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La pace è un dono da chiedere
Papa Francesco prega Maria per la pace nel mondo. Accordo di principio sul sesto round di sanzioni, con deroghe. Draghi contento. Biden cambia idea sui missili a Kiev. Morto Smuraglia
Davanti alla statua voluta da Benedetto XV, il Papa che condannò l’inutile strage della Prima guerra mondiale, Francesco ha guidato il Rosario nella Basilica romana di Santa Maria Maggiore per chiedere la fine del conflitto. Lo ha fatto in collegamento con i grandi santuari mariani del mondo. Un gesto semplice, un atto di richiesta alla Madonna alla fine del mese mariano di maggio. Ha detto fra l’altro: «Eccoci di nuovo dinanzi a Te, Regina della pace, per supplicarti: concedi il grande dono della pace». Poi il Pontefice ha aggiunto: «Riconcilia i cuori pieni di violenza e di vendetta, raddrizza i pensieri accecati dal desiderio di un arricchimento facile, su tutta la terra regni duratura la tua pace». L’appello di Bergoglio arriva al quarto mese dall’invasione russa mentre sono poche le speranze di un cessate il fuoco e di una tregua in tempi brevi.
Ieri si è conclusa la due giorni del Consiglio europeo straordinario. Si è raggiunto,alla fine, un compromesso sul sesto round di sanzioni, che riguardano soprattutto l’embargo del petrolio russo. Ci sono alcune nazioni che hanno ottenuto deroghe, mentre di fatto, come ha confermato anche il nostro premier, gli effetti diverranno evidenti solo fra qualche mese. Intanto la prima nave merci ha lasciato il porto di Mariupol dopo lo sminamento e dopo il lungo blocco imposto dai russi. È carica di metallo saccheggiato dall’esercito di Mosca, secondo l’Ucraina. Ma potrebbe aprire la strada ai bastimenti di grano. Alberto Negri sul Manifesto critica l’eccesivo peso internazionale conquistato dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan: ricatta tutti nella Nato, chiedendo l’ostracismo dei curdi e allo stesso tempo non partecipa alle sanzioni. Intanto l’oligarca russo, che vive a Londra, Roman Abramovich ha fatto ricorso alla Corte giustizia dell’Unione europea contro le sanzioni che lo hanno colpito.
Dal campo bellico, potrebbero essere le ultime ore di Severodonetsk, che sta per cadere presto sotto il controllo russo. Volodymyr Zelensky denuncia perdite pesanti giornaliere sul fronte del Donbass. Ma a Kiev tirano un sospiro di sollievo per la marcia indietro del presidente americano Joe Biden. Da Washington fanno sapere che potranno mandare i missili a lunga gittata richiesti dagli ucraini, a patto che non siano lanciati sul territorio russo. Domenico Quirico sulla Stampa teme una nuova “cortina di ferro”: da una parte l’Occidente, dall’altra l’Eurasia.
Veniamo alle cose italiane. C’è ancora un caso Salvini, legato alle frequentazioni del capo della Lega con i russi. Frequentazioni che sarebbero avvenute all’insaputa di governo e Quirinale. Mario Draghi nella conferenza stampa a Bruxelles (ne riportiamo un ampio resoconto) rimprovera Matteo Salvini: «Con la Russia serve trasparenza». Dopo lo scoop di ieri del Domani si è appreso che il Copasir indagherà su Antonio Capuano, consulente di Salvini: nel mirino i suoi affari.
Le nubi sulla nostra economia. Il governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco ha letto la consueta relazione annuale, ieri molto preoccupata. A maggio l’inflazione nel nostro Paese è arrivata al +6,9%, ai massimi dal 1986. Corre il carrello della spesa, come dicono i numeri dell’Istat. Visco chiede che i salari “non rincorrano” i prezzi. Ma in questo modo saranno le famiglie italiane a pagare, quasi interamente, il costo della crisi. È morto Carlo Smuraglia, presidente onorario dell’Anpi. Aveva 98 anni e, prima dell’ultimo 25 aprile, aveva dovuto fronteggiare una polemica sulla pace e sulla solidarietà con gli ucraini. Buona notizia dal Parlamento, perché la Camera, prima della pausa, ha approvato la nuova norma che evita il carcere alle madri con bambini piccoli.
Bella notizia anche da Parigi, dove la tennista italiana Martina Trevisan è approdata alle semifinali del torneo del Roland Garros. Non si tratta solo di una vicenda sportiva, ma di una storia umana coinvolgente. Trevisan, promettente campionessa da ragazzina, ha dovuto infatti assentarsi per quattro anni dai campi di gioco, per una grave forma di anoressia. Che ora ha superato. Doppia vittoria dunque la sua. Complimenti doppi.
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae papa Francesco che ieri sera ha guidato il Rosario per la pace, a conclusione del mese mariano di maggio dalla basilica romana di Santa Maria Maggiore. Ha detto fra l’altro: “Eccoci di nuovo dinnanzi a Te, Regina della pace, per supplicarti: concedi il grande dono della pace, cessi presto la guerra”.
Foto Vatican News
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della sera sceglie una frase di Mario Draghi al termine del Consiglio europeo: «Sanzioni efficaci in estate». La Repubblica invece sottolinea l’allarme lanciato dal governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco: La morsa dell’inflazione. Così come fa Il Sole 24 Ore: Visco: «No alla rincorsa prezzi-salari e a nuovo debito. Recovery permanente». Avvenire dà grande spazio al Rosario del Papa per la fine del conflitto: Il grido della pace. Il Giornale è scettico sulle conclusioni del vertice di Bruxelles: Disunione europea. Stessa linea per il Manifesto, in copertina Orban che ha ottenuto deroghe: Impunità di greggio. Il Mattino vede l’aspetto positivo: Gas, sì al tetto dei prezzi. Draghi: vittoria italiana. Più scettici Libero: L’Europa compra tempo (e noi lo paghiamo caro). Il Fatto: “Ue, troppe armi da guerra finite a criminali e terroristi”. E il Quotidiano Nazionale che pensa alle nostre tasche: Beffa benzina: costa sempre di più. La Stampa mette l’accento sull’emergenza alimentare: Flotta Onu per scortare il grano. Mentre La Verità è critica: Sanzioni: dietro lo spot, la fregatura. Il Domani torna sui contatti pericolosi del capo della Lega con i russi: Tutti gli incontri tra Salvini e Razov. «Ci ha detto lui di andare a Mosca».
IL PAPA GUIDA IL ROSARIO PER LA PACE
Da Santa Maria Maggiore, in collegamento con santuari di tutto il mondo, Papa Francesco ha guidato ieri sera il Rosario per chiedere la fine dei conflitti. Una delle decine è stata recitata da una famiglia ucraina. Mimmo Muolo per Avvenire.
«Con voce accorata il Papa invoca: «Cessi la guerra. Su tutta la terra regni duratura la tua pace». In Santa Maria Maggiore si leva il Rosario di Francesco e di centinaia di fedeli che gremiscono la basilica mariana più grande del mondo, edificata nel luogo in cui, secondo la tradizione, nevicò in agosto. Segno che nulla è impossibile a Dio. Ed è per questo che il Pontefice continua così la sua preghiera: «Siamo certi che con le armi della preghiera, del digiuno, dell'elemosina, e con il dono della tua grazia, si possano cambiare i cuori degli uomini e le sorti del mondo intero». Dunque anche la guerra - «che ormai da decenni imperversa in varie parti del mondo, e che ora ha invaso anche il continente europeo» - può tramutarsi in pace. Ma questa stessa pace, ricorda il Pontefice, «non può essere solo il risultato di negoziati né una conseguenza di soli accordi politici». Essa «è soprattutto dono pasquale dello Spirito Santo». È il momento giusto per sottolinearlo: nel giorno in cui si conclude il mese di maggio e nella settimana che porta alla solennità di Pentecoste. E infatti il Rosario si svolge in una dimensione storica e geografica insieme. A ricordare la prima, il Papa, diversi cardinali e vescovi (ci sono tra gli altri Re, Dziwisz, Vallini, Sandri, Ouellet e Stanislaw Rylko, arciprete della Basilica) e i fedeli sono orientati verso la statua di Maria Regina Pacis che si trova nella navata sinistra. Fu voluta da Benedetto XV, realizzata dallo scultore Guido Galli, per chiedere alla Vergine la fine della I Guerra Mondiale nel 1918. La Madonna ha il braccio sinistro alzato, per ordinare la fine della guerra, mentre con il destro tiene il Bambino Gesù, pronto a far cadere il ramoscello di ulivo, simbolo di pace. E invece, a rappresentare la dimensione mondiale di questa preghiera mariana (così come 'mondiale a pezzi' è la guerra oggi, secondo la definizione coniata e tante volte ripetuta da papa Bergoglio), ecco il collegamento con diversi santuari del mondo. A partire da quello di Zarvanytsia in Ucraina per proseguire con la Cattedrale di Nostra Signora della Salvezza in Iraq. E poi la Siria e il Bahrein, Paesi in cerca della pace, Czestochowa, Lourdes e per l'Italia Pompei. Così fin dall'inizio della recita del Rosario Francesco invoca: «O Maria, Madre di Dio e Regina della Pace, durante la pandemia ci riunivamo attorno a Te, per chiedere la tua intercessione. Ti abbiamo chiesto di sostenere i malati e di dare forza al personale medico; abbiamo implorato misericordia per i moribondi e di asciugare le lacrime di quanti soffrivano nel silenzio e nella solitudine». «Questa sera - prosegue il Papa -, al termine del mese a Te particolarmente consacrato, eccoci di nuovo dinanzi a Te, Regina della pace, per supplicarti: concedi il grande dono della pace». Il Pontefice ricorda ancora: «Abbiamo consacrato al tuo Cuore Immacolato le nazioni in guerra e domandato il grande dono della conversione dei cuori. Oggi eleviamo i nostri cuori a Te, Regina della Pace: intercedi per noi presso il Tuo Figlio, riconcilia i cuori pieni di violenza e di vendetta, raddrizza i pensieri accecati dal desiderio di un arricchimento facile, su tutta la terra regni duratura la tua pace». Inizia la recita dei misteri dolorosi. Con le cinque decine invocate da una famiglia ucraina, in rappresentanza di tutte le famiglie che sperimentano le violenze e i soprusi della guerra; da due cappellani militari, per tutte le persone che portano la speranza e il conforto alle popolazioni colpite; da una volontaria e un volontario, per coloro che continuano a svolgere il loro servizio in favore degli altri anche in situazioni di grande pericolo e precarietà; da una famiglia siriana e una venezuelana, per quanti soffrono ingiustamente a causa dei conflitti; e infine da alcuni profughi, per quanti hanno dovuto lasciare le proprie case. Il triste spettacolo dei profughi ucraini, del resto, è sotto gli occhi di tutti. E come ha ricordato il Papa proprio lunedì, la guerra in corso in quella nazione sta generando in Europa il flusso di sfollati più grande dopo la II Guerra Mondiale. A ogni mistero doloroso, seguito dalla sua decina, corrisponde poi un'intenzione particolare. Si prega per le vittime di guerra, per i sacerdoti chiamati a portare conforto, per il personale medico e i volontari, per i torturati e i moribondi e le persone violentate e scomparse, e infine perché, «per la morte redentrice di Gesù Cristo, che ha riconciliato il mondo con il Padre, cessino le guerre e regni una pace duratura in tutte le Nazioni». È la stessa preghiera che riecheggia sulle labbra del Papa al termine del Rosario: «Per la gloriosa intercessione di Maria santissima, Regina della Pace, salvaci dai mali che ora ci rattristano e guidaci alla gioia senza fine». Insieme con un biglietto deposto ai piedi della Vergine: «Madre, per favore, ti chiedo la santità del clero».
UE, SESTO PACCHETTO: ACCORDO DI PRINCIPIO
L’accordo raggiunto in sede europea sull’embargo del petrolio russo è di principio. Ci saranno deroghe per Repubblica Ceca e Bulgaria, mentre non è ancora stata indicata una data per la norma che riguarda l'oleodotto Druzhba. Francesca Basso per il Corriere.
