La Papessa straniera
Sotto accusa il radicalismo chic di Elly Schlein. Nel Pd resta un corpo estraneo. Mattarella in Romagna. Droni su Mosca. Il governo mette ai voti il MES. Incontro fra governo e sindacati
Il caso Elly Schlein nel Partito democratico evoca una sindrome storica: quella del Papa straniero. Nella storia della sinistra democratica c’è stata sempre infatti la tentazione di ricercare fuori dal partito e dalla sua classe dirigente il demiurgo, il salvatore della patria, il leader che dall’esterno arrivasse come risolutore. L’ultimo caso, per certi versi clamoroso, è stato quello di Giuseppe Conte, che ha ammaliato leader storici e guru del partito. In questo caso la sindrome è quella della Papessa straniera. La Schlein, che il partito-partito aveva bocciato, preferendole Stefano Bonaccini, è stata invece eletta sulla scia di un’operazione d’immagine. Come se la modernità esotica delle sue ascendenze elvetico americane facesse premio su tutto. Come se la politica fosse puro marketing e che dunque per contrapporsi alla madre conservatrice Giorgia Meloni ci volesse una donna LGBT, da copertina di Vogue con armocromia, un distillato di radicalismo chic. Ma la politica ha una logica ferrea e fa emergere poi le linee, le strategie di fondo, le idee e le capacità vere di governo. Anche di un partito. Oggi Romano Prodi sulla Stampa, che pure conosce bene la Schlein, le fa tre critiche perfette: la prima è quella di non avere criticato subito l’episodio di intolleranza al Salone di Torino. La seconda è di non avere difeso Bonaccini come commissario dell’alluvione. La terza è di essere andata a rimorchio del semi-consociativismo dei 5 Stelle sulla vicenda RAI.
Proprio ieri fra l’altro è stato reso noto un documento (è il titolo principale di Avvenire) contro la maternità surrogata che porta in calce firme prestigiose del Partito democratico e di diverse femministe. Questo è un altro tema su cui la Schlein non ha voluto fare chiarezza. Il Pd, finchè è tale, ha una componente cattolica che non può essere liquidata tanto facilmente. Dario Franceschini, forse il più importante capo corrente in stile doroteo del Pd, difende oggi la sua creatura dalle colonne di Repubblica e chiede di lasciare lavorare in pace la Schlein. Ma è davvero questo di cui ha bisogno la sinistra per creare un’alternativa (almeno fra quattro anni) al centro destra?
Veniamo alla guerra in Ucraina. Ieri Mosca è stata colpita da un bombardamento di droni. Secondo quanto scrivono gli esperti militari del Corriere della Sera si tratterebbe di un “salto di qualità” del conflitto. Vedremo nei prossimi giorni se si rivelerà giusta questa valutazione. Intanto il campo diplomatico è sempre in movimento. Pino Arlacchi sul Fatto scrive che invece è difficile condividere realisticamente la prospettiva di una “vittoria” ucraina. Mentre Usa ed Europa si dividono nel vertice in corso in Svezia sui rapporti economici con la Cina. Il presidente brasiliano Lula riunisce i Paesi sudamericani e riammette il leader venezuelano Maduro.
Per tornare all’Italia, Giorgia Meloni ieri ha incontrato i sindacati a Palazzo Chigi, che poi si dividono fra Cisl da una parte e Cgil e Uil dall’altra. Per Luigi Sbarra il confronto è stato “l’inizio di un nuovo cammino”, mentre Maurizio Landini è stato molto meno entusiasta. La buona notizia sul fronte economico è che le Camere voteranno il via libera al MES, il meccanismo salva stati: la speranza è che i rapporti in Europa migliorino, visto che abbiamo in ballo ancora terza e quarta rata del Pnrr.
Da lunedì è in rete il terzo episodio della serie Podcast originale realizzata da WIP Italia per la Fondazione Internazionale Oasis grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. Si chiama Il Mediterraneo come destino. I grandi protagonisti del dialogo. Il terzo episodio, dopo quelli su Giorgio La Pira e Taha Hussein, riguarda Pierre Claverie, frate domenicano, vescovo di Orano, assassinato durante il decennio nero algerino e beatificato l’8 dicembre del 2018 insieme agli altri 18 martiri d’Algeria, fra cui i monaci di Tibhirine, rapiti e poi uccisi durante la guerra civile. La terza puntata del podcast racconta la sua vita, con l’aiuto di due confratelli di Pierre: Jean-Jacques Pérennès, suo amico e biografo, e Adrien Candiard, che pur non avendo conosciuto personalmente Claverie ne è stato profondamente influenzato, al punto da avergli dedicato una pièce teatrale di successo, Pierre e Mohammed.
Troverete la serie su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast, Google Podcast e ovviamente qui sul sito di Fondazione Oasis... per ascoltare direttamente cliccate qui e comunque cercate questa immagine grafica:
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae Sergio Mattarella durante la sua visita di ieri in Emilia Romagna. Iniziando dalla piccola Modigliana, devastata dalle frane, e concludendo insieme a tutti i sindaci a Faenza, il Capo dello Stato ha dedicato una giornata intensa ai territori alluvionati, facendo tappa anche a Forlì, Cesena, Ravenna e Lugo. Il Presidente ha voluto incontrare soprattutto i volontari, che hanno lavorato giorno e notte e gli amministratori che hanno cercato di far fronte ai problemi enormi dei primi giorni e ora sono alle prese con una lenta ripresa.
Foto Ansa
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
I risultati delle amministrative hanno fatto saltare gli equilibri nel Pd e sottolineato la crisi della leadership di Elly Schlein. È questo il tema prevalente sulle prime pagine. Per La Repubblica sono: I tormenti del Pd. Il Domani, altro giornale che sostiene la segreteria, criminalizza il dibattito: La solitudine di Schlein. Dopo la sconfitta nel Pd è guerra tra le correnti. La Stampa mette in apertura un’intervista con Romano Prodi, molto critico contro la Schlein, ma il giornale di Torino preferisce farne una sintesi anti Meloni: «In Italia involuzione autoritaria». Il Giornale registra: Elly in crisi di nervi. Il Pd la scarica già. Libero usa l’immagine della bomba: «Non statemi addosso». Esplode la Schlein. La Verità quella del decollo: Per la Schlein è già conto alla rovescia. Il Fatto critica invece la maggioranza: La destra frega il seggio a chi ha vinto e lo dà a chi ha perso. Avvenire dà grande spazio ad un documento contro l’utero in affitto che riporta molte firme di esponenti Pd: Maternità surrogata, netto no da sinistra. Il Corriere della Sera evita la politica italiana e punta sui successi di Kiev: Droni su Mosca, l’ira di Putin. Così come il Manifesto: Il pugno a Mosca. Le spine dell’economia per Il Sole 24 Ore: Gelata sui prezzi alla produzione. Mentre le promesse di Meloni sulle imposte catalizzano l’attenzione del Quotidiano Nazionale: Meloni ai sindacati: «Ora meno tasse». E del Messaggero: Fisco, piano per i redditi bassi.
TENSIONE NEL PD, ACCUSE A SCHLEIN
Tensione nel Pd: piovono accuse sulla leadership di Elly Schlein. La segretaria rinvia il viaggio a Bruxelles e si barrica al Nazzareno. La pressione dei big che dicono: basta fare tutto da sola. Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera.
«Sono giorni difficili per Elly Schlein. La segretaria avrebbe quasi la tentazione di chiedere un «time out», ma quella che sta giocando non è una partita di pallacanestro in cui è consentito prendersi una pausa, è una partita politica nella quale la segretaria dem si gioca tutto, e lo sa bene. La leader conosce gli umori del Pd e si rende conto che la luna di miele tra lei e i dem potrebbe essere prossima alla fine. Perciò di mattina presto si asserraglia al Nazareno (una risposta implicita a quanti la criticano perché ogni tanto scompare), avverte gli europarlamentari dem che non sarà a Bruxelles ma che la riunione prevista si terrà da remoto, onde evitare le domande dei giornalisti, chiama Roberta Metsola, che avrebbe dovuto incontrare domani, e si scusa, quindi fa i conti con la sconfitta elettorale. I big del partito le chiedono di indire una direzione per fare il punto: non c’è insuccesso elettorale del Pd (e ce ne sono stati) al quale non sia seguita una riunione del parlamentino dem. Ma questa volta la richiesta ha anche un sapore diverso: quello che si vuole da Schlein è che non decida più in perfetta solitudine come ha fatto finora. «Io non sono una donna sola al comando, ma collegialità non significa dire di sì ai capicorrente», si sfoga lei con qualche amico. La direzione ci sarà, ma Schlein vuole trovare un modo per rilanciare se stessa e il «suo» nuovo partito prima di quell’appuntamento. Qualcuno le suggerisce di accendere i riflettori sulla costituente dem (in pratica un secondo tempo del congresso, per stilare il Manifesto dei valori). Lei è tentata, però si rende anche conto che potrebbe essere una risposta debole. Sempre meglio, comunque, di continuare a parlare del campo largo, che sia Conte che Calenda bocciano. «La Meloni non si batte con i campi larghi», dice il primo. «Con le accozzaglie elettorali non si va da nessuna parte», osserva il secondo. Certo la costituente potrebbe fornire una risposta a chi, come l’europarlamentare Elisabetta Gualmini, rigira il coltello nella piaga dem: «Il Pd dice di no a tutto. No al taglio del cuneo fiscale, no al premierato (che avevamo lanciato noi). Non si capisce quali siano le nostre proposte. Come si fa a convincere gli elettori?». Nel frattempo alcuni fedelissimi di Schlein sono nel mirino perché nelle «loro» regioni si è perso, in alcuni casi anche male: Marta Bonafoni (Lazio), Marco Furfaro ed Emiliano Toschi (Toscana), Francesco Boccia (Puglia), Peppe Provenzano (Sicilia). Ma la segretaria non li sacrificherà, altrimenti, come dicono i suoi, «tornerà il Pd dei caminetti, dove decidono i capicorrente». Su questo punto, però, Schlein è determinata: «Non mi farò ingabbiare». Così la segretaria prepara la sua controffensiva, mentre una nuova grana è alle porte: un gruppo di autorevoli esponenti dem (Giorgio Gori, Goffredo Bettini, Valeria Fedeli) è partito lancia in resta contro la maternità surrogata. Un tema quanto mai divisivo per il Pd».
DOCUMENTO CONTRO L’UTERO IN AFFITTO, FIRME DEM
Come accenna Meli, un documento contro l’utero in affitto ha raccolto (per ora) 500 firme di intellettuali, sindaci e femministe: tra gli esponenti dem ci sono anche Goffredo Bettini e Giorgio Gori. E dentro il partito i cattolici incalzano: subito una «discussione aperta» su questa pratica. Oggi l’esame della proposta di Fdi. Per Avvenire Marco Iasevoli e Antonella Mariani.
«Un appello firmato per ora da oltre 500 intellettuali, sindaci e amministratori locali, ex parlamentari, sindacalisti e femministe per dire «no» alla maternità surrogata. La rete No Gpa (Gestazione per altri), attiva dal 2019, riesce a sfrondare le differenze politiche e a lanciare un appello forte all’Europarlamento e al Parlamento nazionale, alla vigilia di giorni che si annunciano caldi per l’esame della proposta di legge, targata Fdi, sul “reato universale” di utero in affitto. Ma l’iniziativa ha presa soprattutto nel centrosinistra e nel Pd, all’indomani di una sconfitta alle amministrative che diver-si osservatori hanno attribuito anche all’eccessiva insistenza della nuova segreteria Schlein sui “diritti individuali”. E non è un caso se diversi esponenti di primo piano della mozione Bonaccini, che ora siedono in Direzione nazionale, rilanciano l’iniziativa di No Gpa per rafforzare la richiesta ufficiale di una «discussione aperta» nel Pd. È il caso, ad esempio, di Stefano Lepri e dei cattodem. Ma ciò che colpisce nel testo di No Gpa è che i firmatari sono quasi tutti di area progressista, andando quindi oltre il mondo cattolico: spiccano nomi di peso nel firmamento del Pd, come gli ex parlamentari Goffredo Bettini, Eugenio Comincini, Valeria Fedeli. C’è un gruppetto nutrito di sindaci (Gori di Bergamo, Micheli di Segrate, Cosciotti di Pioltello) e un pattuglione di femministe come Francesca Izzo e Cristina Comencini. Un paio di nomi “pesanti” sono, sempre in ambito femminista, quelli delle filosofe Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo. Dall’associazionismo e dal volontario arrivano adesioni importanti come quella di Elisa Manna (Caritas) e Gianni Bottalico (già presidente Acli). L’appello, cui si può aderire su Change. org e che è coordinato dall’ex segretario di Arcigay Aurelio Mancuso, proclama che «la maternità surrogata offende la dignità delle donne e i diritti dei bambini». I firmatari chiedono ai parlamentari italiani ed europei di confermare il “divieto assoluto” previsto nella legge 40 sulla procreazione assistita e di lavorare per arrivare al bando. « La Gpa è una pratica intollerabile e va contrastata in ogni ambito », si legge nel documento. Due osservazioni. La prima è che al momento non risulta abbiano firmato parlamentari del Pd in carica, a parte Valeria Valente e Luana Zanella, che hanno annunciato la loro adesione. La sensazione, dicono fonti dem, è che si voglia evitare il frontale con Schlein per non metterla ulteriormente in difficoltà e arrivare a una “retromarcia” condivisa su questo tema. La seconda osservazione è che si suggeriscono strumenti internazionali ma non si menziona l’unica proposta di legge già approdata alla discussione parlamentare, quella che, a firma Fratelli d’Italia, chiede che l’utero in affitto diventi un reato universale, cioè punibile se commesso da un cittadino italiano anche all’esterno. Probabile che questa vasta area di sinistra che si oppone alla Gpa voglia marcare la differenza con il centrodestra che persegue lo stesso obiettivo ma da punti di partenza e invocando strumenti giuridici diversi. L’appello, infatti, chiede ai Parlamenti nazionali, e in particolare di quei Paesi come l’Italia che già vietano la maternità surrogata, di sostenere le reti giù attive a livello internazionale, quelle alleanze che «chiedono la messa al bando della maternità surrogata». C’è una sottolineatura anche sui “diritti dei bambini” nati da utero in affitto all’estero: per loro è necessario «un quadro giuridico certo», come del resto hanno chiesto la Cassazione e la Corte di Costituzionale in diverse sentenze. L’appello dei 500 arriva all’indomani della sconfitta elettorale del Pd di Elly Schlein e pone una spina nel fianco alla segretaria. Non nuovo, per la verità, perché sul tema della Gpa anche una parte dei suoi l’ha più volte sollecitata a prendere posizione, finché lei ha dovuto precisare di essere personalmente favorevole ma di non avere inserito questo tema nel programma perché «ci sono diverse sensibilità».
Sempre per Avvenire Marco Iasevoli intervista Silvia Costa, membro della Direzione dem. Che invita a tenere in conto chi dice «no» alla maternità surrogata.
