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La pace e il test nucleare

alessandrobanfi.substack.com

La pace e il test nucleare

Dopo l'appello del Papa, altri inviti al dialogo. Ma Zelensky vara un decreto perché non si tratti con Mosca. Putin, secondo Times, prepara un test atomico. Meloni chiama Kiev. Salvini vuole tutto

Alessandro Banfi
Oct 5, 2022
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La pace e il test nucleare

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Secondo il Times di Londra, Vladimir Putin si preparerebbe ad un test nucleare alla frontiera con l’Ucraina. L’allarme ha fatto il giro del mondo, anche perché l’impressione è che lo Zar del Cremlino, dopo la proclamazione dell’annessione dei territori conquistati nel Donbass venerdì scorso, si sia messo in una posizione non facile. Le truppe ucraine infatti hanno ripreso Lyman e altre zone che solo cinque giorni fa figuravano nella zona “annessa” da Mosca con i referendum. La reazione dell’esercito russo, con armi convenzionali, appare difficile se non impossibile sul terreno. Davvero scatterà l’opzione dell’arma tattica nucleare? Dopo l’appello del Papa di domenica, qualcosa si muove a favore del negoziato. Lo stravagante imprenditore amricano Elon Musk (i cui satelliti hanno permesso agli ucraini sicurezza nelle comunicazioni) ha rilanciato la trattativa, arrivando a proporre a Kiev di lasciare la Crimea ai russi. Ma la linea di Volodymyr Zelensky è durissima. Ieri il presidente ucraino ha ratificato con un decreto la mozione del consiglio nazionale di Difesa, che chiude le porte alle trattative con Putin, definendo «impossibile» qualsiasi colloquio con l'attuale presidente della Federazione Russa.

In Italia ci sono stati due importanti interventi a favore della pace. Il primo è stato quello del Capo dello Stato Sergio Mattarella, che accendendo ad Assisi la tradizionale lampada votiva per la ricorrenza di San Francesco ha parlato in modo diretto della necessità di un negoziato. Come sottolinea oggi Marzio Breda sul Corriere. L’altra presa di posizione è stata quella di Giuseppe Conte. Il leader dei 5 Stelle ha dato un’intervista ad Avvenire in cui rilancia una manifestazione di piazza in favore del negoziato e della pace ed ha assicurato: “Noi ci saremo senza bandiere”. Proprio ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha confermato al Copasir che ci sarà un quarto invio di armi dall’Italia. Mentre Giorgia Meloni, muovendo i primi passi in politica estera da premier in pectore, ha chiamato Zelensky, esprimendo solidarietà e appoggio. Andrà presto a Kiev?

Intanto sulla crisi del gas l’Europa torna a dividersi. Ieri Breton e Gentiloni erano usciti allo scoperto per chiedere che la Ue si muovesse sulla linea del Recovery, anche in campo energetico. Oggi c’è una replica dura della Von der Leyen che qualifica la missiva come “un’iniziativa personale che non impegna la Commissione”. E tuttavia, secondo Federico Fubini, in Europa la discussione sulla necessità di una qualche forma di solidarietà fra i 27, per contrastare la crisi energetica, non si è ancora conclusa: ci sarebbero spiragli dalla stessa Berlino, che possono indurre a speranza. Vedremo.

Quella europea non è certo l’unica trattativa per Meloni. Il tira e molla su seggiole e poltrone del nuovo governo va avanti e sarà così per altri 8 giorni, quando all’insediamento delle nuova Camere si vedrà un primo equilibrio per nominare i Presidenti. Matteo Salvini vuole il Viminale e altri 5 dicasteri. Si sente il candidato naturale a guidare gli Interni, nonostante abbia ancora aperto un procedimento penale che riguarda un suo comportamento passato in quella funzione. Silvio Berlusconi fa muro insieme a lui nei confronti della futura premier, ma il partito al Nord è fortemente insofferente. Alessandro Sallusti oggi su Libero rintuzza le critiche interne alla Lega, ricordando che il gruppo parlamentare è compatto col Capitano. Li ha scelti tutti lui. Questa folle legge elettorale sta provocando anche un problema di democrazia nei partiti.

Le altre notizie dall’estero ci raccontano del braccio di ferro fra i manifestanti e gli ayatollah al potere in Iran. Di un inaspettato lancio missilistico della Corea del Nord e dell’intenzione del nuovo governo conservatore inglese di procedere ad un’ulteriore stretta verso i migranti. Allarme fra le centinaia di migliaia di italiani che vivono a Londra.

È ancora disponibile il primo episodio da non perdere della mia nuova serie podcast Maestre e maestri d’Italia di Chora Media per Vita.it, con la collaborazione della Fondazione Cariplo. È intitolato: ERALDO AFFINATI E IL SEGRETO DI BARBIANA. Protagonisti di questa prima puntata del podcast sono lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati che, con sua moglie Anna Luce Lenzi, ha messo in piedi la scuola gratuita di italiano per migranti “Penny Wirton”, i volontari che li aiutano e i loro allievi. Ma parla anche Aldo Bozzolini, uno dei primi sei ragazzi di Barbiana, allievo di don Lorenzo Milani, il “priore”, come lo chiama lui. Racconta Bozzolini: “Si poteva andare allo zoo a Roma. Cioè noi il treno… che sorpresa! Nessuno c'era mai salito ancora, ma nessuno di noi era mai salito su un treno…  Quindi, è un po’ come dire oggi ai miei nipoti: entro domattina si parte, ci si mette su un razzo per andare sulla Luna”. ECCO IL PRIMO EPISODIO DELLA SERIE. Cercate questa cover…

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LA FOTO DEL GIORNO

Si troverebbe nel carcere di Evin a Teheran Alessia Piperno, la trentenne romana arrestata nella capitale iraniana. La donna sarebbe stata portata lì subito dopo il fermo, scattato il giorno del suo compleanno, il 28 settembre. Gli amici di Alessia  chiedono rispetto e silenzio con la speranza di rivederla il più presto possibile.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera guarda alle mosse di Mosca: Putin arretra e minaccia. Avvenire insiste sulla linea del Papa, forte anche di Mattarella e chiede: Mezzi di pace per fare la pace. Il Fatto stigmatizza: Inviano armi per la pace, ma Kiev la vieta per legge. Il Manifesto è preoccupato per le iniziative di Putin: Fuori di test. Il Mattino è esplicito: Nucleare, incubo escalation. Il Messaggero: Kiev ritorna nei suoi territori. Ma nel senso della riconquista. Il Giornale sottolinea l’asse della Meloni con Macron: Fratelli di Francia. Il Quotidiano Nazionale è più pessimista: Bollette choc, Europa paralizzata. La Stampa invece è ottimista: Meloni-Cingolani, patto sulle bollette. La Verità teme razionamenti e divieti: Dopo il Covid, il lockdown del gas. Il Sole 24 Ore racconta il paradosso della finanza: In Borsa scatta il rally da recessione. La Repubblica resta sulle trattative per il nuovo governo: Il Viminale spacca la destra. Libero attacca: Ormai il Pd sembra Gomorra. Il Domani mette a fuoco un tema sociale: Le consegne uccidono. Ma per la sinistra i rider sono invisibili.

IL TIMES LANCIA UN NUOVO ALLARME NUCLEARE

Il Times di Londra diffonde l’indiscrezione: la Nato avrebbe avvertito i suoi membri perché Vladimir Putin sarebbe pronto a testare l'atomica. Mistero sul treno russo che trasporterebbe ordigni verso l'Ucraina. Giuseppe Agliastro per La Stampa.

«La decisione del Cremlino di annettersi illegalmente le zone occupate dell'Ucraina ha provocato una nuova impennata delle tensioni internazionali. Ora il Times lancia l'allarme e denuncia la possibilità di «un test nucleare alla frontiera dell'Ucraina»: un'eventualità inquietante, che però Mosca respinge. «Si ritiene - scrive il quotidiano britannico - che la Nato abbia avvertito i suoi membri» che Putin potrebbe essere «disposto a dimostrare la sua prontezza a usare armi di distruzione di massa con un test nucleare ai confini dell'Ucraina». Secondo il giornale di Londra, «una fonte di alto livello della Difesa» pensa che una «dimostrazione» di questo tipo «potrebbe avvenire nel Mar Nero», ma «non è impossibile» che il presidente russo possa usare un'arma nucleare tattica proprio in Ucraina, dove le sue truppe ultimamente stanno perdendo terreno. Il Cremlino però smentisce: dice di non avere «alcun desiderio di partecipare» alla «retorica nucleare» di «media, politici e capi di Stato occidentali». E anche fonti occidentali invitano alla cautela. «Non abbiamo visto alcun cambiamento nella posizione nucleare della Russia, ma la Nato e gli alleati rimangono vigili», ha detto alla Reuters un funzionario dell'alleanza, mentre la stessa Casa Bianca afferma di non vedere segnali di un imminente attacco nucleare russo. I timori comunque restano, soprattutto dopo le minacce di Putin dei giorni scorsi di poter ricorrere alle armi atomiche per «difendere la Russia». «Gli esperti concordano soltanto sul fatto che il rischio di impiego di armi nucleari oggi è basso, anche se non è pari a zero», scrive la testata indipendente Meduza. Il Times riporta anche le voci - da prendere con cautela - di «un treno gestito da una divisione nucleare segreta» che sarebbe «in movimento verso l'Ucraina». L'analista Konrad Muzyka sostiene che l'unità sarebbe legata al 12° direttorato del ministero della Difesa russo, «responsabile delle munizioni nucleari, del loro stoccaggio e della manutenzione», ma - secondo il Moscow Times - l'esperto afferma che il video online che riprenderebbe il treno militare non mostri i segni della preparazione di «un lancio nucleare». Dati recenti indicavano comunque il treno nei pressi di Mosca, a centinaia di chilometri dal confine con l'Ucraina. In Ucraina le cose non stanno andando bene per l'esercito russo. I soldati ucraini sembrano avanzare a Sud e a Est riconquistando alcuni dei territori occupati dalle truppe di Mosca: gli stessi territori che la Russia considera adesso propri dopo un referendum farsa e la conseguente ufficializzazione dell'annessione illegale in una cerimonia in pompa magna al Cremlino. Con l'annessione, Putin ha cambiato le carte in tavola e si è messo nella condizione di poter dipingere le controffensive ucraine come attacchi al territorio russo. La dottrina nucleare russa prevede il ricorso alle armi atomiche nel caso di «un'aggressione» contro la Russia «con armi convenzionali quando è minacciata l'esistenza stessa dello Stato». Ma in questo contesto di tensioni c'è chi teme che la situazione sfugga di mano. Putin «sta bluffando in questo momento», dice l'analista militare Yuri Fyodorov alla Reuters. «Ma è difficile dire cosa succederà tra una settimana o tra un mese, quando capirà che la guerra è persa». Il New York Times comunque afferma che gli esperti dubitano dell'utilità di usare armi nucleari tattiche sul campo di battaglia e sottolinea che una mossa del genere potrebbe isolare ancora di più Mosca a livello internazionale. Anche se meno potenti delle bombe atomiche più grandi, queste armi sono comunque micidiali e devastanti: dei mostri capaci di uccidere migliaia di persone e di rendere inabitabile un'area per anni e anni».

LA CONTROFFENSIVA UCRAINA NON SI FERMA

Intanto la controffensiva delle truppe di Kiev non si ferma. Reportage dalle strade di Lyman, i corpi dei soldati russi abbandonati nella fuga. Corrado Zunino per Repubblica.