«Il giorno dopo l'accordo di principio raggiunto dai leader Ue sul sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca per l'invasione dell'Ucraina cominciano a delinearsi i dettagli. «I testi giuridici sono già stati avviati e potrebbero essere posti all'attenzione del Coreper (la riunione degli ambasciatori degli Stati membri presso la Ue, ndr ) già domani (oggi, ndr), o comunque nelle prossime ore», ha spiegato il presidente del Consiglio europeo Charles Michel al termine della due giorni di summit straordinario che ha visto i leader Ue discutere di come sostenere l'Ucraina finanziariamente, militarmente e politicamente, di energia per raggiungere l'indipendenza dalle fonti fossili russe, di sicurezza alimentare per scongiurare nei prossimi mesi una carestia che rischia di colpire milioni di persone se i cereali bloccati nei silos in Ucraina non saranno fatti uscire dal Paese e di difesa comune per investire «meglio, insieme ed europeo» i nuovi fondi che i governi hanno deciso di spendere in sicurezza e difesa a livello nazionale. L'embargo Ue sulle importazioni di petrolio russo via mare partirà tra otto mesi e non a fine anno come inizialmente era stato detto. Saranno poi concesse alcune esenzioni alla Repubblica Ceca per 18 mesi (sui prodotti petroliferi) e fino al 2024 per la Bulgaria. Non è invece stata indicata una data per la deroga che riguarda l'oleodotto Druzhba che, passando attraverso l'Ucraina, poi si divide in due: il ramo nord porta il greggio russo a Polonia e Germania e quello sud a Ungheria e Slovacchia. «Il Consiglio europeo - si legge nelle conclusioni finali - tornerà sulla questione dell'eccezione per il greggio consegnato tramite oleodotto il prima possibile». Le difficoltà per raggiungere un accordo su questo pacchetto fa pensare che prima di affrontare la questione gas ci vorrà ancora tempo anche se è già iniziato il pressing dei Paesi Baltici e della Polonia (a cui la Russia ha già tagliato le forniture insieme a Bulgaria, Finlandia, Olanda e a breve a Danimarca). Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto di non voler «escludere nulla» per il futuro. Ma Michel ha mostrato cautela e ha sottolineato il peso economico del quinto e sesto pacchetto di sanzioni con lo stop a carbone e petrolio russi più le misure finanziarie. Cauta anche la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che ha ricordato che RePowerEu ha l'obiettivo di eliminare in modo strutturale la dipendenza dal gas russo. «Ora le sanzioni mordono forte l'economia russa», ha sottolineato. Adesso l'impegno è evitare che le sanzioni siano aggirate. Chiuso un vertice si guarda già a quello del 23 e 24 giugno che si preannuncia complicato. Sul tavolo ci sarà la domanda dell'Ucraina per ottenere lo status di Paese candidato per l'adesione all'Ue. Il dibattito, ha spiegato una fonte Ue, sarà difficile perché si intreccia con l'attesa che stanno vivendo da anni i Balcani occidentali. Il premier Mario Draghi ha spiegato in conferenza stampa che «lo status di candidato trova l'obiezione di quasi tutti i grandi Stati Ue, se non tutti. Escluso l'Italia». Sul tavolo ci sarà anche la proposta del presidente Macron di creare una Comunità politica europea, che potrebbe essere il punto di arrivo ad esempio per Moldavia e Georgia. Il terreno è molto scivoloso».
LA CONFERENZA STAMPA DI MARIO DRAGHI A BRUXELLES
Dal sito di Repubblica gli estratti della conferenza stampa del Presidente del Consiglio al termine della seconda giornata del vertice dei Capi di Stato e di governo dell'Unione Europea.
«"È stato un Consiglio europeo un po' lungo ma siamo abbastanza soddifatti dai risultati", dice il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nella conferenza stampa finale del vertice Ue a Bruxelles in cui sono state definite le politiche comuni su energia e difesa. "L'azione dell'Ue sull'energia si svilupperà su molti fronti. Sul funzionamento del mercato dell'energia e sui prezzi alti siamo stati accontentati. La Commissione ha ricevuto ufficialmente mandato per studiare la fattibilità del price cap", ha detto il premier Mario Draghi in conferenza stampa. E "l'accordo sulle sanzioni è stato un successo completo. Immaginarlo qualche giorno fa non sarebbe stato credibile. L'Italia non esce penalizzata dall'intesa, anche per noi l'obbligo di non importare petrolio russo scatterà alla fine dell'anno, e quindi saremo come tutti gli altri". Il premier ha ribadito che "Putin non può vincere questa guerra" e la "pace la può decidere solo Kiev". Al centro, la sicurezza alimentare messa a rischio dal conflitto russo-ucraino. "Non si può perdere questa battaglia altrimenti i Paesi che rischiano carestie e che già non stanno con l'Occidente si sentiranno traditi e non verranno mai dalla parte dell'alleanza", ha detto Draghi. E ancora. "Vincere la battaglia della sicurezza alimentare per l'Africa è importante anche dal punto di vista strategico. Molti paesi africani non sono dalla nostra parte, come si è visto nel voto all'Onu" sulla sanzioni alla Russia. "Quindi ciò che l'Alleanza vorrebbe fare è portarli dalla parte nostra. Ma se si perde la guerra alimentare questi paesi, al di là delle colpe, si sentiranno traditi e mai verranno dalla nostra parte". Precisando poi che "il momento di massimo impatto di tutte le sanzioni fin qui approvate" sulla Russia "sarà da questa estate in poi". Grano Sull'emergenza del grano bloccato nei porti ucraini e sulla crisi alimentare globale che potrebbe scaturire "l'importante è fare presto", ha insistito Draghi. "Tra poco sarà pronto il nuovo raccolto e se i silos non saranno svuotati non si saprà dove metterlo". Inoltre, "le Nazioni Unite hanno un ruolo di leadership" sul dossier sicurezza alimentare anche perché "hanno iniziato a lavorarci prima degli altri, si muovono soprattutto sulla strada di cercare di aprire i porti. L'Ue collabora con l'Onu su questo fronte e sta però cercando di muoversi su un fronte alternativo", esaminando possibilità di transito "ferroviarie attraverso la Romania, la Polonia", ha aggiunto Draghi, osservando come, in questo secondo caso, "le possibilità di trasporto" degli alimenti "sono più limitate". Il viaggio di Salvini a Mosca Inevitabile un commento sul tanto discusso viaggio di Matteo Salvini a Mosca, al momento annullato. "Il governo è fermamente collocato. Nell'unione europea e nel rapporto storico transatlantico. In questo binario si è sempre mosso. E continua a muoversi. Io sono stato chiarissimo su questo. Il governo è allineato coi partner del G7 e dell'Ue e continua a farlo. Questo è quanto, non si fa spostare da queste cose". E ancora, ha aggiunto il premier: "Quello che ho detto anche al Copasir" riguardo ad eventuali rapporti di esponenti di forze che sono al governo è che "l'importante è che siano rapporti trasparenti". Embargo petrolio russo "L'accordo sull'embargo del petrolio russo è stato un successo. Immaginare di essere uniti sul 90% dell'embargo, non sarebbe stato credibile qualche giorno fa. Si è tenuto conto della situazione dell'Ungheria che non ha accesso sul mare se si interrompe il petrolio russo occorre essere sicuri che possa approvigiornarsi da altre fonti, avranno quindi un'esenzione da questo obbligo per far sì che si attrezzino. Per noi l'embargo scatterà dalla fine dell'anno e siamo più o meno come gli altri", ha spiegato il premier. Si è tenuto conto, però, "della situazione specifica dell'Ungheria e della Repubblica Ceca che non hanno accesso sul mare. Quindi se si interrompe il flusso di petrolio russo occorre essere sicuri che possano avere un'offerta petrolio da altri fronti. È stata trovata una soluzione attraverso la Croazia: loro avranno esenzione" dall'embargo "per un certo periodo di tempo, in modo che si attrezzino per avere il petrolio dalla Croazia, dal Mare Adriatico e la questione è stata risolta", ha spiegato il premier in conferenza stampa. Sul pagamento "I russi hanno fatto condizioni di pagamento diverse, in alcuni casi hanno chiesto il pagamento in rubli pena la sospensione della fornitura. Nel nostro caso la fornitura si intende pagata quando viene fatto il pagamento in euro, poi convertiti in rubli sul mercato da un agente Gazprom, e non attraverso la banca centrale russa. Eni ha specificato che ogni mese andrà in un tribunale tributario in Svezia a chiedere se questa forma di pagamento violi il contratto esistente". Difesa Per la difesa, invece, "noi spendiamo più di tre volte di quanto spende la Russia" ed è "stupefacente che l'Europa importi armi dal resto del mondo per il 60%. Bisogna in qualche modo coordinarsi ma per questo tipo di operazioni ci vuole tempo" e andrebbe anche capito, ha continuato Draghi, se ci sia "la necessità di importare certe cose. L'impressione è che, come sempre in questo settore, l'indirizzo della scelta delle armi, di cosa comprare e dove comprare sia tutta nazionale ed è una prerogativa gelosamente custodita dai generali, quindi facciano uno sforzo per parlarsi di più e capiscano che sono tutti soldi nostri". Inflazione Draghi ha spiegato che "l'inflazione crea dei trasferimenti di ricchezza, penalizza i settori più bassi, più poveri. Il governo finora ha speso già circa 30 miliardi proprio per mitigare l'effetto dei prezzi dell'energia sulle famiglie più vulnerabili e c'è stato un intervento anche sulle imprese. Continueremo a fare tutto quello che è necessario per aiutare i deboli e cercare anche di aiutare la produttività delle imprese - ha assicurato il capo del governo davanti alla stampa a Bruxelles - Ci sono alcune differenze tra la situazione Ue e Usa. Il tasso di inflazione è alto ma in Italia, esclusa l'energia e il cibo, è basso e le aspettative di inflazione non sono particolarmente cresciute. Le previsioni non sono ancora entrate nei comportamenti degli agenti economici". Il governo, dunque, sarà vicino alle famiglie più povere e anche alle imprese. “Le risorse a disposizione sono i fondi rimasti del Next generation Europe, circa 200 miliardi tra prestiti e grants. Poi c'è la possibilità di usare i fondi per la coesione non utilizzati. Non ci sono nuovi stanziamenti, ci sono pero stanziamenti già decisi in passato e sono rilevanti”».
Nel retroscena di Tommaso Ciriaco per Repubblica la strategia del governo Draghi.