«Il senso di questo documento è chiaro: a ridosso della discussione parlamentare sulla gestazione per altri, c’è un alto rischio di radicalizzazione. Da un lato la destra, con la proposta di “reato universale”, pone male il tema dal punto di vista giuridico. Dall’altro lato c’è il rischio che il Pd si limiti a cassare questo punto, mentre noi vogliamo che non cada l’attenzione nazionale, europea e internazionale su cosa sia davvero la Gpa in termini di violazione dei diritti della donna e dei diritti dei bambini». Silvia Costa, ex europarlamentare e ora membro della Direzione nazionale del Pd, offre una lettura politica del testo che sta raccogliendo centinaia di firme soprattutto tra esponenti dem e di centrosinistra. C’è la necessità di ingaggiare una battaglia di lunga durata contro l’utero in affitto, che non deve restare incagliata nel muro contro muro strumentale cui ci si sta avviando alla Camera. E c’è la necessità di arrivare a un momento di chiarezza dentro il Partito democratico, perché non ci si può «appiattire», spiega Costa, su «diritti adultocentrici e individualistici».
Nonostante questo, mantenete la contrarietà alla pdl sul reato universale?
In Europarlamento noi siamo state promotrici, con Patrizia Toia e le socialiste francesi e spagnole, di una risoluzione che spingesse le istituzioni comunitarie ad assumere iniziative internazionali perché la Gpa fosse considerata una violazione dei diritti umani. La proposta di legge di Fdi giuridicamente non tiene e, francamente, sembra più rivolta a non far registrare i minori.
Sul tema delle trascrizioni lei cosa pensa?
Per me il primo diritto del bambino è quello di non nascere come un prodotto e poi essere privato per contratto della madre naturale e delle sue origini. Allo stesso tempo, sono d’accordo con il presidente emerito della Consulta, Giovanni Maria Flick, quando dice che deve esserci uguaglianza di diritti tra i bambini che sono nati. Attenzione, uguaglianza di diritti tra i bambini, non uguaglianza di diritti tra gli adulti che vogliono essere genitori.
Come concretizza questa distinzione?
Oggi il genitore biologico che ha usato la Gpa può registrare il figlio ma il genitore intenzionale deve fare un procedimento di adozione speciale.
La Consulta ha chiesto al legislatore di sanare alcune diversità.
Penso una buona mediazione sia quella di accelerare la procedura di adozione speciale ma senza automatismi, mantenendo la valutazione dell’idoneità e, in generale, una valutazione caso per caso. Proprio nel superiore interesse del bambino.
Molte personalità di centrosinistra e di sinistra stanno firmando questo documento. Eppure sembrano non riuscire a incidere sulla linea politica del Pd. Perché?
Intanto è doveroso e utile che tante personalità si esprimano apertamente, il centrosinistra deve sapere che c’è questa forte sensibilità e questa radicata posizione. Perciò il testo lo abbiamo mandato anche ai capigruppo. Ciò che unisce i firmatari è trovare forme di mediazione tra diversi diritti ma mantenendo fermo il “no” alla Gpa. Insisto: nonostante questa forte pressione dentro il Pd, la linea sul tema non è chiara. Ho chiesto nella Direzione del Pd che ci fosse un luogo in cui serenamente confrontarsi su questo tema. L’hanno chiesto anche i parlamentari. Io penso che davvero rischiamo di appiattirci su diritti adultocentrici e individualistici. Ma non è questa la risposta di una sinistra che cerca di mettere in relazione diritti e responsabilità. Così si perde la concezione relazione dei diritti e soprattutto rischiamo di perdere una antropologia culturale che il partito ha provato a coltivare, mettendo insieme il meglio delle culture costituzionali.
Il documento arriva dopo la sconfitta del Pd alle amministrative. È un messaggio?
Constato che nelle uniche città vinte i sindaci erano persone di centrosinistra, riformiste e anche cattoliche. Bisogna interrogarsi di più nella nuova dirigenza sulla necessità di restare fedeli alla cultura originaria del Pd. In un momento di grande smarrimento, oggi si riesce a guardare con fiducia al futuro e alla politica se si vedono ancora in campo culture forti, solide. La cultura politica di ispirazione cristiana può essere un elemento di fiducia per gli elettori. La proposta di un “nuovo umanesimo” a mio avviso può essere una risposta migliore di un radicalismo individualista.
Insomma lei chiede un bagno di realtà...
Le primarie ci hanno restituito un partito spaccato a metà. Il collante possono essere le priorità reali che sentono le persone. Già nella precedente segreteria si è cercati un’identità improbabile attraverso questi temi. Attenzione a non sbagliare le analisi, altrimenti poi sbagliamo le ricette».
PRODI VEDE DIVERSI ERRORI: ELLY NON HA DIFESO BONACCINI E LA ROCCELLA
L’ex premier Romano Prodi critica in modo serrato Elly Schlein. Ha sbagliato a non difendere la libertà di parola al Salone del Libro. Doveva anche fare una battaglia su Stefano Bonaccini commissario e sull’informazione RAI non cedere al consociativismo, a ruota dei 5Stelle. Intervista di Fabio Martini sulla Stampa.
«Romano Prodi è meno levigato del solito, sceglie parole severe, forse mai così secche negli ultimi 10 anni: «In questi giorni sono emersi due segnali nuovi che non si debbono sottovalutare. Nessuno ha ragionato su un sistema informativo che dopo decenni di duopolio si sta trasformando in un monopolio della destra. E al tempo stesso sta emergendo la tentazione di escludere il presidente Stefano Bonaccini dalla ricostruzione in Emilia-Romagna. Ma così siamo davanti ad un governo che punta a prendersi tutto. C'è una parola semplice che riassume tutto questo: autoritarismo. Così si sta cambiando la natura del Paese».
Con i suoi standard di crescita l'Italia se la cava meglio degli altri grandi Paesi europei, ma istituzioni tra loro diverse (Commissione europea, Fondo monetario, Banca d'Italia) tengono alta la vigilanza. Siamo dentro una bolla? O sarebbe il momento giusto per mettere a reddito i discreti segnali con una politica economica degna di questo nome?
«Certo che se la cava, ma stiamo attenti a non esagerare. Abbiamo un rimbalzo un po' più forte da una caduta molto più violenta e la palla è rimbalzata un po' più in alto. Tuttavia gli ultimissimi dati, riferiti all'export, non sono consolanti. Nei riguardi dell'analisi della nostra economia c'è infatti una certa fragilità da parte dei commentatori italiani, professori e politici compresi, che esaltano sempre il presente senza guardare al lungo periodo».
Sui dossier fondamentali – nuovo patto di Stabilità, difesa dell'Ucraina – il governo si attiene alla "dottrina" precedente. Sul Pnrr vacilla, sul Mes tiene a bordo tavolo la ratifica: un'arma utile, o può esplodere in mano?
«Il governo ha impostato le cose in modo da minimizzare il rischio, affidando gli Esteri al più americano della coalizione e l'Economia al più bruxellese. Su questo non aveva alternative. Su tutto il resto i partiti della coalizione si stanno dividendo il bottino, litigando tra loro. Questo contrasto emerge anche riguardo al Mes. D'altra parte quando non si vuole un provvedimento, che nel peggiore dei casi è a danno zero, significa che lo si vuol tenere come un'arma contrattuale. In questo caso non mi sembra un'arma efficace, ma un corpo urticante, capace solo di irritare. Quanto al Pnrr era nato per aumentare la pigra produttività del Paese, grazie a un mix di grandi riforme e grandi investimenti. Le riforme non ci sono e gli investimenti, bene che vada, si stanno spargendo in rivoli inadatti ad aumentare la produttività».
Commissario alla ricostruzione in Emilia: siamo a Guelfi e Ghibellini…
«Vicenda incomprensibile che rischia di concludersi con un enorme autogol per il centrodestra. In una tragedia come questa, chi altro può fare il Commissario se non un presidente di Regione che gode di una incontestata fiducia? Che ha rapporti diretti con i sindaci, con i prefetti, che conosce tutti i tecnici e a cui risponde la catena burocratica regionale. Bonaccini ha inoltre già dato prova di saper gestire la ricostruzione dopo il terremoto: uno dei pochi casi nei quali nessuno ha avuto nulla da ridire».
Telenovela Rai: la lottizzazione è nel Dna aziendale?
«Ho convissuto benissimo con diversi presidenti della Rai, ognuno con le sue caratteristiche e i suoi caratteri perché ho sempre pensato che i presidenti debbano godere della loro autonomia. Ora siamo di fronte ad un cambiamento radicale. Si tratta dell'azzeramento totale e dell'innesto solo di persone di stretta fiducia. Non è la sola novità. In passato, anche con governi di centro-sinistra, vi era grande equilibrio nei telegiornali. Mentre nel commento politico comandava il "Vespone". L'Osservatorio di Pavia ci dice che nei tg lo spazio dedicato al governo è 4 volte superiore a quello dell'opposizione. Il grande cambiamento è il mercato, diverso da allora: Rai e Mediaset avevano ciascuno una quota superiore al 45% del mercato, quindi prevaleva anche allora la destra, ma in modo non totalitario. Oggi, sommando Rai e Mediaset, stiamo marciando verso un'assoluta omogeneità dell'informazione televisiva. Già allora vi era un duopolio zoppo, oggi vi è un monopolio assoluto. Il pluralismo, se ci sarà, non potrà che essere confinato su reti con minore ascolto. Certo ci sono i nuovi media, ma il messaggio che più influisce sull'elettorato è quello televisivo».
La vittoria della destra alle Comunali si spiega solo con l'aria che tira?
«C'è un sentimento che sta guidando le opinioni pubbliche in tutto il mondo. La paura. Per la guerra. Per i migranti. La destra ha sempre saputo governare bene e meglio di altri, questi sentimenti. Una paura che finisce per coinvolgere anche temi più condivisi, come l'ambiente».
Dopo 100 giorni era naturale aspettarsi un effetto-Schlein: c'è stato ma al contrario?
«Il cattivo risultato, in queste pur limitate elezioni, è un segnale allarmante che oltretutto spingerà la destra ad aumentare la "presa" sul Paese"».
Il capo dello Stato ha usato parole severe, alludendo alle contestazioni al Salone del libro contro la ministra Roccella e in quella occasione Schlein aveva definito autoritaria la protesta del governo; non pensa che il settarismo sia il pericolo più serio del nuovo corso Pd?
«È stato un autogol. Istintivamente si può pensare che quelli erano dei "ragazzotti", ma questo non giustifica nulla. Si doveva dire che una contestazione di quel tipo è inammissibile. Poi, semmai, ti occupi dei ragazzi».
Da dove si riparte?
«Verona e Vicenza ce lo insegnano: ci deve essere un rinnovamento nella cultura di governo che vale a livello locale come a livello nazionale. Un'idea di comunità, di attenzione ai quartieri, alle aggregazioni. Un riformismo che non si limiti a presentare dei Ddl in Parlamento, ma che mobiliti il Paese su cose concrete: salario minimo, disparità, casa, salute, scuola, pannelli fotovoltaici sui tetti e non sui campi, nuova attenzione al territorio. Un nuovo riformismo dovrebbe essere persino facile quando un primo ministro arriva a dire che pagare le tasse è come pagare il pizzo. Quando ho sentito questa frase ho capito che è un programma facilmente contrastabile con una minima intelligenza politica».
FRANCESCHINI DIFENDE SCHLEIN AD OLTRANZA
Su Repubblica, il giornale che più ha sostenuto la segreteria Schlein, Stefano Cappellini intervista l’eminenza grigia del Partito democratico Dario Franceschini. Che difende a tutto campo la sua creatura politica. Senza autocritiche.
«Dario Franceschini, si aspettava una sconfitta così pesante per il Pd alle comunali?
«La sconfitta è evidente ma non capisco la sorpresa per la vittoria della destra».
È normale che nei capoluoghi il centrosinistra vinca solo a Vicenza?
«Tanti fattori concomitanti spiegano il risultato. Il primo è un’onda di destra che riguarda tutta l’Europa. Il secondo elemento è fisiologico, ci sono pacchi di studi a dimostrare che in tutti Paesi del mondo, quando si vota nel primo anno di governo, c’è un effetto trascinamento. Infine c’è il terzo elemento, tutto italiano, e cioè una maggioranza unita e una minoranza divisa».
Ma molti attendevano un effetto Schlein già in questa tornata. Teme conseguenze sulla nuova segretaria?
«Nessuno ha la bacchetta magica, nemmeno Schlein. Mi rattrista un po’ che le lezioni del passato non bastino mai. Tutti i leader del Pd, sottoscritto compreso, hanno subito dal primo giorno una azione di logoramento. Allora dico: fermiamoci. Il risultato di queste amministrative non può diventare un alibi per iniziare una normalizzazione di Schlein. Lasciamola lavorare libera, non bisogna ingabbiarla».
Chi vuole ingabbiarla?
«Non penso a qualcuno in particolare, ma vedo un clima insidioso. Si rischia che un risultato negativo di cui Schlein non ha alcuna responsabilità venga usato per iniziare a indebolirla. Anziché processi, facciamo semmai analisi, è sempre più evidente che siamo davanti a un ritorno del bipolarismo. Le leggi elettorali a tutti i livelli spingono verso due coalizioni che si fronteggiano».
Ma, appunto, una coalizione c’è e dell’altra non c’è traccia.
«Veniamo da due legislature in cui i confini tra i poli si erano annacquati. Stavolta è diverso. Io penso che, più questa legislatura andrà avanti, più evidente sarà il solco che divide maggioranza e opposizione in Parlamento. Ci piaccia o no, il governo andrà avanti fino in fondo, dobbiamo ragionare su un tempo lungo, abbiamo quattro anni a disposizione».
Quattro anni per fare cosa, in concreto?
«Un lavoro lungo su due fronti. Primo fronte, Pd. Secondo fronte, coalizione. Schlein ha già fatto bene al partito, con le primarie ha cominciato a recuperare consensi dall’astensionismo e dai tanti delusi di sinistra. Le va lasciato completare questo lavoro fondamentale. Quanto alla coalizione, alle europee si vota con il proporzionale, ci sta che i singoli partiti lavorino sulla visibilità, lo vedremo anche a destra, però sono pronto a fare una scommessa sul risultato delle europee».
Mettiamo a verbale.
«Si voterà quando il governo avrà quasi due anni di vita e si vedrà che la somma dei partiti di opposizione sarà superiore alla somma partiti di governo. So bene che non basta una operazione aritmetica, però il risultato creerà un clima nel paese. Gli elettori diranno con chiarezza alle opposizioni: se state insieme potete vincere, divisi non ci potete neanche provare».
Anche nel settembre scorso era chiaro, eppure è finita come è noto.
«Rifare l’errore sarebbe delittuoso, non ci verrebbe perdonato».
Lei forse parla per il Pd. Ma è sicuro che i potenziali alleati condividano?
«Non dobbiamo seguire la formula del tutti contro la destra, indipendentemente da programmi e contenuti. Usiamo questo periodo all’opposizione per preparare terreni comuni a cominciare dalle battaglie parlamentari, per esempio su salario minimo e sanità. Quel solco tra destra e sinistra si allargherà e avvicinerà le forze di minoranza al di là della volontà dei singoli».
Conte si convincerà a stare con Renzi e viceversa?
«Le reazioni ora saranno di certo negative ma il tempo aiuterà a vedere le cose in modo diverso. Ho lavorato con entrambi, come con Calenda, che ha ragione quando dice che non si può costruire un’alleanza sulla paura della destra. Servono contenuti e apertura reciproca. Poi penso anche ai sindaci e a personalità non strettamente inquadrabili nei partiti, come Giuseppe Sala e Gaetano Manfredi».
Sicuro che Conte si collochi con certezza nel campo progressista?
