltone in Telecom c'è quello del leader della Lega, Matteo Salvini: «Bene l'abbandono delle deleghe da parte di Gubitosi, impensabile che andasse avanti nonostante risultati negativi e previsioni non mantenute». Ora, pensando all'offerta di Kkr, chiede di salvaguardare l'«interesse nazionale: nessuna svendita di pezzi di azienda, tutela della rete pubblica, salvaguardia di investimenti e occupazione, no al cedimento a interessi finanziari stranieri». Più laico il ministro dell'Innovazione Tecnologica, Vittorio Colao: «Le vicende di mercato - dice da Bruxelles dover era per il Consiglio competitività - le lasciamo al mercato. Ovviamente abbiamo ribadito che osserviamo la situazione, abbiamo a cuore la sicurezza delle reti e dei dati italiani».

OGGI SI PUÒ DONARE LA SPESA

In tutti i supermercati italiani oggi si potrà donare la spesa ai poveri grazie alla Colletta Nazionale alimentare. Lo ricorda Giulia Prosperetti sul Quotidiano Nazionale.

«In Italia oltre 2 milioni di famiglie, per un totale che supera i 5,6 milioni di persone (di cui 1,3 milioni minori), sono in condizione di povertà assoluta. Nel giro di un anno - come evidenziano i dati Istat - si è passati dal 6,4% delle famiglie in difficoltà del 2019 al 7,7% del 2020, con un incremento complessivo di un milione di poveri nel nostro Paese. La domanda di aiuto alimentare è aumentata a livello nazionale in media del 40%. Questo l'impatto della pandemia sulle fasce più deboli della popolazione secondo le stime della Fondazione Banco Alimentare che oggi, ultimo sabato di novembre - come prevede una tradizione che dal 1997 ha permesso di distribuire oltre 172mila tonnellate di cibo -, promuove la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare. «Sono 25 anni che senza interruzioni il Banco Alimentare propone il gesto più semplice di carità: donare del cibo per chi è in difficoltà - spiega Giovanni Bruno, presidente della Fondazione Banco Alimentare Onlus -. Il miglioramento della situazione sanitaria, rispetto all'inizio della pandemia, può farci dimenticare che le persone in difficoltà sono ancora tante. Per questo speriamo che in tanti raccolgano il nostro appello a compiere questo gesto di condivisione». Un gesto che, quest' anno, si può tornare ad effettuare in presenza, facendo la spesa negli oltre 11mila supermercati aderenti e donando, ai 145mila volontari presenti, prodotti a lunga conservazione come omogeneizzati alla frutta, tonno e carne in scatola, olio, legumi, pelati. I prodotti donati saranno poi distribuiti alle 7.600 strutture caritative convenzionate con Banco Alimentare - mense per i poveri, comunità per i minori, banchi di solidarietà, centri d'accoglienza - che sostengono 1.673.522 persone. Nel corso della pandemia la Rete Banco Alimentare ha continuato la propria attività registrando un aumento delle donazioni di aziende alimentari. Attualmente - secondo i dati forniti dalla Fondazione - sono circa 1.600 le aziende donatrici di eccedenze, con un incremento di circa il 40% nel 2020. Ma un'inversione di tendenza richiede uno sforzo collettivo. Il volume degli sprechi, infatti, supera in Italia un valore economico di 12,6 miliardi di euro. Solo nel nostro Paese ogni anno vengono sprecate 5,6 milioni di tonnellate di cibo generate in eccedenza lungo la filiera agroalimentare italiana. «Una cifra spaventosa composta - sottolinea la Fondazione Banco Alimentare - da cibo buono e sicuro, che per mille ragioni avanza, non viene venduto o magari viene buttato nella spazzatura».

QUIRINALE 1. VOTO ANTICIPATO? NIENTE È PRONTO

La politica italiana, Green pass e fisco a parte, resta concentrata sul prossimo rinnovo del Quirinale. Ma si  voterà davvero in elezioni generali anticipate, col nuovo Presidente? Francesco Verderami nel suo retroscena per il Corriere ne dubita.