«Lunedì notte Mario Draghi rientra all'hotel Amigo. Sono quasi le due. È colpito, perché ha toccato con mano un aspetto inedito: la Germania, la potentissima Germania, ha dovuto chiedere all'Europa di allungare i tempi dell'embargo al petrolio. Un'eccezione, come poco prima aveva fatto l'Ungheria. Ammissione di debolezza, fotografia di una fase eccezionale, ma anche grimaldello che può aprire uno spazio politico per Roma: se ci si aiuta a vicenda, allora che valga anche sul "price cap", il tetto ai prezzi degli idrocarburi, ancora tutto da scrivere. Per adesso, però, è soprattutto il tempo dei sacrifici. Viene sancito un doloroso embargo sul petrolio, che promette di dare fiato - ancora all'inflazione. Non a caso, davanti alla stampa il premier ammette l'enormità dei problemi, senza abbandonare l'ottimismo cauto di chi spera in una via d'uscita: «Il governo ha già speso 30 miliardi per mitigare l'effetto dei prezzi dell'energia. Continueremo a fare tutto quello che è necessario per aiutare i deboli e la produttività delle imprese». È un nuovo "whatever it takes". L'ennesimo in questo anno di crisi. Ed è la promessa di un impegno del governo: ogni sforzo sarà compiuto per contenere l'aumento dei prezzi ed evitare la recessione. In questa chiave, l'esecutivo ha già riservatamente elaborato un potenziale piano d'azione per tamponare i costi del futuro bando del greggio russo. Ed è pronto, ma solo se sarà necessario, a destinare circa novecento milioni di euro al mese - a partire da agosto, probabilmente - per compensare l'eventuale nuovo taglio delle accise sulla benzina. Per tre, quattro, forse cinque mesi. Fino al termine del 2022 e all'avvio dell'embargo. Più che un piano è, appunto, un'ipotesi di lavoro conosciuta a Palazzo Chigi e al ministero della Transizione ecologica di Roberto Cingolani. Le variabili legate allo scenario internazionale sono talmente tante che nessuno può dire oggi se l'arma sarà utilizzata. Di certo c'è che l'attuale taglio delle accise scade l'otto luglio, che costa oltre un miliardo al mese e che l'estate è un mese caldo non soltanto dal punto di vista climatico, ma anche dei trasporti: difficile lasciare gli italiani senza un paracadute, se necessario. In realtà, con l'inizio del 2023 si dovrà mitigare anche l'eventuale effetto del bando al carbone. E tutto questo sempre dando per scontato ciò che scontato non è: la fornitura senza interruzioni del gas russo. L'esigenza, quindi, è evidente: tenere al riparo il Paese dalla spirale inflazionistica, potenziale anticamera di una dolorosa recessione. E farlo con atti mirati, incisivi, anche a costo di prevedere uno scostamento nei conti pubblici che al momento comunque non serve: «Non ho preclusioni ideologiche - si mantiene cauto Draghi - ma finora siamo sempre riusciti a farlo all'interno del bilancio». Il premier gioca su due tavoli, questo è evidente: Bruxelles e Roma. In Europa, al termine del Consiglio, tiene innanzitutto a spiegare che l'intervento sul greggio era necessario e sarà equo, se si escludono le eccezioni per Ungheria e Repubblica Ceca: «Il pacchetto è un pieno successo. L'Italia non esce penalizzata dall'intesa, per noi come per tutti gli altri l'obbligo scatterà alla fine dell'anno». L'ex banchiere ammette però che il tempo che si apre davanti sarà carico di incognite, perché la guerra ha stravolto ogni equilibrio. «Non illudiamoci, queste sanzioni dureranno molto, molto, molto a lungo. Le linee commerciali verranno cambiate probabilmente per moltissimi anni, se non per sempre». È uno scenario che richiede interventi strutturali in sede europea, in attesa dei quali è meglio raffreddare la spirale dei prezzi in Italia. Il problema è che il solo annuncio del bando del petrolio tra sette mesi ha innescato ieri un rialzo dei prezzi. Per questo esiste il piano del governo sulle accise. E comunque, aggiunge, in Italia l'aumento dei prezzi «è basso, esclusi energia e cibo». Resta il fatto che è ormai prioritario difendere il potere d'acquisto delle famiglie. E farlo compattando le parti sociali, in modo da evitare che l'inflazione inneschi una spirale sui salari: «Sindacati, imprese e governo devono lavorare insieme». Resta la battaglia da giocare a Bruxelles, con un occhio sempre fisso al calendario della guerra. Draghi prevede tempi lunghi per il conflitto, come si intuisce quando ipotizza sanzioni non brevi: «Il momento di massimo impatto di tutte le misure - svela - sarà da questa estate in poi». C'è insomma da resistere. E da convincere i riottosi europei a inventare nuove soluzioni collettive per la crisi. In questo senso, il mandato alla Commissione di studiare misure per disegnare un tetto ai prezzi è un passo: «Siamo stati accontentati», sostiene il premier, che probabilmente avrebbe voluto comunque tempi più rapidi. Quanto al RePowerEu, di certo si può fare di più: «Non ci sono nuovi stanziamenti». L'impegno è a dare battaglia al Consiglio europeo di fine giugno. Sullo sfondo resta sempre il dossier più delicato, quello del gas. Che il tetto possa essere applicato anche a questa fonte per contenerne il prezzo è ancora da decidere. Valuterà la Commissione. Nel frattempo, ammette Draghi, la fornitura russa continuerà, anche se finanzia la guerra: «È una situazione frustrante, di grande imbarazzo, ma non si può fare altrimenti...». In Europa, d'altra parte, c'è anche chi paga direttamente in rubli. Non l'Italia, assicura. La sfida energetica è appena cominciata.».
LE ULTIME ORE DI SEVERODONETSK
Dal campo bellico ecco il punto di Fabio Tonacci per Repubblica.
«Sono probabilmente le ultime ore di Severodonetsk prima della completa conquista da parte delle truppe russe. «La situazione è assai complicata», ammette Sergiy Gaidai, governatore della regione di Lugansk. «Il 75 per cento della città è perso, i russi non possono avanzare liberamente perché sono rimasti dei combattenti ucraini. Il nemico sta attaccando con mortai e artiglieria lungo la linea del fronte». A quanto risulta, a Severodonetsk ci sono ancora 10 mila civili e altri 5 mila sono nei villaggi appena fuori dalla periferia. Le evacuazioni sono state interrotte dopo la morte di due giorni fa del giornalista francese di Bfm-Tv. Come se le bombe non bastassero, il serbatoio di acido nitrico di un'industria chimica è stato distrutto dall'artiglieria russa e i suoi fumi tossici si stanno spargendo nell'aria. «L'acido nitrico è pericoloso se inalato, ingerito e se entra in contatto con la pelle», lanciano l'allerta le autorità ucraine. «Completata la pulizia totale della città», esulta il leader ceceno filoputiniano Kadyrov i cui uomini appaiono in un video girato davanti alla sala concerti del centro città. La conquista di Severodonetsk e della città gemella di Lysychansk, sulla sponda occidentale del fiume Severskij Donek, consentirebbe a Mosca di impadronirsi dell'intera regione di Lugansk, una delle due del Donbass che nel 2014 caddero parzialmente in mano ai separatisti. Secondo l'intelligence ucraina il piano di Putin è occupare tutto il Donbass entro il primo luglio. Sarebbe questo l'ordine dato dal capo del Cremlino ai suoi generali. «Non ci interessano i piani russi», è la risposta del presidente Zelensky. Il leader di Kiev non nasconde le difficoltà e, ancora una volta, torna a chiedere all'Occidente più lanciamissili e più cannoni da 155 mm».
BIDEN CI RIPENSA: MANDERÀ I MISSILI A KIEV
Dietrofront di Joe Biden che sarebbe disposto a mandare i missili chiesti da Zelensky. La Casa Bianca precisa però i limiti d’uso: non colpire il territorio russo e proteggere la sovranità di Kiev. Per La Stampa Francesco Semprini.
«Kiev tira un sospiro di sollievo dopo le precisazioni, giunte nella notte da Washington, sull'invio di armi più potenti da parte degli Stati Uniti. Fonti ucraine spiegano a La Stampa che nulla di definitivo è stato deciso sulla fornitura di missili a medio e lungo raggio. L'opzione potrebbe essere quella di «inviare i sistemi di lancio con limitazione nella gittata, e valutare volta per volta la fornitura delle munizioni a seconda del raggio di azione». Un chiarimento nel linguaggio dopo che lunedì il presidente Joe Biden, a margine delle celebrazioni del Memorial Day, aveva usato una formula più ampia dicendo «non invieremo in Ucraina sistemi missilistici che colpiranno la Russia». L'obiettivo dell'inquilino della Casa Bianca è di non cadere in provocazioni che possano scatenare escalation geopolitiche, oltre a far deragliare la trattativa sulla ripresa dell'export di grano ucraino volta a impedire una crisi alimentare di proporzioni molto più ampie. Nei giorni scorsi erano circolate voci che la Casa Bianca stava preparando un nuovo pacchetto di aiuti militari che avrebbe incluso anche sistemi di missili a medio/lungo raggio. Si tratta del Multiple Launch Rocket System (Mlrs) e dell'High Mobility Artillery Rocket System, noto anche come Himars, una versione più leggera del primo ma capace di sparare lo stesso tipo di munizioni. Entrambi i sistemi possono lanciare da veicoli mobili raffiche di razzi sino a 300 chilometri contro bersagli terrestri. Ben oltre quindi gli obici Howitzers forniti finora, che hanno una gittata massima di 25 chilometri, e dei missili anti-tank Javelin o di quelli antiaereo Stinger. Secondo le precisazioni giunte nelle scorse ore in realtà i sistemi Mlrs potrebbero essere inviati a Kiev con la cura però di limitarne la gittata così come la fornitura di munizioni oltre un certo raggio d'azione, ovvero 70 chilometri. «Siamo stati chiari dal primo giorno, abbiamo assicurato il sostegno all'Ucraina di difendersi dagli attacchi russi nei propri confini e abbiamo garantito di dare loro gli strumenti per farlo - spiega l'ambasciatrice americana all'Onu Linda Thomas-Greenfield - È altrettanto chiaro che non daremo agli ucraini gli strumenti per attaccare i russi in Russia. Joe Biden lo ha detto, non prenderemo parte a nessuna guerra ma sosterremo gli ucraini a salvaguardare la loro integrità territoriale». La determinazione di Washington a fermare Mosca pertanto rimane. «Con tali sistemi la guerra sarà più lunga anche in Donbass», affermano da Kiev. Specie dinnanzi al diktat di Vladimir Putin alle truppe di Mosca di prendere la regione «entro un mese». L'ordine del capo del Cremlino arriva perentorio per spingere l'avanzata delle sue truppe, sempre più determinate ad assumere il controllo delle intere regioni di Luhansk e Donetsk. Timori ci sono anche sul Sud: «Siamo particolarmente preoccupati dalle mosse della Russia per sottrarre sovranità all'Ucraina, soprattutto nella zona di Kherson». A dirlo è il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, in un briefing con la stampa, ribadendo che l'obiettivo iniziale del Cremlino «di conquistare territorio ucraino è un completo fallimento». Il tutto mentre il segretario di Stato, Antony Blinken, che ieri ha sentito il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ha confermato l'arrivo dell'ambasciatrice Usa a Kiev «per guidare il team della rappresentanza americana nella capitale ucraina». Ed in merito alla proposta italiana di pace consegnata da Di Maio al segretario generale Onu Antonio Guterres, a pronunciarsi è proprio Thomas-Greenfield nel corso della conferenza stampa di chiusura del mese di presidenza americana del Consiglio di sicurezza Onu.«Non l'ho visto, ma ne sono a conoscenza - chiosa -. Sosteniamo tutti gli sforzi fatti da chiunque per trovare una soluzione pacifica per il popolo ucraino che sia accettabile per loro. E l'iniziativa italiana è una di quelle che sicuramente vorremmo portasse ad una conclusione della guerra e dell'orribile attacco all'Ucraina». Mentre rispondendo a una domanda de La Stampa in merito alle sanzioni al petrolio russo, l'ambasciatrice ha spiegato: «Abbiamo già sanzioni forti sul petrolio russo, e i Paesi che considerano di comprare il petrolio di Mosca, in particolare, vista la decisione presa dagli europei, stanno violando le sanzioni. Se lo fanno saranno ritenuti responsabili». Ed in merito ai nuovi acquirenti asiatici con cui il Cremlino tenta di compensare le sanzioni europee, l'ambasciatrice Usa avanza un auspicio: «Speriamo che si uniscano a tutti noi nell'assicurare che la Russia non li usi per violare le sanzioni imposte per convincere Mosca a porre fine alla guerra in Ucraina».
KIEV, DESTITUITA LA COMMISSARIA DEI DIRITTI UMANI
Lyudmila Denisova è accusata di aver diffuso notizie false o di averle ingigantite. Così il Parlamento ucraino ieri l’ha sfiduciata. Michela G. Iaccarino per Il Fatto.