«I 5s sono partiti come forza antisistema ma il loro percorso di governo con noi, prima con il Conte bis e poi con Draghi, li ha spostati nel campo progressista, tanto è vero che molti si sono allarmati che potessero toglierci voti da sinistra. Un dato politico che come Pd dovremmo rivendicare di più».
MATTARELLA IN EMILIA ROMAGNA
A proposito di emergenza alluvione. Ieri Sergio Mattarella è andato in visita nelle zone alluvionate: «Ce la farete e non sarete soli». Musumeci: governo assente, peccato. Il Colle: non facciamo mai inviti. Per il Corriere della Sera Giusi Fasano.
«Per 48 ore di fila a questa gente è caduto il cielo addosso. Pioggia e ancora pioggia, «e noi, signor presidente, eravamo come Davide contro Golia». Massimo Isola legge appunti disordinati scritti in rosso sui suoi foglietti. È il sindaco di Faenza, tocca a lui accogliere la tappa finale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, venuto in Romagna a portare l’abbraccio, il saluto e la vicinanza dello Stato. E si commuove, il sindaco, mentre dice che «la Romagna intera è dentro un dramma profondo», che «noi sindaci abbiamo fatto tutto quello che era umanamente possibile» e che «abbiamo la coscienza pulita». Tocca al presidente, adesso. Più di cento sindaci lo ascoltano in un religioso silenzio che fa sembrare fastidiosi perfino i clic dei fotografi. «Non dovete avere paura di essere soli, non lo sarete», è la promessa più attesa che sentono dalla voce di quest’uomo venuto fin qui a riempirsi gli occhi di «un panorama di ferite», come l’ha definito lui stesso. Ma anche a dire che «Ce la farete, l’Italia intera è con voi. Vi porto la piena solidarietà di tutto il Paese. Il governo ha subito destinato somme rilevanti come primo intervento, certamente ne seguiranno altre. Io sarò accanto al governo nel sostenere senza pause e senza alcuna incertezza la ripresa piena». Alla platea di primi cittadini dice: «Siete stati il punto di riferimento per non crollare nella demotivazione. Desidero ringraziarvi per quello che avete fatto, per quello che state facendo e che farete». Alle 17.50, quando Sergio Mattarella lascia la sala dopo aver stretto le mani a tutti — ma proprio tutti — quei sindaci, loro lo salutano intonando Romagna Mia. Finisce così la giornata romagnola che il capo dello Stato aveva cominciato in volo su quel «panorama di ferite» che si vede dall’alto: le frane. Ce ne sono migliaia. Hanno tagliato strade, isolato frazioni, casolari, allevamenti, tirato giù versanti interi. Il presidente le ha passate in rassegna come si fa con i soldati, ed è sceso a Modigliana, il Comune che ormai tutti chiamano «delle duecento frane». Non importa se ce ne sono davvero 200 oppure no. «Importa che lui sia venuto da noi», come dice il sindaco Jader Dardi, che paragona la visita a «un abbraccio collettivo per la nostra comunità». A Forlì è stato lui, invece, a ricevere un abbraccio, quello dei bambini. Nella piazza centrale della città sono arrivati da tutte le scuole. Bimbi piccolissimi e ragazzini delle medie a fare quel chiasso allegro che soltanto le scolaresche sanno fare. Era la tappa in omaggio ai volontari, Forlì. E Mattarella li ha voluti ringraziare ricordando anche le 15 vittime dell’alluvione. Fra i volontari «Le vittime non vanno dimenticate» ha detto. «Un modo straordinario di rendere loro onore è stato quello dei volontari. Giovani che trasmettendo entusiasmo a tutti sono venuti per impegnarsi aiutando chi ne aveva bisogno». Ma il grazie non era solo per quei giovani. Era anche per chiunque abbia avuto un ruolo nell’uscita dall’emergenza, dalle forze dell’ordine ai vigili del fuoco, dalla protezione civile alle associazioni. A Cesena nuova tappa fra volontari e soccorritori. Fra gli altri ha stretto la mano ad Alessandro Muratori, che con la sua canoa ha salvato una famiglia nella casa invasa dall’acqua: «Grazie per quello che ha fatto, e anche per l’inventiva...». Poi a Lugo, nel Teatro Rossini finito sott’acqua e che gli abbonati stanno aiutando a recuperare. A Ravenna, fra la prefettura e il Municipio, per i saluti istituzionali e per dire altri «grazie» a eroi improvvisati di questo maggio disastroso. E infine Faenza, sempre accompagnato dal presidente della Regione, Stefano Bonaccini. Quando il corteo presidenziale si allontana il sindaco di Faenza annuncia una notizia avuta da poco: «Il governo ha invitato la prossima settimana una delegazione di sindaci per costruire un piano operativo. Finalmente. È quello di cui abbiamo bisogno». In questo clima di entusiasmo sembra lontanissima la polemica della mattina. Nello Musumeci, ministro con delega alla Protezione civile, aveva detto: «Peccato che non ci sia nessuno del governo a illustrare al capo dello Stato le criticità del luogo». Secca la replica del Quirinale: «Mai fatti inviti in occasioni del genere. Il presidente non impone la presenza di esponenti del governo. Ma se qualcuno vuol venire è benvenuto». Dalla «Romagna Mia» presidenziale è tutto».
Da Forlì a Ravenna, Lugo, Modigliana e Faenza: il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, accolto con entusiasmo e affetto dai romagnoli. Tra bagni di folla, abbracci e una Costituzione autografata, il racconto della commozione di volontari e alluvionati. Che, dicono, è stato “un sollievo vederlo qui in mezzo a noi”. Filippo Fiorini per La Stampa.
«Per città battute da un vento carico della polvere in cui dopo due settimane si sta trasformando l'alluvione. Su piazze ustionate dall'estate improvvisa. In volo sopra zone tuttora allagate e poi attraverso borghi di montagna ancora costretti dalle frane a far la vita delle isole, Mattarella ha incontrato ieri i romagnoli e da questi ha ricevuto soprattutto amore. «Presidente!», oppure, «grazie, presidente!», sono state le parole che più di ogni altre hanno accompagnato le sei tappe di un sopralluogo che il capo dello Stato ha percorso usando abbracci, strette di mano, sorrisi e battute di conforto, verso volontari, uomini delle forze dell'ordine, scolaresche, angeli del fango e genti investite dalle piene, che spesso ricorrevano alla figura del padre, per spiegare ciò che provano per lui. «La nostra casa di Faenza è stata risparmiata il 2 maggio, ma il 16 si è allagata completamente», dice Elisabetta Cimatti, in riferimento all'alloggio per persone fragili che la Comunità Papa Giovanni XXIII gestisce qui, e che è stato colpito dall'alluvione, come anche quelli che gestiscono a Forlì e Cesena. Senza tetto, diversamente abili, bisognosi: sette sono gli inquilini che quella notte hanno salito le scale della palazzina nel quartiere Borgo, perché l'acqua uscita dal Lamone sfregava il soffitto del pianterreno, svegliandosi poi all'alba dell'indomani nel panico e in attesa dei gommoni dei Vigili del Fuoco per evacuare. «Sono stati accolti da una donna che a suo tempo ha vissuto in una delle nostre case famiglia – spiega ancora Cimatti, precisando che si trovano ancora lì – una che ha il tatto per parlare con soggetti fragili come persone autistiche, che si trovano ad affrontare un'emergenza come questa». «Dai giornali», Elisabetta e tutti gli altri della Papa Giovanni hanno appreso che il presidente Mattarella aveva deciso di devolvere a loro l'ammontare del premio Paolo VI, di cui è stato insignito ieri l'altro da Bergoglio. «Grazie, presidente», gli hanno detto ieri a Faenza, per fargli presente il valore che danno al fatto che «nel momento del bisogno, non si è dimenticato di noi». Poco prima, Mattarella aveva fatto un gesto da rockstar e firmato un autografo a un tredicenne. «Quando ho sentito che arrivava, ho cercato la Costituzione che ci hanno regalato a scuola nella libreria di casa – ride Ray Mancini, diviso tra l'eccitazione per il valore intrinseco di avere una copia della legge fondamentale dello Stato, firmata dalla sua massima carica, e i coetanei che chiedono quanti soldi vale. «L'acqua ci è arrivata soltanto vicino», precisa il ragazzo, poi aggiunge: «Mattarella mi ha detto che firmava solo perché si trattava della Costituzione». La mattina, il presidente aveva visto la piazza di Forlì gremita di un'umanità numerosa e varia come quella che lo ha aspettato anche Ravenna, Lugo, Modigliana, oltre che naturalmente a Faenza, che in una classifica difficile da stilare, è forse il luogo più duramente colpito. I piloti d'elicotteri della Guardia Costiera vestivano l'uniforme di volo e faticavano a dismettere l'attenti anche mentre lo aspettavano al sole, tra Esercito e Carabinieri: «Veniamo da Sarzana, Pescara, Catania», spiegava il comandante Andrea Bruni, ricordando le «64 ore di volo senza soluzione di continuità» durante i giorni caldi della crisi. Ovvero, «50 interventi e 46 persone salvate, dall'Appennino Forlivese a Sant'Agata Santerno». Loro hanno incontrato Mattarella, così come è accaduto anche per altri protagonisti dell'antologia di storie che l'alluvione porta con sé. Gli alpini anziani che portano le mostrine da militare insieme a quelle per gli altri cataclismi in cui sono intervenuti, in forza alla Protezione Civile. La Misericordia di Forlì, che si è occupata di trasportare e trovare casa agli anziani impossibilitati a muoversi. Poi, due ragazzi innamorati. Camilla e Jacopo, che non si sono allagati «per miracolo», ma «come tutti» sono «circondati da parenti e amici che invece hanno preso l'acqua». Sono, loro, tra i moltissimi e cosiddetti «angeli del fango» che dai pressi delle zone alluvionate o da luoghi lontani, spalano dalle case la melma lasciata dai fiumi. «Ci sono persone che non hanno ancora superato il trauma – ragionano con gli abiti sporchi dal lavoro di ricostruzione appena interrotto –, altre che solo ora si rendono conto di quello che gli è accaduto. Hanno bisogno di sentire la nazione vicina». Proprio per questo, sono voluti venire a vedere Mattarella e proprio di questo ha parlato lui, rivolgendosi paternalmente anche a chi, dalle frazioni isolate della montagna, è sceso con un cartello in cui chiede di «non essere lasciato solo», visto che è ancora tagliato fuori da una strada crollata, come Giampaolo Gramettieri di Modigliana».
MASSOBRIO: “CONSUMATE I PRODOTTI DELL’EMILIA ROMAGNA”
Appello del giornalista gastronomo ai consumatori italiani: privilegiare i prodotti romagnoli in questa fase è una forma di solidarietà intelligente. Paolo Massobrio.
«Ha ragione Paolo Cevoli quando dice che i romagnoli, davanti a qualsiasi difficoltà, hanno sempre un però: « Ho perso tutto... però sono vivo». Ovvero una chiusura positiva, quasi un sentimento indomito che scaccia lamentele e disperazione. Anche Claudio Mita da Faenza, quando l’ho chiamato giorni fa al telefono, alla mia domanda «Come stai?» m’ha risposto con un prontissimo « Bene!». Però la sua cooperativa sociale che impiega 12 lavoratori svantaggiati è stata invasa da acqua e fango. Producono tortellini e cappellacci e prodotti da forno e l’alluvione ha distrutto 8 quintali di pasta stoccata nelle celle e tutti i materiali di consumo e imballo, oltre agli impianti inagibili. Almeno 300mila euro di danni, con i dipendenti in seria difficoltà: chi ha perso la casa, chi è ancora isolato. Claudio lo avevo incontrato questo autunno all’Abbazia di Chiaravalle alle porte di Milano, per una serata con una ventina di imprenditori che hanno convertito la propria realtà a “società benefit”. Ci ha preparato una cena con i suoi prodotti e soprattutto con le birre dei monasteri, compresa quelle della Cascinazza di Buccinasco, dove 23 monaci benedettini abitano il monastero dei santi Pietro e Paolo. È la sua passione, che esercita anche con la vendita nella Bottega di Casa Novella a Faenza e su www.botteghemestieri.it, che ha tenuto viva la sua impresa durante il Covid, quando pensava di non farcela. E anche adesso è spaesato: «Stiamo cercando di ripartire – mi scrive – da soli non ce la facciamo e dobbiamo garantire gli stipendi ai nostri dipendenti». Servono soldi, dunque, ma anche ordini da parte di negozi o ristoranti perché nonostante tutto la produzione è ripartita, in una terra dove il senso della solidarietà è fortissimo. Ma non bisogna confondere l’attitudine positiva dei romagnoli col pensiero che «tanto se la caveranno». Perché non è così. Se non fosse stato per un messaggio di un amico di Salò, non avremmo saputo della difficoltà di Claudio e della sua urgenza, perché un’altra faccenda romagnola è quella certa resistenza a chiedere, che invece è un gesto di carità verso gli altri e anche verso sé stessi. E qui l’Appello della settimana è chiaro: c’è bisogno ancora una volta di non dimenticare, dopo i giorni avvolti dall’emozione e dall’esposizione mediatica. Perché la ripresa è sempre lenta e ha bisogno di una compagnia umana che si prenda cura di chi ci è prossimo. Come la cooperativa Botteghe e Mestieri, che deve poter continuare a esistere, con tutto il bene che ha portato in questi anni. E anche con il buono che sa creare giorno dopo giorno».
REPORTAGE DAL KOSOVO
Il giorno dopo i gravissimi scontri, le denunce della minoranza albanese: "Siamo discriminati e Pristina ci tiene prigionieri". Belgrado finisce nel mirino: "Ci usa per le sue rivendicazioni ma non ci difende". La rabbia per l’elezione di sindaci eletti con solo il 3 per cento dei voti. Letizia Tortello e Luca Mazzanti Jovicevic da Zvecan (nel nord del Kosovo) per La Stampa.