«Draghi doveva essere la loro «safety car» ma dopo nove mesi i partiti sono ancora ai box. All'ombra del governo di larghe intese, nato per gestire la pandemia e l'attuazione del Pnrr, il sistema politico avrebbe il tempo per rendere agibile la pista prima di tornare a competere. E invece, mentre il premier parla di cambiare in Europa il patto di Stabilità, le Camere in Italia nemmeno riescono a discutere sulle riforme che le competono e che peraltro interessano direttamente i partiti: se non la modifica della Costituzione o della legge elettorale, servirebbe almeno modificare i regolamenti parlamentari, che avranno grande rilevanza nella prossima legislatura visto il taglio di deputati e senatori. L'innovazione - varata frettolosamente e senza dare seguito ai necessari contrappesi - inciderà infatti sulla vita quotidiana del Palazzo, tra i lavori delle commissioni e l'attività delle Aule. E avrà quindi un impatto anche sull'azione del governo. Si tratta di una riforma neutra, che già si sarebbe potuta approvare senza influire nelle competizioni elettorali che in questi mesi hanno impegnato i partiti. Se non è andata (finora) così il motivo è chiaro: le forze politiche sono ripiegate su se stesse, divise al loro interno più di quanto non lo fossero prima dell'avvento di Draghi, e dunque non sono in grado di trovare un punto di convergenza. Ecco perché - come riconosce un autorevole ministro - «finora sul terreno degli interessi comuni in Parlamento non si è costruito nulla. Per certi versi è un'occasione persa»: «Il fatto è che l'attenzione è concentrata su altro». Cioè sul Quirinale, che è «fattore condizionante» per dirla con il centrista Quagliariello: «E siccome al momento non si capisce niente, bisognerà attendere l'esito della vicenda presidenziale per sapere se dopo si aprirà una stagione di riforme o si precipiterà verso le urne». Ecco il punto. In Parlamento, in modo trasversale, cresce la percezione che la legislatura abbia esaurito il suo corso, a prescindere dall'esito della corsa al Colle. Non a caso nei partiti l'interesse primario di peones e dirigenti si va focalizzando sulle liste elettorali. Lo si è notato nella Lega, quando Salvini ha annunciato la Conferenza programmatica. Ed è evidente nel Pd, dove il rimescolamento delle correnti anticipa uno scontro all'arma bianca: questione di vita o di morte visto che la prossima volta ci saranno meno seggi per tutti. Inevitabilmente le tensioni interne si riflettono sulla partita del Quirinale e provocano un cortocircuito nei partiti. Il conflitto nel Movimento non fa più notizia: giorni fa in Transatlantico un gruppo di grillini «tendenza Di Maio» sosteneva animatamente che «non si può delegare a Conte la trattativa» sul capo dello Stato. «E comunque - ha chiosato ad alta voce uno dei presenti - se ci sarà Casini, io voterò Casini». In Forza Italia l'attivismo di Berlusconi deve fare i conti con la fronda di quanti denunciano di esser stati messi da parte. Nel Pd c'è un caleidoscopio di posizioni, che va da chi - come Portas - è pronto a dare «un oscar alla carriera a Berlusconi», a chi - come Ceccanti - accende ogni giorno un cero votivo perché «vedrete che sarà rieletto Mattarella». E si avverte tra i dem un fronte anti-Draghi, a cui un esponente della segreteria come Boccia dà elegantemente voce: «Abbiamo ancora bisogno del talento del presidente del Consiglio a Palazzo Chigi»... Per quanto tutti i quirinabili si sentano in condizione di vincere, è opinione comune che se l'ex capo della Bce dovesse prender parte alla corsa non ce ne sarebbe per nessuno. E con una battuta l'ex ministro Landolfi ne spiega i motivi: «Draghi è il primo caso di un premier che concede la fiducia al Parlamento». A fronte di questa situazione i partiti prendono tempo confidando di riuscire a compattarsi. Ma «il quadro politico si sbriciola sempre di più per ogni minuto che passa», spiegava l'altro giorno a un collega il dem Raciti: «E quando arriveremo a gennaio il rischio è che non regga niente». Il marasma è tale che a nessuno viene oggi in mente di parlare di riforme. Quelle che servirebbero alla politica dopo Draghi, per non ricominciare come prima di Draghi».

QUIRINALE 2. RENZI: “DECIDIAMO INSIEME”

Intervista di Matteo Renzi al Corriere di Maria Teresa Meli. Enrico Letta, nei giorni scorsi, aveva avvertito il leader di Italia viva che se avesse ancora votato con la destra sarebbe stato considerato definitivamente fuori dalla sinistra. Oggi la replica, con una proposta: votiamo tutti insieme.