«Alla luce del tramonto Lyman, la liberata Lyman, è una piccola città senza cuore. Soldati ucraini, molti foreigners . Controllano negozi svuotati, edifici sbrecciati, piazze bruciate. A terra, in strada, i corpi immobili di uomini in divisa militare, si dice che siano venti. Difficile capire con l'ombra che avanza chi sono. Il comandante Svat, 58 anni, a capo di diversi battaglioni tattici ucraini in supporto alla 93a Brigata motorizzata, spiega: «Sono russi, soldati russi. Nella fuga l'Armata li ha lasciati a terra. Non possiamo ancora occuparcene, non c'è il tempo. Questa continua a essere area di guerra». Nella foresta, larga, che circonda la città della ferrovia dell'Alto Donbass ci sono ancora unità di combattenti russi, due, tre, quattro al massimo. Coscritti dell'ultima mobilitazione, mercenari di gruppi privati minori, 300 dollari al mese. E soldati della Repubblica del Donetsk. Sono circondati dalla Brigata, ma non si arrendono. «L'altra sera hanno ferito due dei nostri». È tardi. Bisogna rientrare e mettere il telefonino offline, che i droni russi trovano facile la posizione. Diciassette chilometri verso Nord e a sera siamo dentro un filare di case di campagna abbandonate: sono diventate la sala operativa più vicina al nuovo fronte orientale. Dal tardo pomeriggio la rotta l'ha data Micky, con la sua vecchia ambulanza: Barkinkove, Izyum, poi Oskill e di nuovo dentro il Donetsk: fango e condomini neri, missili piantati nell'asfalto, camion M1140 che con il buio riportano al sicuro i preziosi razzi Himars. La stanza del comandante Svat, calzini a terra, kalashnikov poggiati al muro, ospita le brande di quattro sottufficiali: «Sì, abbiamo liberato noi Lyman», racconta, «abbiamo difeso il lato orientale dalla controffensiva dei russi. Ce l'abbiamo fatta, li abbiamo tenuti fuori, ma è stata durissima». Dice subito: «I nemici sono duri, sanno combattere e cambiano tattica in corso». L'armata ha rischiato di sorprenderli, venerdì scorso: «All'improvviso, nel silenzio più totale, c'è stato un attacco aereo tremendo. Ci ha preso in contropiede. Poi hanno iniziato a sparare con tutto quello che avevano: carri armati, obici, lanciarazzi.
Abbiamo tenuto, abbiamo perso molti soldati».
Qui, nella base operativa nascosta, ci sono americani del Tennessee che hanno deciso che vivranno a Kiev il resto della loro vita e giapponesi che fanno la guerra senza capire una parola dei loro compagni: «Guido battaglioni in gran parte di volontari, sì. Il vantaggio è che vogliono combattere e hanno senso della patria, lo svantaggio che non c'è mai abbastanza tempo per prepararli e spiegare che senza disciplina qui si muore». Uno di loro, in corridoio, gioca un game di guerra e guarda X-Files, insieme. Violenze da parte dei russi? «Ho parlato con tante persone dei villaggi attorno a Lyman, li hanno invasi a inizio marzo e loro sono rimasti perché è stato tutto troppo veloce. Posso dire che le pressioni su chi si dichiarava ucraino, mostrava di non collaborare, sono state forti. Li hanno portati via, buttati al piano interrato dei palazzi pubblici di Lyman. Non posso dire, invece, che ci siano state torture. Ed è troppo presto per capire se i russi h anno ucciso civili anche qui. L'ho visto a Izyum, con questi occhi. Settanta chilometri su: cimiteri nuovi, cimiteri nuovi... Come li chiamate? Fosse comuni. A Lyman la gente mi ha raccontato di soldati ubriachi che entravano nelle case e portavano via i frigoriferi. Tutti interi. Rubavano i vestiti, certo. Stiamo ancora cercando di capire, l'area è larga e, vi ho detto, la battaglia ancora in corso». Il colonnello Svat mostra una pila di passaporti sul tavolo, sopra la carta militare. In queste ore li sta inviando, uno a uno, ai vertici dell'esercito: «Sono i documenti dei ragazzi morti, e diversi di loro sono ucraini. Guardi questo, una faccia da bambino. Aveva 32 anni, era di Gorlivka, sopra Donetsk. Lo hanno obbligato a combattere i russi, li prendono in strada e li mandano al fronte. Ecco, questi coscritti non sono preparati e muoiono per primi. Ucraini che sparano a ucraini. In guerra non ti riconosci, il passaporto lo vedi dopo».
L'unità operativa rientrata in queste casematte ha fatto molti prigionieri. «Li voglio sempre vedere, voglio capire», dice il comandante Svat: «Chiedo loro perché, perché siete venuti a distruggere casa mia.
Io voglio gocare a volley con i miei figli e voi mi bombardate? Non hanno mai una risposta. Balbettano: "È la propaganda, ci hanno detto di difendere l'Ucraina dai nazisti. Un mio amico mi ha spiegato che nell'esercito pagano bene". Io mostro ai prigionieri i miei uomini: lui è un costruttore, lui un manager, lui un cuoco polacco, ti sembrano nazisti? Non li ho mai toccati, giuro. Rispetto le convenzioni internazionali e non faccio male a nessun soldato». Il colonnello Svat ha 58 anni ed è stato un pilota d'aerei. Per ventidue stagioni nell'aviazione militare, poi è uscito e ha iniziato a lavorare, come manager, nelle compagnie civili. «Il 24 febbraio mi hanno richiamato, ma adesso ho compiti a terra. Non credo negli ordini, credo nella comunicazione. Così possiamo vincere le battaglie e andare avanti. Per combattere sul fronte Est puoi stare anche quattro giorni sotto la pioggia. Ora puntiamo su Svatove, più avanti scenderemo su Lisychansk e Severodonetsk, ma detta così sembra un gioco. No, a volte si avanza dieci metri, a volte non si avanza per niente. Credo che il Donbass lo libereremo entro novembre, dicembre al massimo, e spero che la grande comunità russa non permetta a quel bugiardo di Putin di tirarci il nucleare».

ZELENSKY VARA UN DECRETO PER IMPEDIRE IL DIALOGO

Il Presidente ucraino firma un decreto che prevede il rifiuto del dialogo con Putin e il rafforzamento degli apparati di difesa. Il Cremlino: «Aspetteremo che cambi idea. O che cambi il presidente». Biden chiama e rinnova il sostegno al Paese aggredito. Nello Scavo per Avvenire.

«Il divieto di trattare con il Cremlino sta suscitando forti perplessità. Tuttavia è stata proprio Mosca a confermare come non ci sia una concreta volontà negoziale: «Raggiungere la pace in Ucraina è impossibile senza soddisfare le richieste della Russia», ha reagito il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, citato dalla Tass. E le condizioni poste dalla Russia riguardano principalmente il riconoscimento dell'annessione del Donbass e del Sud dell'Ucraina fino a Kherson, la rinuncia di Kiev a tentare una riconquista della Crimea, la neutralità dell'Ucraina e il ritiro dell'ipotesi di accesso alla Nato. L'indisponibilità del governo ucraino a discutere su queste basi è stata ribadita da un'altra mossa di Kiev. Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha ricevuto la richiesta di adesione dell'Ucraina all'Alleanza. Lo riporta in un tweet il Kyiv Independent. Gli ambasciatori degli Stati membri della Nato, scrive la testata ucraina che cita Ihor Zhovkva, vice capo di gabinetto del presidente Volodymyr Zelensky, «discuteranno la richiesta a Bruxelles». Le informazioni che arrivano a Kiev da Mosca incoraggiano le autorità ucraine a spingere in direzione della delegittimazione di Putin, che vede crescere le voci di dissenso interno a causa del malcontento generato soprattutto dalla "mobilitazione parziale" di oltre 200mila uomini, mandati in trincea senza alcun addestramento. Malumori che serpeggiano anche nella cerchia del Cremlino, a causa delle minacce di uno dei fedelissimi dello zar. Il signore della guerra ceceno Ramzan Kadyrov ha infatti dichiarato che la leadership russa dovrebbe punire e sbarazzarsi di gran parte della filiera di comando dell'armata russa, dal ministro della difesa fino ai generali sul campo, accusati di inettitudine. Per cominciare Mosca ha licenziato il comandante del suo distretto militare occidentale, dove si sono registrati i più vasti capovolgimenti di fronte. Una fonte diplomatica europea a Kiev spiega ad Avvenire che la mossa di Zelensky, per quanto ritenuta «un azzardo», sia anche un tentativo per «separare i destini di Putin da quelli del popolo russo, preparando la strada a un negoziato con un eventuale successore e incoraggiando quella parte di russi che vuole sbarazzarsi del lungo ventennio putiniano». Anche a Mosca devono avere interpretato allo stesso modo i passi di Kiev. Il Cremlino ha reagito girando su Zelensky le parole che Papa Francesco aveva indirizzato a Putin, al quale domenica aveva chiesto di fermare l'aggressione anche «per amore del suo popolo». «Aspetteremo fino a quando l'attuale presidente ucraino cambierà la sua posizione, o fino a quando ci sarà un altro presidente che cambi posizione - ha detto Peskov - per amore del suo popolo». Anche di questo hanno parlato al telefono il presidente americano Joe Biden e Volodymyr Zelensky. Biden aveva appena annunciato un altro pacchetto di aiuti da 625 milioni di dollari, che include altri quattro sistemi missilistici Himars, obici e munizioni, mentre Mosca perde città e villaggi con una ritirata come non se ne vedeva dai tempi della sconfitta sovietica in Afghanistan».

ELON MUSK PROPONE UNA TRATTATIVA

Lo stravagante miliardario americano, proprietario della Tesla, propone un negoziato. La notizia su Repubblica.

«La sua "proposta di pace" lanciata su Twitter ha fatto infuriare il governo ucraino, spinto un ambasciatore tedesco a mandarlo a quel Paese, indignato l'Unione Europea e ottenuto gli applausi del Cremlino. Nel dibattito internazionale sul destino dell'Ucraina, ha fatto irruzione il miliardario Elon Musk: il fondatore del gigante di auto elettriche Tesla e di SpaceX ha proposto, con un sondaggio su Twitter, che l'Ucraina dovrebbe «rimanere neutrale» e che la Crimea debba restare alla Russia com' è sempre stato «fino all'errore di Krusciov ». Una proposta applaudita come un «passo positivo» dal portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov. «Uno come lui - ha detto il deputato della Duma per la Crimea, Mikhail Sheremet - dovrebbe diventare presidente degli Stati Uniti». Tutt' altra la reazione del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ha rilanciato un proprio sondaggio: «Quale Elon Musk preferite? Quello che sostiene l'Ucraina o quello che sostiene la Russia?». Musk ha risposto piccato ricordando di aver messo a disposizione di Kiev la rete satellitare Starlink, con una spesa di 80 milioni di dollari («il nostro impegno per la Russia - ha aggiunto - ammonta a zero dollari»). Ma le spiegazioni non hanno raffreddato le proteste. La più diretta quella dell'ambasciatore tedesco in Ucraina, Andrij Melnyk: «Fanc è la mia risposta diplomatica».

CONTE ALL’AVVENIRE: IN PIAZZA PER LA PACE

Intervista all'ex premier Giuseppe Conte su Avvenire a firma di Marco Iasevoli. Dice il capo dei 5 Stelle: «Pace, sì a una piazza senza bandiere. Indegno il linciaggio anti-poveri per il Reddito di cittadinanza».

«La sede in via di Campo Marzio è a tutti gli effetti un ' work in progress'. Arredamento minimal, divanetti di un leggero giallo ocra, pochissimi simboli di partito. Nel suo studio, il presidente del Movimento Giuseppe Conte siede dietro un tavolo in legno bianco che a stento contiene faldoni e documenti. È da qui che l'ex premier pianifica le prossime mosse per non perdere la scia di una rimonta elettorale costruita con pazienza. «Sono un uomo cresciuto a contatto con la terra, con i piedi ben piantati, ho bisogno di non perdere contatto con il popolo... abbiamo costruito e ricostruito passo dopo passo e con le nostre forze», tira le fila il leader M5s. Davanti c'è la traversata di una opposizione «durissima ma seria» che l'ex premier vuole capitalizzare per costruire un'alternativa di governo. «Per raggiungere obiettivi di trasformazione della società - spiega - ci vogliono progetti politici con obiettivi chiari, mentre Giorgia Meloni ha iniziato dicendo e facendo le stesse cose di Mario Draghi». Ragiona come se il tempo fosse dalla sua parte, Conte. «Bisogna saper aspettare, non farsi travolgere dall'ambizione », continua nell'unico rapido accenno a Luigi Di Maio e a chi ha lasciato il Movimento.

Ma ora da dove riparte M5s, dopo il voto?
In questo momento c'è da concentrarsi sulle grandi emergenze che sta vivendo il nostro Paese. La crisi energetica con il 'caro-bollette' e l'elevata inflazione, con il preoccupante scenario del conflitto russo-ucraino.

Come rispondete a questo 'scenario preoccupante'? Ci sono voci che si stanno muovendo per chiedere pubblicamente di cambiare passo sui negoziati di pace: unirete la vostra voce?
Proprio su questo punto, mi piacerebbe che i cittadini che vivono con preoccupazione l'escalation militare in corso potessero ritrovarsi a manifestare per invocare una svolta negoziale che ponga fine al conflitto. Credo siano tanti, anche tra gli elettori del centrodestra. L'ossessione di una ipotetica vittoria militare sulla Russia, che nel frattempo continua nella sua efferata e ingiustificata politica di aggressione, non vale il rischio di un'escalation con un folle ricorso a testate nucleari e armi non convenzionali nonché il rischio di una severa recessione economica che può ulteriormente schiacciare le nostre economie. Se questa mobilitazione si concretizzerà, il Movimento ci sarà, anche senza bandiere.

Come risponde a chi sostiene che una piazza per la pace indebolirebbe la posizione internazionale dell'Italia?
'Pace' non può essere una parola associata alla debolezza. E le parole di papa Francesco non indeboliscono certo la comunità internazionale. Desta perplessità poi la decisione ultima di Zelensky di bandire la pace con decreto. L'anelito di pace non può in nessun modo minare la statura del nostro Paese. Al contrario, ritengo che questa iniziativa rafforzerebbe il ruolo dell'Italia. Una iniziativa con la società civile consentirebbe all'Italia di ritrovare un protagonismo diplomatico, ovviamente coinvolgendo gli altri partner Ue. Finora l'Europa risulta 'non pervenuta': purtroppo appare totalmente appiattita su questa strategia angloamericana, e questo mi preoccupa per gli scenari geopolitici futuri.
Stiamo parlando di una guerra su suolo europeo e, allo stato, anche un eventuale negoziato di pace si svolgerebbe sopra la testa dei nostri Paesi. Si prospetta un tracollo di credibilità per l'intera Unione Europea.