«Al bar di Svečan, Tomislav Milentijević e i militari di Kfor, italiani, ungheresi, polacchi e americani, sedevano agli stessi tavolini, fino a due giorni fa. Quelli con vista sulle colline e sulla fortezza medievale, costruita dal Gran Principe di Serbia Vukan. La tensione la tagliavi col coltello, i soldati erano magari visti con sospetto, tenuti a distanza. Ma prima che infuriassero gli scontri di lunedì, nella cittadina del Nord del Kosovo, distretto serbo di Kosovska Mitrovica, l'odio non si era ancora trasformato in rabbia. «Ho 33 anni e tre figli da mantenere, lavoro in un'azienda edile – dice –, una delle poche cose che posso fare in quest'Apartheid. Qui solo i serbi ti danno un impiego, dai kosovari non otterrai mai nulla. E quindi dovevamo starcene con le mani in mano? No! Ora ci facciamo sentire, perché nessuno ci difende e marciamo nella povertà, in un angolo di mondo». Tomislav era una delle centinaia di persone che lunedì ha partecipato alle manifestazioni, in cui sono rimasti feriti, anche gravemente, 11 soldati italiani. Ha visto davanti ai suoi occhi «scontri e manganellate, le ho anche filmate. Tutto è cambiato quando è arrivata la Kfor». Vive come un estraneo da tutta la vita, in una delle quattro enclave a maggioranza serba che si concentrano nella parte settentrionale del più giovane Stato europeo, il Kosovo (2008), dove la popolazione è per il 97% a maggioranza albanese. Per lui, come per gli altri concittadini che guardano più a Belgrado che a Pristina, anche andare a fare un viaggio è un'impresa quasi impossibile. «Frustrante al limite della disperazione», dice la sorella Marina, che è scappata a Belgrado per l'università, ma da giorni guarda h24 il cellulare, perché teme per la vita dei suoi familiari: «Non sai mai quando potrebbero riscoppiare gli scontri – spiega –. Dalla scorsa estate, siamo sull'orlo di un conflitto con le forze speciali kosovare (Rosu, ndr), che con noi sono xenofobe, ci discriminano, ci trattano come esseri inferiori». E racconta quant'è tortuosa l'esistenza di una come lei, serba kosovara di poco più di vent'anni, che vuole fare la giornalista e ogni volta che deve uscire dal confine deve chiedere un visto, un permesso a Pristina: «Non abbiamo il passaporto serbo vero, noi, ma quello rilasciato dal Kosovo – dice –, e devi fare una trafila allucinante per riuscire a ottenerlo. Ogni volta che hai bisogno di un certificato, devi spendere soldi e muoverti in altre città, dove ci sono gli uffici preposti, poi guarda caso, quando arrivi, manca sempre internet. Ogni volta, una scusa per rallentare la burocrazia a noi serbi kosovari e tenerci bloccati qui». E allora, «piuttosto rinunci – aggiunge –, anche al lavoro che volevi, in una Ong. Come ho fatto io, perché non riuscivo a produrre la documentazione richiesta, come un certificato di nascita». Si tratta di una comunità, quella serba in Kosovo, di 40-50 mila persone, a fronte di 1,8 milioni di cittadini in tutto il Paese. Una popolazione che Nicolina Klajić, classe 2000, studentessa di Scienze Politiche, non si sente di incolpare per quel che è successo lunedì. Alle elezioni dei sindaci locali, lo scorso 23 aprile, la comunità serba ha disertato le urne in blocco. Proprio a Zvecan, o nella sua città d'origine, Obilić, i primi cittadini sono stati eletti con il 3% dei voti (solo dei kosovari albanesi). Nel Paese non c'è soglia di sbarramento, dunque i nuovi rappresentanti comunali hanno pensato bene di insediarsi lo stesso. All'arrivo a Palazzo civico, lunedì, hanno trovato i serbi ad aspettarli. E dai cori e dalle torte offerte alla polizia e ai militari della Kfor, «si è passati alle bastonate, al lancio di granate choc e spray al peperoncino – continua Tomislav –, quando le forze speciali kosovare sono entrate nel palazzo per cambiare le serrature e tenerci fuori». Nessuno, in quelle terre di colline e pastorizia, con la disoccupazione più alta d'Europa e lo stipendio medio di 500 euro, aveva mai visto scontri come questa settimana, almeno dal 2008, o dal 2011. «Non è colpa nostra – spiega Nina –, la gente serba in Kosovo è abituata a doversi difendere da sola, è preparata a combattere, perché non vive in pace». Se la prende con Pristina e col premier Albin Kurti, che «si presenta come governo di tutto il popolo, e non si comporta affatto così, in modo multietnico». Ma anche col governo serbo di Aleksander Vucic, che «dovrebbe proteggere il popolo serbo, e invece ci dimentica». Tomislav usa un altro verbo: «Il governo serbo ci strumentalizza. Ci usano per parlare della più grande rivendicazione che Belgrado può avanzare, cioè la separazione del Kosovo dalla Serbia, ma non fanno nulla per difendere i nostri diritti». I serbi del Kosovo chiedono il ritiro delle forze speciali, quelle che Marina soprannomina provocatoriamente "Gestapo", dalle regioni del Nord. Questo, dicono, aiuterebbe la de-escalation. E che la sofferenza e l'odio abbiano trovato, solo ora, una valvola per sfogarsi, lo spiega bene Miško Miličević, dell'Ong Aktiv, un punto di riferimento per i serbi discriminati: «Le lamentele sono aumentate – dice –, io stesso sono stato intimidito dalle unità speciali della polizia a novembre e in molti altri casi». Al 31 dicembre, la sua organizzazione aveva registrato più di 30 incidenti subiti dai serbi di Kosovo. «I militari italiani della Kfor sono l'unica protezione», dice. La sua accusa va alla comunità internazionale, che ha «reagito tardi – precisa Miličević –. Gli allarmi c'erano da mesi. Credete davvero che 40mila serbi che si lamentano siano tutti sbagliati o manipolati? La situazione è incendiaria e minaccia di peggiorare».
ATTACCO DI DRONI SU MOSCA
L'incursione poco dopo l'ennesimo raid aereo sull'Ucraina. Colpito un quartiere residenziale. La riposta russa: “L'Occidente sta aumentando la fornitura di armi all'Ucraina ma noi le spazzeremo via”. Giuseppe Agliastro per La Stampa.
«La violenza della guerra si è abbattuta su Kiev e su Mosca quasi nelle stesse ore. Per la prima volta dall'inizio del conflitto, una raffica di droni ha colpito delle aree residenziali della capitale russa. Secondo Mosca, non ci sarebbero morti. L'attacco è avvenuto nelle prime ore del mattino di ieri, poco dopo un ennesimo bombardamento di droni su Kiev che secondo le autorità ucraine ha ucciso almeno una persona e provocato diversi incendi. La vittima pare sia una giovane donna che si trovava sul balcone di casa quando il rottame di un drone abbattuto è precipitato sul suo condominio distruggendo i due piani più alti e mandandoli in fiamme. Tra le macerie potrebbero esserci ancora delle persone. Ma il raid notturno ha preso di mira anche altre zone dell'Ucraina, e il bilancio ufficiale in serata si era aggravato salendo a quattro morti e 34 feriti. È la diciassettesima volta da inizio maggio che Kiev viene presa di mira. La contraerea ucraina afferma di aver abbattuto oltre 20 droni kamikaze iraniani sui cieli della capitale e «29 su 31» in tutto il Paese. La Russia invece minimizza sull'attacco su Mosca: il sindaco parla di danni di «minore entità», dice che due persone avrebbero riportato delle ferite ma sostiene che non siano gravi. Pesanti sono invece le parole con cui Putin ha condannato il bombardamento: l'Ucraina ha scelto «di terrorizzare i cittadini russi e di colpire gli edifici residenziali», ha tuonato il leader del Cremlino. «Ci stanno provocando a rispondere a tono», ha poi aggiunto, mentre gli investigatori russi annunciavano un'inchiesta per «terrorismo». Mosca punta quindi il dito contro Kiev e minaccia di poter «adottare le misure più dure». L'Ucraina da parte sua respinge ogni accusa, ma con il consueto sarcasmo compiaciuto che sfodera solitamente in caso di attacchi in territorio russo. «Non abbiamo nulla a che fare» con il raid, ha dichiarato Podolyak. Subito dopo però il consigliere presidenziale ucraino ha detto che alcuni droni russi sparati contro l'Ucraina sembrano essere «tornati indietro» e che il governo di Kiev «guarda con piacere» la situazione e «prevede un crescente numero di attacchi». Le offensive contro i civili sono inaccettabili, siano essi sferrati in Russia, in Ucraina o in qualsiasi altro Paese. Al momento non è possibile dire chi vi sia dietro il raid a Mosca. «Non sosteniamo gli attacchi all'interno della Russia. Ci siamo concentrati sul fornire all'Ucraina le attrezzature e l'addestramento di cui ha bisogno per riconquistare il proprio territorio», ha commentato il Dipartimento di Stato americano. L'esercito russo afferma che Mosca sia stata presa di mira da otto droni e sostiene di averli messi tutti fuori combattimento. «Tre di loro sono stati eliminati dalle armi elettroniche. Altri cinque sono stati abbattuti dai missili Pantsir-S», dichiara. Il canale Telegram Baza parla invece di 25 droni: ma non ci sono conferme. I giornali locali danno comunque notizia di almeno tre palazzi danneggiati. Il governatore della regione di Mosca riferisce di droni abbattuti pure nell'hinterland, dove secondo la tv Dozhd si sarebbero sentite esplosioni anche non lontano dalla Rublyovka: il quartiere alle porte della capitale russa dove sorgono le ville dell'élite politico-economica. Il parlamentare putiniano Aleksandr Khinshtein sostiene che tre droni sarebbero stati abbattutti in tre punti di questo rione, uno dei quali disterebbe appena 10 minuti di auto dalla residenza ufficiale di Putin a Novo-Ogaryovo. Il capo del famigerato gruppo di mercenari Wagner, Yevgeny Prigozhin, ha colto la palla al balzo per scagliarsi ancora una volta contro gli alti comandi dell'esercito russo accusandoli di non aver fermato i droni prima che arrivassero a Mosca. «Che le vostre case brucino», ha detto in un messaggio condito di parole offensive. Secondo alcuni osservatori, il raid potrebbe avere un certo impatto emotivo su Mosca, che dista centinaia di chilometri dall'Ucraina invasa dalle truppe russe e dove nelle scorse settimane si è registrato un presunto e misterioso attacco con droni sul Cremlino. Mentre tanti ritengono imminente una possibile controffensiva ucraina, si sono moltiplicati sia i bombardamenti sull'Ucraina sia le esplosioni nelle zone russe vicine al confine (o occupate da Mosca). Tra queste la regione russa di Belgorod, dove il governatore accusa le truppe di Kiev di aver colpito un centro profughi uccidendo una persona e dove già nei mesi scorsi le autorità locali avevano denunciato bombardamenti che avrebbero provocato la morte di diversi civili. L'Ucraina intanto continua a essere martoriata dall'atroce guerra scatenata da Putin: un conflitto che ha ucciso decine di migliaia di persone, tra cui tantissimi civili, ha costretto milioni di ucraini a lasciare le proprie case e ha visto radere al suolo intere città».
“L’ATTACCO A MOSCA È UN SALTO DI QUALITÀ DELLA GUERRA”
Gli esperti militari del Corriere Guido Olimpio e Andrea Marinelli analizzano il “salto di qualità” dell’attacco dei droni sulla capitale russa.
«La salva di droni ucraini lanciati in direzione di Mosca rappresenta un salto di qualità, storia ben diversa dalle esplosioni sulla cupola del Cremlino in quanto questa appare come una vera operazione bellica. Studiata, provata con una serie di movimenti minori. È la reazione ai raid massicci degli invasori con droni e missili, portati con grande cadenza negli ultimi giorni. La Russia ha mobilitato parte del suo dispositivo, compresi i bombardieri strategici. Non c’è un equilibrio di forze, però Kiev replica con strike o incursioni nelle zone di confine. Con queste «operazioni di modellamento», scrive il Financial Times , Kiev anticipa la controffensiva: «fanno parte della pratica militare standard», dicono i funzionari della difesa e gli analisti, il loro scopo è ingannare il nemico, intromettersi nella sua mentalità e «modellare» il campo di battaglia prima di una grande offensiva. «Le operazioni di inganno hanno sempre fatto parte della guerra, ma ora il loro effetto è amplificato dai social media», ha affermato John Spencer, ex maggiore dell’esercito americano. Sono azioni che hanno una valenza militare ma servono anche a trasmettere segnali alle opinioni pubbliche. I cittadini russi — dicono dall’Ucraina — devono provare la stessa angoscia, la paura, l’incertezza vissuta da mesi dalla nostra popolazione. Lo stress di stare rinchiusi in un rifugio, nel tunnel del metrò, nelle cantine è logorante. Se i «botti» attorno alle mura del Cremlino potevano rientrare nella cornice di un «fronte coperto», quelli di ieri — alla luce del sole — portano la guerra nella capitale del neo-zar. Sprigionano un’onda d’urto, sono accolti dalla Russia con una doppia posizione: da un lato promette ritorsioni severe, dall’altro se ne serve per chiamare a raccolta. Le fonti ufficiali di Kiev, a loro volta, si felicitano per gli attacchi, però prendono le distanze negando un coinvolgimento diretto. Rispuntano anche le ipotesi di velivoli decollati dal territorio russo, e dunque sul ruolo dei «partigiani». Entrambi gli schieramenti rivendicano successi totali delle loro difese, sostengono di aver intercettato gli ordigni, sminuiscono i danni. La propaganda ha i toni alti, sono comunicati da prendere con cautela. I soldati di Zelensky, dopo aver ricevuto batterie di Patriot dalla Nato, hanno contenuto la minaccia sottolineando l’efficacia nel contrasto degli ipersonici Kinzhal e dei velivoli senza pilota iraniani Shahed, forniti in quantità industriali da Teheran, sempre più importante nel supporto all’invasione. Mosca indica di aver centrato ancora un Patriot e parato i voli dei cruise britannici. Satura le difese dell’Ucraina con una «pioggia» di vettori, ogni ondata è composta da decine di «testate», tiene impegnata l’anti-aerea in alcuni settori. Tuttavia è impossibile rendere lo scudo impermeabile, non esistono «amuleti» e neppure armi «supreme». È una premessa generale, applicabile ai due contendenti. Si rincorrono le voci sulle tattiche, sui modelli impiegati da Kiev, prodotti della sua industria. È la dimensione aerea, integrata in quella marittima — vogliono affondare navi con sciami di barchini esplosivi — e nelle sorprese elaborate dalle forze speciali dell’intelligence. Secondo l’esperto Tom Cooper, l’aviazione di Putin ha intensificato l’attività a partire dal 16 maggio, con un’ulteriore spinta il 25. Ha preso di mira Kiev, ha lasciato il segno nella base di Khmelnitskiy, nell’Ovest del Paese: ha messo fuori uso 5 preziosi caccia e provocato crateri sulle piazzole. Missione collegata al contrasto dei preparativi dell’offensiva. Un rovescio ammesso dagli ucraini. Facile comprendere perché Zelensky abbia continuato a chiedere missili con portata di 300 chilometri: ha bisogno di far pagare un prezzo all’avversario, deve poter neutralizzare comandi e snodi logistici. Il pacchetto di Storm Shadow britannici è una risposta parziale, non paragonabile alla disponibilità della Russia. Al tempo stesso è facile comprendere perché Joe Biden si sia rifiutato fino ad oggi di garantire quei dispositivi».
RUSSIA, TORNA DI MODA LA DELAZIONE
La popolazione è ostaggio della paranoia in Russia, tornano di moda i delatori. Raffica di denunce tra vicini e colleghi: bastano i colori giallo e blu per finire nel mirino. Per La Stampa Anna Zafesova.