«Non vuole Draghi al Quirinale perché teme il voto? «Ripeto ciò che ho sempre detto: Draghi sarebbe uno straordinario presidente della Repubblica. Per sette anni darebbe solidità alle istituzioni in continuità con Ciampi, Napolitano, Mattarella. E tuttavia Draghi farebbe molto bene anche da Palazzo Chigi in un momento nel quale bisogna spendere bene i soldi del Pnrr. Nell'uno e nell'altro caso, tuttavia, da tempo dico che bisogna mettere in conto le elezioni nel 2022. L'ho detto anche alla Leopolda. Noi preferiremmo votare a scadenza naturale nel 2023. Ma gli interessi dei leader dei partiti principali, da Salvini a Meloni, da Letta a Conte sono diversi: tutti, per motivi diversi, vogliono votare. Anche e soprattutto quelli che non lo dicono». Letta dice che se Italia viva vota con il centrodestra è fuori dal centrosinistra. «Al segretario del Pd sfuggono due considerazioni. La prima è che al Quirinale è giusto votare un candidato tutti insieme, dalla Meloni ai grillini, da Salvini ai dem. Questo perché il presidente è l'arbitro, non un giocatore. Votare insieme al centrodestra, poi, in questo passaggio è un dovere istituzionale e algebrico visto che stavolta hanno i numeri dalla loro parte. Quindi Iv voterà col centrodestra e col centrosinistra un presidente europeista e anche il Pd voterà col centrodestra. E non credo che Letta potrà espellere persino il Pd dal centrosinistra. Quanto al secondo punto Letta ha già espulso Italia viva dopo che lui stesso aveva sbagliato tutto sulla Legge Zan. Non è che può espellerci una volta alla settimana. Per voler fare un campo largo mi pare che stia esagerando con i cartellini rossi. Spero che il Santo Natale faccia recuperare saggezza all'amico Enrico». Una donna al Quirinale? «Ho guidato l'unico governo della storia italiana col 50% di ministre donne: su questo tema non prendo lezioni da nessuno. Certo, sarebbe bellissimo avere un presidente donna. Nel frattempo quelli che lo dicono potrebbero iniziare a scegliere direttori di giornali donna, amministratrici delegate donna, commentatrici nei talk show donna. Perché son tutti pronti a parlare di pari opportunità per la politica, ma il problema va ben oltre il Quirinale. La questione femminile riguarda la società. A cominciare da chi la racconta e la guida». Calenda l'attacca: il centro è gia messo male. «Carlo fa tutto da solo. Anche quando attacca duramente e poi fa la pace, fa tutto da solo. Io non ho mai replicato, mai reagito. Ho voluto Calenda ministro, l'ho nominato ambasciatore, l'ho sostenuto alle Europee e alle Comunali. Non ho mai detto nulla contro di lui, non inizierò adesso. Quanto al centro: non lo facciamo nascere io e Calenda. C'è già. Qualcuno lo rappresenterà. A me piacerebbe che a farlo fosse un soggetto plurale, come ha fatto Macron in Francia. Ma quest' area c'è già e sarà decisiva anche nella prossima legislatura». Lei dice che nell'inchiesta Open è stato violato l'articolo 68 della Costituzione, ma molti sostengono di no. «Lo deciderà la Corte costituzionale. Quanto a me, io so di non aver violato la legge. Temo invece che i magistrati fiorentini abbiano violato la Costituzione. Lo verificheremo nelle sedi opportune». Open pagava le vostre iniziative, non era una forma di finanziamento illecito? «No. Open finanziava in modo trasparente la Leopolda, rispettando in modo inappuntabile l'articolo 3 dello statuto della fondazione». Sostiene che era tutto regolare? «Tutti i finanziamenti sono regolari. Quello che colpisce è che un pm voglia decidere le forme in cui i cittadini si mettono insieme per fare politica. In una democrazia che cosa è un partito e come funziona lo decide il Parlamento, non il codice penale». Ma non trova inconciliabile l'attività di conferenziere all'estero con quella di leader politico? «No. Lo fanno in tutto il mondo. Ho l'impressione che usino questo argomento perché vorrebbero farmi smettere di fare politica, non di fare conferenze. Più che smettere io di fare politica, sarebbe bene che iniziassero loro a fare politica. Se ne sono capaci, naturalmente».

QUIRINALE 3. MATTARELLA STALKERIZZATO

Anche Marco Travaglio nel suo editoriale sul Fatto interviene a proposito della corsa al Quirinale ma per ridicolizzare le continue richieste a Mattarella di restare sul Colle.