Quale è la sua proposta allora?
L'Ue deve farsi promotrice di una conferenza internazionale di pace, da svolgersi in sede europea sotto l'egida delle Nazioni Unite, con il pieno coinvolgimento del Vaticano.

Sull'energia, l'Ue si trova nelle stesse secche che lei da premier seppe affrontare durante la pandemia. Lo sbocco finale fu poi il Recovery plan. Cosa manca per trovare una quadra?
Ricordo benissimo le resistenze che incontrai da parte di Germania e Olanda sul Recovery. Ma ricordo anche che non mi arresi affatto. Già a marzo 2020 predisposi una bozza di lettera coinvolgendo altri Paesi per creare un fronte comune. Il secondo passaggio forte per rimuovere resistenze durissime fu parlare direttamente alle opinioni pubbliche, in particolare quelle tedesca e olandese. In Draghi sono mancati - e mi è dispiaciuto molto - la visione, il coraggio e la determinazione. Anche la voglia di scontrarsi, se necessario, come feci io con Angela Merkel. Quando affrontammo il tema della solidarietà sui migranti, ai leader europei dissi «amici, avvisate i vostri staff di spegnere i motori negli aeroporti, si farà notte». Qui si sta distruggendo il tessuto produttivo, ognuno va per conto suo. Facendoci competizione tra di noi stiamo contribuendo ad alzare i prezzi del Gnl, mentre la Norvegia e gli Usa stanno facendo affari d'oro.

La necessità però è quella di avere un Paese politicamente coeso intorno alla richiesta del tetto al prezzo del gas.

Prima ancora che il ' price cap' dovremmo varare un piano d'acquisti comuni: è questa la strada perché l'Ue diventi un acquirente unico e conquisti nel mercato internazionale una forza contrattuale pazzesca. Il secondo intervento è contrastare le speculazioni sulla borsa di Amsterdam con il Ttf. Il terzo è la tassazione sugli extraprofitti. Qui il governo dei migliori ha 'toppato' e le ipotesi sono due: o non ha saputo scrivere la norma o non ha voluto scontentare gli interessi di alcuni gruppi industriali. Una forza politica come la nostra, che ha fatto campagna elettorale con donazioni di 3 e 4 euro e non con cordate imprenditoriali alle spalle, saprebbe come scrivere una norma sugli extraprofitti senza dover rendere conto a nessuno. Vedremo se Meloni avrà questa forza di agire libera da condizionamenti.

Sulle misure europee, lei lo sa, quando la Germania alza muri non è facile.

La reazione della Germania non è nella direzione di una vera solidarietà europea. Già lanciando un investimento di 100 miliardi in spese militari ha dimostrato di voler agire nel modo peggiore. E nel momento stesso in cui utilizzi il tuo spazio fiscale secondo una logica individualista, contribuisci a rendere il mercato comune europeo sempre più asimmetrico, lo disintegri nei fatti. Noi abbiamo combattuto contro queste logiche egoistiche e oggi rivendico con forza che al netto di chiacchiere e caricature il Movimento 5 stelle è la forza più europeista che siede in Parlamento. Di debito comune europeo ne parlava Delors e il Recovery che abbiamo ottenuto vale più della modifica di un Trattato.

Sarà in ogni caso Giorgia Meloni a dover portare avanti le necessità dell'Italia in Europa. Il Paese deve augurarsi che abbia successo.
Mi pare che Meloni stia portando avanti le stesse idee e gli stessi toni del governo Draghi uscente. Se tanto mi dà tanto, possiamo già escludere svolte sull'Energy Recovery Fund che chiedo dal 26 febbraio, ma anche, sul piano interno, sugli extraprofitti e su misure straordinarie per famiglie e imprese.

È già un leader di opposizione in trincea?
Da noi Meloni avrà un'opposizione sicuramente più corretta e responsabile di quella che fece lei. Non andrò in tv a dire che la premier è una «pazza criminale». Non giocherò, come fece lei in pandemia, a dire il contrario: «aprite» quando era il momento di chiudere e «chiudete» quando era il momento di aprire...

Restano le cose su cui si tarda da noi, come i rigassificatori. Così non ne usciamo

Ribadisco che per noi i rigassificatori galleggianti come soluzione temporanea ci possono stare. Ma non a Piombino, con un'architettura industriale abbandonata e piena di amianto e con opere di bonifica mai completate. È assurdo pensare di risolvere questo problema mandando i militari, come proposto da Calenda, per imporre una scelta dall'alto a una comunità tradita.

Con l'avvicinarsi della manovra, cresce il dibattito sul Reddito di cittadinanza. Farete le barricate?
Lasciatemi dire una cosa: si sta combattendo con furore ideologico una battaglia contro i poveri. Per combattere me e il Movimento si calpesta la dignità delle persone. La polemica pubblica sta diventando infamante. Paragonano i percettori del Reddito a tossici. Ho letto opinionisti che sostengono che con il Reddito abbiamo portato gli elettori alle urne come fanno i russi con i fucili in Donbass. Non permetteremo questo indegno linciaggio nei confronti degli ultimi.

A un tavolo per rivedere il Reddito ci sareste?
Il principio è: non un euro in meno a chi ne ha diritto e bisogno. Poi, vogliamo migliorare le politiche attive? Abbiamo qui le nostre proposte, confrontiamoci. Ma se pensano di ricavare qualche miliardo dal Reddito, non gliela daremo vinta. E guardi, lo dico vedendo Meloni che si muove proprio come si muoveva Draghi, con l'obiettivo di smantellare le nostre riforme per fare cassa. Non lo permetteremo».

MATTARELLA AD ASSISI: NON CI ARRENDIAMO ALLA GUERRA

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella interviene ad Assisi, nel giorno di San Francesco, e parla della pace. Sul Corriere il resoconto di Marzio Breda.

«Ricorda l'audacia di San Francesco, che si presentò disarmato davanti a Malek al-Kamel, nipote del Saladino, per avviare un dialogo con lui, ottenendone il rispetto e la fine delle ostilità. Un miracolo, quasi come quello che serve oggi per fermare il conflitto in Ucraina. Ecco l'esempio che Sergio Mattarella usa per lanciare un appello con la mente rivolta alla «pace tradita nel cuore di un'Europa» che nella prima metà del Novecento «aveva conosciuto gli abissi del male», riuscendo però a riscattarsi. «Non ci arrendiamo alla logica della guerra, che consuma la ragione e la vita delle persone e spinge a intollerabili crescendo di morti e devastazioni. Che sta rendendo il mondo più povero e rischia di avviarlo verso la distruzione». Che fare, allora? «Abbandonare la prepotenza che ha scatenato la guerra». E poi tentare instancabilmente «il dialogo, per interrompere questa spirale». Trova un modo laico, il presidente, per onorare il patrono d'Italia, mentre accende la lampada di Assisi. Lo chiama in causa puntualizzando che il 4 ottobre è una «solennità civile» (introdotta nel 1958), fondata su «pace», «fraternità» e, appunto, «dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse». E sottolineando la «sapienza» del legislatore nel dettare queste norme. Come dire, specie per il riferimento al dialogo negato a chi si pretende sia «diverso» da noi, che per azzerare quel precetto bisognerebbe cancellare la legge. Ammonimento indirizzato a chiunque sia al potere domani e coltivi magari propositi distonici da quei valori. Ovvio che, parlando in una chiesa ed evocando Francesco e il suo «spirito di comunità», Mattarella non poteva essere più esplicitamente politico di così. Ma conta il fatto che si sia lasciato intendere, anche senza indicare i passi da fare e limitandosi a indicare un orizzonte cui tendere. Eccolo quindi rimarcare come la pace sia un caposaldo e un «traguardo» della stessa Costituzione e rammentare che alla sfida del negoziato «sono chiamati anzitutto i Paesi e le istituzioni, per garantire un futuro all'umanità». Futuro a rischio anche per quanto riguarda la tutela dell'ambiente. Infatti, spiega il capo dello Stato, «dobbiamo riparare, restituire. È la grande urgenza della nostra epoca. E non abbiamo altro tempo oltre questo. È un compito che riguarda tutti noi - nessuno è irrilevante - nessuna buona opera è inutile». La raccomandazione implica di concentrarci su almeno tre versanti, sintetizzati dal Papa nella formula dell'«ecologia integrale». Il primo è «l'equilibro ambientale da ricomporre», al quale seguono una «giustizia sociale da perseguire rimuovendo gli ostacoli che le contingenze frappongono», per chiudere con «il diritto di ogni donna e uomo a sviluppare appieno la propria personalità». E l'Italia ha le carte in regola per imboccare la strada giusta. Lo ha dimostrato con «la ricostruzione nazionale e lo sviluppo dopo la dittatura e la guerra, consolidando democrazia e libertà, portando nel mondo il contributo di un Paese operoso e creativo». Da ultimo, un cenno all'emergenza Covid. Battaglia combattuta con il «sacrificio di tanti» (elogiati) e con «comportamenti responsabili e attivi», come «l'azione dei vaccini, che ne ha ridotto grandemente la pericolosità e salvato le vite a decine di migliaia di persone». La partita non è chiusa, purtroppo. Perciò il capo dello Stato esorta a «dare più importanza alla coerenza dei comportamenti che alle parole». Vale per le religioni («che scavano fossati se legittimano la violenza») e vale per tutto, il richiamo alla «intelligenza collettiva». Fuor di metafora, è come se Mattarella dicesse: la campagna elettorale è finita. Adesso, anche sulla pandemia, non si perda tempo con discorsi di retroguardia».

LA UE SI DIVIDE SUL NUOVO RECOVERY PER L’ENERGIA

Subito stoppata la proposta contenuta nella lettera, diffusa ieri, di Breton e Gentiloni. Germania, Olanda e Austria si schierano contro il debito in comune per fermare i rincari del gas. L'attacco di Orban: "Berlino fa cannibalismo". Marco Bresolin per La Stampa.

«Nonostante il tabù infranto due anni fa per rispondere alla pandemia, il concetto di "debito comune" continua a dividere gli Stati dell'Unione europea, ora alle prese con la crisi energetica. L'ostacolo più alto a un nuovo piano di emissioni comunitarie si chiama Germania, ma non è l'unico. Il ministro delle Finanze, Christian Lindner, ieri ha subito cercato di stoppare l'iniziativa lanciata dai commissari Thierry Breton e Paolo Gentiloni («iniziativa personale che non impegna la Commissione» ha precisato il portavoce di Ursula von der Leyen), dicendo che le critiche al piano tedesco non possono essere utilizzate come scusa per introdurre un nuovo schema sulla falsariga di "Sure". Contro il piano da 200 miliardi di Berlino si è scagliato anche Viktor Orban, definendolo «l'inizio del cannibalismo nell'Ue» perché «gli Stati ricchi salveranno le loro società con ingenti somme di denaro, mentre i poveri non possono». La giustificazione utilizzata da Lindner per il suo no a un nuovo Sure ha a che fare con la natura di questa crisi, che è ovviamente molto diversa da quella scatenata dalla pandemia e che aveva portato prima alla nascita di Sure - cioè emissioni comuni da girare agli Stati sotto forma di prestiti per finanziare la cassa integrazione - e poi al Next Generation Eu - emissioni comuni da girare agli Stati sotto forma di prestiti e sovvenzioni per finanziare riforme e investimenti. «Oggi - ha spiegato il ministro tedesco arrivando all'Ecofin di Lussemburgo - non abbiamo a che fare con uno choc della domanda, in cui i fondi pubblici devono essere utilizzati per stabilizzarla o per stimolare l'economia. Oggi stiamo affrontando uno choc dal lato dell'offerta e dobbiamo reagire ampliandola e agendo insieme sul mercato del gas». E quindi «ulteriori proposte basate sul programma Sure non sono giustificate». «Ne abbiamo discusso, ma devo dire che ci sono pareri divergenti» ha ammesso al termine dell'Ecofin il ministro delle Finanze ceco, Zbynek Stanjura. La Francia si è schierata a favore, con il ministro Bruno Le Maire che ha citato esplicitamente l'esperienza di Sure per «un nuovo meccanismo di solidarietà» in grado di garantire prestiti con bassi tassi d'interesse. Ma per la ministra olandese Sigrid Kaag non c'è bisogno di ulteriore debito comune perché gli Stati devono prima utilizzare i fondi del Recovery. Respinge l'idea anche l'Austria: per il ministro Magnus Brunner «l'idea di Gentiloni-Breton non rappresenta la linea dell'intera Commissione». «La proposta richiede ulteriori riflessioni perché al tavolo ci sono posizioni differenti» si è limitato a dire Valdis Dombrovskis, vicepresidente con delega all'Economia, molto scettico. Non vede sviluppi positivi in questa direzione nemmeno Klaus Regling, direttore esecutivo del Mes: «Si tratta di una questione controversa perché in alcuni Paesi le corti costituzionali non approverebbero un piano di debito comune. Non mi riferisco solo alla Germania, ma anche all'Austria, alla Finlandia o ai Paesi Bassi». Venerdì Regling terminerà il suo mandato, ma i ministri non hanno ancora trovato un accordo sul sostituto: nel fantaMes circolano diversi nomi e nei corridoi di Lussemburgo c'è anche chi ha evocato quello di Mario Draghi, opzione che viene però liquidata come «boutade». In assenza di un chiaro sostegno politico in Consiglio, la Commissione lavora ad altre soluzioni per individuare risorse da usare nell'attuale crisi. Verrà introdotta maggiore flessibilità per utilizzare i fondi di coesione del bilancio 2014-2020 non ancora spesi e ieri l'Ecofin ha trovato l'accordo per distribuire 20 miliardi di sovvenzioni nel quadro del piano RePowerEu per gli interventi di natura energetica. Grazie ai nuovi criteri individuati, l'Italia sarà il primo beneficiario con oltre 2,7 miliardi (stessa cifra della Polonia). Ma non potrà accedere ai 200 miliardi di prestiti del Next Generation Eu che ancora non sono stati richiesti e che saranno dirottati verso RePowerEU: gli Stati interessati dovranno comunicarlo alla Commissione entro un mese dall'entrata in vigore del regolamento, ma conserveranno il diritto di prelazione fino al 31 agosto 2023. Vuol dire che almeno fino a quella data non potranno essere redistribuiti ».