«La settantenne Olga Slegina è stata denunciata dalle cameriere di un albergo vacanze nei pressi di Mosca: l'avevano sentita discutere con i vicini di tavolo e pronunciare la frase «Zelensky è bello e intelligente», che le è costata circa 500 euro di multa per «discredito delle forze armate russe». L'infermiera dell'hospice per bambini Kamilla Murashova è stata segnalata alla polizia dall'uomo che viaggiava accanto a lei nella metropolitana di Mosca, e aveva notato delle spillette pacifiste sul suo zainetto: se l'è cavata con un verbale e una multa. Al 40enne Yuri Samoilov la vicinanza con un passeggero vigile invece è costata l'arresto per 14 giorni: stava leggendo sul suo smartphone una chat di opposizione, e aveva sul salvaschermo l'emblema del reggimento Azov. La 22enne pasticcera moscovita Nastya Cernyshova è stata denunciata per le torte pacifiste piene di crema e di insulti a Putin. Ma la vigilanza dei cittadini colpisce anche chi non manifesta alcuna opinione politica: una moscovita in volo per Vladikavkaz è stata denunciata dalla vicina di poltrona perché stava leggendo un libro in ucraino. La cronaca non rende pubblico il titolo del libro, ma in compenso rivela il grado di paranoia raggiunto in Russia, in un campionato della delazione che sta battendo ogni mese un nuovo record. Il «donos», la denuncia, è tornato a essere uno sport nazionale. A Ekaterinburg, gli inquilini di un condominio multipiano hanno scritto al deputato Maksim Ivanov dopo il furto dei fiori dall'aiuola piantata nei colori della bandiera russa: «Potrebbe essere opera dei demoni ucraini». La pensionata Svetlana S. ha chiamato la polizia dopo aver scoperto in un vivaio vicino alla capitale russa le mele "Slava peremozhtsam", gloria ai vincitori in ucraino, una varietà che ha quasi 100 anni. Una moscovita ha chiamato la polizia in casa della sua vicina 83enne che aveva esposto nella finestra due fogli di cartone, uno giallo e l'altro blu, per proteggere dal sole le piante sul davanzale. I colori della bandiera ucraina sono un'ossessione, tale da aver spinto perfino il vicepresidente della Duma Vladislav Davankov a chiedere al ministero dell'Interno di chiarire quali utilizzi cromatici sono da considerare criminali. In realtà, già mesi fa la Procura generale russa aveva "depenalizzato" l'accostamento dei colori, ma il 39enne Aleksandr G., addetto alle pulizie di un manicomio moscovita, è stato appena consegnato alla polizia dai pazienti dell'ospedale per il suo giubbotto "ucraino". Le panchine gialle e azzurre sono state ridipinte dopo una denuncia dei passanti a Bryansk e a Omsk. La catena di supermercati pietroburghese Lenta riceve quotidianamente denunce di clienti infuriati per i colori del marchio (scelti probabilmente per imitare l'Ikea). In Siberia, la preside Irina Kotova ha denunciato una allieva 13enne che sfoggiava treccine colorate: in realtà erano blu e verdi, in tinta con l'uniforme sportiva della ragazzina. Ma è meglio non iniziare discussioni cromatiche, se perfino una propagandista televisiva come Olga Skabeeva elimina dopo dieci minuti dai suoi social la foto di un mazzo di fiori viola e gialli. Ormai perfino la Duma parla di introdurre pene per i "delatori seriali". Molti ricorrono alla delazione per regolare dei conti con gli ex, i vicini di casa e i colleghi, o per guadagnare punti nella carriera. Altri sono vittime del terrorismo psicologico della propaganda. Ma nell'ondata di denunce c'è il ritorno di una tradizione che lo scrittore Viktor Erofeev definisce «incisa nella carne dei russi» e che perfino il portavoce presidenziale Dmitry Peskov bolla come «rivoltante». La delazione capillare è stata uno dei meccanismi dello stalinismo, e l'amara riflessione di Sergey Dovlatov sulle «quattro milioni di denunce che qualcuno doveva pur aver scritte» torna di attualità, e riporta in superficie quella guerra civile nascosta che dura in Russia da più di un secolo. L'antropologa Aleksadra Arkhipova è entrata in contatto con la donna che l'ha denunciata, e che ha già consegnato alla polizia più di 900 persone che segnala dopo una metodica ricerca sui media e sui social: «Ce l'ho nel sangue, mio nonno era un informatore dell'Nkvd», ha spiegato fiera, preferendo però non rivelare il suo nome. Altri delatori di professione sono più espliciti: Svetlana Chvanova di Vladimir si vanta di aver denunciato dei mobilitati "imboscati" per farli mandare al fronte, e un sacerdote ortodosso pacifista ha rivelato a Radio Liberty di essere stato segnalato ai superiori da un parrocchiano nel suo villaggio della regione di Leningrado. Elena Mizulina e Vitaly Borodin, attivisti filogovernativi, hanno fatto delle denunce delle star russe "non allineate" un mestiere. Ma quello che per ora è una scelta, e una passione, sta per diventare un dovere: i datori di lavoro avranno l'obbligo di segnalare i dipendenti maschi al commissariato militare, e a Vladivostok e a Pietroburgo sono avvenute le prime incriminazioni per «mancata denuncia di reato» contro russi che non avevano reagito ai post "estremisti" sui social dei loro amici. All'università di Penza il vicerettore Vladimir Shimkin ha invitato gli studenti a spiarsi a vicenda: «Analizzate la vostra cerchia, guardate chi ha un comportamento strano, chi è diventato più evasivo o taciturno. Non tacete».
“LA PACE COMINCIA DAI CORPI CIVILI”
Si chiude oggi la due giorni organizzata dal Movimento Europeo di Azione Nonviolenta a Roma. Ecco l’intervento del portavoce Angelo Moretti su Avvenire di oggi.
«L’Italia non è solo il Paese che, nel rispetto degli accordi internazionali, sta contribuendo ad assistere militarmente ed economicamente un Paese aggredito come l’Ucraina. È anche il Paese in cui esiste una società civile con un pensiero nonviolento ben strutturato ed un mondo accademico molto avanzato sui temi della pace e della mediazione. Abbiamo il pregio di essere il Paese natio di testimoni che hanno ispirato il pensiero pacifista europeo come don Mazzolari, Aldo Capitini, don Milani, Don Tonino Bello, Alex Langer, Danilo Dolci, Gino Strada. Non deve essere un caso pertanto che il Vaticano abbia scelto un cardinale italiano come Matteo Zuppi per l’incarico della missione di pace tra Russia ed Ucraina, dopo il grande lavoro svolto dallo stesso all’interno di un’altra espressione straordinaria del genius pacifico italiano, la comunità di Sant’Egidio. Non sempre però siamo altrettanto eccellenti nella costruzione di una coesione interna al Paese, finanche nella società civile. Nella due giorni di conferenze promosse dalla Pontificia Università Antonianum e dal Movimento Europeo di Azione Nonviolenta, è venuta fuori come esigenza impellente quella di unire tutte le proposte di mediazione in corso e tutte le intelligenze già all’opera, perché l’Italia dei suoi corpi intermedi possa animare la società civile europea nei processi di pace con proposte inedite ed unitarie. Ci siamo riuniti a partire dall’eco ancora forte dello storico appello di Alex Langer “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”, del 25 giugno del 1995. «Bisogna che l’Europa testimoni e agisca! – scriveva Langer –. Per recuperare un credito assai largamente consumato, l’Unione Europea deve oggi dar prova di un coraggio e un’immaginazione politica senza precedenti nella sua storia. L’Europa può farlo, l’Europa deve farlo». A quasi trent’anni da quell’appello, siamo di fronte ad un nuovo popolo aggredito e nuovamente ci sentiamo nell’impasse, un’impasse anche peggiore di Sarajevo, perché l’aggressore siede come membro permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu e non è possibile neanche ipotizzare l’invio dei caschi blu. Oggi gli sforzi di pace hanno bisogno di ancora più immaginazione di quanta ne servisse per fermare la spirale di violenza che conseguì al crollo della ex Jugoslavia. Come ha ben scritto Stefano Zamagni non siamo di fronte ad una guerra tra nazionalismi opposti, ma tra “un’entità politica”, forte di un’ideologia religiosa (Russkij Mir), come la Russia si autopercepisce, ed una “nazione”, quale l’Ucraina è, che intende difendere la propria indipendenza ed autodeterminazione. In questo scenario complesso, il Mean ha ribadito, attraverso una sua autorevole portavoce, Marianella Sclavi, che è il momento di istituire i Corpi Civili di Pace così come Langer li aveva progettati e proposti al parlamento europeo. Nel messaggio inviato alle conferenze Edi Rabini, tra i primi animatori della Fondazione che porta il nome del pacifista altoatesino, ha ricordato che in quella proposta era previsto l’invio di Ccpe, il Consiglio consultivo dei procuratori europei, anche in caso di conflitti in corso, come in Ucraina. «Abbiamo a lungo lavorato e riflettuto – ha scritto Rabini - sul fatto che non è possibile intervenire in zone di conflitto, con pericoli di escalation, senza l’appoggio di una forza armata in grado di bloccare coloro che hanno interesse a continuare a sparare». L’Europa delle mediazioni e del dialogo può e deve dire ancora una sua parola inedita nello scenario drammatico in atto. «La mobilitazione della società civile internazionale tesa a dare vita ad una “Alleanza per la Pace” è oggi una iniziativa urgente e altamente meritoria. Si tratta per un verso di ristabilire quei legami di fiducia reciproca tra Stati senza i quali nessuna pace potrà essere duratura e per l’altro verso, di far comprendere a livello di cultura popolare che non è il fine che giustifica i mezzi, ma la permissibilità dei mezzi che, unitamente ad altre condizioni, giustifica i fini». Ma soprattutto è il momento che questa società civile europea autenticamente impegnata per la pace si unisca ed unisca a sé il grande fermento della società civile ucraina, russa e bielorussa. Da questa alleanza nessuno si senta escluso, nessuno si fermi al solo dibattito tra i pensieri contrapposti del pacifismo, è oggi il momento di agire uniti per la pace, con pratiche nuove di dialogo e istituzioni rinnovate».
La cronaca dell’incontro romano del Mean di Michele Raviart per Vatican News. Qui l’integrale dal sito.
«“Il male va chiamato con il suo nome e va separato dal bene. È il male che ha separato due fratelli e dobbiamo capirne le ragioni”. Ad affermarlo è Alexander Bayanov, giornalista russo esule in Italia dopo la chiusura del suo sito di informazione, mentre abbraccia Tatyana Shyshnyak, soprano di Donetsk che da oltre dieci anni ha lasciato l’Ucraina. Il primo, raccontano, teme per sé stesso. Lei, invece, per la vita dei familiari rimasti nelle zone del Donbass occupate dalla Russia nel 2014 e formalmente annesse dopo l’invasione dello scorso anno.» Più abbracci, meno guerre. D’altra parte “More arme for hugs, no more wars” (Più braccia per gli abbracci, mai più guerre) è lo slogan scelto dal MEAN, il Movimento europeo di azione non violenta, per l’incontro su “La costruzione della pace in Europa da Sarajevo a Kiev”. Due giorni di interventi organizzati insieme alla Pontificia Università Antonianum di Roma per promuovere l’impegno della società civile e l’istituzione di “corpi civili di pace” per contribuire alla cessazione delle ostilità e che ha visto tra i relatori il presidente emerito della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, l’economista Stefano Zamagni. La forza della società civile. “Questi sono appuntamenti fondamentali che mi danno speranza, per me che sto lontana da casa”, spiega Shyshnyak, che del MEAN è anche volontaria. “Credo nella forza della società civile - ribadisce - per me è l’unica via per creare un contesto che affermi valori nuovi, in modo che il popolo aggredito non si vendichi e non risponda con rabbia a quanti hanno fatto del male alle loro madri, ai loro figli, o alle loro mogli”. Dalla Siberia all’Italia. “La pace è una condizione naturale umana, la guerra no. Qualsiasi tentativo di ripristinare la condizione naturale e serena dell’essere umano è molto importante”, sottolinea invece Bayanov. Sociologo cattolico di Novosibirsk, è stato il fondatore del portale Taiga.info, tra i trenta siti di informazione più seguiti in Russia e il più importante della Siberia. Dopo la stretta del governo sull’informazione dopo il 24 febbraio e la previsione del carcere per chiunque chiamasse “guerra” l’operazione speciale in Ucraina, ha subito il blocco del suo portale, le minacce alla sua famiglia, l’accusa di essere un agente straniero ai danni della Russia. È stato il consolato tedesco, l’unico dell’UE presente a Novosibirsk, a fornirgli il corridoio per arrivare in Europa e, attraverso Schengen, raggiungere l’Italia dove aveva molti amici e colleghi. “È cominciata”. “Per me il 24 febbraio ha tolto l’ultimo velo dai miei occhi e dal mio cuore”, ricorda invece la soprano ucraina, “perché è dal 2014 che noi abbiamo vissuto con i cuori stretti e le dita incrociate per i nostri cari”. “Tutto quello che è successo mi sembrava assurdo per me e per la mia famiglia” ricorda, “la stessa idea di essere liberati dagli ucraini era assurda, perché noi siamo ucraini, nonostante la nostra madrelingua russa”. Al momento dell’invasione la sua famiglia le ha mandato un messaggio con solo un verbo: “È cominciata”. “Noi del Donbass sapevamo già quello che sarebbe successo”, rammenta. “Chi non ha saputo tollerare l’occupazione russa del 2014, quando hanno tolto tutti i simboli ucraini dalla città e messo le statue di Stalin se ne è andato da dieci anni”. A rimanere a Donetsk, la zia anziana e la nipote di 24 anni, appena sposata e che aveva comprato casa lì. “È rimasta incastrata in questa situazione, mentre altri sono stati vittime della propaganda”. Per un futuro da fratelli. L’auspicio di Alexander e Tatyana è, quando la guerra sarà finita - “speriamo prima di dieci anni”, dicono - di potersi sentire e chiamare ancora fratelli, anche se sarà difficile. “Ci vorrà tantissimo tempo per ricostruire i rapporti con l’Ucraina. Economici, culturali, di tutti i tipi”, prevede Bayanov. Quanto sta avvenendo, spiega, sembra avere un carattere irreversibile. “C’è una sorta di deformazione di stampo sovietico di valori che vanno contro la cultura umana”, afferma, e la Russia “dovrà ritrovare la propria identità assumendo e riconoscendo le colpe e i crimini fatti”. Per Shyshnyak il futuro è l’Europa: “Abbiamo bisogno di avere accanto altri cittadini europei, ognuno può stare a fianco dell’altro e creare, come diceva David Sassoli, una rete che dice ‘non siamo soli”».
IL GOVERNO INCONTRA I SINDACATI A PALAZZO CHIGI
Giorgia Meloni promette un impegno, la Cisl ci crede: mobilitazione finita. A Palazzo Chigi l’incontro sancisce la rottura con Cgil e Uil. Sbarra gongola: buon inizio di un nuovo cammino. Massimo Franchi per Il Manifesto.