«È vero che ormai viviamo immersi in una mega-barzelletta, dove le cose ridicole vengono prese sul serio e quelle serie sul ridere. È vero che nessuno fa un plissé neppure se il premier firma un trattato con la Francia di cui solo lui e Macron conoscono il testo e il Parlamento pazienza, se il capo della nuova Alitalia minaccia e insulta chiunque passi, se il capo di gabinetto di Draghi viene beccato a fare marchette, se i renziani usano dossier falsi e lettere anonime per sputtanare Report e passano per "garantisti". Ma la corsa al Quirinale supera anche i già ragguardevoli standard medi della farsa politica. Dal 2 febbraio Mattarella ha ripetuto in pubblico sei volte che non si farà rieleggere. Per essere più convincente, ha citato Segni e Leone, che non solo teorizzarono il mandato unico, ma si dimisero in anticipo. S' è fatto fotografare mentre cercava casa. E ha iniziato un giro di saluti, confermando a tutti che a febbraio se ne va. Tanta insistenza può avere due soli moventi. 1) Porre fine allo stalking di chi, in pubblico e soprattutto in privato, gli rompe le palle per il bis. 2) Stanare quella sfinge di Draghi che - ormai lo sanno tutti - aspira al Quirinale, ma proprio per questo fa il pesce in barile in ossequio al celebre detto vaticano: "Chi entra papa esce cardinale" (o sacrestano). Ma più Mattarella saluta, più lorsignori fingono di non sentire. L'altro giorno, mentre ribadiva per la sesta volta di avere le valigie pronte, quel gran genio di Tabacci invitava "i partiti, tutti" a non "infilarsi in vicoli perigliosi" (qualunque cosa significhi) e a "chiedere a Mattarella un ultimo sacrificio" perché "il Paese ha bisogno di continuità a tutti i livelli" (e, se lo dice Tabacci, sarà vero). Quello dice "non ci provate" e lui che fa? Ci prova. Intanto un pesce di nome Zanda e tal Parrini (il pidino che vuole abolire la Severino per i sindaci che rubano o truccano appalti) presentano un ddl costituzionale per la non rieleggibilità al Colle. Voi direte: almeno loro han recepito il messaggio. Magari: nel Paese dove chi vuole il bianco dice nero, l'obiettivo dei due buontemponi è l'opposto di quello dichiarato: "Lasciarsi uno spiraglio per un bis di Mattarella, il secondo e ultimo doppio mandato della Repubblica" (Corriere). Cioè: scrivono "niente bis" perché Mattarella conceda il bis. Cioè pensano che sia come loro e, quando dice "vado", intenda "resto". Come Stanlio e Ollio che salutano tutti ("arrivedooorci!") e non si muovono di lì. Ora temiamo che al capo dello Stato, per non fare la figura del bugiardo tipo Napolitano e scrollarsi di dosso questi stalker, non resti che rinunciare al suo aplomb e sottolineare il settimo diniego con espressioni più persuasive e definitive. Tipo: "Chi camurria, m' aviti scassatu a minchia"».

5 STELLE, L’ULTIMO TABÙ DEL DOPPIO MANDATO

Dopo il voto per il nuovo Capo dello Stato, i 5 Stelle devono affrontare la questione del doppio mandato. Matteo Pucciarelli per Repubblica.