MA A BERLINO SI APRE UNO SPIRAGLIO

Federico Fubini sul Corriere è convinto che il dibattito non si sia ancora concluso e che ci sia uno spiraglio al dialogo, anche da parte tedesca.

«Quando giovedì il governo di Berlino ha annunciato il piano da 200 miliardi di euro contro il caro energia, i rendimenti dei titoli di Stato italiani a dieci anni erano ai livelli più alti dal drammatico 2012. Con l'economia quasi in recessione e la Banca centrale europea impegnata in una stretta, il termometro dava una temperatura pericolosa. Il giorno dopo, era già precipitata con rendimenti scesi di mezzo punto (al 4,4%) e da allora è scesa ulteriormente. Un miglioramento così rapido può avere molte ragioni ma una di esse è quell'annuncio tedesco da 200 miliardi di euro, che in Italia ha sollevato tanto furore. Gli effetti collaterali sono stati benefici per il debito di Roma, senza che nessuno a Berlino lo volesse e senza che molti in Italia lo capissero. Da giovedì il governo di Olaf Scholz schiera una forza di fuoco per ridurre le bollette e l'inflazione in Germania, dunque anche nell'area euro. Ma una dinamica dei prezzi in minore tensione può permettere alla Bce di alzare i tassi di meno, o meno in fretta: si attenua così potenzialmente il fattore che oggi grava di più sui titoli di Stato italiani e il mercato ha subito risposto, rendendo il debito di Roma più sostenibile. Niente come questo episodio mostra che in Europa anche gli atti unilaterali producono a volte reazioni comuni e le posizioni di ciascuno possono essere più fluide di come sembra. Neanche il governo tedesco è un monolite. E neanche la Germania è contraria in blocco a qualunque vera risposta europea alla crisi dell'energia. I primi segnali si notano nelle bozze delle conclusioni del vertice europeo che stanno circolando, come anticipato ieri da Francesca Basso sul Corriere. Dopodomani a Praga i leader all'unanimità - incluso Scholz - chiederanno alla Commissione Ue di lavorare «con urgenza» per «proporre soluzioni praticabili che riducano i prezzi tramite un tetto» su di essi. La chiave è nell'aggettivo: «praticabili» significa che a Berlino, prima di dare luce verde, si vuole la certezza che qualunque calmiere al gas importato non generi carenze di materia prima. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani dovrà dimostrare che il rischio non esiste, se vuole portare avanti il negoziato. Ieri Scholz avrebbe dovuto parlarne in videoconferenza con il presidente francese Emmanuel Macron, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il premier Mario Draghi. Per problemi di agenda alla fine solo Macron e von der Leyen si sono sentiti.
Ma qualcosa si sta muovendo, anche perché a Berlino in molti sono rimasti spiazzati dalla reazione idrofoba in molte capitali al piano da 200 miliardi (spendibili nei prossimi due anni e mezzo, non tutti subito). Quel progetto dimostra che l'improvvisazione non sempre è un'esclusiva romana. Giovedì scorso Scholz e il suo ministro delle Finanze, Christian Lindner, avevano soprattutto premura di annunciare una svolta abbastanza plateale da far passare inosservato l'umiliante dietrofront, atteso venerdì, su una tassa straordinaria sul gas. I due non avevano pensato alle reazioni europee e ora devono rimediare. Il dibattito In questo spazio politico si sono inseriti Paolo Gentiloni e Thierry Breton con il loro intervento pubblicato ieri sul Corriere. Come tassello della reazione alla crisi del gas, i commissari Ue di Italia e Francia propongono di «ispirarsi al meccanismo "Sure" per aiutare gli europei e gli ecosistemi industriali». «Sure» è un fondo da 100 miliardi costituito con emissioni di debito della Commissione Ue garantite pro-quota dai governi, utilizzabile per prestiti - non trasferimenti a fondo perduto - per finanziare la cassa integrazione nei Paesi che lo richiedano. Nel 2020, proposto sempre da Gentiloni, servì per le imprese in lockdown e si dimostrò molto efficace. Oggi un nuovo «Sure» da altri 100 miliardi potrebbe servire alle imprese ferme a causa del costo dell'energia e potrebbe essere vincolato a interventi in azienda - per esempio, più fotovoltaico sui tetti - che aumentino l'autosufficienza energetica. Soprattutto, uno «Sure» per la crisi del gas darebbe ai mercati il segnale politico che l'Europa reagisce insieme a questa crisi: il rischio di un'altra tempesta sul debito italiano si ridurrebbe.
A Berlino Lindner sembra freddo, ma sa che Scholz non è davvero contrario. Lo stesso cancelliere ha parlato di «Sure» il 29 agosto a Praga come modello di «soluzione pragmatica in Europa, ora e in futuro». Il tema sta dunque tornando in agenda, con una cautela: palesemente farebbe comodo soprattutto all'Italia, il più fragile fra i Paesi indebitati, ma gli altri leader europei vorranno verificare le posizioni di Giorgia Meloni come premier. A novembre per esempio i governi dell'Ue dovranno votare sul congelamento dei fondi europei all'Ungheria per corruzione e violazione dello Stato di diritto. In estate gli europarlamentari di Meloni si erano opposti all'idea di colpire il governo «illiberale» di Viktor Orbán. Presto, anche la loro leader dovrà affrontare quel test».

MELONI VEDE CINGOLANI: IL PIANO ITALIANO

Emergenza gas, ce la faremo a superare l’inverno? Conterà anche quanto farà freddo. Incontro alla Camera fra la premier in pectore e il Ministro Roberto Cingolani. Luca Monticelli per La Stampa.

«Con gli stoccaggi già al 91% e l’apporto del gas algerino, l’Italia ce la farà a passare un inverno caldo? La risposta è «forse». Sia il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, sia l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, non possono assicurare che nei primi mesi del 2023 il Paese avrà abbastanza metano per riscaldare le abitazioni e garantire la produzione industriale senza dover ricorrere al razionamento. La questione energetica è al centro dei pensieri della premier in pectore Giorgia Meloni, che ieri ha incontrato proprio Cingolani alla Camera. Sul tetto al prezzo del gas, la leader di Fratelli d’Italia è in continuità con il governo Draghi: «La crisi è europea e come tale deve essere affrontata, azioni di singoli Stati tese a sfruttare i propri punti di forza rischiano di interferire nella competitività delle aziende e creare distorsioni nel mercato unico», dice a proposito della Germania che ha stanziato 200 miliardi contro i rincari. La priorità è «contrastare la speculazione» ribadisce Meloni che sta studiando un intervento sulle bollette per arginare i costi «nei prossimi tre mesi». Per fronteggiare le difficili sfide che l’Italia ha davanti, sottolinea, «è necessario lavorare tutti insieme». Intanto le bollette volano. La crescita del 70% si traduce in «una maxi-stangata da 2942 euro su base annua a famiglia solo per il gas. Un rincaro del 117% rispetto all’ultimo trimestre del 2021», lancia l’allarme Assoutenti. Il price cap sul metano resta la stella polare del governo uscente, che propone a Bruxelles di definire un indice europeo con l’obiettivo di ottenere un prezzo che oscilli tra un minimo e un massimo, e che sia agganciato a listini più stabili come l’Henry Hub americano e il Jkm asiatico. Per il fabbisogno quotidiano continua però a giocare un ruolo fondamentale quel 10% di gas russo che arriva a singhiozzo. Se Putin chiudesse i rubinetti, l’Italia dovrebbe sperare in un inverno mite, e subirebbe comunque uno choc economico, con un drastico taglio della crescita nel 2023. Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia, teme un inverno tutt’altro che tranquillo: «Se ci saranno molti giorni freddi e il consumo aumenterà, a fine febbraio potremmo essere costretti a razionare il gas». Secondo una ricerca del fondo di investimento Algebris, un completo blocco del gas di Mosca sarebbe «estremamente sfavorevole», anche perché finora l’Italia non si è preoccupata di risparmiare metano. Nei primi sei mesi del 2022 il consumo è calato solo del 2% rispetto allo stesso periodo del 2021, mentre è addirittura aumentato dello 0,7% in confronto al 2019. L’Agenzia internazionale dell’energia conferma che «senza una riduzione della domanda di gas, qualora la Russia interrompesse le forniture, gli stoccaggi arriverebbero a meno del 20% a febbraio». Lo spettro del razionamento torna perciò ad aleggiare nel dibattito pubblico italiano. Se si osservano i dati del 2020 sui volumi di gas naturale distribuiti nelle regioni, emerge come sia il Nord del Paese il maggior indiziato a subire un razionamento con effetti più pesanti. Tanto per fare un esempio, la Lombardia consuma quasi cinque volte il gas della Sicilia o del Lazio e quasi quattro volte quello della Puglia. Se si sommano i numeri di Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte si ottiene più della metà del gas naturale che viene distribuito in tutta Italia. Intanto i sindaci chiedono al governo un altro miliardo di euro da qui a fine anno per aiutarli a pagare le loro bollette dell’energia. Spiega il sindaco di Novara e delegato Anci al fisco locale, Alessandro Canelli: «Si rischia di dover fermare i tram, tenere parti delle città al buio, spegnere le luci sui monumenti e tagliare i riscaldamenti. Vedremo che risposte ci arriveranno da Palazzo Chigi».

LA POLITICA ESTERA DELLA MELONI

Abbozzo di politica estera da parte della futura premier. In una telefonata col presidente Zelensky, Meloni promette di raggiungerlo a Kiev. Il retroscena di Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Due telefonate. Tre viaggi in cantiere. E una sponda francese tutta da costruire. In ventiquattr' ore, Giorgia Meloni abbozza un vera e propria road map di politica estera. Sente Volodymyr Zelensky e Benjamin Netanyahu. Inizia a ragionare delle prime missioni, che dovrebbero portarla a Varsavia, Kiev e Londra. E prende consapevolezza che per non restare isolata a Bruxelles dovrà costruire un rapporto con Emmanuel Macron, l'unico alleato possibile per costringere Berlino a cedere sul price cap, senza strappare con il blocco dei Paesi fondatori. La telefonata con Zelensky racconta di una scelta di campo che non prevede piani alternativi. E che la allontana ancora di più da Matteo Salvini. Agli auguri per la vittoria elettorale, il presidente ucraino fa seguire l'invito a recarsi presto a Kiev e il ringraziamento per il «fermo sostegno alla sovranità e all'integrità territoriale del nostro Stato». Non manca la richiesta di un impegno per rafforzare l'ottavo pacchetto di sanzioni Ue e per l'introduzione del divieto di visti turistici per i russi. La leader risponde condannando nuovamente i referendum illegali di Mosca sulle Regioni occupate, promettendo costante sostegno alla difesa dell'Ucraina e «alla causa di libertà del suo popolo», come d'altra parte ha assicurato «dal primo giorno del conflitto». Il giorno scelto per il contatto non è casuale, perché arriva proprio mentre il ministro della Difesa Lorenzo Guerini illustra davanti al Copasir il quinto decreto interministeriale che garantisce nuove forniture militari a Kiev. È quello che continuerà a fare Meloni, una volta a Palazzo Chigi. L'altro tassello di giornata è il contatto con il presidente del Likud Benjamin Netanyahu, ricandidato alle elezioni politiche di novembre. Una scelta strategica che serve a rafforzare il fronte "destro" delle relazioni internazionali della prossima premier, ma anche a proseguire nella cooperazione sul fronte del gas, già inaugurata da Mario Draghi. La miscela scelta da Meloni è chiara: atlantismo spinto, adesione alla battaglia di Kiev, attenzione al fronte orientale dell'Unione. In questo senso, farà discutere - se confermata - l'opzione di organizzare una delle prime missioni oltreconfine a Varsavia. Significherebbe scegliere il dialogo con i Paesi del fianco Est. Capitali legate a Washington, ma considerate a Bruxelles una spina nel fianco dell'unità e della solidarietà europea. Il viaggio potrebbe rappresentare la prima tappa della missione a Kiev. E dunque assumere una chiave ancora più "atlantica". L'altra tappa in cantiere è quella di Londra, utile a ribadire il legame con i conservatori della premier Liz Truss. Ma è evidente che per fronteggiare l'emergenza energetica Meloni non può affidarsi al dialogo con la Polonia o con l'Ungheria di Orban (il quale, tra l'altro, ha già siglato patti autonomi con Mosca per garantirsi metano in vista dell'inverno). La sfida dei prossimi mesi sarà quella di convincere Berlino ad accettare misure di sostegno continentali contro il caro energia. Con un price cap e, probabilmente, con misure che ricalcano il fondo Sure già utilizzato in pandemia. L'unico modo per avvicinare il risultato è quello di arare il rapporto con i Paesi mediterranei, quasi tutti a guida socialista. E, soprattutto, portare dalla propria parte Emmanuel Macron. Servirà pragmatismo, perché a destra la "competizione" con Parigi è un tratto distintivo, quasi identitario. E perché agli esecutivi di sinistra è stata rimproverata un'eccessiva soggezione rispetto all'alleato transalpino. È anche vero, però, che Meloni promette di muoversi con pragmatismo. E che potrebbe provare a sfruttare la scia del governo Draghi, che nell'ultimo anno ha spostato con decisione il baricentro verso la Francia. L'allarme, comunque, resta altissimo. Non a caso ieri la leader ha incontrato il ministro Roberto Cingolani. E ha picchiato duro su Berlino, condannando «azioni di singoli Stati tese a sfruttare i propri punti di forza, rischiando di interferire nella competitività delle aziende e creare distorsioni nel mercato unico». 