«"Con un messaggio apparso sullo schermo del telefono". Lyudmila Denisova, Commissaria dei diritti umani di Kiev, ha detto di aver saputo così di aver perso la carica che occupa dal marzo 2018. Ieri la Verkhovna Rada, il Parlamento ucraino, l'ha sfiduciata senza indugi: 234 deputati hanno votato per il suo allontanamento, solo in nove erano contrari. Lei ha annunciato ricorso in tribunale. La commissaria "ha danneggiato l'Ucraina". Troppe accuse presentate senza prove, troppi errori sulla diffusione di informazioni sensibili, troppi viaggi all'estero, soprattutto in Europa: da Vienna a Varsavia, da Davos a Roma, dove è stata il 18 maggio scorso. Dall'inizio della guerra, la Denisova "non ha esercitato i suoi poteri per organizzare corridoi umanitari, proteggere e scambiare prigionieri, contrastare la deportazione di civili e bambini dai territori occupati", ha detto il deputato Pavel Frolov: di questi difficilissimi compiti "si è invece occupata la vicepremier Irina Vereshchuk", che ieri presiedeva la riunione insieme al presidente del Parlamento, Ruslan Stefanchuk. La funzionaria potrebbe essere sostituita da Aleksandr Kachira, Nikolay Tishchenko, Maryana Bezuglaya, riferisce l'agenzia Unian, la stessa che fa da megafono alle accuse di Frolov. In questi mesi la Commissaria avrebbe anche riportato "informazioni falsate" su crimini sessuali e stupri commessi contro minori in Donbass, ma senza mostrare effettive evidenze per provarli: dati che "hanno distolto l'attenzione dei media mondiali dai reali bisogni del Paese". "Le autorità non sono soddisfatte della mia raccolta informazioni nei territori occupati" ha commentato la Commissaria che ha accusato sotto traccia il numero uno ucraino: le sue dimissioni le voleva soprattutto il bastione di 'Sluga naroda' (Servitore del popolo), il partito del presidente, e la decisione sarebbe stata presa tra gli scranni della Rada solo dopo un incontro con Zelensky. "Accetterò qualsiasi decisione dei deputati, ma mi ricorda un po' uno Stato totalitario", aveva detto in conferenza stampa prima della sfiducia, per poi contestare il suo licenziamento: "È contrario alla Costituzione, leggi ucraine e standard internazionali". Biondissima come Yulia Tymoshenko nel cui governo era ministra, tornata poi in carica nella squadra di Arsenij Yatsenyuk nel 2014, la Denisova è stata oggetto in passato di denunce dei veterani e accuse dall'attivista Mykola Kuleba, quando "ha favorito il rapimento di minori" parlando ai media di 57 orfani nascosti in una chiesa nella regione di Kherson. "La notizia è stata subito utilizzata dai servizi russi e i bambini sono stati trasferiti nella Federazione", ha ricordato ieri il deputato Denis Maslov. Con meno clamore della commissaria, una settimana fa, il leader ucraino ha deciso di rimpiazzare Alexander Pavlyuk, capo dell'amministrazione statale regionale di Kiev, nominando al suo posto Alexey Kuleba. Finora le purghe tra le alte cariche si erano concentrate nei corpi dell'Sbu, servizi segreti gialloblu. Ad aprile scorso, sono stati epurati due generali "traditori": Andriy Olehovych Naumov, a capo del dipartimento centrale, e Serhiy Oleksandrovych Kryvoruchko, al vertice della sede regionale di Kherson. Solo tre giorni fa, durante la sua prima visita oltre i confini di Kiev, a Kharkiv, Zelensky, senza troppe spiegazioni, ha rimosso Roman Dudin, capo dell'intelligence regionale: "Ha pensato ai suoi interessi e non a quelli degli ucraini"».
SALVINI, LE RELAZIONI PERICOLOSE CON IL RUSSO RAZOV
Il leader della Lega avrebbe incontrato l’ambasciatore russo almeno quattro volte. All’apparente insaputa del Governo e dell’intelligence italiani. Per Repubblica Emanuele Lauria.
«Almeno quattro dialoghi con l'ambasciatore russo. «Sì. questa è stata la sequenza, più o meno, l'abbiamo costruita poco a poco», conferma l'avvocato Antonio Capuano. Ora torna la memoria fin nei dettagli: che non possono non risultare indigesti, per il premier Draghi e per l'intelligence italiana. Per quattro volte Matteo Salvini, con il suo consulente di Frattaminore diventato uomo d'affari con sponde in Russia e dedito al fantomatico "Piano di pace" versante Putin, si incontrano con il numero uno Sergej Razov. Dalla cena del primo marzo, a Villa Abamelek, fino al 19 maggio, cruciale snodo. La progressiva "operazione" procede per tappe non casuali, occhio alle date che recano un peso. Il primo rendez-vouz cade nel giorno in cui il presidente del Consiglio dice alle Camere: «Non ci volteremo dall'altra parte», l'invasione della Russia è avvenuta da cento ore. Un altro, il più importante, nell'ottantacinquesimo giorno del conflitto, avviene dopo che il capo del governo ha scandito in Senato: «Dobbiamo portare subito Mosca al tavolo dei negoziati». E sebbene Draghi ribadisca che la linea degli aiuti militari non cambia, che l'esecutivo «continuerà a muoversi nel solco di questa risoluzione», l'immagine del premier aperto al dialogo per un auspicabile cessate il fuoco viene subito e riservatamente "esposta" come segnale positivo. Un terreno su cui costruire il Piano. Tutto avviene all'oscuro delle nostre diplomazie e del vertice di Palazzo Chigi. Che ieri, non a caso, risponde sull'argomento Salvini con poche gelide battute. Draghi, da Bruxelles, si limita a rimettere in ordine i fondamentali, chiama alla «trasparenza». «Il governo è fermamente collocato nell'Unione europea e nel rapporto storico transatlantico. Sono stato chiarissimo su questo». Insomma: non ci facciamo «spostare da queste cose. «Non voglio entrare nei rapporti che i membri della maggioranza possono avere - sottolinea il premier - ma nella mia audizione al Copasir ho solo raccomandato che è importante siano trasparenti. Questo è quanto». Mentre il Copasir annuncia di aver avviato «le usuali procedure informative previste» sul misterioso attivismo dell'ex deputato di Fi «nei confronti di alcune rappresentanze diplomatiche presenti nel nostro Paese su temi inerenti la sicurezza nazionale». Capuano, dal suo canto, dice d'essere «pronto ad essere ascoltato, anche subito. Non ho nulla da nascondere». Agli uffici di intelligence italiana non sfugge, però, che l'ambizioso avvocato con rapporti internazionali possa godere anche di qualche buona sponda sul versante turco. Ed è probabilmente anche grazie a questo link che il progetto può essere coltivato. E quindi, cosa accade quel 19 maggio? «Salvini aveva lavorato bene per il ritiro della candidatura di Mosca dall'Expo. C'era un dialogo rispettoso tra governo e leader. Quel giorno il discorso di Draghi è stato importante come immagine internazionale - ricostruisce l'avvocato Capuano con Repubblica - È chiaro che non ci fu nessun accordo, però ci recammo all'incontro qualche ora dopo il discorso del premier al Senato. È da quel momento che comincia concretamente a decollare l'idea di un Piano nei quattro punti, così come lo avevamo immaginato ». Il fatto che il presidente del Consiglio non ne fosse minimamente informato? «Ma lo avremmo fatto. Chiaro che, se lui non fosse stato d'accordo, non saremmo mai andati a Mosca. Ed chiaro che il Piano lo avremmo scritto a sei mani». Come: sei mani? «Noi tre». Lui, Draghi e Salvini. Un plot a metà tra fantascienza e farsa. Eppure, l'ex deputato-carneade del 2001, ha coltivato con il leader della Lega il "progetto" della missione di Pace con Mosca, che doveva tramutarsi in viaggio domenica scorsa. «Poi, qualcuno fa uscire la notizia». Sono bruciati. Alcuni sospettano che proprio dalle fila della Lega sia partito il siluro per colpirli alle spalle. L'ex perito di cui l'allora onorevole Nicola Cosentino (poi condannato per collusioni con i casalesi) diceva: «È uno che ha imbrogliato mezzo mondo», non ci sta a ingoiare «offese». «È vero, Cosentino ha sbagliato con me - ricorda Capuano - Ebbe ad usare nei miei confronti un termine che lo qualifica. Una terminologia evidentemente a lui comune, e da lui praticata, ma sconosciuta al sottoscritto per cultura. L'apostrafazione di Cosentino è una medaglia di cui vado fiero. Dimostra quanto io sia lontano, per cultura politica, da quel sistema». Ma è roba vecchia, per un businessman internazionale, esperto di Piani di pace».
LA NUOVA CORTINA DI FERRO TRA OCCIDENTE ED EURASIA
L’invasione russa dell’Ucraina ha costruito una nuova “cortina di ferro” nel nostro mondo: diviso fra Occidente ed Eurasia. La globalizzazione è finita. Domenico Quirico sulla Stampa.
«Bisognerà che qualcuno osi, che risillabi il folgorante riassunto che Churchill scandì a Fulton nel 1948: una cortina di ferro si è allungata sull'Europa... Perchè questo è quanto si sta ogni giorno apparecchiando nelle pianure insanguinate di Ucraina. L'improvviso risveglio di una memoria formicolante di ombre. La guerra in queste ore è ancora movimento, fragore e notizie, i russi stringono la morsa su quanto resta ucraino del Donbass, si resiste "strada per strada'' che è sempre la vigilia della resa, su altre tragiche Mariupol diluviano schegge. Ma tra poco i soldati di Putin domineranno tutto il loro sciagurato panorama di rovine. Poi i due eserciti esausti si attesteranno per respirare, per riorganizzarsi, colmare gli arsenali vuoti, schierare le nuove armi. Sul terreno arato dalla guerra si allungheranno, visibili dall'alto come una lunga cicatrice le trincee, le postazioni fisse, l'artiglieria ben mimetizzata, le strade per i rifornimenti. Quelli che erano villaggi e cittadine animate e ora sono rottami diventeranno tane per i cecchini e le incursioni delle pattuglie nella terra di nessuno. I civili spariranno come una specie estinta, la natura inghiottirà i campi e le fattorie isolate di questa terra torturata e tormentata. Lungo la nuova cortina di ferro che taglierà in due l'ucraina fino al Mar nero scenderà il silenzio lugubre delle terre senza pace. Ogni tanto sarà interrotto dal fracasso delle artiglierie, la frontiera fredda per qualche ora o giorno tornerà rovente. Un falso allarme, una provocazione per saggiare la reazione del nemico. Poi la tregua di fatto, senza accordi scritti tornerà inquieta, provvisoria, gonfia di rancore. Per anni. Questa guerra sospesa ha contorni familiari, precisi. Esiste. Basta ricordare quanto accadde tra arabi e israeliani dopo la fulminante vittoria ebraica del 1967, dal canale di Suez alle alture del Golan siriano, Quneitra città morta, il Sinai irto di cannoni. Una guerra non guerra che durò in un alternarsi di immobilità e guizzi fino al conflitto successivo nel 1973. Il Donbass sarà il punto più delicato della nuova frontiera tra i blocchi che scenderà dal mar Baltico lungo la Bielorussia e l'est dell'Ucraina annesso o consegnata a qualche Lukashenko locale fino al Mar Nero. Nel resto del mondo in Asia e in Africa le linee d'urto saranno più mobili e incerte, a seconda del risultato delle guerre per procura tra i due blocchi e al fluido intersecarsi di regimi e alleanze. A fissare come permanente lo scontro tra Occidente e Eurasia concorrono mille segni: né Ucraina nè Russia sono disponibili a rinunce territoriali o ideologiche. L'effetto sanzioni e la speranza di una rivolta antiautoritaria a Mosca, settimana dopo settimana, restano ipotesi. Gli ucraini dopo gli immensi sacrifici sopportati, i morti e le distruzioni non accetteranno mai una trattativa con colui che li ha aggrediti, o una pace senza riparazioni. E nessun leader occidentale neppure Biden e Johnson da cui dipendono per la resistenza militare, può costringerli a rinunce sopravvivendo politicamente. Ammetterebbe il tradimento e la sconfitta davanti a Putin. In realtà i due blocchi, rassegnati e consapevoli, si stanno già organizzando per il nuovo scenario. Le sanzioni che per il diritto internazionale dovrebbero essere uno strumento temporaneo, in realtà sono disegnate per un futuro economico in cui la Russia non esisterà più come interlocutore per la fornitura di materie prime o come mercato per investimenti. E a Mosca e a Pechino dove lo hanno compreso benissimo a loro volta replicano organizzando un mercato alternativo, autarchico come era l'economia dei Paesi socialisti negli anni Cinquanta e Sessanta. Forse il vero nome della nuova Cortina di ferro è deglobalizzazione».