«Prima c'è il Quirinale, poi i 5 Stelle prenderanno in mano il più delicato e scottante dei propri dossier, ovvero il superamento parziale del tetto ai due mandati elettivi per i portavoce del Movimento. A conti fatti è l'ultimissimo tabù da abbattere; il problema però è il come. Nel senso che non lo si cancellerà del tutto - Beppe Grillo in primis è contrario - ma verranno pensate delle deroghe da far poi votare agli iscritti. Già, ma quali deroghe? Ad personam? O con criteri generali? Qualsiasi scelta verrà fatta scontenterà più di qualcuno. Aleggia un incubo, specie tra i parlamentari al primo mandato, che sono la maggioranza (166 su 233): per loro rientrare in Parlamento sarà impossibile, o quasi. Fatto che ha, avrà, ripercussioni politiche sul breve termine. Ma andando con ordine: il 32 per cento preso dai 5 Stelle nel 2018 difficilmente verrà replicato. Poi, per effetto della riforma voluta proprio dal Movimento, il prossimo Parlamento avrà un terzo dei seggi in meno. Calcoli spannometrici alla mano, ipotizzando un 15 per cento alla Politiche, i 339 eletti delle scorse elezioni (tra espulsioni e addii ne sono rimasti 233) si ridurranno ad un ordine di grandezza di 70-90 parlamentari. Tra i futuri e possibili nuovi deputati e senatori ci saranno verosimilmente le vecchie glorie con le non ancora chiare deroghe (da Luigi Di Maio a Roberto Fico, da Paola Taverna oggi vice di Conte a Vito Crimi); poi, com' è normale che sia, Conte pescherà nomi esterni della cosiddetta società civile. Si fa presto a far di conto e di posti per tutti gli altri ne rimarranno pochi. Una trentina? Un po' più, un po' meno? Un orientamento possibile sulle deroghe è che, sulla falsariga del mandato zero, si "abboni" un mandato in alternanza. Ne hai fatto uno da consigliere regionale e poi un altro da deputato? Deroga. Uno da deputato e in un altro hai fatto il ministro? Deroga. Però in questo modo resterebbe fuori, per fare un esempio, proprio Taverna, due volte senatrice. Si potrebbe valutare un sistema di "meriti": hai fatto il sottosegretario? Sei stato capogruppo? Il tuo contributo serve ancora. Ma non c'è solo il tema del se si verrà ricandidati, ma anche il dove. Secondo la vecchia regola interna, ci si presentava dove si era residenti. Un aspirante portavoce milanese non poteva essere piazzato nelle liste in Sicilia. Se questo criterio restasse valido, oggi ci sono regioni che esprimono ministri nelle quali si rischia di non eleggere più neanche un parlamentare. Dopodiché c'è da tener di conto che le regole per le candidature future passeranno dal Comitato di garanzia. Un organo composto da Di Maio, Fico e Virginia Raggi. Tutti e tre, con le regole attuali, sarebbero al capolinea della propria carriera politica (a parte la ex sindaca, che ha altri 5 anni davanti con il mandato da consigliera comunale di opposizione grazie al "mandato zero"). Conte in teoria potrebbe avere pure tutto l'interesse a mantenere la regola aurea di Casaleggio, non vale lo stesso però per i dirigenti che contano, persone che nel bene e nel male sono ormai po litici a tutto tondo. Superato il dogma del finanziamento pubblico con il sì al 2 per 1000 - lunedì e martedì si vota online l'ok definitivo, assieme ai cinque vicepresidenti e ai membri dei vari comitati tecnici, quattro dei quali entreranno nel Consiglio nazionale, una sorta di segreteria - l'ultimo steccato rimane il più sensibile perché tocca il futuro di centinaia di parlamentari. Un deputato al primo mandato, ad esempio, cosciente di avere pochissime probabilità di rientrare in Parlamento, potrebbe davvero fare una scelta per il Quirinale, pure se caldeggiata dal leader del partito, che comporterebbe la fine anticipata della legislatura? Ma al netto di quel che sarà, riflette un parlamentare, «ci scordiamo tutti che un segreto del successo del Movimento è stato quello di offrire la possibilità alle persone normali, attraverso la democrazia diretta, di diventare deputati, senatori, consiglieri regionali e comunali». C'è chi infatti con qualche decina di clic ha "vinto" un seggio: utopia (o distopia) arrivata al capolinea».

UCRAINA, IL PRESIDENTE GRIDA AL GOLPE

Il presidente dell’Ucraina Zelenskij denuncia la preparazione di un golpe ai suoi danni. La cronaca sul Corriere è di Fabrizio Dragosei.

«Oppositori interni starebbero preparando un colpo di Stato in Ucraina con il sostegno della Russia. La denuncia, pesante e circostanziata, è del presidente Volodymyr Zelenskij. Tra i possibili partecipanti al complotto anche uno dei più noti oligarchi del Paese, Rinat Akhmetov. Ma alle prime parole di Zelenskij non sono seguiti gli annunci che tutti si attendevano per fatti così gravi, come arresti, messa in allerta di truppe o altro. Akhmetov, che possiede una delle televisioni d'opposizione, sarà solo «invitato per un colloquio chiarificatore». E forse potrebbe essere stato coinvolto «a sua insaputa». L'oligarca si è affrettato a definire il tutto «una colossale balla». In quanto alle prove audio che Zelenskij ha sostenuto di avere, non sono state diffuse. Così una delle interpretazioni che girano tra Kiev e Mosca è che il capo dello Stato abbia voluto giocare d'anticipo sui suoi avversari per cercare di superare le grandissime difficoltà politiche in cui si trova da tempo. Addirittura c'è chi, come il politologo russo Vladimir Zharikhin, sospetta che Zelenskij abbia in mente di dichiarare lo stato d'emergenza per mettere a tacere i suoi critici. Inoltre la sua popolarità sarebbe calata sensibilmente. Il tutto in una fase di rinnovata tensione tra Russia, Nato e la stessa Ucraina. Da giorni i vertici a Kiev denunciano un incremento della presenza militare di Mosca lungo la frontiera. Cosa condivisa anche da esponenti dell'amministrazione Usa e dalla Nato. Il segretario Stoltenberg ieri ha detto che «se la Russia usa le sue forze contro l'Ucraina, avrà un costo, subirà delle conseguenze». Zelenskij afferma di temere addirittura un'invasione e il suo capo dei servizi di sicurezza ha aggiunto che l'armata russa ha 92 mila uomini vicino al confine e che si prepara a un'aggressione su larga scala tra gennaio e febbraio. Si tratta di informazioni che non trovano alcuna conferma da altre fonti e che anzi vengono recisamente smentite dal Cremlino: «La Russia non ha alcun piano per farsi coinvolgere» nelle vicende del Paese confinante, ha risposto il portavoce di Putin Dmitrij Peskov. D'altra parte, un'invasione dell'Ucraina non avrebbe alcun senso per Mosca, visto che le parti russofone del Paese si sono già staccate e sono de facto autonome sotto la protezione di Putin. I movimenti di truppe non vengono smentiti dal ministero della Difesa russo ma sono ritenuti del tutto normali, dato che avvengono all'interno del proprio territorio. E alcune delle basi che sarebbero state rafforzate si trovano addirittura a centinaia di chilometri dalla frontiera. Inoltre Mosca fa capire che le sue azioni non sono altro che una «preoccupata» risposta alle iniziative della Nato e della stessa Ucraina che continuano a svolgere esercitazioni a ridosso del confine con la stessa Russia e con la Bielorussia. Sembra poi assai strana la partecipazione a un eventuale golpe in combutta con la Russia di Akhmetov che è dovuto fuggire dalla nativa Donetsk ora occupata dagli indipendentisti filorussi. Sue aziende sono state sequestrate dai ribelli e la stessa squadra di calcio di sua proprietà, lo Shakhtar Donetsk, gioca da tempo a Kiev».