«La promessa di riattivare una lunga serie di «tavoli» con la novità di «un osservatorio sui prezzi a Palazzo Chigi» basta alla Cisl per sotterrare la mobilitazione sindacale. Come previsto, le parole di Giorgia Meloni - comprese «evitare il manifestarsi di una bomba sociale nei prossimi decenni» sulle pensioni - sanciscono la rottura della flebile unità confederale, con Cgil e Uil che rimangono critiche e guardinghe e annunciano la prosecuzione della mobilitazione. Due ore e mezzo di confronto in Sala Verde finiscono con l’immancabile Ugl e la Cisl felici e contenti. Il segretario Capone che giura sul fatto di «non voler diventare commissario dell’Inail» - è addirittura meno entusiasta di Gigi Sbarra. Il leader della Cisl esordisce davanti ai giornalisti che lo attendono sotto palazzo Chigi così: «È stato un incontro molto importante, capitalizziamo due mesi di mobilitazione. La presidente del consiglio si è impegnata a convocare tavoli di confronto a palazzo Chigi a partire dall’inflazione». In realtà sarà l’unico a essere ospitato lì, ma nell’euforia qualche errore ci può stare. Allo stesso modo i tavoli su previdenza e sicurezza sul lavoro c’erano già ma non sono stati più convocati da febbraio. Il giudizio finale di Sbarra sintetizza la divaricazione con Cgil e Uil: «È un buon inizio di un nuovo cammino per un confronto strutturato tra governo e parti sociali», gongola. «La Cisl sarà ad ognuno di questi incontri per negoziare concreti avanzamenti per i lavoratori e i pensionati. Poi valuteremo senza sconti i frutti del confronto e sapremo regolarci di conseguenza», conclude. Sbarra è sceso da solo, mentre Bombardieri e Landini lo hanno fatto assieme. «Abbiamo perso Gigi», è la battuta che scappa al segretario della Uil a certificare la spaccatura. «La presidente del consiglio ha illustrato una serie di temi sui quali si impegna ad avere un confronto strutturato con il sindacato. Nel metodo apprezziamo ma nel merito non abbiamo discusso alcunché», attacca Bombardieri. Se alla vigilia dell’incontro in Cisl ci si augurava che la Uil potesse avvicinarsi per isolare la Cgil, l’esito è molto diverso. «Siamo noi ad aver spiegato a Meloni che, per esempio, sulla delega Fiscale la flat tax è contro la progressività prevista nella discussione. E sulle pensioni gli incontri precedenti non hanno dato risultati tanto che le donne che chiedono almeno di ristabilire Opzione donna stanno ancora aspettando», attacca Bombardieri. Dunque se l’auspicio è quello di «avere la possibilità di entrare nel merito nei tavoli che si faranno», la posizione della Uil è precisa: «La mobilitazione va vanti, di certo non ci fermeremo aspettando settembre e la legge di bilancio», precisa la segretaria confederale Ivana Veronese che accompagnava Bombardieri all’incontro. A chiudere i commenti un combattivo Maurizio Landini: «Le mobilitazioni di maggio hanno prodotto questa convocazione del governo e questa disponibilità, che prima non c’era, a fissare tavoli specifici - esordisce - . Nel merito però oggi il giudizio non è naturalmente positivo, risultati non ci sono stati, non hanno dato risposte alle nostre rivendicazioni. Quindi per quello che ci riguarda bisogna proseguire la mobilitazione», ha aggiunto ricordando le mobilitazioni con una quarantina di associazioni sabato 24 giugno in difesa della sanità pubblica e del 30 settembre contro l’autonomia differenziata. «Il tema urgente e necessario è quello salariale», ricorda Landini. Che a Meloni che sostiene «se avessi le risorse avrei già fatto tutto, maoccorre fare delle scelte che puntano sul moltiplicatore più alto», Landini risponde: «Noi chiediamo di sapere quante risorse mette in campo e dove le va a prendere. Vuole fare accordi con noi? Benissimo, prenda la nostra piattaforma e le risorse le troverà tassando gli extraprofitti delle imprese». All’accusa di Meloni di essere «prevenuto ideologicamente», il segretario della Cgil risponde: «Sulla base dei confronti decideremo tutto quello che è necessario, senza escludere alcuna iniziativa di mobilitazione. Noi facciamo il nostro mestiere».
IL GOVERNO CEDE SUL MES
Il fondo Salva Stati, che non piace a Meloni e alla Lega, sarà discusso alla Camera il 30 giugno Nei fatti è uno scambio con la Ue, nel tentativo di limitare l’ostilità europea su terza rata e modifica dei progetti del Pnrr. Tommaso Ciriaco e Giuseppe Colombo per Repubblica.
«Di fatto, uno scambio. Figlio di una consapevolezza: soltanto il via libera al Mes può evitare che le tensioni e i ritardi sul Pnrr non sfocino in guai peggiori. Ecco perché, alla fine, Giorgia Meloni ha deciso di mettere fine alle manovre dilatorie che da mesi provavano ad allontanare il momento della verità sul fondo Salva Stati. Ieri la conferenza dei capigruppo della Camera ha calendarizzato per il prossimo 30 giugno la ratifica del trattato più odiato dai sovranisti. E ha posto le condizioni per arrivare all’unico esito possibile: la capitolazione. L’esecutivo darà il via libera al Mes, nonostante i dubbi di Meloni e le promesse di opposizione di Matteo Salvini. Lo farà provando ad ammortizzare il danno d’immagine generato dalla retromarcia, ad esempio accompagnando la votazione del testo delle opposizioni con un ordine del giorno che impegni l’esecutivo a non accedere al fondo. Ma quello che conta è, come detto, l’obiettivo politico della ratifica, che punta ad “ammorbidire” Bruxelles. La calendarizzazione, in questo senso, serve ad avvicinare il via libera alla terza rata del Pnrr: diciannove miliardi ancora bloccati, con la richiesta dell’Italia che giace negli uffici della Commissione europea da inizio gennaio. I controlli dei tecnici europei sono ancora in corso. E le relazioni tra Roma e Bruxelles sempre più nervose: da una parte l’Ue, che dalla richiesta di chiarimenti e documenti aggiuntivi è passata all’analisi a campione degli investimenti a cui è agganciata la terza tranche. Dall’altra il governo italiano, in attesa, con il fiato sul collo delle opposizioni. Ma c’è di più. Il voto a favore del Mes in Aula dovrebbe rendere più semplice – almeno così spera l’esecutivo – l’operazione di modifica del Piano di ripresa e resilienza, che si punta a chiudere entro il 15 luglio. Nasce da qui l’idea, condivisa tra la premier e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, di spostare il voto sul Mes di un paio di settimane, non prima quindi di metà luglio. Serve tempo, anche per preparare l’ala più intransigente della maggioranza a ingoiare l’amaro boccone. Il rinvio, però, è stato già “annusato” dalle opposizioni. «Il 30 giugno si deve andare in aula, così il Parlamento sovrano si esprimerà», chiosa il deputato di Azione-Italia Viva Luigi Marattin. Che aggiunge: «Sarebbe strano se questa impellente esigenza saltasse fuori ora, al solo scopo di rimandare ulteriormente il momento della verità». Il riferimento è ai lavori in commissione Esteri; il sospetto è che la melina dei gruppi della maggioranza inizi a ridosso di fine giugno, quando il testo dovrà essere licenziato per approdare in tempo nell’emiciclo di Montecitorio. È evidente che la partita politica sul Mes si incrocia con i dossier più caldi gestiti da Meloni: Pnrr, ma anche migranti e Patto di stabilità. E si intreccia con la strategia che la premier sta mettendo in campo in vista delle Europee del 2024, che incontra e incontrerà l’ostilità crescente di Emmanuel Macron e Olaf Scholz. In questa chiave, la leader proverà ad avvicinare la prospettiva di un patto tra Conservatori e Ppe partecipando nelle prossime settimane a due eventi: il primo è il raduno italiano del popolarismo europeo, in agenda a inizio giugno. L’altro è un evento dell’Ecr, il gruppo dei conservatori, il 5 e 6 luglio a Varsavia».
MIGRAZIONE 1. IL GOVERNO MELONI È IL PEGGIORE SUGLI SBARCHI
“Il governo Meloni sugli sbarchi è il peggiore da 10 anni, serve cambiare strategia”. Il commento di Luigi Manconi sulla Stampa.
«Dal primo gennaio del 2023 fino a ieri sono sbarcati sulle coste italiane quasi 50 mila tra migranti e profughi (e si tenga conto che la distinzione tra le due categorie è sempre più labile): per l'esattezza, 48.837. Il più alto numero mai registrato negli ultimi dieci anni, con la sola eccezione del 2017. Se proiettiamo i dati relativi ai primi cinque mesi del 2023 sull'intero arco di un anno è possibile che si superi il numero massimo di arrivi dell'ultimo decennio: quei 181.436 del 2016. Balzano agli occhi due immediate conseguenze politiche. La prima: il governo Meloni registra, su uno dei punti qualificanti il suo programma, un'autentica bancarotta, un impietoso fallimento, una sconfitta senza appello. Se fossimo un Paese di persone perbene – e, magari, di gentiluomini – dovremmo aspettarci le scuse del ministro Matteo Salvini nei confronti della precedente titolare del dicastero dell'Interno, Luciana Lamorgese, fatta oggetto di greve dileggio e di indecorose contumelie quando, nel corso del corrispondente periodo di tempo, il numero degli arrivi era di 14.412. La seconda conseguenza riguarda quel colossale spreco di demagogia che accompagna la politica migratoria delle destre. Uno scialo di emotività minatoria («il blocco navale!»), di cupa xenofobia («l'invasione! »), di velleitarismo declamatorio («governeremo l'immigrazione! ») per occultare, tra una smargiassata puerile e una norma discriminatoria, l'incapacità di guardare in faccia la realtà. Tutti al mondo sembrano averlo capito, e da tempo, tranne la destra italiana e i suoi sodali. I flussi migratori costituiscono un fenomeno enorme e non transitorio, derivante da cause profonde di natura storica, demografica, economica, climatica e, ancora, antropologica: ovvero l'irriducibile tendenza dell'essere umano a muoversi. Essa costituisce la base dello ius migrandi, uno dei primi diritti naturali universali, tra i più importanti del diritto internazionale nella sua configurazione liberale classica: sin da quando venne teorizzato, nel 1539, dal gesuita spagnolo Francisco de Vitoria. Poi, come è evidente, quel diritto fondamentale va contemperato con le legislazioni nazionali e con i limiti posti dalle compatibilità economico-sociali e geopolitiche. Ma questo non deve far dimenticare l'entità della questione e la sua dimensione etico-politica. Ebbene, qualche matto o qualche cinico pensa davvero di poter affrontare tutto ciò – meglio, di far credere che lo si possa affrontare – con l'aumento delle motovedette nel Mediterraneo? Con altre ingenti risorse da versare al regime dispotico di Recep Tayyip Erdogan? Con un'ulteriore riduzione dei diritti e delle garanzie per coloro che sbarcano in Italia? Al governo Meloni è richiesto ben altro. È richiesta innanzitutto una prova di verità. Dichiarare che una politica migratoria razionale e intelligente esige la rinuncia a qualunque tonalità populista, uno sguardo lungimirante e un programma di ampio respiro. È chiaro a tutti che la soluzione può essere solo di portata europea, ma – proprio per questo – l'Italia deve abbandonare ogni polemica meschina e, prima ancora, garantire quegli standard di tutela dei diritti fondamentali richiesti dalle convenzioni internazionali ed europee e dalla nostra stessa Carta costituzionale. E deve riconoscere quanto sia falsa la rappresentazione di una Europa «egoista» rispetto a una Italia «troppo generosa». I numeri dicono altro. Non solo il nostro Paese accoglie i migranti, ma a braccia chiuse: il fatto è che ne ospita un numero inferiore rispetto a Paesi simili. Nel 2022 la Germania ha riconosciuto lo stato di rifugiato o altra forma di protezione a 159.365 richiedenti, la Francia a 49.990, l'Italia a 39.660. È a partire da questi dati, e dalla consapevolezza di un comune destino, che l'Italia dovrebbe avviare quella politica unitaria con l'Europa di cui si continua a parlare senza che si registri un solo passo avanti. Per capirci: è assolutamente vero che la Francia adotta ai confini con l'Italia metodi brutali e che ricorre a trattamenti anche peggiori nel controllo dei movimenti di migranti davanti al Canale della Manica. Ma i gesti di ripicca e di rivalsa non hanno alcuna efficacia, come si è visto. Se volessimo utilizzare un linguaggio, per così dire, salviniano, dovremmo dire che il più pulito ha la rogna; e dovremmo riconoscere onestamente che le violazioni dei diritti umani, in Italia, non sono meno frequenti di quelle che si verificano in Francia, Germania, Spagna. Le condizioni dell'hotspot di Lampedusa non sono diverse da quelle della cosiddetta Giungla di Calais, un accampamento informale realizzato nei pressi della città portuale francese. Un rapporto dell'organizzazione Human Rights Watch ha documentato quanto fosse sistematica la violazione dei diritti umani. E reportage indipendenti hanno raccontato la situazione drammatica dei centri di identificazione ed espulsione, collocati in aree isolate del territorio tedesco. Di conseguenza, il possibile successo di una iniziativa dell'Italia per promuovere una politica migratoria condivisa non può discendere, certo, dall'elenco delle nefandezze attribuibili ai partner, ma dal suo esatto contrario. Dal riconoscimento, cioè, non solo che il problema è comune, ma che comune è il debito che i Paesi membri hanno contratto: rispetto alla salvaguardia degli standard di protezione umanitaria e rispetto alle politiche di inclusione dei nuovi arrivati all'interno del sistema della cittadinanza europea. Da qui, necessariamente, si deve partire. È il riconoscimento di una responsabilità, come dire, in solido e di una strategia condivisa a livello europeo e anche la base indispensabile per realizzare quegli accordi con i Paesi africani, giustamente indicati come condizione indispensabile, ma troppo spesso rimasti sulla carta. E proprio a causa della forza ridotta che ciascun Paese può mettere a disposizione di programmi così ambiziosi di cooperazione internazionale. Non sembra proprio che i numerosi viaggi di Giorgia Meloni nel continente africano muovano da questa consapevolezza e si affidino a questa prospettiva. Il "piano Mattei" sembra essere non più che una vanitosa velleità o una aspirazione impotente, tanto più per un Paese come il nostro, afflitto da tanti limiti strutturali. A questo punto, c'è da augurarsi che sia la disfatta segnalata dall'altissimo numero delle persone sbarcate – evidentemente non turbate dai
MIGRAZIONE 2. LA FORESTA DELLA VERGOGNA
Da quattro giorni 24 richiedenti asilo sono bloccati al confine tra Polonia e Bielorussia. Ufficialmente sul suolo di Varsavia, che però rifiuta di farli passare. Senza cibo né acqua, l’unica solidarietà arriva da un gruppo di attiviste in presidio permanente. L’Europa si è persa tra un muro e la foresta. Sabato Angieri per il Manifesto.