ERDOGAN DECIDE CHI SIAMO E CHI SAREMO
Alberto Negri sul Manifesto analizza la posizione dominante del presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan: la sua partita influenzerà il nostro futuro.
«Ognuno ha il suo Donbass. Per Erdogan e la Turchia - pilastro della Nato dal 1952 - si chiamano Rojava siriano e Kurdistan iracheno, dove il Sultano ha stabilmente insediato le truppe e occupato il territorio di altri Stati senza che nessuno osi alzare neppure il sopracciglio. È lui a decidere, con la nostra complicità, chi siamo noi, che cosa è davvero la Nato e soprattutto anche il destino dei curdi, siriani e iracheni, da scambiare sul tavolo del negoziato per l'ingresso di Svezia e Finlandia nell'Alleanza atlantica. Paesi che la Turchia accusa di essere complici di "terroristi". Gli Usa, a quanto pare, hanno deciso intanto quale Donbass preferire. Agli ucraini non verranno dati missili per colpire la Russia, mentre Erdogan è in trattative con Washington per una nuova partita di caccia F-16 e forse gli sbloccheranno gli F-35, se rinuncia ad altre forniture di batterie antimissile S-400 di Mosca. E così Erdogan, contando sull'acquiescenza di Washington, ci dà dentro con la "sua" guerra. Dopo aver tentato di rovesciarlo nel luglio 2016, puntando sulla rete di Fethullah Gulen gli Stati Uniti, ora ci trattano. Da metà aprile l'esercito turco sta conducendo un massiccia operazione nel nord dell'Iraq per colpire le postazioni il Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan) ma anche contro gli ezidi e le milizie curde siriane Ypg, bombardando Kobane (con gli elicotteri italiani dell'Agusta-Westland- Leonardo), simbolo dell'eroica resistenza al Califfato, da noi celebrata nel 2014 come l'ultima frontiera d'Europa contro la barbarie. Chi è stato allora a Kobane, che Erdogan adesso vuole includere nella sua «fascia di sicurezza», prova oggi un forte sentimento di vergogna. Sul massacratore Erdogan puntiamo anche le speranze di pace, visto che il presidente turco - ormai proiettato nella campagna per la rielezione nel 2023 - ha rilanciato la sua proposta di mediazione, offrendo Istanbul come sede per un incontro tra Russia, Ucraina e Nazioni Unite, e la Turchia come garante in un eventuale meccanismo di osservazione della tregua. Il nostro alleato Erdogan non ha certo migliori credenziali democratiche di Putin: anzi i due pur essendo avversari geopolitici, dalla Siria, alla Libia all'Azerbaijan, hanno molti tratti in comune. Nonostante l'incompatibilità geopolitica tra Ankara e Mosca (che comunque fa assai comodo a Nato e Usa), Putin ed Erdogan intrattengono rapporti pragmatici, sia in Siria che in Libia. Nel 2016 per il fallito golpe Erdogan chiude la base Usa di Incirlik per una settimana e riceve il pieno appoggio di Mosca. Con il progressivo (ma relativo) ritiro degli Usa dal Medio Oriente, Erdogan sperimenta con Russia e Cina il multipolarismo. «Siamo in un mondo post occidentale», proclama da tempo la diplomazia turca. E infatti - come del resto Israele con cui la Turchia ha ripreso i rapporti - Ankara non impone nessuna sanzione a Mosca per l'invasione dell'Ucraina. La Turchia è al 149° posto su 180 Paesi per libertà dei media, secondo il report redatto a maggio da Reporter senza frontiere. Sul punto si registra un'iniziativa parlamentare in stile russo per punire con la reclusione fino a tre anni per aver divulgato notizie false, ma senza specificare chi dovrà accertare la veridicità di un articolo, di un post sui social o di un servizio giornalistico. Lo scorso dicembre Erdogan aveva indicato i social media «come una delle principali minacce alla democrazia». La nuova legge che prende il nome di "censura digitale" prevede pene detentive da uno a tre anni per chiunque diffonda pubblicamente informazioni false sulla sicurezza nazionale e l'ordine pubblico.
Dopo la condanna all'ergastolo senza appello per l'imprenditore e filantropo Osman Kavala, è stata condannata a 5 anni di carcere per avere insultato il presidente Canan Kaftancioglu, la leader dei progressisti, in grado di rappresentare l'alternativa rosa al potere. Coordinava a Istanbul il Partito popolare repubblicano (CHP) e nel 2019 è stata regista della vittoria del sindaco Imamoglu, primo volto non erdoganiano negli ultimi 25 anni. Naturalmente nessuna reazione dal fronte occidentale. E ora veniamo a noi, alla missione di Draghi in Turchia a luglio. Il nostro Donbass qui si chiamano Libia e gas del Mediterraneo. Come è noto la Turchia in Tripolitania ci tiene al guinzaglio nel Paese che fino al 2011 era tra i nostri maggiori fornitori di gas e petrolio. Accade dalla fine del 2019: fu Erdogan a contrastare militarmente l'offensiva del generale Haftar contro il governo Sarraj, riconosciuto dall'Onu e insediato con l'appoggio dei governi di Roma. La Turchia sale sulle motovedette italiane e "controlla" il traffico dei migranti, appaltato a personaggi assai controversi. E mentre la Libia è ancora divisa tra Tripolitania e Cirenaica, Erdogan fa valere l'accordo firmato con la Libia sulla Zona economica esclusiva (Zee). In base a questa intesa la Turchia fuori dagli accordi internazionali - impedisce con le sue navi militari le attività di prospezione offshore nelle isole greche e a Cipro dell'Eni e di altre compagnie. Quello che non vuole Erdogan è il nuovo gasdotto Eastmed (rifornito con gas ellenico, israeliano ed egiziano) e che lo taglierebbe fuori. Draghi andrà quindi al bazar con il Sultano: immaginate voi chi ne farà la spese».
AI MARGINI DELLA GUERRA 1: IL LIBANO È AFFAMATO
L’onda lunga della guerra è arrivata anche a Beirut, dove l'esplosione di due anni fa ha distrutto i silos del grano. Erano le uniche scorte e ora non si possono rimpiazzare. Reportage dal Libano di Francesca Mannocchi per La Stampa.
«Quando hai fame e nessuno è al tuo fianco o ti rassegni o provi a scappare via». Susanna Jamgothian vive al quinto piano di una casa di Mar Mikhael, Beirut, che odora ancora di vernice fresca. Per riparare i danni dell'esplosione del porto dell'agosto 2020 ha impiegato quasi due anni e metà dei suoi risparmi.
L'altra metà l'ha usata negli ultimi mesi per curare suo marito, morto di un cancro al fegato a marzo dopo aver subito tre operazioni. L'ultima, il tentativo disperato di un'operazione che gli allungasse la vita, è costato venti milioni di lire libanesi per l'ospedale governativo e mille dollari direttamente al chirurgo. Prima hanno pagato, poi hanno potuto ricoverare suo marito. In Libano, dice, se ti ammali o paghi o muori. «In meno di tre anni abbiamo vissuto quattro crisi, quella economica dopo le proteste del 2019, l'esplosione, la pandemia e infine la guerra in Ucraina che ha fatto aumentare di nuovo tutto. Sappiamo dove e quando sono iniziati i nostri problemi ma non sappiamo se e quando finiranno». Susanna ha verniciato le pareti e ha di nuovo le finestre, ma non ha ancora potuto ricomprare il frigorifero. Il poco cibo che ha è in una dispensa, la passata di pomodoro, qualche scatola di tonno, tutto costa venti volte più di pochi mesi fa, e poi il pane, un semplice manaush, che prima costava mille lire libanesi e oggi ne costa venticinquemila. L'onda lunga della guerra lontana è arrivata anche qui, in un Paese travolto da una crisi finanziaria senza precedenti che ha ridotto del 95% il valore della lira libanese sul dollaro, dalle conseguenze dell'esplosione che ha provocato 4 miliardi di danni, dalla gestione di due milioni di rifugiati siriani. Oggi ad aggiungersi c'è la crisi alimentare, per questo Susanna ha detto ai suoi figli di 30 e 35 anni di andare via, provare a scappare prima di trovarsi in fila a fare la coda per il pane. «Non è il futuro che immaginavo per loro, non voglio vederli elemosinare aiuti per mangiare». Prima della crisi, quando i prezzi della farina aumentavano troppo, i governi attingevano alle riserve di grano immagazzinate in enormi silos per evitare di dover acquistare a prezzi gonfiati, ma quando migliaia di tonnellate di nitrato di ammonio sono esplose nel porto di Beirut uccidendo più di 250 persone e danneggiando 6.000 edifici, l'esplosione ha anche distrutto i silos che contenevano le uniche scorte di grano del paese. Fino a febbraio, inizio della guerra in Ucraina, oltre il 95% delle esportazioni totali di cereali, grano e mais dell'Ucraina veniva spedito attraverso il Mar Nero e la metà di queste esportazioni andava ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Quel condotto vitale, dopo che porti ucraini sono stati attaccati dall'esercito russo, è chiuso, soffocando il commercio marittimo dell'Ucraina da cui il Libano dipendeva, importando il 66% del grano di cui ha bisogno dall'Ucraina e il 12% dalla Russia. «Siamo al centro di una tempesta perfetta. Era intorno a noi da anni, dall'inizio della guerra siriana, la caduta è stata lenta ma inarrestabile e ora facciamo i conti con una crisi alimentare che non sappiamo arginare». Walid Atallah è a capo di Wooden Bakery, una delle principali aziende libanesi di produzione di pane, cammina nei reparti mostrando la lavorazione dei quaranta tipi di pane che ogni giorno e ogni notte escono per essere distribuiti nel paese. Un volume di produzione ridotto già del 40% perché in poco più di tre mesi sono cambiate le abitudini alimentari delle persone. «Quando è iniziata la crisi finanziaria, nel 2019 - dice Walid Atallah - il Libano aveva scorte di grano per sei mesi, ogni volta che diminuivano, ne venivano acquistate altre a compensazione dai nostri principali fornitori, la Russia e l'Ucraina». Dopo il 2019 la Banca Centrale e le banche commerciali libanesi hanno perso liquidità e di pari passo anche la capacità finanziaria di rifornire le scorte di sicurezza. Lo stoccaggio che prima durava sei mesi si è ridotto a quattro. Le tonnellate nei silos prima erano cento poi sono diventate sessanta. L'esplosione al porto di Beirut ha fatto il resto, distruggendo i silos che, da soli, rappresentavano otto, dieci mesi di scorte di grano per tamponare le emergenze. I silos distrutti sono ancora lì, a memoria della tragedia, le risorse invece sono andate in fumo. Il paese dopo l'esplosione ha cominciato a vivere alla giornata, sopravvivendo una volta ancora ai suoi drammi e alle responsabilità di una classe dirigente corrotta che per la tragedia del porto non ha ancora pagato, e mentre arrancavano, cercando di uscire da una catena di crisi, i libanesi tre mesi fa sono stati raggiunti anche dalle conseguenze globali della guerra russa in Ucraina. Bujar Hoxha, direttore regionale dell'organizzazione non governativa Care International, spiega che la guerra non rappresenta solo un problema relativo all'acquisto di grano ma che sia diventato più difficile per il Libano anche reperire altri beni essenziali perché paesi terzi come Algeria e Turchia, trattengono le forniture per il consumo interno anziché esportare come prima: «Avevamo due spedizioni di olio vegetale e zucchero dalla Turchia, ma è stato interrotto e questo rende la situazione piuttosto ancor più difficile e se possibile più drammatica». Qualche settimana fa la Banca mondiale ha approvato un prestito agevolato di 150 milioni di dollari per la sicurezza alimentare nel Paese, prestito a un tasso agevolato che dovrebbe fornire sollievo alla stabilità dei prezzi del pane in un paese che come molti in Medio Oriente ha un'economia sussidiata e sovvenziona il prezzo dei beni di prima necessità. La preoccupazione è che il governo possa revocare i sussidi al grano poiché le riserve in valuta estera della Banca Centrale sono scesi a livelli critici. Ogni revoca dei sussidi aumenterebbe i prezzi dei beni al consumo, colpendo i poveri tra i poveri, in un Paese in cui più di tre quarti dei sei milioni di abitanti vive al di sotto della soglia di povertà. «Oggi - dice Walid Atallah - il tempo di sicurezza che prima era di sei mesi si è ridotto a trenta giorni. Se il governo non troverà una soluzione a breve termine, andiamo incontro a una stagione di disordini sociali diversi da quelli del 2019. Allora la rivoluzione aveva una chiave politica, i manifestanti volevano sostituire la classe politica, domani, se non ci sarà farina, se non arriverà il grano, la gente scenderà in piazza per fame».