THAILANDIA, DISSIDENTI AVVERTITI DA APPLE

La Apple, colosso della web economy, ha avvertito i dissidenti thailandesi che i loro telefoni erano sotto controllo. L'attuale Premier thai è un ex generale salito al potere con un golpe sette anni fa. Enrico Franceschini su Repubblica.

«Per la prima volta la Apple scende in campo al fianco dei dissidenti contro uno Stato autoritario. Negli ultimi tempi il gigante della telefonia mobile ha comunicato a decine di attivisti politici in Thailandia che i loro cellulari sono stati intercettati e probabilmente vengono spiati da hacker al servizio del governo di Bangkok. Si tratta di dimostranti dell'opposizione che manifestano da mesi per una riduzione dei poteri della monarchia thailandese, argomento in precedenza tabù nel loro Paese. Rivelato al Guardian di Londra dagli stessi militanti, l'allarme lanciato dalla Apple sembra costituire la prima volta che l'azienda californiana è intervenuta per segnalare un'operazione di spionaggio cibernetico contro i propri utenti da parte di una struttura statale. Afferma il messaggio ricevuto da uno dei manifestanti sul suo iPhone: «La Apple crede che lei sia diventato il bersaglio di un attacco sponsorizzato dallo Stato. Questa intrusione è avvenuta per ciò che lei rappresenta o per ciò che fa. Se il suo telefonino è stato intercettato da hacker di Stato, essi possono essere in grado di avere accesso alle sue comunicazioni, ai suoi dati riservati o perfino alla sua telecamera e al suo microfono. Pur essendo possibile che il nostro avvertimento sia un falso allarme, la preghiamo di prenderlo seriamente». Almeno 17 persone hanno ricevuto dalla Apple un messaggio di questo tipo, scrive il quotidiano londinese. Tra di loro figurano due leader del movimento che dallo scorso anno è sceso in piazza contro la monarchia: Panusaya Shitijirawattanakul e Arnon Nampa, entrambi attualmente detenuti in attesa di giudizio dalle autorità thailandesi. Anche un rapper di Bangkok noto come Hockhacker, cantante del gruppo Rap Against Dictatorship, ha dichiarato sul proprio profilo Facebook di essere stato contattato dalla Apple e ha pubblicato sul social media una foto del messaggio. La sua band, che ha preso posizioni contro la monarchia e contro il governo appoggiato dai militari, è accusata di sedizione. Altri attivisti avvertiti dalla Apple includono due docenti di scienze politiche della Thammasat e della Chukalongkorn University, il segretario generale del Progressive Movement e un avvocato dei diritti civili. «Non abbiamo nulla da nascondere, non siamo un'organizzazione terroristica» commenta Elia Fofi, uno degli attivisti finiti nel mirino, osservando tuttavia che un attacco alla privacy può spingere molta gente ad avere paura di parlare o comunicare liberamente. La Apple non ha reso noto come è venuta a conoscenza dell'attacco. E il governo thailandese rifiuta di commentare la vicenda. «Questa è una questione di sicurezza nazionale a cui il governo deve rispondere», dichiara il partito di opposizione Move Forward. L'anno scorso un'ondata di proteste giovanili ha rotto un tabù che durava da lungo tempo in Thailandia, chiedendo riforme della monarchia, tra cui una riduzione del budget e il divieto per il re di interferenze politiche. I dimostranti chiedono inoltre le dimissioni del premier Prayuth Chan-o-cha, un ex-generale salito per la prima volta al potere con un colpo di Stato. Secondo l'associazione per i diritti umani Thai Lawyers for Human Rights, più di 1.600 persone sono state incriminate per attività politiche dall'inizio delle proteste nel 2020».