SEGGIOLE E POLTRONE. SALVINI VUOLE TUTTO

A Fratelli d’Italia andrà il doppio dei ministeri che saranno di Lega e Forza Italia. Su 18 ministeri una decina nella disponibilità di Meloni. Si pensa ancora a tecnici. Marco Galluzzo per il Corriere.

«La mossa della Lega, che chiede 5 ministeri (Interno, Infrastrutture, Turismo, Disabilità, Affari regionali), riapre i giochi nel centrodestra sulla spartizione dei posti. Se in tutto i dicasteri fossero 18 e se Forza Italia ne prendesse quattro questo significherebbe che Giorgia Meloni avrebbe per se stessa e il suo partito una decina di opzioni, compresi i tecnici di area a cui sta pensando. Il fatto che la Lega reclami gli Interni non solo per le deleghe ma direttamente per Matteo Salvini - come affermano sia Giancarlo Giorgetti che Riccardo Molinari - potrebbe in realtà essere anche una richiesta tattica: chiedere gli Interni per Salvini per poi puntare su altro. In questa cornice i ministri papabili per la Lega potrebbero essere, oltre a Salvini, Gian Marco Centinaio (Agricoltura), Edoardo Rixi (Infrastrutture), Erika Stefani, che potrebbe tornare allo stesso incarico ricoperto nel primo governo Conte (Affari regionali).
Intanto Ignazio La Russa riporta su un binario meno polemico il tema della presenza di eventuali tecnici nell'esecutivo: «Sarà un numero piccolo o medio piccolo, certamente non grande». La Russa stesso è candidato a diventare presidente del Senato, ma nelle ultime ore sembra rafforzarsi la possibilità che Meloni conceda entrambe le Camere agli alleati: la presidenza di Montecitorio alla Lega, che la reclama, forse per Giancarlo Giorgetti, e quella di Palazzo Madama a FI, che potrebbe schierare Anna Maria Bernini. La pattuglia di azzurri aspiranti al tavolo della presidenza del Consiglio resta più o meno invariata: oltre ad Antonio Tajani, che è sempre in corsa per un ministero di peso, gli Esteri o la Difesa, c'è Licia Ronzulli, già europarlamentare, Paolo Barelli e Alessandro Cattaneo. Se per Tajani è certo che si tratterà di uno dei ministeri chiave del governo, fra i cinque che vengono condivisi con il capo dello Stato, per gli altri le possibili deleghe sono ballerine e incrociano in alcuni casi (le Infrastrutture ad esempio, con Cattaneo) le aspirazioni degli alleati leghisti. Sulla rappresentanza di Fratelli d'Italia l'unica certezza è il posto di Giorgia Meloni, per paradosso. Giovanbattista Fazzolari, braccio destro della leader, dovrebbe finire a Palazzo Chigi. Guido Crosetto potrebbe avere le deleghe del Mise, che potrebbero appesantirsi con il ritorno delle competenze del Commercio Estero dalla Farnesina e del digitale dall'Innovazione. Raffaele Fitto, che guida il gruppo dei Conservatori a Bruxelles, potrebbe essere il responsabile degli Affari europei. Daniela Santanchè potrebbe contendersi il Turismo con la Lega, mentre Adolfo Urso potrebbe andare alla Difesa o avere la delega di Palazzo Chigi per il controllo sugli apparati di sicurezza. Per la Salute, come profili tecnici, circolano i nomi del medico Guido Rasi, già direttore dell'Ema, di Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa e di Andrea Mandelli (Fofi), che è anche deputato uscente di FI. C'è anche il problema di non sguarnire la maggioranza al Senato, dove ha solo 15 parlamentari di vantaggio, chiamando troppi senatori al governo. Infine ci sarà una nutrita pattuglia di esponenti di FdI nei posti di sottogoverno, tutti provenienti dai dipartimenti del partito: Marcello Gemmato alla Sanità, Galeazzo Bignami al Mise, Gianluca Caramanna al Turismo, Andrea Delmastro Delle Vedove alla Giustizia».

IL COMITATO DEL NORD ASSEDIA IL CAPITANO

Bufera dentro la Lega: i consiglieri lombardi sono schierati dalla parte di Umberto Bossi. Dopo lo strappo arrivano nuove richieste di congresso. Francesco Moscatelli per La Stampa.

«Il sasso lanciato da Umberto Bossi nello stagno della «Lega per Salvini premier», nonostante il silenzio ostentato dallo stesso Matteo Salvini sul tema, comincia a produrre i primi cerchi. Si è visto ieri al Pirellone, sede del Consiglio regionale lombardo, dove in mattinata è comparso Paolo Grimoldi, ex segretario della Lega lombarda, ex parlamentare ma soprattutto uno dei due scout (l'altro è l'europarlamentare Angelo Ciocca) scelti dal Senatùr per portare avanti il progetto del «Comitato Nord». Felpa grigia e camicia sbottonata in stile gazebo, mentre attorno a lui c'era chi aggiustava nel taschino il foulard verde che dopo i messaggi di Bossi sembra essere tornato improvvisamente di moda, Grimoldi ha ripetuto i concetti espressi nei giorni scorsi: la Lega deve riscoprire il suo core business, la questione settentrionale. Ma soprattutto Grimoldi si è confrontato con il gruppo sempre più numeroso dei consiglieri lumbard che ormai chiede apertamente la celebrazione dei congressi e la fine della gestione commissariale che ha caratterizzato il partito negli anni del Covid. Inutile dire che il cattivo risultato delle politiche, il gelo calato fra il presidente Attilio Fontana e la vice-presidente Letizia Moratti (ormai sempre più determinata a candidarsi comunque vada a finire con il centrodestra) e la paura che andando avanti così le «cadreghe» leghiste diminuiranno sensibilmente anche in Regione, sta facendo agitare anche i più cauti. Il calcolo spannometrico degli aderenti alla richiesta di un congresso arriva a circa il 70% dei 32 eletti in Lombardia. E fra questi almeno la metà sarebbe pronta a entrare nel «Comitato Nord». «Viviamo in una Lega di rappresentanti nominati e non eletti. Ora basta» rincara la dose Grimoldi. Mentre Toni Iwobi, anche lui ex parlamentare, bresciano, aggiunge: «Vogliamo incentivare la democrazia interna». Messaggi che sembrano trovare terreno fertile. «Io penso che il congresso lombardo non vada posticipato a causa delle regionali, ma semmai anticipato - conferma il pavese Roberto Mura, che per l'occasione ha riesumato una cravatta padana di qualche legislatura fa -. Fissiamo la data, per quanto mi riguarda prima è meglio è. Le regole? Non è difficile: basta affittare un palazzetto e aprire le porte a tutti i militanti. È un problema di metodo. Matteo Salvini resta dov' è, ma al livello sotto bisogna iniziare a discutere altrimenti la Lega rischia di scoppiare». Idem Max Bastoni: «Sono leghista dal 1991. Vogliamo il bene della Lega. Quindi, deve essere assolutamente sereno Salvini come tutte le persone che operano all'interno della Lega». Per Gianmarco Senna, invece, «abbiamo commesso errori ed è giusto ammetterlo. Qualcuno ha il coraggio di portare avanti certe istanze per salvaguardare il patrimonio della Lega». A microfoni spenti, però, più d'uno ammette che adesso bisognerà vedere come reagirà la segreteria federale. In questi giorni la priorità è il governo, ma la questione di come gestire il bubbone interno è comunque urgente. La prima ipotesi, quella di espellere i ribelli, sarebbe stata scartata dallo stesso Salvini. Anche perché potrebbe provocare reazioni ancora più incontrollabili. La seconda prevede invece di temporeggiare convocando i congressi provinciali e trattando sui territori con i capipopolo più arrabbiati, attività nella quale si starebbe già spendendo il commissario lombardo Fabrizio Cecchetti. Il primo banco di prova sarà Bergamo, con il congresso provinciale si del 20 novembre. Il «Comitato Nord», nel frattempo, è pronto a darsi una struttura più articolata che contempla anche un «coordinamento di sindaci e amministratori locali».

SALLUSTI DIFENDE SALVINI

Alessandro Sallusti dedica l’editoriale di Libero alla difesa del leader della Lega.

«"Salvini sotto assedio" titolava a tutta prima pagina La Repubblica di ieri. Sarà, poche ore prima lo avevo casualmente incontrato a Roma mentre girava a piede libero e privo di elmetto nei dintorni del Senato. «La vuoi una notizia in esclusiva?», mi ha detto davanti a una tazzina di caffè. Io di rimando: «Ha la lista completa e definitiva dei nuovi ministri?». E lui: «Di più, la notizia è che il nostro governo durerà cinque anni, ci puoi scommettere che per quanto dicano e tramino non riusciranno a farci litigare». Mi è parso convinto e sincero, per quanto sincero può essere un politico. Ma soprattutto, per quello che ne so, a me questa cosa dell'assedio proprio non torna. Nella migliore delle ipotesi, cioè al massimo, dalle parti della Lega c'è un po' di baccano come era prevedibile da mesi, cioè da quando fu chiaro nei sondaggi il sorpasso da parte di Giorgia Meloni. In altre parole è molto probabile che questo baccano sia amplificato ad arte dai giornali, fino a farlo sembrare un frastuono, perché si pensa che mettendo in difficoltà Salvini si possa minare la stabilità della coalizione e quindi del governo entrante. Una classica operazione di sabotaggio probabilmente alimentata in incognito anche da qualche leghista rimasto a bocca asciutta o che ha dovuto rivedere a torto o ragione le sue ambizioni di carriera come succede nelle migliori famiglie. Che la Lega non sia in un momento di spolvero è un fatto, lo stesso Salvini non ne fa mistero. Ma è un fatto anche che a fronte di un risultato percentuale non certo esaltante nelle urne ha corrisposto un numero di parlamentari eletti da non crederci: 65 deputati e 29 senatori, più o meno come quelli del Pd e ben più di quelli del Movimento Cinque Stelle. Come ciò sia stato possibile per me è un mistero, Salvini sarà anche "assediato", come dice La Repubblica, ma la sua forza politica appare tale da non prefigurare alcuna resa, soprattutto perché parliamo di onorevoli soldati scelti a uno a uno dal comandante in capo e quindi si presume a lui leali e fedeli almeno per un importante lasso di tempo. Di questo, mi risulta, ne sono ben consci - checché se ne dica e scriva - sia gli alleati che i vari arbitri della partita. Poi ognuno la può pensare come crede, ma chi immagina una Lega spaventata e a cuccia scambia una sua speranza per la realtà».

ZUPPI: “RISPETTO PER MELONI, MA VIGILEREMO”

Il cardinal Matteo Zuppi parla con La Stampa e dice: "La Chiesa ha rispetto per Meloni ma vigilerà sul bene comune". Domenico Agasso per La Stampa.

«Matteo Zuppi guarda al momento complicato dell'Italia che attende il nuovo governo, e auspica la collaborazione di tutti per il bene comune, invitando all'«amore politico». Indica le priorità: «Povertà, diseguaglianze, giovani, anziani, ambiente e maternità». Esprime un'apertura di credito a Giorgia Meloni. Non teme il ritorno del fascismo, ma mette in guardia dalle forze occulte che comprendono mafie e speculatori, veri e propri «sciacalli». Parla da Assisi, il cardinale presidente della Cei, quando sono terminate le celebrazioni di San Francesco patrono d'Italia, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il capo dello Stato ha acceso la Lampada votiva sulla tomba del «Santo Poverello» a nome di tutta la popolazione.