AI MARGINI DELLA GUERRA 2: RIPARTE IL RICATTO DELLA BIELORUSSIA
Nuovo allarme dalla foresta di Bialowieza, lungo il confine tra Bielorussia e Polonia. Riparte il flusso dei migranti verso la Polonia, manovrato dal dittatore bielorusso Aljaksandr Lukashensko. Paolo Lambruschi per Avvenire.
«Ancora immagini dure dalla foresta di Bialowieza, lungo il confine tra Bielorussia e Polonia. E segnali inequivocabili di ripresa del flusso di migranti verso la Polonia manovrato da Lukashenko e Putin per indebolire la frontiera orientale dell'Unione europea. Un video mostra le guardie di frontiera bielorusse picchiare selvaggiamente di notte, tra gli alberi e il reticolato di filo spinato che delimita la terra di nessuno, un gruppo di profughi cubani provenienti da Mosca e diretti nell'Ue per chiedere asilo. Tra di loro una giovane che chiede invano pietà in spagnolo perché è incinta. A bastonate i bielorussi volevano costringere i cubani ad attraversare il confine. Le immagini sono state riprese dalle guardie polacche e sono state girate ad attivisti e giornalisti che le hanno postate sui social. Il pestaggio sarebbe avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 maggio e il gruppo di cubani, una volta oltrepassata la frontiera, è stato trattenuto dalle guardie di Narewka, in Polonia, nell'area della chiesa ortodossa di Dubicze. Nei giorni successivi sarebbero stati respinti, anche se la poco plausibile versione polacca è che si sarebbero rifiutati di chiedere asilo e sarebbero tornati spontaneamente nella terra di nessuno. «Queste persone - riferisce l'attivista Silvia Cavazzini che segue le vicende nell'area con Gandhi Charity - avevano già chiesto aiuto nei giorni precedenti dopo un respingimento da parte delle guardie di confine polacche, quando erano rimasti bloccati nella zona di nessuno da 5 giorni senza cibo e acqua». Sul quotidiano polacco Gazeta Wyborcza è Anna Michalska, portavoce della Guardia di frontiera di Varsavia, a menzionare il video. Un attivista polacco, uno di quelli che lo scorso autunno usarono le lanterne verdi per indicare alle migliaia di profughi persi nel gelo dei boschi la salvezza e che chiede l'anonimato, sostiene che le guardie polacche abbiano respinto i cubani una volta accertato che le ferite non erano gravi. Ma cosa sta succedendo? Le informazioni in possesso di attivisti polacchi e bielorussi disegnano un quadro drammatico. Starebbe per scoppiare nuovamente una crisi migratoria nella foresta all'estremo Nord Est dell'Europa confezionata, come nell'agosto 2021, dai governi bielorusso e russo concedendo visti per Minsk a disperati yemeniti, curdi, siriani, libanesi e afgani. Sarebbero già attivi sui social gruppi facebook di 'agenzie viaggi' che vendono il pacchetto completo di visto russo o bielorusso a 2.900 dollari con viaggio e pernottamento in hotel a Minsk. I trafficanti garantiscono al 100% che porteranno i migranti dal Kurdistan iracheno alla Germania in un mese. Il nome di uno di questi gruppi è 'Exodus in Europe'. La parola curda leshaw, esodo, venne usata nel 2015, quando migliaia di curdi percorsero la rotta balcanica dalla Grecia alla Germania. Secondo un profugo curdo, che è riuscito a raggiungere la Germania dopo essere stato nei mesi invernali nel terribile campo di Bruzgi (la base bielorussa convertita in centro profughi che da novembre a marzo ha ospitato migliaia di rifugiati vulnerabili), la prossima ondata sarà più grande di quella tra settembre e novembre 2021. Un trafficante con cui è in contatto gli ha assicurato che porterà 300 persone ogni 10 giorni a Minsk a giugno dal Kurdistan iracheno. In questo momento non è facile l'accesso diretto in Bielorussia dalla Turchia, perciò molti di più passeranno dalla Russia. Qui i trafficanti apriranno una nuova rotta attraverso il confine con la Finlandia, cui Mosca vorrebbe far pagare anche così la richiesta di adesione alla Nato. Uno sguardo più ampio lo offre un'ex guardia bielorussa. Conferma l'imminenza di una ondata di 6mila profughi verso l'Ue. E che i suoi ex colleghi si comporteranno come in passato: quando nella zona cuscinetto lungo il confine vedranno troppe persone, ne lasceranno tornare alcune a Minsk e ne faranno entrare altre con le cattive condannandole a diversi giorni di fame, sete e freddo, a respingimenti e continui trasferimenti da una parte all'altra del confine. Tutto fa pensare che la violenza filmata della foresta in una notte di maggio sia una drammatica anteprima delle notti estive al confine dimenticato d'Europa, dove la solidarietà mostrata poco più a sud verso i profughi ucraini non è mai arrivata».
VISCO LANCIA L’ALLARME INFLAZIONE
Pessimista e allarmata la relazione annuale del Governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco. Teme la rincorsa prezzi-salari e l’accumularsi di nuovo debito. Il sostegno al potere d'acquisto delle famiglie riduce le tensioni sulle retribuzioni ma l'extradeficit «va evitato». Gianni Trovati per Il Sole 24 Ore.
«Le lenti della politica monetaria devono guardare in avanti. Quelle utilizzate ieri dal Governatore di Bankitalia Ignazio Visco nelle considerazioni finali vedono nello scenario futuro il rischio del «disancoraggio» delle aspettative di inflazione, in un meccanismo nel quale l'impennata dei prezzi produce spinte sulle retribuzioni che a loro volta alimentano l'aspettativa di nuova inflazione. È la classica «spirale prezzi-salari», ricordo dei dibattiti economici di più di trent' anni fa che ritorna di attualità stretta nelle ore in cui l'Istat certifica un'inflazione ad aprile al 6,9% su base annua, dato record dal 1986. Il «rischio di un aumento delle aspettative d'inflazione oltre l'obiettivo di medio termine e dell'avvio di una rincorsa tra prezzi e salari» evocato da Visco non è solo italiano. Il Governatore sottolinea anzi che mentre negli Usa la corsa è in atto, nell'area euro «la dinamica delle retribuzioni è sinora rimasta moderata, anche se in alcuni paesi sono state avanzate richieste di recuperi retributivi di elevata entità. Se queste si risolvessero in aumenti una tantum, il rischio di un avvio di un circolo vizioso tra inflazione e crescita salariale sarebbe ridotto». Ma l'Italia non è un'isola. E fra le caratteristiche che la distinguono dalla maggioranza delle economie avanzate ha l'eterna stagnazione della produttività, che da noi è cresciuta dal 1995 di poco più del 10% dal 1995 contro il +40% sfiorato dall'Eurozona. Su queste premesse, Visco propone una ricetta diversa da quella rilanciata dal ministro del Lavoro Andrea Orlando che in un'intervista alla Stampa indica nell'«adeguamento dei salari all'inflazione» la «condizione per evitare la recessione». Visco parte da un'altra prospettiva. Il contrasto a «vane rincorse fra prezzi e salari» aiuta anche la politica monetaria ad attuare una normalizzazione morbida, cruciale per un Paese ad alto debito come l'Italia. Che deve invece spingere sulla produttività grazie anche al rilancio degli investimenti del Pnrr. Anche per contrastare gli scenari di rischio che, ribadisce Visco, vedrebbero una riduzione di Pil nella media del biennio in caso di stop al gas russo. Le condizioni di partenza sono in realtà meno pesanti di quelle misurate dagli indici generali. Perché in Italia «le eccellenze imprenditoriali non mancano - sottolinea Visco -; la produttività delle imprese italiane di dimensioni medio-grandi» è comparabile a quella franco-tedesca. Il problema è che da noi queste aziende, con più di 250 addetti, occupano meno di un quarto dei lavoratori, la metà rispetto a Francia e Germania. Per rimediare il Pnrr può fare molto, non solo con l'aumento degli investimenti ma anche con «la netta discontinuità nella definizione delle politiche economiche». Ma molto possono fare anche le misure di aiuto che contenendo i rincari dell'energia e sostenendo «il potere d'acquisto delle famiglie più colpite» riducono la pressione sui salari. Altre misure si potranno mettere in campo ma «va evitato il ricorso al debito per finanziare nuovi programmi pubblici, tranne per quanto necessario a fare fronte a situazioni di reale emergenza», mette a verbale il governatore. Nelle prospettive descritte dalle considerazioni finali l'Italia del maxi-debito dovrà continuare a muoversi in un'Europa priva di «un bilancio comune di dimensioni adeguate». Anche senza imboccare la via impervia della revisione dei trattati, però, la lezione del Next Generation Eu può offrire soluzioni: a partire da una sorta di Recovery permanente, uno «strumento pronto per essere utilizzato in caso di necessità» che potrebbe «finanziare progetti comuni di carattere eccezionale o concorrere alla stabilizzazione macroeconomica dell'area in risposta a shock di particolare entità» senza dover negoziare di volta in volta «programmi ad hoc». Questa stabilizzazione della possibilità di emettere debito comune andrebbe accompagnata dalla riforma del Patto di stabilità, con l'archiviazione delle «grandezze non osservabili quali il disavanzo strutturale o il prodotto potenziale» e la definizione di programmi a medio termine adeguati alle condizioni singole di ogni Paese. Il tutto senza dimenticare l'idea di una gestione comune dei debiti extra prodotti dalla pandemia, che è al centro anche della proposta italo-francese di revisione delle regole fiscali che andrà sviluppata nei tempi supplementari offerti dalla proroga della clausola di fuga dal Patto di stabilità nella sua versione attuale».
CARCERI, I 20 BAMBINI GALEOTTI CHE SONO INNOCENTI
Decisione storica del Parlamento italiano (ma il Senato deve ancora approvarla) sulla detenzione di madri con figli minori. La cronaca della Stampa.
«La Camera ha approvato lunedì sera con 241 voti favorevoli, 7 contrari e 2 astenuti la proposta di legge che modifica la normativa in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori. La proposta ora deve passare all'esame del Senato. Il provvedimento «vieta la custodia cautelare in carcere per detenute madri con prole di età inferiore ai 6 anni e prevede il ricorso alle Case famiglia protette: l'interesse del minore viene posto in cima ai pensieri del legislatore», spiega il relatore Paolo Siani, senatore del Pd. Soddisfatti i Cinque Stelle che rivendicano il loro ruolo: «Grazie al nostro contributo la proposta prevede finalmente garanzie fondamentali per i bambini, per le mamme e per la sicurezza di tutti», hanno affermato le deputate e dai deputati del Movimento 5 Stelle in commissione giustizia della Camera. Sperano nell'approvazione definitiva gli addetti al settore. «E' un passo importantissimo - commenta Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino -. In questi anni ho assistito a tanta sofferenza. Il carcere, seppure nelle migliori condizioni come gli Icam, non sono luoghi per una crescita sana ed equilibrata».