BERGOGLIO SI INTERROGAVA SUI CARISMI

Alver Metalli, giornalista italiano che da anni vive in Argentina e che ha deciso di condividere l’esperienza di padre Pepe Di Paola in una Villa, La Carcova, “favela” a 30 km da Buenos Aires, ha scritto un importante articolo per il suo blog Controluce (alvermetalli.com). Nell’articolo Metalli rivela che già da Arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio si interrogava sui carismi dei Movimenti e sul loro destino dopo la morte del fondatore. Non dunque solo da Papa, si sarebbe posto questo problema, diventato ora di stringente attualità dopo le dimissioni di Julián Carrón da presidente della Fraternità di Cl. Ecco il pezzo.  

«In questi tempi di spinta al cambiamento, dolorosi, provocanti, confusi anche, come sono momenti di questo tipo, mi è venuta alla mente una circostanza del passato che aiuta a far capire – mi sembra – la prospettiva innovatrice che contengono quelle lontane osservazioni. L’anno è il 2008, il mese luglio, il giorno il 22. Un martedì esattamente. In pieno centro di Buenos Aires, nella sede di una istituzione legata all’avvocatura, Bergoglio a quei tempi arcivescovo di Buenos Aires e presidente dell’episcopato argentino, accettava l’invito dei responsabili di Comunione e Liberazione di presentare un libro di don Giussani. Era la quarta volta che lo faceva, e questa volta si trattava di Si può vivere così?, una antologia di dialoghi pubblicata nel 1994 che recava come sottotitolo “Uno strano approccio all’esistenza cristiana”. Anche in quell’occasione, come già nelle precedenti, Bergoglio premise che accettava gli inviti del movimento locale di C.L. per la gratitudine che sentiva verso Giussani. Quando ha conosciuto i suoi scritti – ha ripetuto – ha sentito che erano “per lui”, che gli “sistemavano la vita”.

Ma a differenza delle volte precedenti Giussani non era più in vita. La questione della sua presenza, adesso che l’iniziatore di C.L. non era più un riferimento vivente, era più che mai attuale e credo che Bergoglio avesse colto lo smarrimento di quel momento e volesse in qualche modo aiutare l’identificazione del carisma in assenza del fondatore. Per questo nella presentazione scelse di soffermarsi «su un punto che non c’è nelle riflessioni di Giussani e porre il problema» disse dopo aver esposto alcuni dei principali concetti del testo su cui gli era stato chiesto di parlare. Con semplicità Bergoglio affermò: «Giussani è morto. Ci ha lasciato i suoi scritti, le sue intuizioni, il suo insegnamento, la sua scuola, la sua strada». La domanda che Bergoglio si poneva era «in che modo farsi carico dell’eredità di un fondatore, in concreto dell’eredità scritta? Partendo da quale ermeneutica?». Si capiva che quella che sollevava era una questione tutt’altro che retorica. Velocemente aggiunse che «La grande tentazione in questi frangenti è di codificarne l’eredità, in questo caso fare un manuale delle idee e delle affermazioni di Giussani». Queste cose le disse con a fianco i responsabili di Comunione e Liberazione in Argentina, davanti a poco più di un centinaio di persone. Credo che volesse in qualche modo incoraggiare i convenuti ad andare avanti presentendo un certo inevitabile e perdurante sbandamento nella base di Comunione e Liberazione. In privato, dopo l’incontro pubblico, gli venne chiesto il perché avesse una tale preoccupazione. “Perché succede a tutti”, rispose. Cioè perché la scomparsa del fondatore lascia in chi lo segue, un indubbio problema. Nell’auditorio, poco prima, aveva affermato. «Questo è vero per tutti i carismi. Poniamo adesso la questione, adesso che è ancora viva la voce di Giussani. Ma di qui a 20 anni bisognerà tener conto di questo criterio più che mai».