Eminenza, che cosa pensa dei risultati elettorali del 25 settembre?
«Ci inquieta e ci costringe alla riflessione l'altissima percentuale dell'astensionismo. Bisogna saper leggere le domande che il fenomeno rivela a tutti noi. Esso non è muto, ma eloquente. E poi, vorrei evidenziare una questione più organizzativa: non va dimenticato chi avrebbe voluto votare ma non ha potuto esercitare il suo diritto costituzionale a causa di fragilità, emarginazione, solitudine».

Quelle alla coalizione della Meloni sono state più «crocette» di protesta, o ha semplicemente prevalso il desiderio di virare a destra?
«Il voto ha espresso la richiesta di affidarsi a qualcuno. Dobbiamo preoccuparci quando non ci si sente più rappresentati da nessuno, non identificandoci nella comunità in cui viviamo. Non fidarsi più di nessuno provoca rabbia. Mi auguro che coloro che avranno l'onere e l'onore di governare sappiano esserne all'altezza. Va detto che in questo periodo sarebbe difficile per chiunque».

Ha conosciuto Giorgia Meloni. Una parte della galassia cattolica è in ansia perché varie sue posizioni non sono in linea con la Dottrina sociale della Chiesa. Lei come si pone nei confronti della probabile prima premier donna d'Italia?
«Con rispetto, come per chiunque eserciti questo altissimo compito. È un momento difficile per tutti. Richiede una discussione consapevole. Anche la necessaria dialettica tra maggioranza e opposizione non può non tenere conto di questa sfida. E quindi dell'interesse nazionale, che deve prevalere sull'interesse di parte».

Dunque c'è un'apertura di credito nei confronti dell'esecutivo che sta nascendo tra screzi e sgambetti?
«Sì, come verso chiunque. Chi ha vinto le elezioni è stato indicato dalla maggioranza del Paese».

La Chiesa quale ruolo ricoprirà?
«Eserciterà la sua influenza innanzitutto perché tutti, a cominciare dai più deboli, siano protetti, nella convinzione che solo insieme se ne esce. Avremo uno sguardo attento e severo circa le scelte del nuovo Governo, che dovranno rispondere all'esigenza del bene comune e non ai "profitti" personali o di partito. Questo è un tempo cruciale che richiede una grande concertazione per affrontare insieme le problematiche».

Era dispiaciuto per la caduta di Mario Draghi. È ancora così?
«Mi auguro che non solo l'Italia ma anche l'Europa valorizzi la sua visione, competenza e autorevolezza. In considerazione di quanto ha saputo difendere l'Europa da manovre interessate e discutibili, ingiustificate. Il suo metodo rappresenta una grande indicazione per affrontare difficoltà così gravi per tutti».

Nel Parlamento cala ancora la rappresentanza cattolica. Affronterà questo tema?
«Anche i cristiani devono fare la loro parte. Nessuno ha l'esclusiva dell'amore politico. I cattolici sappiano scegliere e vivere la politica, con credibilità e coraggio, per amore e non per convenienza. È questo che conta».

Si è parlato del pericolo di un ritorno del fascismo, di democrazia traballante. Ne ha timore?
«No. Oggi il fascismo è un'altra cosa. È quello "eterno" descritto da Umberto Eco: è un insieme di dinamiche come la violenza, le forze occulte tra cui le mafie, la speculazione, l'incapacità di incontrare l'altro, la logica del più forte, l'interesse personale e di gruppo».

È iniziato un autunno complesso.

«La preoccupazione è forte, a cominciare dall'aumento della povertà e dal problema di riuscire a gestirne gli effetti. Veniamo da una situazione di debolezza e fragilità. Le dimensioni dei drammi sono cresciute. Può aumentare la diseguaglianza tra chi ce la fa e chi no. Gli indicatori dell'indigenza sono angoscianti. Dobbiamo percorrere la via del pensarci insieme. E lottare contro la speculazione. Perché in mezzo a queste tragedie, c'è pure chi ci specula. E questo è sciacallaggio. C'è bisogno di istituzioni forti. E lo sono quando noi ci crediamo, perché le istituzioni siamo anche noi. Se invece di tanti "salva te stesso" ci fossero tanti "salviamoci insieme" lo spazio della speculazione si ridurrebbe».

Che significato ha avuto la cerimonia di ieri in Umbria?

«Abbiamo vissuto anni che non dobbiamo dimenticare. Hanno rappresentato una terribile sofferenza con la scomparsa di decine di migliaia di persone. Ma quanta solidarietà c'è stata. Non va perduta, perché la convinzione che soltanto insieme se ne esce ci deve aiutare ad affrontare altre terribili sfide. A cominciare da quelle della pandemia, della guerra, con tutto ciò che comporta. La guerra ha tante "sorelle". Lo vediamo nell'impoverimento che ha già coinvolto tantissimi italiani, con la prospettiva di un peggioramento. Come sempre, però, dobbiamo sapere trarre motivi di cambiamento. Come è stato per il Covid. Nel ricordo di chi non c'è più e di quelli che hanno fatto tanto per contrastare la pandemia. Occorre ritrovare in questa solidarietà i veri ideali che devono unire il nostro Paese. E san Francesco ci è d'esempio. Lui ha affrontato il male del suo tempo». ».

IL PD, LA RESA DEI CONTI IN DIREZIONE

Verso il congresso del Partito democratico, domani è prevista una Direzione. Resa dei conti in un partito dove sono tutti contro tutti. Il rebus dei nuovi capigruppo. Giovanna Vitale per Repubblica.

«Grande è la confusione sotto il cielo del Pd in attesa della direzione nazionale che domani, secondo la road map tracciata nella lettera agli iscritti inviata venerdì scorso dal segretario, darà il via al congresso costituente in quattro fasi da concludersi (salvo diverso accordo) con le primarie per l'elezione del nuovo leader al massimo entro febbraio. Tutti aspettano la relazione di Enrico Letta - e la successiva discussione in streaming che si prevede accesa - per decidere il da farsi: uno spartiacque dal quale discenderanno i posizionamenti delle varie fazioni in campo. Se è infatti ormai certo che Stefano Bonaccini sarà della partita, sostenuto dal grosso di Base riformista (la corrente ex renziana che fa riferimento a Lorenzo Guerini), non è ancora chiaro chi sarà lo sfidante principale, al netto della ridda di autocandidature avanzate nei giorni scorsi. Si racconta per esempio che il tentativo di rimettere insieme la vecchia maggioranza che, nel marzo del 2019, incoronò a furor di popolo Nicola Zingaretti alla guida del Nazareno sia fallita miseramente. Dario Franceschini, capo di Areadem, aveva pensato di spingere nell'arena Enzo Amendola, sottosegretario uscente agli Affari europei, ma pare che Andrea Orlando (big della sinistra interna) si sia opposto perché vorrebbe essere in realtà lui a misurarsi. Tanto da aver lanciato su Facebook, negli ultimi giorni, una sorta di piattaforma programmatica in cui elenca le priorità del nuovo Pd: lavoro, lotta alla precarietà e alle diseguaglianze, contrasto ai cambiamenti climatici. C'è però chi dice che potrebbe trattarsi solo di una mossa per alzare il prezzo in vista dell'assegnazione delle cariche istituzionali. Orlando, forte della carriera da ministro, mirerebbe difatti alla vicepresidenza di Montecitorio; per quella di Palazzo Madama il più accreditato sarebbe invece Franceschini; mentre per il capogruppo alla Camera la pole è di Zingaretti. Sempre i soliti. E tutti uomini. Il che, oltre a creare malumori diffusi, porrebbe il tema della scarsa presenza femminile nei posti di vertice, da compensare piazzando una donna (non ancora individuata) alla testa dei senatori dem.
Veleni da congresso o ipotesi reali? Un po' l'uno, un po' l'altro, giura chi segue da vicino le manovre in corso. In ogni caso a condurre le trattative sarà ancora Letta, in queste ore alle prese con la stesura della relazione con la quale scendere nella fossa dei leoni. «Sarà un processo al segretario » quello che, temono al Nazareno, alcuni dirigenti proveranno a intentare domani. In particolare i parlamentari esclusi dalle liste o non eletti. Un assaggio lo ha servito ieri Luca Lotti, che sui social ha puntato il dito contro «la peggiore sconfitta dal dopoguerra» e «gli enormi errori commessi» a cui sarebbe sbagliato rispondere con «un congresso divisivo sui nomi o sul dilemma Conte sì, Conte no». Persino lui convinto che, a dispetto del «clima di autoassoluzione generale», nel Pd debba aprirsi una fase di profonda riflessione: «Prima di pensare a chi ci guida bisogna chiedersi cosa è successo e cosa siamo». Tutti nodi, sui tempi e le modalità delle prossime assise, che sarà la direzione a dover sciogliere. Insieme al ruolo di Letta, che qualcuno vorrebbe far restare, almeno sino alla fine del processo costituente, e qualcun altro archiviare in fretta. Su una cosa sono però tutti d'accordo: gli attacchi di chi punta sulla dissoluzione del Pd vanno respinti. «Non bisogna partire né dallo scioglimento né dai nomi», avverte Stefano Vaccari, responsabile Organizzazione. «Dire da qualche salotto al secondo partito del Paese "non siete all'altezza, scioglietevi" è inaccettabile », tuona Francesco Boccia, invitando a valutare bene «le ragioni della sconfitta: nella stragrande maggioranza delle regioni il cosiddetto campo largo ha superato abbondantemente il 50%». Ce l'hanno con chi ora tifa per la fusione coi grillini. Ma anche con Calenda, che su Repubblica ha chiesto ai Dem di scegliere tra i riformisti e i populisti. «Lui ci dice "venite con noi", Renzi ci vuol distruggere », nota Enrico Borghi: «Si mettano d'accordo». E pure «l'anima in pace» perché, spiega il senatore Mirabelli, «non ci saranno saldature con il M5S né migrazioni verso nessuno». Sempre che il Pd sopravviva a se stesso».

NOBEL PER LA FISICA A TRE STUDIOSI DI COMPUTER QUANTISTICI

Le altre notizie. Fisica, il Premio Nobel  è stato assegnato ai tre pionieri del computer quantistico: Aspect, Clauser e Zeilinger. Massimo Sideri per il Corriere della Sera.

«Il Nobel per la Fisica 2022 consegnato ieri dall'Accademia Reale di Svezia al francese Alain Aspect (75 anni), all'americano John Clauser (79) e all'austriaco Anton Zeilinger (77) potrebbe essere il primo vinto grazie a un «gatto in una scatola», quello del famoso paradosso di Schrödinger. Si tratta dell'esempio più facile per capire una cosa talmente complicata da aver messo in crisi anche Albert Einstein alla fine della sua vita: l'entanglement , ovvero l'intreccio o sovrapposizione di stadi delle particelle, alla base degli studi sui computer quantistici. Siamo sulla frontiera della scienza, anche se le basi vennero poste circa un secolo fa, perché ciò che vale per l'infinitamente piccolo delle particelle della fisica quantistica non è rispettato nella nostra «dimensione» macro della fisica meccanica tradizionale. «I loro studi - ha affermato l'Accademia nel consegnare il classico assegno da 10 milioni di corone svedesi (902.312 dollari al cambio attuale) - hanno reso più chiara la strada per le nuove tecnologie basate sulle informazioni quantistiche». Il più anziano, Clauser, ha anche scherzato: «Sono felice di essere ancora vivo per ricevere il premio» (i Nobel non possono essere consegnati post mortem). Il gatto di Erwin Schrödinger, geniale fisico austriaco di inizio Novecento - che scrisse Che cos' è la vita, senza esagerare, uno dei libri più belli, più complicati e più importanti del secolo scorso visto che contiene l'intuizione del Dna - si trova in una scatola prigioniero di una macchina infernale che lo tiene sospeso tra la probabilità di essere vivo e quella di essere morto. Solo aprendo la scatola si realizza una delle due possibilità. Si trattava, come descrisse Schrödinger, di un «caso burlesco» per far capire i paradossi che prendono forma quando applichiamo la fisica quantistica al mondo degli organismi. Ma il paradosso «vivo+morto» si può realizzare, per ora su piccola scala, per accelerare a dismisura la capacità di calcolo dei nuovi computer sperimentali. Per capirlo anche qui si può fare un facile esperimento: lanciate una moneta in aria. Il calcolo delle probabilità ci può aiutare a comprendere cosa capiterà alla fine, quando la moneta cadrà per terra, ma in quel momento, di fatto, la risposta non c'è. O meglio: entrambe le risposte sono valide, la moneta è sia testa che croce allo stesso tempo. Dunque mentre i computer tradizionali usano il linguaggio binario con una successione di 000110001, i qbit (quantum bit) contengono sia lo zero che l'uno del codice binario. Fusi insieme. Il risultato di questa magia quantistica si può quantificare così: nel 1961 il computer Ibm della Nasa faceva 24 mila operazioni al secondo. Già oggi stiamo costruendo computer con architetture tradizionali che puntano a un miliardo di miliardi di operazioni al secondo (exascale). Con i quantum computer i numeri straordinari di oggi ci appariranno come quelli della Nasa del 1961. Gli studi di Aspect, Clauser e Zeilinger hanno permesso anche di chiarire un altro aspetto dell'entanglement secondo cui quando due sistemi sono entrati in contatto non possono più vivere separati. È la formula di Dirac nota anche come formula dell'amore. «Probabilmente ogni particella dell'universo è intrecciata» ha detto Clauser. Ma anche questo non sembra valere per il mondo oltre l'atomo».