«La Polonia è un posto sicuro, la Polonia è libertà», canta un giovane iracheno con la testa tra le sbarre del muro di confine voluto dalla destra polacca per tenerlo fuori. Accanto a lui una bambina di sei anni che volendo tra le sbarre passerebbe. A pochi metri le guardie di frontiera polacche a volto coperto sorvegliano che la decina di attivisti presenti non superino i quindici metri di sicurezza e che, soprattutto, non diano nulla a chi è dall’altra parte del «muro». Mentre quest’articolo va in stampa ci sono 24 persone accampate da quattro giorni all’addiaccio nella foresta di Bielowieska: tentano di ottenere asilo in Polonia. Da più di un anno non capitava che qualcuno si accampasse di fronte a uno dei cancelli del muro, in genere chi prova a passare lo fa di nascosto. Tra loro un bambino di un anno e mezzo, altri tre bambini piccoli, qualche adolescente e diverse donne, una delle quali incinta al quinto mese. Un ragazzo ha una ferita abbastanza grave provocata da un morso dei cani delle guardie di frontiera bielorusse. Queste informazioni le sappiamo grazie a Maria, un’attivista che conosce l’arabo e che fa da interprete a tutti gli altri che si danno il cambio sotto gli alberi della «foresta più antica d’Europa». Il muro, finito di costruire a luglio 2022, sorge in territorio polacco, il confine di stato con la Bielorussia si trova a pochi metri. «la cosa assurda è che quelle persone sono già in territorio polacco, secondo le leggi internazionali e anche secondo la legislazione polacca dovrebbero poter richiedere asilo – spiega una ragazza – e l’hanno anche fatto, li abbiamo registrati». Ma a voce? «La legge polacca dice che, purché sia dimostrabile, la richiesta vale anche se fatta verbalmente e le guardie sarebbero obbligate a trascriverla». Ma ovviamente non lo fanno. Non c’è da stupirsi, le storie dei migranti fatti passare dalle varie polizie d’Europa, compresa quella italiana, per richiedere asilo in un altro Paese si sprecano. Secondo gli accordi di Dublino il primo stato dell’Unione nel quale il richiedente asilo entra è obbligato a registrare la richiesta. E quindi, niente verbale, niente richiesta di asilo. Gli attivisti, o meglio le attiviste, quasi tutte donne di varie età, sono qui da oltre 40 ore e ogni tanto si danno il cambio. Dormono qui, «prometto che non me ne andrò finché non si trova una soluzione», dice Maria, che tra tutte è forse la più indispensabile al momento. Ogni tanto qualcuno urla con le mani appoggiate alla ringhiera «Mariaaaa» e lei dopo un po’ finisce per dire sempre le stesse frasi, condite da diversi «habibi», «sorry» e «inshallah». Quando ci faranno entrare? Habibi non lo so se vi faranno entrare, sorry, ma noi restiamo qui con voi. Potete darci del cibo? Habibi non possiamo, sorry, dobbiamo aspettare che le guardie ci diano l’autorizzazione. E le guardie non la danno, sono dall’altra parte dello stradone, appoggiati al grosso pick-up verde e osservano. Ogni tanto passa un grande camion militare con otto ruote e due rimorchi. «È il camion che usano per i respingimenti, quando trovano qualcuno lo caricano lì e lo portano fuori dal muro, lo minacciano e gli dicono di non tornare», spiega una ragazza. «Lo scorso Natale nelle scuole dell’infanzia ai bambini hanno chiesto di fare un lavoretto per i "nostri eroi che proteggono la patria" – racconta una donna – Disegni, letterine, che poi le maestre dovevano mandare a questi qui, la cosa tremenda è che poi andavano nelle scuole con quei grossi mezzi militari e ci facevano salire i bambini sopra; sullo stesso mezzo che usano per ricacciare indietro questa gente, capisci? Le strade intanto sono piene di manifesti che ringraziano "gli eroi che stanno difendendo la patria". Ma non è follia questa? Non è fascismo? Guardali, ti sembrano pericolosi?». Quando il grosso camion passa rumorosamente le attiviste iniziano a cantare per distrarre i bambini, cantano canzoncine, motivi tradizionali polacchi, anche qualcosa che assomiglia al «Ballo del qua qua» con tanto di mimi. I bambini ridono e poi applaudono. Per ricambiare, un ragazzo intona strofe in arabo. «Sono un cantante famoso – dice alla fine – In Iraq tutti mi conoscono». Maria gli dice che quando passerà faranno un duetto. «Ma è famoso davvero?», sento chiedere, «sì, ci ha dato il suo profilo Instagram, ha un sacco di follower». A ogni modo canta benissimo. Si avvicina un gruppo di signore anziane, sono turiste polacche come tante venute qui per ammirare le bellezze della foresta. Chiedono che succede, poi alcune di loro si uniscono ai canti, tra cui una donna con i capelli tinti di rosso acceso. Un’amica la chiama mentre si avvia, annoiata. L’altra, l’anziana con i capelli rossi, risponde «vai tu» e per una mezz’ora intrattiene i bambini con canti e balletti. Anche le attiviste sono galvanizzate da quel siparietto, ma le guardie non gradiscono, salgono sulla jeep e iniziano a passare ripetutamente sullo stradone che separa il muro dalla boscaglia. Ogni volta che arrivano tra le attiviste e le teste tra le sbarre sgommano, alzando un polverone. Dopo poco arrivano anche degli uomini, forse i mariti delle signore anziane. La maggior parte guarda da lontano, non fa domande e se ne va. Una delle attiviste racconta che a volte si vedono uomini loschi poco dietro i richiedenti asilo. «Hanno il volto coperto, sono vestiti di nero... secondo noi sono guardie bielorusse che vanno lì a fare pressione, ricordano a quelle persone cosa li aspetta se tornano indietro». I militari polacchi osservano impassibili e non agiscono. L’avvocato che si sta occupando del caso ha presentato una domanda alla Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) con procedura urgente per obbligare il governo polacco a lasciarli entrare e chiedere asilo. L’ultima volta la Cedu obbligò Varsavia soltanto a prestare soccorso, fuori dal muro. Per questo l’avvocato ora ha chiesto che si obblighi il governo a lasciarli entrare e a ospitarli mentre chiedono asilo. Sarebbe la prima volta in assoluto, un precedente per tutti i confini con muri. In genere la Cedu risponde in giornata, stavolta stanno prendendo tempo, sono più di 24 ore che si attende una risposta. «È sicuramente per questioni politiche», dicono le attiviste. Si fa sera, inizia a far freddo, ieri la temperatura è scesa fino a zero gradi. Nel frattempo le guardie di frontiera hanno distribuito delle bottiglie d’acqua, dei vasetti (forse yogurt) e qualche kiwi, inshallah. Ma li danno solo alle donne e ai bambini. Ai maschi dall’adolescenza in su non vogliono dare nulla. Qualcuno insiste e alla fine ottiene un kiwi, ma sono pochi. I bambini iniziano a piangere e i genitori aprono i sacchi a pelo per la notte. «Ieri hanno provato ad accendere un fuoco ma non ci sono riusciti», raccontano. Anche le attiviste iniziano a prepararsi, le magliette sono state coperte da pile e giacche, c’è chi indossa il cappuccio di lana. Dall’altra parte hanno sempre gli stessi vestiti. Arriva un gruppo di ragazzi, turisti polacchi, in bici. Si fermano perplessi di fronte al cartello «Zona militare, limite invalicabile». Mentre passiamo per andare via li guardiamo osservare quelle persone oltre le sbarre. Sembra che siano allo zoo, guardano con la stessa indifferenza con cui guarderebbero un animale. Uno dice una cosa che suona come una battuta, qualcun altro ridacchia, tutti girano le biciclette e ripartono scampanellando».
IL SUDAFRICA DÀ L’IMMUNITÀ A PUTIN
In Sudafrica ad agosto il prossimo summit dei cosiddetti Brics. È atteso Vladimir Putin, per cui il governo locale avrebbe già pronta l’immunità. Giovanni Pigni da San Pietroburgo per La Stampa.
«Il governo del Sud Africa fornirà l'immunità diplomatica ai leader che parteciperanno al prossimo vertice dei Paesi Brics (Russia, Brasile, India, Cina e Sud Africa): ciò significa che anche il presidente russo Vladimir Putin potrebbe partecipare all'evento, programmato per fine agosto nella capitale sudafricana di Cape Town, senza rischiare di essere arrestato. In quanto Paese firmatario dello Statuto di Roma, il Sudafrica sarebbe infatti formalmente tenuto ad eseguire il mandato d'arresto emesso dalla Corte penale internazionale (Cpi) nei confronti di Putin lo scorso marzo. Secondo il tribunale, Putin è sospettato di crimini di guerra, in particolare della deportazione di migliaia di bambini dall'Ucraina alla Russia. La concessione dell'immunità diplomatica sarebbe una «procedura standard» estesa a tutti i partecipanti al vertice, ha spiegato ieri il ministero degli Esteri sudafricano in un comunicato, e mirata «a proteggere la conferenza e i partecipanti dalla giurisdizione del Paese ospitante». Non si tratterebbe dunque di una misura presa ad-hoc per bypassare la decisione della Cpi nei confronti di Putin. Inoltre, Il ministero ha fatto notare che l'immunità «non si estende agli ordini di tribunali internazionali emessi contro un qualsiasi partecipante alla conferenza». Insomma non è tuttora chiaro se, nel caso in cui Putin mettesse piede su territorio sudafricano, il governo locale sarebbe tenuto ad arrestarlo oppure possa ricorrere a una scappatoia legale per non eseguire l'ordine della Cpi. A fine marzo, le autorità sudafricane hanno ufficialmente confermato l'invito al summit a Putin, pur esprimendo «preoccupazione» riguardo al mandato di arresto internazionale emesso contro di lui. L'obbligo di arrestare Putin potrebbe infatti trasformarsi in un grave incidente diplomatico per il Sudafrica: come il resto dei Brics, il Paese mantiene relazioni amichevoli con la Russia e una posizione di neutralità riguardo all'invasione dell'Ucraina. Del resto non sarebbe la prima volta che il Paese manca di implementare le decisioni della Cpi: nel 2015 all'allora presidente del Sudan Omar al-Bashir fu concesso di lasciare il Sudafrica dopo un vertice dell'Unione Africana nonostante i due mandati di arresto internazionali emessi contro di lui. Nel caso di Putin, però, le cose potrebbero andare diversamente: il principale partito di opposizione del Sudafrica, Democratic Alliance, ha annunciato ieri di aver intrapreso misure legali per assicurare l'arresto del presidente russo nel caso metta piede nel Paese. Tutt'ora non è chiaro se Putin deciderà di rischiare un potenziale arresto prendendo parte personalmente al vertice dei BRICS. Interpellato sulla questione, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha detto che la Russia verrà rappresentata all'evento "al livello appropriato". Riguardo al mandato di arresto emesso della Cpi, Peskov si aspetta che "Paesi partner" come il Sudafrica non si facciano guidare "da decisioni illegali". La partecipazione al summit dei BRICS è stata già confermata invece per Sergey Lavrov, il capo della diplomazia russa, che prenderà parte anche a un incontro separato dei ministri degli Esteri dei Paesi membri tra domani e dopodomani a Cape Town».
LULA RIAPRE AL VENEZUELA DI MADURO
Il Presidente brasiliano Lula preme per riabilitare il Venezuela di Maduro. A Brasilia vertice per rafforzare l’integrazione tra i Paesi del continente sudamericano. Luca Veronese per il Sole 24 Ore.
«Il ritorno di Lula alla presidenza del Brasile potrebbe ridare anche all’America del Sud una leadership e un progetto comune, dopo i fallimenti delle iniziative continentali degli ultimi anni, da UnaSur a ProSur. Per ora Luis Inacio Lula da Silva è riuscito a riunire i leader sudamericani e ha aperto le porte a Nicolas Maduro, il presidente del Venezuela, colpito dalle sanzioni internazionali dopo le elezioni del 2018 che molti osservatori hanno considerato una farsa. Alla Casa Bianca c’era Donald Trump, il Venezuale ancora piangeva il vuoto lasciato da Hugo Chavez, la sinistra era stata estromessa da quasi tutti i governi del continente, nessuno se la sentiva di rischiare per Maduro. Ma le cose sono cambiate, e non solo per il ritorno di Lula: l’amministrazione democratica di Joe Biden ha un approccio più morbido nell’area; la sinistra è tornata al potere in diversi Paesi; soprattutto, la guerra in Ucraina ha ridato dignità al petrolio del Venezuela, come alternativa alle forniture dalla Russia. «In Venezuela ora regna la democrazia, Maduro è vittima di pregiudizi», ha affermato Lula accogliendo il presidente venezuelano con il quale ha riattivato le relazioni. L’obiettivo del vertice che ha preso il via ieri in Brasile è rafforzare l’integrazione politica e commerciale tra i Paesi dell’America del Sud. «Credo che sia fondamentale creare un gruppo ad alto livello, con rappresentati di tutti i Paesi, che, sulla base di quello che verrà deciso, avrà 120 giorni per presentare una roadmap per l’integrazione dell’America Latina», ha detto Lula. «L’idea principale - ha spiegato - è che abbiamo bisogno di un blocco per lavorare insieme su questioni economiche, di investimento e ambientali. Dobbiamo imparare a parlarci, al di là delle divisioni ideologiche. Se stiamo insieme, siamo 450 milioni di persone, abbiamo grandi risorse per affrontare questo mondo in transizione, il Pil combinato dei nostri Paesi rappresenta la quinta economia mondiale. Come blocco possiamo guardare al mondo con molta più forza». Lula ha anche rilanciato la proposta di creare una valuta regionale, alternativa al dollaro, da utilizzare per gli scambi commerciali. La convocazione da parte di Lula al palazzo Itamaraty è arrivata a tutti e dodici i governi dell’America Latina. I primi a rispondere sono stati l’argentino Alberto Fernandez, il cileno Gabriel Boric, il colombiano Gustavo Petro, l’uruguaiano Luis Lacalle Pou e l’ecuadoriano Guillermo Lasso. Ma su tutti spicca la controversa presenza di Maduro. Una sfida alle sanzioni degli Stati uniti che hanno apertamente appoggiato i tentativi di rovesciare il leader di Caracas. «È inspiegabile che a un Paese vengano imposte 900 sanzioni, perché a un altro Paese non piace il governo che si è dato», ha detto Lula ricordando la grave crisi economica del Venezuela e auspicando che non vengano ripetuti «gli errori del passato».
SPAGNA, FRA 54 GIORNI IL VERDETTO ELETTORALE
Scompare la destra liberale a vantaggio degli estremisti di Vox. Pedro Sánchez vuol rimettere insieme i cocci della sinistra. Da Madrid Paola del Vecchio per Avvenire.
«Alle 9 davanti all’ufficio postale Calle Téllez, nel quartiere madrileno del Retiro, la fila per sollecitare il voto per posta fa il giro dell’isolato. Quando è stata appena pubblicato sul Bollettino dello Stato il decreto di elezioni anticipate convocate da Pedro Sánchez il 23 luglio, elettori disciplinati si sobbarcano un’ora di attesa per il proprio turno. « A luglio sarò in vacanza in Galizia e non voglio perdere il voto», quasi si giustifica José Torres, informatico di 45 anni. « Domenica ero nella scuola accanto a votare, ormai sembra di vivere nel giorno della marmotta». A 48 ore dalle amministrative che hanno premiato i Popolari, e a 24 dalla decisione del premier socialista di anticipare le politiche, per rimettere insieme i cocci della sinistra, gli appelli alla mobilitazione incalzano senza soluzione di continuità. La consegna del Psoe è frenare un governo del Pp con l’ultradestra Vox. Sul fronte opposto, il leader dei Popolari, Alberto Nuñez- Fejióo rivendica il “successo rotondo” di domenica e pronostica «la liquidazione del sanchismo in 54 giorni ». «Sánchez vuole che gli spagnoli scelgano fra le vacanze e le urne. Ma la scelta è fra lui e la Spagna e non ho dubbi su cosa gli spagnoli sceglieranno», assicura. Candidato alla Moncloa, non ha fretta di chiudere le alleanze con lo scomodo socio Vox, per governare in sei regioni dove il Pp non ha maggioranza assoluta. La strategia è dilatare le trattative il più a lungo possibile, perché la linea della “buona politica”, come la chiama Fejióo, non sia smentita in campagna, mettendo in fuga i moderati. Intanto ringrazia Ciudadanos, il partito liberale fagocitato, per la decisione di non presentarsi il 23 luglio, che conferma il suo «ritorno a casa». E non si placa l’aria di rivolta della vecchia guardia del Psoe, che attribuisce la debacle al voto di castigo al premier. La Moncloa ha filtrato propri dati secondo cui Pp e Vox non otterranno alle politiche la maggioranza assoluta in molti territori, per giustificare la fuga in avanti di Sánchez. Che ha costretto le forze alla sinistra del Psoe a raggrupparsi contro il tempo una lista unitaria. Ieri la piattaforma della vicepremier al Lavoro Yolanda Diaz si è costituita come partito ‘Movimento Sumar’, per facilitare la confluenza, cui si unirà anche il declinante Podemos. Mentre Sánchez, impegnato a far quadrare l’agenda elettorale con gli appuntamentii del semestre di presidenza spagnola Ue, dal prima luglio, starebbe preparando anche un piano B per la propria ‘exit’ dalla scena nazionale. Media iberici segnalano nel summit Nato dell’11 e 12 luglio un’opportunità. Avrà l’Ucraina al centro, ma si deciderà anche la successione al segretario dell’Allenza, Stoltenberg, che vedrebbe il leader socialista favorito fra i candidati».