Quale criterio? E come tenerne conto? Due settimane dopo la presentazione di Buenos Aires il cardinal Bergoglio tornò a mettere in guardia dal rischio della codificazione dell’esperienza cristiana davanti ad un pubblico diverso da quello di CL e dei suoi simpatizzanti. Fu presentando il libro Convivere, del fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi. In quella sede, per spiegare la propria preoccupazione ricorse ad un aneddoto attinto dalla storia della Compagnia di Gesù fondata da Sant’Ignazio di Loyola a cui lui stesso apparteneva. Raccontò a braccio un momento dell’epopea gesuita che aveva a che vedere con il responsabile ultimo della Compagnia, chiamato militarmente Generale. Vale la pena leggere un passaggio degli appunti di quel momento. «Già il terzo Generale dopo Sant’Ignazio ha avuto la tentazione di codificare l’intuizione ignaziana della formula dell’Istituto e delle costituzioni e hanno cominciato a venir fuori in tutto il mondo delle regole: per i sacerdoti, per gli studenti, per il sacrestano, per il portiere… Tutto quello che dovevano fare era codificato». È probabile che Bergoglio si riferisse a Everardo Mercuriano, eletto nel 1573, un presbitero belga terzo nella linea di successione, dopo Diego Laínez (eletto nel 1558) e Francesco Borgia (eletto nel 1565). Da notare la durata in carica di sette anni nel governo medio dei primi tre prepositi generali. Bergoglio ha poi proseguito: «In un’altra epoca, durante il pontificato di Pio XI, un Generale della compagnia ha ricodificato tutte le regole, vale a dire, i gesuiti sono passati per una seconda distillazione, un secondo alambicco. Questo Generale fece quello che venne chiamato l’Epitome dell’Istituto [un compendio] della Compagnia, dove si mescolavano la Costituzione e le Regole, ogni cosa ben codificata per temi, e con un apparato critico molto esteso. Questo Generale, un uomo molto santo, andò a trovare il superiore dei benedettini e gli portò in regalo quello che aveva fatto. Il benedettino lo guardò e gli disse: Padre, con questo ha appena ucciso la Compagnia». Il Generale richiamato ancora una volta a braccio da Bergoglio dovrebbe essere il polacco Włodzimierz Ledóchowski, che per l’appunto coprì il pontificato di Pio XI come preposito dal 1915 al 1942. Bergoglio ha poi risposto alla sua stessa domanda [“In che modo farsi carico dell’eredità di un fondatore”] con i suggerimenti che aveva dato San Vincenzo di Lerino [N.d.A. Scrittore ecclesiastico della Galia meridionale del V secolo], per conservare l’integrità della fede: essere fedeli al dinamismo storico e ai diversi luoghi, tempi e persone e, contemporaneamente, conservare il carisma nella sua ricchezza più profonda mettendolo in gioco, non inscatolandolo. «Il carisma di don Giussani, in questo caso, si custodirà se negli anni si consolida, non se si conserva, vale a dire, se con gli anni mette radici in uomini e donne, se si dilata e acquisisce altre forme secondo il tempo, se si sublima in espressioni sempre più ricche secondo il tempo storico. É un rischio, certo, però lo è ancor di più tenere il carisma inscatolato (enlatado è l’espressione spagnola usata da Bergoglio)”. L’arcivescovo si è poi rivolto direttamente a “coloro che seguono” il carisma di don Giussani: «O avete il coraggio di camminare nella fedeltà al carisma e ai tempi che si stanno vivendo o esso si anchiloserà e non sarà fecondo». Ho risentito l’eco di quelle confidenze amichevoli di tanti anni fa nelle parole pronunciate dal papa sabato 16 settembre 2021 ai responsabili dei movimenti convocati a Roma per ascoltare quanto aveva da dire sulle responsabilità di governo nelle aggregazioni laicali. Anche in questa occasione recente – ma adesso da Papa – ha coniugato insieme fedeltà al carisma con cambiamento: «Infatti, appartenere a un’associazione, a un movimento o una comunità, soprattutto se fanno riferimento a un carisma, non deve rinchiuderci in una “botte di ferro”, farci sentire al sicuro, come se non ci fosse bisogno di alcuna risposta alle sfide e ai cambiamenti». Come nel 2008 ha osservato che «È comprensibile che dopo la scomparsa del fondatore la fedeltà sia intesa come un salvaguardare – è una tentazione che tante volte avviene alle nuove congregazioni o ai movimenti nuovi – e perciò non bisognosi di cambiamenti, può diventare una falsa sicurezza. Anche le novità fanno presto a invecchiare!». E come allora ha suggerito che per salvaguardare una eredità da cui in maniera sorgiva sono nate forme educative e di presenza, quelle stesse forme devono essere «approfondite sempre meglio, riflettute e incarnate nelle nuove situazioni». Altre forme, per meglio esprimere la sostanza».

Leggi qui tutti gli articoli di sabato 27 novembre:

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