BORSE, FIAMMATA DA RECESSIONE

Il paradosso delle Borse: l'economia frena, ma scatta il rally di rialzi. La moneta unica torna a sfiorare la parità, i listini europei recuperano il 3-4%, i tassi dei BTp scendono al 4,2%. Il motivo: i dati Usa e della Bank of Australia fanno sperare in una Fed più morbida. Posizioni ribassiste in via di chiusura. Vito Lops per il Sole 24 Ore.

«Il dollaro si sgonfia e i capitali si redistribuiscono all'interno di obbligazioni e classi di investimento risk on, come azioni, materie prime e criptovalute. La correlazione che va per la maggiore in questo 2022, ovvero quella inversa tra biglietto verde e Borse, si sta confermando nelle ultime sedute caratterizzate dal rimbalzo degli indici azionari e dal ridimensionamento dei rendimenti delle obbligazioni. Tutto favorito da un dollaro più debole (dopo aver toccato un picco di periodo a 115 punti il 28 settembre il dollar index ieri è scivolato a 110). L'euro, dal suo canto, si è allontanato da quota 0,95 toccata una settimana fa tornando a rosicchiare la parità (0,997). Le Borse europee hanno messo a segno una giornata da incorniciare con l'indice Eurostoxx 50 salito di oltre quattro punti percentuali. Dai minimi di fine settembre il rimbalzo è superiore al 7%. Stesse proporzioni per il Ftse Mib tornato sopra i 21.500 punti. Bene anche Wall Street che si è allontanata del 5,5% dai recenti minimi dell'anno a 3.585 (ieri +3%). Il movimento è violento e coinvolge anche il mercato obbligazionario con rendimenti in frenata a riflettere il ritorno della liquidità su questo asset. I BTp a 10 anni - che avevano sfiorato il 5% qualche seduta fa - sono tornati al 4,2%. In frenata anche i tassi tedeschi con i rispettivi Bund scesi dal 2,35% all'1,88%. I decennali statunitensi sono tornati al 3,6% dopo aver superato il 4%. Cosa sta accadendo? I problemi - geopolitici (guerra energetica), macroeconomici (inflazione alta un po' dappertutto) e micro (trimestrali in arrivo con tensioni sui bilanci aziendali) - che fino a qualche giorno fa giustificavano il pessimismo degli operatori sono improvvisamente stati risolti? No. Ci sono però almeno tre motivi che stanno alimentando quello che per ora può essere archiviato come un rimbalzo tecnico all'interno di un trend che, fino a prova contraria, resta ribassista. L'ultimo dato proveniente dalla manifattura Usa, l'indice Ism, ha evidenziato un rallentamento paragonabile per velocità ai momenti duri del Covid nel marzo 2020. Gli investitori attendevano con ansia un brutto dato macro per avere la conferma che la politica molto aggressiva della Federal Reserve stia iniziando a deteriorare l'economia (e quindi a rallentare potenzialmente la spinta inflativa). A ciò si aggiunge il dato sulle nuove offerte di lavoro del mese di agosto, scese a 10,1 milioni, in netto calo rispetto agli 11,088 attesi. Peggio delle attese gli ordini alle fabbriche statunitensi, sempre ad agosto, rimasti invariati a 548,4 miliardi, contro aspettative di un rialzo dello 0,3%. A questo punto i prossimi market mover, ovvero il dato sulla disoccupazione che verrà reso noto venerdì e l'inflazione di settembre comunicata il 13 ottobre, potrebbero riservare ulteriori sorprese. Molti fondi hedge, posizionati short (cioè al ribasso) in vista di un peggioramento degli indici, nel dubbio stanno chiudendo le posizioni per non trovarsi spiazzati di fronte ai nuovi dati. Chiudere una posizione short vuol dire acquistare i titoli venduti in precedenza allo scoperto e questo è sicuramente uno dei fattori che ha calamitato il rimbalzo delle ultime giornate. Per dare ulteriore slancio al movimento occorrerà però una presa di posizione convinta dei grandi fondi di investimento che solitamente si muovono con passo più felpato e attendono maggiori conferme. Di certo la liquidità non manca dato che l'ultimo sondaggio Bofa Merrill Lynch ha rilevato che i fondi hanno un livello di "cash" pari al 6,1%, come non accadeva da 20 anni, decisamente superiore alla media del 4,8%. Il pivot delle banche centrali Il terzo motivo che ha alimentato questo rimbalzo è la prospettiva che la corsa dei rialzi delle banche centrali possa vedere un traguardo (che equivarrebbe a un bottom dei titoli obbligazionari). Una sensazione rafforzata dalla decisione (a sopresa) della Royal Bank of Australia di alzare i tassi di 25 punti base rispetto ai 50 attesi, andando nella direzione di un report della United nations conference on trade development (Unctad) che ha chiesto alle banche centrali di essere meno aggressive perché in caso contrario si rischiano danni globali peggiori della grande crisi del 2008. E se anche le altre banche centrali la imitassero? Questo dubbio si è insediato nella mente degli investitori che si stanno aggrappando a queste motivazioni per riprendere un po' di fiato dopo un mese e mezzo di vendite. È lecito avere dei dubbi, così come può essere saggio non cantare vittoria e credere che tutti i fattori di tensione che fino all'altro giorno invitavano alla prudenza si siano d'un tratto dissolti».

IRAN, CONTINUA LA PROTESTA

Continua una protesta diffusa e spesso festosa contro il regime degli ayatollah. Viviana Mazza per il Corriere.

«Nika Shakarami è un'adolescente che si diverte con gli amici: capelli corti, senza velo, tutta vestita di nero in pantaloni sportivi e ampia t-shirt, nel video diffuso sui social dopo la sua morte, prende il microfono e, ridendo, canta una vecchia canzone d'amore del 1968, che tutti gli iraniani sanno a memoria, tratta dal film Soltane Ghalbha (Re di cuori). «Una parte del mio cuore mi dice di andare, andare. L'altra parte mi dice di restare, restare». Nika è scomparsa il 20 settembre, durante le proteste contro il regime a Teheran. Il suo corpo è stato identificato dieci giorni dopo dalla zia, nell'obitorio di un centro di detenzione, ma l'agenzia di Stato Tasnim dichiara che è stato ritrovato per strada. Il 2 ottobre, il giorno in cui avrebbe dovuto celebrare il suo diciassettesimo compleanno, Nika è stata portata senza vita a Khorramabad, nell'Iran occidentale, con l'ordine alla famiglia di seppellirla in silenzio, senza funerale.
Ma poi gli agenti hanno «rubato» il cadavere per seppellirla in un villaggio più piccolo, ed evitare che la sua tomba diventasse un luogo di pellegrinaggio. Nika cantava per divertimento, non per protesta. Ma anche il divertimento può essere una forma di protesta. Nel film Hit the Road , recente debutto di Panah Panahi, figlio del maestro Jafar Panahi oggi in prigione, una famiglia in auto ascolta ad alto volume vecchie canzoni dell'Iran pre-rivoluzionario. «La società attuale è contraria a questo tipo di musica, quindi è importante ascoltarla - ci disse il giovane Panahi - e le famiglie iraniane, quando vanno in vacanza, lo fanno sempre». Le proteste di questo autunno iraniano, piccole e decentrate ma imperterrite, giorno e notte, da oltre due settimane, hanno canzoni nuove come colonna sonora: più di tutte Per.. . di Shervin Hajipour, che elenca i motivi per cui il popolo combatte («Per poter ballare in strada, Per il timore nell'attimo di un bacio, Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle..»). L'autore è stato arrestato 24 ore dopo averla condivisa, ma le ragazze ora la cantano a scuola. «Un amico in Iran mi dice che in auto ce l'hanno tutti in loop a palla, è una gara a chi la mette più ad alto volume», racconta Saeed, che con Leila e Pejman è uno dei tre membri di Bowland, band iraniana di Firenze. Ma ci sono anche le vecchie canzoni di protesta, come quella scelta dai Bowland per accompagnare un loro video con le immagini delle manifestazioni. «Assomiglia a Bella Ciao , parla di partigiani e di rivolta contro la dittatura. Si chiama Sar oomad zemestoon (l'inverno è finito)». Fu cantata nelle strade durante la rivoluzione del 1979 e poi durante il Movimento verde nel 2009. «È finito l'inverno, la primavera è in fiore», dice il testo. Ma l'inverno non è mai finito. I Bowland hanno sempre evitato di parlare di politica, è più semplice se vuoi tornare in Iran; ora per la prima volta si espongono con la loro musica «per dare voce a chi sta combattendo», spiega Leila. Inclusi i ragazzini dell'età di Nika. «Le proteste nelle scuole sono una cosa che non si era mai vista - nota Pejman - Sono veramente coraggiosi». «Fanno ciò che avremmo voluto fare noi ma non avevamo le palle», aggiunge Saeed. Un'altra vecchia melodia ritornata su Instagram è Shab Navard (Chi cammina nella notte) di Mohammad-Reza Shajarian (inviso al regime per aver appoggiato il Movimento verde): parla di una «ragazza che gronda sangue», come Mahsa Amini. E poi c'è Bella Ciao: riscritta da due sorelle di Rasht, descrive il grano che cresce e ha bisogno di acqua per resistere. Alla sua popolarità potrebbe aver contribuito il film There is no Evil di Mohammad Rasoulof (Orso d'Oro 2020), in cui un soldato rifiuta di giustiziare un condannato a morte e fugge con l'amata sulle note di Bella Ciao».

MISSILE NORD COREANO VOLA SUL GIAPPONE

Missile nord coreano vola sul Giappone e lancia il Paese nel panico. La strategia di Kim. Guido Santevecchi per il Corriere.

«Missile in arrivo, missile in arrivo. Evacuare immediatamente». Si sono svegliati con l'allarme ripetuto dai notiziari tv e con il suono delle sirene gli abitanti della prefettura giapponese di Aomori sull'isola di Honshu e quelli dell'Hokkaido. Vita sospesa per una ventina di minuti, nel Nord del Giappone, fermati anche i treni dell'alta velocità. Un missile nordcoreano è passato sopra l'arcipelago in un drammatico ritorno al passato: Kim Jong-un: aveva fatto lanciare un missile sopra il Giappone per la prima volta nel 2017, al culmine della sua sfida con Donald Trump. Cinque anni dopo, il Maresciallo di Pyongyang sembra tornare alla vecchia strategia. Il missile ha volato per 22 minuti, per circa 4.600 chilometri, la distanza più lunga percorsa da un ordigno nordcoreano, ed è piombato nel Pacifico, circa 3.200 km a Est delle coste giapponesi. Di solito i tecnici nordcoreani programmano la traiettoria dei loro missili con un angolo di elevazione molto pronunciato, per farli ricadere in mare a Ovest del Giappone, evitando il pericoloso sorvolo dell'arcipelago. Il test di ieri ha ricordato a Tokyo e Seul di essere sotto tiro. Il monito vale anche per gli Stati Uniti, che hanno decine di migliaia di militari schierati nelle basi giapponesi e sudcoreane. Cessato l'allarme generale, il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha definito l'azione nordcoreana «barbara»; Washington parla di «risposta robusta» alla nuova provocazione «pericolosa e sconsiderata». Seul ha mostrato la sua capacità di reazione impegnando una squadriglia di F-15K in un «bombardamento di precisione» su un isolotto disabitato nel Mar Giallo: il bersaglio simulava una base di lancio nordcoreana. All'operazione ha partecipato una scorta di F-16 della Us Air Force. Quest' anno la Nord Corea ha già lanciato 42 missili in 23 test, cinque negli ultimi dieci giorni. Sovrastato dal rumore della guerra in Ucraina, Kim cerca di richiamare l'attenzione. Qual è ora la sua strategia? Sembra che il Maresciallo non cerchi più la trattativa, ma voglia convincere sudcoreani e americani che è pronto a usare per primo l'arma nucleare. Un ricatto che imporrebbe a Seul di fare concessioni per non rischiare di essere colpita con un ordigno. Due mosse recenti danno credito a questa teoria. 1) A giugno Kim ha diffuso un «Piano per l'ampliamento degli incarichi affidati alle unità di frontiera»: si tratterebbe di schierare sul 38° Parallelo armi nucleari tattiche pronte all'impiego. In teoria, il deterrente strategico serve a evitare la guerra; l'arsenale tattico (meno potente) a vincere una battaglia. È a questa seconda opzione che si riferisce la nuova direttiva. 2) A settembre Kim ha fatto votare dalla Suprema assemblea del popolo una legge che sancisce l'impiego «automatico» e preventivo delle armi nucleari in caso di pericolo per il regime. È la minaccia del «first strike», l'uso per primo di ordigni nucleari».