C’è l’occasione di sanare una ferita verso quegli “innocenti assoluti” che sono i figli delle donne detenute. Il commento di Luigi Manconi, sempre per La Stampa.
«Chiunque si trovi in galera ha il diritto umano di pensarsi e dirsi innocente. Perché vittima di un errore giudiziario o di una persecuzione politica; più spesso, perché convinto che le giustificazioni e le attenuanti, di natura sociale o culturale, siano più rilevanti delle proprie responsabilità soggettive; o perché persuaso, infine, che le colpe del mondo o della società, dei governanti o dei nemici personali finiscano per mandarlo assolto. Ma c'è una categoria di detenuti la cui incolpevolezza non consente fraintendimenti o deroghe. Sono gli "innocenti assoluti". Ovvero i bambini galeotti, da zero a tre anni (talvolta fino a sei), che vivono in carcere unitamente alle proprie madri che scontano una pena.
Negli ultimi vent' anni sono stati centinaia e centinaia: e non è difficile immaginare quali effetti abbiano prodotto su di loro quei processi di "deprivazione sensoriale" che la psichiatria attribuisce alla permanenza in una condizione coatta e in un ambiente chiuso. E che incide in profondità su tutti i sensi, alterandoli e deformandoli. Si tratta di minori che nella prima fase di vita non conoscono altro orizzonte se non quello tracciato dalle sbarre e dal muro di cinta; il cui udito è modificato dall'immanenza di rumori che nulla hanno di naturale, e che sono quelli del ferro e dell'acciaio che scandiscono l'esistenza quotidiana; il cui olfatto è inquinato dall'odore di prigione, un lezzo acido fatto di rancido e di greve. Perché questi "innocenti assoluti" (attualmente 20) sono tuttora prigionieri? Perché il nostro sistema penale non ha trovato una soluzione sicura e intelligente per far sì che un certo numero di donne potesse espiare la propria pena senza per ciò stesso imporre ai figli quel brutale trattamento.
I tentativi fatti finora, nel corso di due decenni, si sono rivelati inutili se non controproducenti: per inettitudine amministrativa, eccessivo e immotivato rigorismo di una parte della magistratura e incongruenze normative. Ora c'è una novità importante. Due giorni fa la Camera dei Deputati ha approvato un progetto di legge che introduce modifiche assai significative. In sintesi: viene esclusa l'ammissibilità della custodia cautelare in carcere per le madri con figli di età inferiore ai sei anni, salva la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. In tal caso, il giudice può disporre la misura restrittiva solo negli istituti a custodia attenuata (Icam): misura revocabile in caso di evasione o di condotte socialmente pericolose. Viene ammessa la custodia in carcere dell'imputato unico genitore di una persona con disabilità acuta solo in presenza di esigenze cautelari di eccezionale gravità. Viene ampliata, inoltre, l'applicabilità del rinvio dell'esecuzione della pena al padre di minori sotto l'anno di vita (se la madre sia deceduta o comunque impossibilitata ad assistere la prole) e alla madre (o al padre) di minore di tre anni con disabilità grave. Infine, viene imposto al ministro della Giustizia di stipulare con gli enti locali convenzioni per l'individuazione di strutture da adibire a case-famiglia protette, e l'adozione di misure per il successivo reinserimento sociale delle donne condannate. Una misura, quest' ultima, che può contare, peraltro, su fondi già presenti nel bilancio, e il cui riparto tra le regioni è stato definito dalla ministra Cartabia con un decreto dello scorso settembre. Certamente un passo avanti, ottenuto grazie alla determinazione di due parlamentari, Paolo Siani e Walter Verini, e - fatto notevole - al voto pressoché unanime della Camera. Ora il provvedimento, perché sia definitivo, deve passare al Senato. E allora la destra italiana avrà l'occasione di dimostrare la propria tempra: Giorgia Meloni, attentissima alla propria immagine e all'idea di un conservatorismo che non si manifesti solo come rivalsa sociale, sarà in grado di indirizzare il voto del suo partito verso questa scelta di civiltà? E la Lega, attualmente impegnata in una campagna referendaria per una "giustizia giusta", deciderà di votare a favore di una normativa che elimina la più abietta delle ingiustizie? Mi auguro di sì, perché sottrarre i bambini galeotti alla loro galera non è solo il più elementare dei gesti di umanità oggi alla portata di ciascun parlamentare. Può essere anche un atto intensamente simbolico, in quanto teso a intaccare quella macchina insensata - ridotta a un ferrovecchio inutile e dannoso - che è il nostro irrazionale sistema penitenziario».
INTANTO IN AFGHANISTAN, IL FANTASMA DEI TALEBANI
Nella città che trent' anni fa diede i natali al movimento talebano, si nasconderebbe Haibatullah Akhundzada, fantasmagorica figura alla guida del nuovo-vecchio Afghanistan Reportage da Kandahar di Giuliano Battiston per il Manifesto.
«Nessuno sa dove viva Haibatullah Akhundzada. È qui a Kandahar, ma non sappiamo neanche che aspetto abbia. Lo tengono nascosto». I nostri interlocutori, che chiedono l'anonimato, sono convinti che molte delle decisioni prese dal nuovo Emirato provengano da qui, dal sud del Paese, dalla provincia che ha dato i natali, quasi trent' anni fa, al movimento dei Talebani. Forse sono decisioni prese da Haibatullah, l'Amir ul-mumineen, la guida dei fedeli, la massima autorità religiosa dell'Emirato. Ma forse no. Intorno alla sua figura, al suo ruolo, alla sua attività, c'è il mistero più assoluto. Presenza fantasmatica, eppure centrale nel racconto con cui i Talebani celebrano e legittimano la presa e l'esercizio del potere. I decreti più importanti portano la sua firma, che nessuno contesta, formalmente. Come l'editto dei primi di maggio, presentato al ministero per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù, con cui i Talebani hanno imposto il velo integrale alle donne. La firma c'è, di lui però non c'è traccia. «I talebani dicono che abbia condotto la preghiera per l'Eid, la fine del Ramadan, nella moschea Eid Gah, qui a Kandahar. C'era anche un mio amico. Racconta che si vedeva un uomo di spalle, coperto e protetto da altri». I Talebani hanno molto pubblicizzato l'evento, anche per smentire le voci che danno l'Amir ul-mumineen morto, tenuto «artificialmente» in vita come già successo con mullah Omar, di cui i guerriglieri col turbante hanno tenuto nascosta la morte per due anni. «Di Haibatullah non c'è nessuna foto, nessun video, nessuno l'ha visto in faccia. Poteva essere chiunque alla moschea. Nessuno sa chi sia. Potrebbe anche essere una spia pachistana», continuano con fare beffardo i nostri interlocutori, tra quanti vedono nel ritorno al potere dei Talebani un'abile manovra dei servizi segreti militari di Islamabad. Una lettura-scorciatoia, ma il problema rimane. «La questione vera è che nessuno sa veramente chi prenda le decisioni. I ministri a Kabul? La Rahbari shura (l'organo collegiale della leadership, ndr)? Islamabad? O davvero un emiro, un uomo rimasto a 500 anni fa, che vede nella tecnologia qualcosa di empio e peccaminoso, da kafir, e che quando riceve visite non permette che siano portati cellulari o altro, perché ha paura di essere localizzato?». Chi decide veramente? Domande senza risposta, per ora. Certo rimane il culto della continuità dell'Emirato, della sua longevità, della capacità di resistere a invasori e oppressori. Una visione di cui si fa portavoce il mawlawi Noor Ahmad Saeed, a capo del dipartimento per l'Informazione e la cultura della provincia. Superato il cortile di ingresso, al piano terra resiste ancora la targa del «Lincoln Learning Center», uno dei centri finanziati dal governo Usa. Biblioteche, corsi di inglese, intitolati al presidente statunitense. Tutti chiusi, ora. Appartengono a un'altra era. Archiviata, spiega il mawlawi, grazie alla determinazione dei Talebani. Fa parte del gruppo da tanti anni. Tanti da non ricordare bene quanti: «25, forse 28, ora non saprei dire di preciso». Una vita intera. Il mawlawi Noor Ahmad Saeed sostiene che, se la Repubblica islamica «è collassata in 10 giorni, è perché avevamo e abbiamo il sostegno di tutti gli afghani. La Repubblica aveva il sostegno dell'America, ma non quello della gente. Per questo era debole. La nostra resistenza, invece, è stata forte grazie alla popolazione». Gli ricordiamo chi contesta, chi critica le restrizioni, la repressione, le sparizioni, chi cerca salvezza o nuova vita altrove, fuori dall'Afghanistan.
Replica che non è vero, che la crisi dipende dalle sanzioni dell'Occidente, dall'America che ha sempre contrastato i Talebani, ma «abbiamo il sostegno di 40 milioni di afghani». Che cosa lo dimostra? «Il fatto che in questo Dipartimento lavorino 22 funzionari del vecchio governo. Sono stato io a confermarli e a fargli pagare lo stipendio. E in totale ci sono 800mila impiegati del vecchio governo nell'Emirato». Di cui, assicura, nessuno deve temere all'estero. «Non abbiamo mai attaccato nessuno, ma in nome della democrazia gli stranieri sono venuti qui, hanno ucciso tante persone, compiuto atti orribili. Hanno messo al potere i signori della guerra, i vari Fahim, Dostum, Amrullah Saleh. Sono continuate le uccisioni, gli stupri e l'hanno chiamata democrazia». Un periodo buio, secondo lui, cominciato con il rovesciamento del primo Emirato di mullah Omar, che proprio qui a Kandahar è stato investito del titolo di Amir ul-mumineen. «Sì, mullah Omar è stato nominato Emiro nella moschea qui davanti», fanno allungando il viso alcuni uomini, perlopiù vecchi, che siedono, chiacchierano, pregano di fronte al portone d'ingresso del mausoleo ottagonale che ospita la tomba di Ahmad Shah Durrani. Qui chiamato anche Ahmad Shah Baba, il padre dell'Afghanistan, Ahmad Shah Durrani ha regnato su un vasto impero, dal 1747 al 1772, ponendo le fondamenta della città nel giugno 1761 e riuscendo nel 1768 a far arrivare, probabilmente da Bukhara, 'il mantello del profeta', oggi custodito in un edificio adiacente, inaccessibile. «No, noi non c'eravamo quando mullah Omar è stato nominato Emiro». Trovare qualcuno che abbia assistito all'evento non è facile. «L'attuale responsabile del dipartimento della Finanze, il mawlawi Abdul Habib c'era: è stato maestro di mullah Omar», ci spiegano i vecchi del mausoleo. Poco più in là, due bambini sono alle prese con un cellulare. Un altro salta e gioca per conto suo. Alcune bambine si rincorrono sul pavimento liscio di fronte all'edificio che ospita il mantello. All'ingresso della moschea, ci sono dei giardinetti. «Qui il mercoledì ci venivano sempre le donne. Facevano i pic-nic, chiacchieravano, discutevano. Ora non possono più farlo». È la nuova era dei Talebani, fatta di editti formali e consigli informali ma efficaci. I «consigli» a Kandahar vengono soprattutto dal responsabile provinciale del ministero per la Promozione dellla virtù, lo sceicco Abdul Rahman Tayyabi. Che ha inaugurato una campagna contro le donne che non si coprono abbastanza: non devono frequentare il bazar, né, se sole, viaggiare in città. I Talebani sono stati chiari, ci raccontano: «Quel che si può fare a Kabul, le libertà che ci sono lì, qui non devono esserci». Non c'è neanche più la libertà di salire sul Chilzena, i 40 gradini da cui si accede a una nicchia con le iscrizioni in persiano delle grandi conquiste dell'imperatore Babur, al potere nel XVI secolo e fondatore dell'impero Moghul. «Fino a su non ci si può andare. Puoi fare quattro-cinque gradini, non di più. Ci sono le case qui sotto: è sconveniente che qualcuno ci guardi dentro». Così ripetono i miliziani Talebani che presidiano la collina. Sono molto giovani. Uno di loro si è unito all'Emirato solo da un anno e mezzo: in tempo per festeggiare il ritorno al potere dei Talebani. Vengono tutti dai distretti della provincia di Kandahar. Il più loquace viene dal distretto di Panjway, vera culla del movimento. Altri da Mirwais Mina. «Oltre quella linea non puoi andare, ci sono le case».
Vivono tutti in una stanza stretta e lunga. Alle pareti, in alto, le loro armi. «Quelle no, non le puoi fotografare. E poi le stiamo trasferendo. La situazione non è stabile ancora».
INTANTO IN GB, LA REGINA NON SALVA BORIS
Festeggiamenti a Londra e in tutta la Gran Bretagna per i 70 anni di regno della regina Elisabetta. Ma il premier Boris Johnson dovrà comunque presto rispondere del suo operato. Angela Napoletano per Avvenire.
«Prima il Giubileo di Platino della regina Elisabetta, poi (forse) la sfiducia del primo ministro Boris Johnson. Nel Regno Unito si annunciano giornate intense. I due appuntamenti, così vicini uno all'altro, hanno scatenato la fantasia dei vignettisti che si sono divertiti ad accostare l'immagine gloriosa della sovrana, che il 2 giugno celebra 70 anni di regno, a quella buffa di un premier in difficoltà. Nel disegno di Andy Davey è ritratto con le gambe all'aria mentre si aggrappa alla carrozza dorata di Sua Maestà. Sintesi ironica, ma vera. Da domani il Paese è in festa fino al 5 giugno per la monaca 96enne, la più longeva della storia britannica. Le cerimonie in suo onore sono cominciate a febbraio e andranno avanti fino a fine anno ma il clou è atteso proprio domani, anniversario dell'incoronazione. La sontuosa parata Trooping the Colour - 1.400 soldati, 200 cavalli e 400 musicisti - sfilerà dall'Horse Guards fino a Buckingham Palace. C'è chi, da ieri, si è organizzato con tende e sacchi a pelo per assicurarsi un posto in prima fila. La famiglia reale farà poi la sua apparizione sul balcone del Palazzo per assistere allo sfrecciare dei caccia della Royal Air Force. Diffusa è la percezione che le apparizioni pubbliche dell'anziana sovrana, le cui condizioni di salute hanno preoccupato non poco, diventeranno sempre più rare. Quella di domani potrebbe essere una delle ultime. Accanto a lei ci saranno anche i duchi di Sussex, Harry e Meghan, di ritorno dagli Stati Uniti per l'occasione. L'unità è il motivo dominate dell'evento che la popolazione locale celebrerà con iniziative di quartiere. A livello nazionale se ne contano più di 200mila. Passata la "febbre da giubileo" potrebbe entrare nel vivo la sfida alla leadership del premier Johnson ammaccata dal Partygate, lo scandalo delle feste organizzate a Downing Street quando ogni forma di socialità era bandita dalle norme anti-Covid. Il deficit di responsabilità certificato dal funzionario, Sue Gray, che ha investigato il caso ha riacceso l'agitazione tra i deputati Tory che, nei mesi scorsi, complice la guerra in Ucraina, hanno soprasseduto agli scivoloni del premier. Una pioggia di lettere di sfiducia è intanto piovuta sulle scrivanie dei saggi del partito. Quelle ufficiali sono una trentina ma è possibile che molti abbiano optato per una rottura di basso profilo. Il numero necessario ad indire il voto che potrebbe far cadere il titolare dell'esecutivo (o riconfermarlo) è 54. William Hague, veterano Tory, ha avvertito: la resa dei conti potrebbe avvenire «la prossima settimana o, comunque, entro la fine di giugno».
INTANTO IN INDIA, LE CRONISTE AUTODIDATTE
Storia di emancipazione femminile in India. Protagoniste sono le donne, croniste autodidatte, di "Ondate di notizie", che hanno cominciato a pubblicare news scomode del loro territorio e si sono conquistate consensi e credibilità. Carlo Pizzati per Repubblica
«Iniziò tutto più di venti anni fa con dei foglietti scritti a mano dove le donne del villaggio appuntavano i temi che contano: la pompa dell'acqua rotta, le strade impraticabili, i nomi degli stupratori a piede libero. Nel 2002, le donne si organizzarono meglio, pubblicando un giornale, un unico foglio ciclostilato venduto a mano per la strada, porta a porta. Lo chiamarono "Ondate di notizie" ovvero Khabar Lahariya. Anno dopo anno, assunse un po' di prestigio negli Stati del nord indiano dell'Uttar Pradesh e del Madhya Pradesh. Mentre, sulle prime, le autorità non davano retta a queste giornaliste autodidatte, piano piano si videro costretti e a rispondere, asfaltando le strade, costruendo bagni pubblici e rifornendo gli ospedali di medicine. Tutto grazie alle denunce delle "Ondate di notizie". Nel 2015 ci fu la svolta. Le due cofondatrici capirono che era ora di anticipare i tempi e passarono a una versione tutta digitale. «Se non ci adattiamo, non sopravviviamo», si dissero. Così, raccolsero i fondi per acquistare smartphone da distribuire alla redazione. Mandarono le croniste nei villaggi più remoti, dove non arrivava mai nessuno. A fare il lavoro che si fa con la suola delle scarpe e con una mente sveglia: viaggiare, perlustrare, indagare, fare tante domande, quelle giuste. Entrare nelle miniere dove chi dissente scompare. Intervistare i fondamentalisti indù per i quali la vita di una vacca sacra vale più di quella di un musulmano, di una donna o di un Dalit, la casta più bassa. Oggi le "Ondate di notizie" sono un fenomeno noto in tutto il mondo. E un canale YouTube con 560 mila iscrizioni. In questi decenni hanno formato più di 500 giornaliste, ed ora in redazione lavorano 20 croniste a tempo pieno. Girano con i treppiedi e i microfoni, prendono appunti, spingono le lenti dei cellulari tra le folle di uomini che le guardano inferociti. Sul fenomeno è stato girato anche il lungometraggio "Writing with fire" (Scrivere col fuoco), primo documentario indiano ad essere nominato agli Oscar quest' anno, anche se non l'ha vinto. È stata una strada tutta in salita, costellata di minacce, anche con le pistole in mano, e con tante resistenze dentro e fuori dalla famiglia. Ma ce l'hanno fatta: la prima testata femminista e tutta al femminile in India. Una storia che ispira il mondo. Eppure, la sue direttrice e co-fondatrice, Kavita Bundelkhandi, che oggi ha 37 anni, ha imparato a scrivere quando era già dodicenne. Il diritto all'istruzione se l'è dovuto guadagnare perché appartiene alla casta più bassa. «In India una giornalista Dalit era inimmaginabile», spiega alla Bbc, «ma in questi anni abbiamo fatto cambiare idea a tutti». Meera Devi, la capo-redattrice e co-fondatrice di 36 anni, con due figlie oggi adolescenti, racconta che casa sua era vicina alla sua scuola. «Quando mia figlia strillava per essere allattata, mia nonna mi chiamava dalla finestra e io dovevo correre a casa. Le mie compagne mi prendevano tanto in giro». Ora a ridere è lei. Perché le "Ondate di notizie" sono diventata un'autorità giornalistica di tutto rispetto. «Siamo donne di campagna, delle tribù, musulmane, Adivasi, laureate o semi-istruite. Siamo diverse perché facciamo cronaca tramite una lente femminista», spiega Bundelkhandi, «amplifichiamo le voci delle oppresse e così fortifichiamo la democrazia». Sono diventate un punto di riferimento, come spiega l'abitante di un villaggio remoto dell'Uttarkhand, Lalaram Patel: «Quando ci rivolgiamo alle autorità non ci danno retta. Ci chiedono prima i soldi. Per questo ho contattato Khabar Lahariya, per avere una soluzione». Anche perché le "Ondate di notizie" fanno onore al loro nome. Non si limitano a raccogliere le denunce dei dissesti, le carenze nei servizi, i verbali di omicidi e stupri nelle zone più remote, ma tornano sul posto per verificare se è stato fatto qualcosa. Si chiama follow-up, onda su onda, inarrestabili, pervicaci: per documentare blackout, abusi di potere, linciaggi, strade dissestante. «All'inizio gli amministratori pubblici ignoravano anche noi», spiega Devi, «Ora ci temono».
MARTINA, DOPPIA VITTORIA A PARIGI
È una vicenda sportiva di successo: una tennista italiana è in semifinale al prestigioso torneo parigino del Roland Garros. Ma è anche una vicenda umana perché la protagonista, Martina Trevisan, ha dovuto sconfiggere l’anoressia, prima delle avversarie. Marco Calabresi per il Corriere della Sera.
«L'anoressia è stata talmente una brutta bestia che ora che è tutto passato Martina Trevisan in campo non dimentica mai una cosa: il sorriso. La partita che le ha regalato la prima storica semifinale in un torneo dello Slam e le ha permesso di migliorare i quarti raggiunti nel 2020 è forse la metafora della sua vita. Come ieri, anche quando era una ragazzina piena di talento, era a un passo dal dire «ce l'ho fatta», prima che l'avversaria la ricacciasse indietro e le mettesse tanta paura addosso. Martina, però, dopo essersi vista passare davanti un match point, è stata più forte di Leylah Fernandez ieri e della malattia qualche anno fa, quella che le aveva tolto tutto: dal piacere di giocare a tennis alla voglia di vivere. Eppure, a Firenze, c'erano tutti gli esempi in famiglia per crescere nello sport. La mamma Monica allenatrice di tennis, il papà Claudio ex calciatore, che arrivò fino alla Serie B, e persino il fratello Matteo, che dei due sembrava il più promettente. Martina, ieri, ha svelato di chiamarsi così «sicuramente per la Navratilova»: a un certo punto, però, la luce si spense improvvisamente. Cereali, pochi, e un frutto. Le bastava questo per tenersi in piedi, senza preoccuparsi di altro. Tutto il resto, lo vomitava. E la bilancia non dava scampo: 49 chili. L'ultima volta che una tennista italiana è arrivata alle semifinali sulla terra di Parigi fu nel 2013 (Sara Errani): in quel periodo, non c'è traccia di Martina in nessuna statistica. Un buco di quattro stagioni: sarebbe tornata in campo un anno dopo, dopo essere ripartita da sotto zero. Un tatuaggio («ad maiora») se lo fece quando aveva appena ripreso in mano una racchetta per fare la maestra: i tempi migliori sarebbero arrivati, ma non senza una psicologa di mezzo. «Senza quell'aiuto non ce l'avrei mai fatta». Martina, partita dal numero 59 prima del Roland Garros e che con quella di ieri ha portato a dieci la serie di vittorie consecutive (le prime cinque le hanno regalato il primo titolo Wta della sua carriera, a Rabat), ora è la prima tennista italiana nel ranking (per la prima volta sarà nelle 30), è con due piedi dentro la squadra di Billie Jean King Cup (la capitana Tathiana Garbin non la molla un attimo e non si perde un game nel box dove c'è anche Matteo Catarsi, il maestro di sempre) e ha un'occasione unica, quella di avanzare ancora. Perché di fronte, in semifinale, ci sarà sì un astro nascente come la 18enne Coco Gauff, ma neanche l'americana si era mai spinta così lontano in un torneo dello Slam. Dall'altra parte del tabellone, un cannibale come la polacca Iga Swiatek, che due anni fa fermò la corsa di Martina partita dalle qualificazioni. Ora, ogni emozione se la sta godendo di più e meglio, perché Martina è stata più forte di tutto e sarà un esempio per tutte coloro che di anoressia ci soffrono ancora e che vedendola giocare a tennis capiranno che se ne può uscire».
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