NUOVA STRETTA DI LONDRA ANTI MIGRANTI

Ancora guai in vista per i tantissimi stranieri che vivono a Londra. Il nuovo governo conservatore ha intenzione di inasprire ancora le norme per i migranti. Angela Napoletano per Avvenire.

«Troppi migranti irregolari, troppi studenti stranieri. Musica per le orecchie dei conservatori, riuniti a Birmingham per la conferenza annuale del partito, turbati dal disastro politico e finanziario causato dalle azzardate manovre fiscali della premier Liz Truss. A suonarla è il nuovo ministro degli Interni, Suella Braverman, figlia di indiani d'Africa arrivati ad Harrow negli anni '60, che ha ventilato riforme sull'immigrazione persino più audaci di quelle varate del precedente governo dopo la Brexit seppure di difficili attuazione. L'ex avvocato di Stato, erede della "pasionaria" Priti Patel all'Home Office, ha infiammato la platea Tory con il "sogno" di un aereo che prende il volo dal suolo britannico per trasferire in Ruanda i disperati approdati sull'isola attraverso il Canale della Manica. Quasi 33mila da gennaio a settembre di quest' anno (l'anno prima erano stati 28.526 in totale). «È arrivato il momento di prendere il controllo della situazione - ha tuonato - assicurandoci che nessuno possa interferire con il nostro regime migratorio». Sferzata alla Corte di Strasburgo che a giugno è intervenuta a bloccare la deportazione dei migranti illegali a Kigali varata dal governo Johnson. Cosa, in concreto, il ministro ha in mente? I dettagli della strategia non hanno trovato spazio nel discorso a Birmingham ma secondo alcune anticipazioni la titolare degli Interni è determinata a irrigidire le procedure di richiesta di asilo fino a renderle impraticabili. L'idea è lavorare a una riforma della legge sulla schiavitù moderna, varata nel 2015 dall'allora governo di Theresa May, che sancisca criteri più rigidi per identificare le vittime di tratta a cui i migranti si appellano per ottenere il permesso a rimanere. Della stretta, difficile da conciliare con la convenzione Onu sui rifugiati del 1951, potrebbe far parte anche un limite ai ricorsi presentati all'ultimo minuto per evitare le espulsioni. Braverman ha annunciato che intensificherà la collaborazione con le autorità francesi per intercettare gli attraversamenti e il coinvolgimento delle forze di polizia britanniche nella lotta alle organizzazioni criminali, soprattutto albanesi, coinvolte nel traffico di esseri umani. «Ci vorrà tempo - ha messo le mani avanti - ma mi impegnerò a portare avanti una legislazione che chiarisca che l'unica via per raggiungere il Regno Unito è quella legale». La retorica Brexiteer è tornata anche nel passaggio su lavoratori e studenti provenienti dall'estero. «Non abbiamo bisogno di lavoratori stranieri scarsamente qualificati - ha ostentato - perché possiamo addestrare i nostri a essere conducenti di camion, macellai o raccoglitori di frutta. Ritengo che vada decisamente ridotto anche il numero di studenti stranieri». Soprattutto se non intenzionati a far crescere economicamente il Paese o se interessati a farsi raggiungere da familiari provenienti dalle nazioni di origine per mezzo delle politiche di ricongiungimento. «Non è xenofobo dire che l'immigrazione di massa mette sotto pressione gli alloggi, i servizi pubblici e le relazioni con la comunità», ha concluso Braverman».

LA SOLITUDINE DEL TIGRAI: “STIAMO MORENDO”

La richiesta di aiuto dal vescovo di Adigrat per fermare la distruzione del suo popolo. Non c’è nessuna pietà per il Tigrai. Paolo Lambruschi per Avvenire.

«Dopo 700 giorni di conflitto arriva l'ennesima, disperata richiesta di aiuto dal vescovo cattolico di Adigrat. Il quale conferma che la guerra civile, ripresa il 24 agosto, è entrata nella fase più cruenta con attacchi senza precedenti che stanno annientando la popolazione. Ma i tigrini vengono uccisi anche dalle malattie dovute alla mancanza di medicine e dalla fame causata da blocco degli aiuti, distruzione dei raccolti e siccità. Le bombe delle truppe etiopi e degli alleati eritrei stanno colpendo ospedali, scuole e campi per sfollati. Una catastrofe umanitaria in corso nel quasi totale silenzio dei media dovuto anche al blackout comunicativo che ha interrotto da 23 mesi i collegamenti con la regione settentrionale etiope. Secondo l'università belga di Genk la raccolta di cereali del 2022 andrà male come nel 2021. Per bucare la coltre di silenzio che avvolge la guerra più sanguinosa d'Africa, in una nuova lettera l'eparca Tesfaselassie Medhin chiede a politici, giornalisti, alle Ong e alla diaspora tigrina di gridare più forte e agire per fermare le sofferenze causate «dall'assedio e da una guerra genocida» e la distruzione. La coraggiosa missiva del vescovo tigrino denuncia i «numerosi attacchi indiscriminati» contro i civili condotti con aerei e droni e i bombardamenti massicci dell'artiglieria su luoghi affollati, mercati, centri sanitari «distruggendo vite innocenti della popolazione». In conseguenza della ripresa degli scontri tutte le operazioni umanitarie sono state sospese. La situazione negli ospedali è drammatica per la mancanza di farmaci. Le aree rurali sono isolate. Anche le donne stuprate - le principali vittime di questo conflitto - non possono più curarsi. Pesanti bombardamenti, aggiunge il presule, hanno colpito i villaggi e le città vicine al confine nord con l'Eritrea e nella parte occidentale del Tigrai contesa con gli Amhara. Sono stati colpiti, tra gli altri, i distretti di Macallè, Scirè, Wukro, Adyabo, la stessa città di Adigrat e Dedebit. Ieri mattina droni di ultima generazione venduti da Turchia, Emirati Arabi, Russia e Cina ad Addis Abeba secondo le autorità tigrine hanno compiuto una strage nel centro per sfollati di Adi Daero (la seconda in una settimana) uccidendo e ferendo decine di bambini e anziani. E per la prima volta i Mig 29 dell'aviazione eritrea, alleata del governo etiope, sarebbero decollati dall'Asmara per condurre almeno quattro attacchi nel Tigrai a supporto delle truppe federali contro le forze di difesa tigrine, ritiratesi dalla regione Amhara per difendersi dagli eritrei. Lo ha rivelato una fonte della stessa aviazione asmarina all'emittente dell'opposizione al regime di Isayas Afewerki Radio Erena, che trasmette da Parigi. Notizia confermata anche da Radio France. Finora l'Eritrea aveva invaso e commesso crimini contro l'umanità in Tigrai con le forze di terra. Il regime che aveva lanciato una campagna di reclutamento nazionale per tutti i cittadini dai 17 ai 55 anni, avrebbe intanto intensificato le retate. L'artiglieria eritrea ha inoltre bombardato a tappeto nei giorni scorsi la provincia confinante di Irob dove vive una minoranza etnica a rischio sparizione. È stato colpito persino il centro sanitario delle Figlie della Carità ad Alitena, dove le suore hanno anche un ostello femminile. Sono le stesse religiose che alla ripresa del conflitto avevano lanciato un accorato appello di pace. L'Agenzia Fides aggiunge che non si hanno più notizie da giorni di 80 religiosi cattolici e circa 30 suore in tutta la regione oscurata. Ultimo dramma, secondo il vescovo, la chiusura delle scuole che ha fatto perdere due anni a mezzo milione di bambini, la generazione perduta del Tigrai».

LA GRANDE BELLEZZA DI NEW YORK

Esce in Italia per la Nave di Teseo un libro, Interventi, che raccoglie alcuni articoli dello scrittore francese Michel Houellebecq. Avvenire anticipa uno di questi articoli. Riguarda un paragone tra Roma e New York e il senso della morte in queste due città.

«L'essere umano parla; talvolta, non parla. Minacciato, si chiude, i suoi sguardi perlustrano rapidamente lo spazio; disperato, si ripiega su se stesso, si avvolge attorno a un centro di angoscia. Felice, rallenta il respiro, esiste su un ritmo più ampio. Nella storia del mondo sono esistite due arti (la pittura e la scultura) che hanno tentato di sintetizzare l'esperienza umana mediante rappresentazioni fisse, movimenti interrotti. Esse hanno talvolta scelto di fermare il movimento nel suo punto di equilibrio, di massima dolcezza (nel suo punto di eternità): tutte le Madonne con Bambino. Hanno talvolta scelto di bloccare l'azione nel suo punto di massima tensione, di espressività più intensa - il barocco, naturalmente; ma anche tanti quadri di Friedrich evocano un'esplosione gelata. Si sono sviluppate per parecchi millenni; hanno avuto la possibilità di produrre opere compiute nel senso della loro ambizione più segreta: fermare il tempo. Nella storia del mondo è esistita un'arte il cui oggetto era lo studio del movimento. Quest' arte si è potuta sviluppare per una trentina d'anni. Fra il 1925 e il 1930, ha prodotto alcune inquadrature, in alcuni film (penso soprattutto a Murnau, a Ejzentejn, a Dreyer), che giustificavano la sua esistenza come arte; poi è scomparsa, a quanto pare per sempre. Il cinema muto vedeva aprirsi davanti a sé uno spazio immenso: non era soltanto un'indagine sui sentimenti umani; non soltanto un'indagine sui movimenti del mondo; la sua ambizione più profonda era quella di costituire un'indagine sulle condizioni della percezione. La distinzione fra sfondo e figura costituisce la base delle nostre rappresentazioni; ma anche, più misteriosamente, fra la figura e il movimento, fra la forma e il suo processo di generazione, il nostro spirito cerca la sua strada nel mondo, donde la sensazione quasi ipnotica che ci pervade davanti a una forma fissa generata da un movimento perpetuo, come le ondulazioni stazionarie sulla superficie di uno stagno. Che ne è rimasto dopo il 1930? Alcune tracce, soprattutto nelle opere dei cineasti che hanno cominciato a lavorare ai tempi del muto (la morte di Kurosawa sarà più della morte di un uomo); alcuni istanti in film sperimentali, in documentari scientifici, addirittura in produzioni di serie. Questi istanti sono facili da riconoscere: ogni parola vi è impossibile; la musica stessa vi acquista qualcosa di un po' kitsch, un po' pesante, un po' volgare. Diventiamo pura percezione; il mondo appare nella sua immanenza. Siamo molto felici, di una felicità bizzarra. Innamorarsi può produrre questo stesso genere di effetti. Nel film che progettava di girare sulla vita di san Paolo, Pasolini aveva intenzione di trasporre la missione dell'apostolo nel cuore del mondo contemporaneo; di immaginare la forma che essa avrebbe potuto assumere in mezzo alla modernità commerciale; questo, senza cambiare il testo delle epistole. Ma aveva intenzione di sostituire Roma con New York, e ne dà una ragione immediata: come Roma all'epoca, New York è oggi il centro del mondo, la sede dei poteri che dominano il mondo (nello stesso spirito, propone di sostituire Atene con Parigi, e Antiochia con Londra). Dopo alcune ore di soggiorno a New York, mi accorgo che c'è probabilmente un'altra ragione, più segreta, che solo il film avrebbe potuto rivelare. A New York come a Roma, malgrado il dinamismo apparente, si percepisce una curiosa atmosfera di decrepitezza, di morte, di fine del mondo. So bene che «la città è ribollente, è un crogiolo, vi circola un'energia pazzesca» ecc. Stranamente, però, avevo piuttosto voglia di rimanere nella mia stanza d'albergo, di guardare il volo dei gabbiani sulle installazioni portuali abbandonate delle rive dell'Hudson. Una pioggia leggera scendeva su magazzini di mattoni rossi; era molto rilassante. Mi immaginavo benissimo rinchiuso in un immenso appartamento, sotto un cielo di un bruno sudicio, quando all'orizzonte si sarebbero spenti a poco a poco gli ultimi bagliori rossastri di combattimenti sporadici. Più tardi sarei potuto uscire, avrei camminato in strade ormai deserte. Un po' come gli strati vegetali si sovrappongono in un folto sottobosco, le altezze e gli stili si fiancheggiano a New York in un disordine imprevedibile. Più che in una strada, si ha talvolta l'impressione di camminare in un canyon, fra pareti rocciose. Un po' come a Praga (ma più limitatamente; gli edifici newyorkesi abbracciano in fondo solo un secolo di architettura), si ha talvolta l'impressione di circolare in un organismo, soggetto a leggi di crescita naturale. È possibile che l'architettura umana raggiunga la sua massima bellezza solo quando, per ribollimento e giustapposizione, cominci a far pensare a una formazione naturale; come la natura raggiunge la sua massima bellezza solo quando, per giochi di luce e astrazione delle forme, lascia aleggiare il sospetto di un'origine volontaria».

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