VERTICE USA-UE, LA CINA DIVIDE ANCORA
In Svezia riunione di alto livello con Blinken e Dombrovskis. Gli Usa vorrebbero la linea dura su Pechino, ma diversi Stati europei (Italia compresa) chiedono più cautela. Divergenze anche sugli aiuti di Stato. Giovanni Maria Del Re per Avvenire.
«Non è un vertice facile, a cominciare dalle divergenze sulla Cina, quello iniziato ieri per concludersi oggi a Luleå, città portuale nel nord della Svezia, tra Stati Uniti e Unione Europea. Una riunione ad alto livello, il Consiglio sul commercio e la tecnologia (Ttc nella sigla inglese) cui partecipano big come il segretario di Stato di Washington Antony Blinken e la collega al commercio Gina Raimondo, e, sul fronte europeo, il vicepresidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis (responsabile per il Commercio) e la vicepresidente Margrethe Vestager (capo dell’Antitrust Ue). Il Ttc è destinato a migliorare la cooperazione anzitutto tecnologica e commerciale tra le due sponde dell’Atlantico, ma è anche la sede per affrontare le non poche divergenze, anche se la dichiarazione di 24 pagine che sarà pubblicata oggi pomeriggio evidenzierà ovviamente i punti di accordo. Tra le divergenze spicca anzitutto proprio l’approccio alla Cina. A fronte di una posizione molto più dura degli Stati Uniti, l’Europa presenta un fronte poco compatto per la diversità di posizione di vari Stati membri. Mentre la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha trovato toni molto duri contro Pechino, vari i big (Italia, Germania, Francia) vogliono evitare uno scontro aperto, troppi gli interessi commerciali. «Derisking not decoupling » è il mantra che gira a Bruxelles: ridurre i rischi dei rapporti con Pechino (anzitutto le troppe dipendenze, a cominciare dalle terre rare), senza però bruciare i ponti. Non è solo commercio: molte capitali europee sono convinte che non si può fare a meno di Pechino a cominciare dalle grandi questioni del clima e delle crisi geopolitiche. Nelle scorse settimane si è assistito a un balletto di bozze della dichiarazione finale con ripetute correzioni da parte soprattutto degli europei delle parti più dure che Washington aveva cercato di imporre. Anzitutto, nelle bozze si parla di «dannose pratiche anticoncorrenziali » ma i diplomatici Ue hanno espunto qualsiasi riferimento diretto alla Cina, con disappunto degli americani. Tanto che nell’ultima bozza di dichiarazione finale la parola «Cina» figura solo due volte. Spariti pure i riferimenti a un patto Ue-Usa anti-Cina. Non che non ci siano toni duri. Ad esempio nelle bozze si accusa Pechino di fare opera di «amplificazione» dell’«uso strategico e coordinato della Russia» di «manipolazione, interferenza straniera e disinformazione » sul fronte della guerra in Ucraina, con effetti che « possono esser visti in molti Paesi del mondo, in particolare in Africa e in America Latina». Le divergenze sulla Cina non aiutano su altri fronti transatlantici. L’Ue insiste per consentire ai produttori europei di non essere esclusi dal mega programma di Washington di aiuti (369 miliardi di dollari) per la trasformazione verde degli Stati Uniti, con la clausola del «made in Usa». Sul tavolo non un accordo commerciale, ma un’intesa Ue-Usa, il problema è che Bruxelles la vuole disegnata in modo che possa esser approvata solo a livello di Unione (altrimenti servirebbero le ratifiche non solo dei 27 Stati membri ma anche delle entità federali, ad esempio in Belgio). Per il resto, l’incontro indicherà nella dichiarazione finale un’intesa sulla cooperazione sul fronte degli standard minimi nel campo dell’intelligenza artificiale (includendo nuovi programmi come ChatGPT), il controllo degli export «sensibili» e il monitoraggio degli investimenti».
TURCHIA, IL MONDO SI TIENE ERDOGAN
Alberto Negri per il Manifesto sottolinea come la vittoria di Erdogan rilanci la sua Turchia sugli scenari internazionali.
«In un conciso libretto dal titolo “Il malessere turco” (edizioni il Canneto), il saggista Cengiz Aktar fa notare che l’ascesa dell’autocrazia e delle derive ultranazionaliste e fasciste in questo Paese non è avvenuta come accadde in Europa come conseguenza di crisi sconvolgenti ma in uno stato storico membro della Nato, con un’economia promettente (naturalmente salvo l’ultima fase) e l’ambizione (ormai lontana e non più desiderata) di entrare nell’Unione europea. Risultato: oggi nel nuovo Parlamento saranno non più di 100 su 600 i deputati che potremmo definire autenticamente democratici e anti-fascisti. Eppure oggi tutti si congratulano con Erdogan artefice massimo di questa deriva: dalla Casa Bianca a Macron, da Israele agli europei, oltre naturalmente all’ «amicone» Putin, che Erdogan ha elogiato nella sua ultima intervista alla Cnn. Erdogan è l’unico filo-putiniano che nessuno si permette di criticare anche qui in Occidente, visto che media sul grano ucraino e russo mentre sul Bosforo tiene le chiavi del Mar Nero. Che le carceri turche siano piene di prigionieri politici, oppositori curdi e giornalisti e che i media siano nella morsa del potere, sembra importare a pochi. Questo purtroppo è il segnale che l’Occidente è già pronto a convivere con Erdogan e nessuno si aspetta di avere a che fare con un leader più malleabile. Del resto sono il suo ultra-nazionalismo, il mito rinato dell’impero ottomano, la politica estera spericolata, che gli hanno ridato la vittoria, non i calcoli sull’inflazione in aumento oppure i suoi errori nella gestione della tragedia del terremoto. Persino l’opposizione ne è stata contaminata visto che faceva a gara con Erdogan su come liquidare la presenza di alcuni milioni di profughi siriani. Se è vero, come sottolineava ieri Michele Giorgio sul Manifesto, che per le sue ambizioni regionali Erdogan ha bisogno di Israele e Golfo, il “reiss” turco comunque nella regione sta sfilando insieme a un lungo corteo di autocrati e dittatori che si sta riposizionando. La rielezione di Erdogan coincide con il ritorno del siriano Bashar Assad nel grembo al mondo arabo, come se nulla fosse accaduto, il generale egiziano al Sisi, finanziato dagli Usa e dai sauditi, riceve il nostro ministro della Difesa Crosetto ma anche il procuratore generale di Mosca, il principe Mohammed bin Salman cerca la pace con l’Iran e accoglie a Gedda il dittatore siriano come pure il leader ucraino Zelenski. E che Zelenski abbia accettato di farsi fotografare al vertice della Lega araba con un corteo di despoti e monarchi assoluti la dice lunga sulla sua affannosa ricerca di alleati. Ma ci vorrà più di un visita per allontanare il principe assassino - mandante dell’omicidio del giornalista Jalal Khashoggi - da Putin, compagno di strada del regno saudita nell’Opec allargato, e rinunciare alla manna finanziaria piovuta sui produttori dei petrolio e gas con la guerra in Ucraina. Erdogan fa scuola. La Turchia è un alleato nella Nato che non solo non mette sanzioni a Mosca ma collabora con la Russia in ogni campo: dalle importazioni di gas all’energia atomica e da quando è iniziata l’invasione russa ha raddoppiato gli scambi commerciali con il Cremlino. Ankara ha aiutato con i suoi ormai famosi droni Bayraktar il governo di Kiev contro l’aggressione di Mosca ma si guarda bene dal recidere i legami con la Russia. Eppure la Turchia in Libia è schierata con il governo di Tripoli contro il generale Haftar sostenuto da Mosca e dalla Wagner mentre appoggia l’Azerbaijan contro l’Armenia, vecchio alleato di Mosca. Come pure la Turchia si era schierata contro Assad in Siria, dove occupa militarmente parti di territorio curdo, mentre il leader di Damasco è rimasto in piedi con il sostegno della Russia e dell’Iran. Contraddizioni che possono sembrare inaccettabili: ma non da Putin, Erdogan e dai loro compagni di strada. Per la verità un tratto in comune tutti questi regimi dall’Egitto alla Turchia, dalla Siria all’Arabia saudita ce l’hanno: sono amici di Mosca. Anzi continuano a collaborare in vari campi da quello energetico alle forniture militari. Come del resto fanno i governi di Cina e India e di quasi un terzo dell’umanità, dall’Asia, all’Africa al Sudamerica. E se poi andiamo a vedere i parternariati economici ci si accorge che i sauditi sono tra i primi fornitori e clienti della Cina il cui leader Xi Jinping era stato accolto a Riad con tutti gli onori. Anche l’amicizia con la Cina, che si guarda bene dall’osservare la carta dei diritti umani, è un altra caratteristica comune di questi regimi: nessuno ha dato minimamente retta alla condanna venuta dal recente vertice dei G-7 di Hiroshima per contenere l’avanzata economica, militare e tecnologica di Pechino. Questo si chiama oggi mondo multipolare, dove la maggior parte dei Paesi un tempo legati all’Occidente fanno quello che pare a loro in funzione dei propri interessi nazionali e regionali. Erdogan docet».
“PERCHÉ L’UCRAINA NON PUÒ VINCERE”
Pino Arlacchi per Il Fatto analizza lo scontro bellico e valuta le scarse possibilità di “vittoria” di Russia e Ucraina.
«Il conflitto in Ucraina viene spesso definito come una guerra di posizione, di trincea, più simile alla Prima che alla Seconda guerra mondiale. La guerra di posizione si distingue per la sua brutalità, dove a pesare sul risultato sono il numero di morti nel campo di battaglia causati soprattutto dalla potenza del re delle stragi, l’artiglieria. I fattori che contano nelle guerre di posizione non sono gli armamenti disponibili all’inizio dello scontro, ma quelle che vengono chiamate le capabilities dei contendenti: la popolazione, il territorio, l’apparato industriale, le fonti di energia, le risorse naturali. Cioè l’hardware che consente di finalizzare verso lo sforzo bellico le risorse di un Paese. È per questo che non c’è vera partita nello scontro tra la Federazione russa e l’Ucraina, anche se dietro quest’ultima si è schierato l’Occidente euroamericano. Le forniture di armamenti dalla Nato non saranno mai sufficienti a colmare un gap a favore della Russia che va dal due a uno nelle perdite in battaglia, dal cinque a uno nella popolazione, dal sette al dieci nell’artiglieria, e dal sedici al cinquanta nel resto delle capabilities. È vero che si possono detenere risorse immense senza essere capaci di usarle o senza volerle usare, ma non è questo il caso della Russia di oggi. Essa condivide con l’Ucraina la convinzione di lottare contro una minaccia per la propria stessa esistenza che le impone di mettere in ballo tutte le sue forze. Ma, a differenza dell’Ucraina, la Russia è una grande potenza dotata di un micidiale arsenale nucleare, di un grado di autosufficienza economica senza uguali (detiene oltre il 20% delle risorse naturali del pianeta), e di una tradizione di invincibilità che risale al Diciottesimo secolo e che le ha consentito di fare a pezzi invasori del calibro di Napoleone e di Hitler. Minacciarla fin quasi dentro i suoi confini come hanno fatto gli Stati Uniti dopo la fine dell’Urss tramite l’espansione della Nato non è stata una buona idea, ma una ricetta per il disastro attuale, annunciato tra l’altro dai più autorevoli leader occidentali che hanno guidato la Guerra fredda. Lo scontro in corso non è tra Russia e Ucraina. Se fosse così, esso sarebbe terminato da un pezzo o non sarebbe mai arrivato al confronto militare. Nessun governo ucraino avrebbe mai osato provocare la Russia massacrando l’etnia russa del Donbass e poi concludere un falso accordo a Minsk garantito dalle potenze europee, se queste non lo avessero spinto in quella direzione. È quanto rivelato candidamente dalla signora Merkel, da François Hollande e da altri: abbiamo mentito a Putin firmando un accordo che non avevamo intenzione di rispettare, con il solo scopo di guadagnare il tempo necessario per armare l’Ucraina. La reazione armata della Russia è stata certamente un eccesso di legittima difesa che ha fatto in un certo senso il gioco degli antagonisti occidentali. Ma è difficile ipotizzare, viste le circostanze, un percorso alternativo per Putin. Dopo il febbraio dell’anno scorso, infatti, sono via via venuti alla luce i tre obiettivi di fondo degli Stati Uniti, da perseguire con o senza il consenso degli alleati: la disfatta della Russia nel territorio di una Ucraina da trasformare in un bastione occidentale, la rovina dell’economia russa tramite sanzioni e confisca di beni detenuti all’estero, l’espulsione della Federazione Russa dal novero delle grandi potenze. A quindici mesi dall’inizio della guerra, è chiaro che il secondo e il terzo di questi obiettivi si sono rivelati impossibili da raggiungere. L’economia russa ha resistito senza grandi sforzi, ed è l’Europa che ha patito l’autogol della rinuncia al gas russo. Lo standing della Russia presso i tre quarti del mondo è rimasto tale e quale o si è rafforzato, assieme alla sua amicizia con la Cina. E dopo la leva di 300mila uomini, dopo il miglioramento delle tattiche di guerra russe lungo quest’anno, e dopo la caduta della città-simbolo di Bahkmut a opera dei contractors russi senza l’aiuto dell’esercito regolare, anche la sconfitta di Mosca in Ucraina si è rivelata una chimera. È evidente che l’Ucraina ha raggiunto e superato il culmine nella mobilitazione delle proprie capabilities, soprattutto in termini di popolazione e di numero di combattenti, mentre la Russia è solo all’inizio di un trend di potenziamento. I militari americani già da mesi consigliano di seguire strade alternative alla vittoria militare, perché a questo punto non si può più escludere che avvenga il contrario di quanto desiderato da media e governi occidentali: una continuazione in Russia dei fiaschi statunitensi in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria. Governi e media occidentali non parlano più di vittoria ucraina. Washington ha iniziato a diffondere proprio in questi giorni l’idea di una cessazione delle ostilità senza accordo di pace, senza negoziato diplomatico: un frozen conflict tipo Corea che può trascinarsi a tempo indefinito, e che lasci gli spazi attuali nelle mani di chi li controlla. Ciò significa che la Russia può incorporare le quattro province che già occupa, pari al 23 per cento del territorio ucraino, più le altre quattro a Ovest di quelle già occupate e che intende conquistare nei prossimi mesi, prima del cessate il fuoco. Se ciò accade, il 46 per cento del territorio ucraino – circa l’intera area russofona – apparterrà alla Russia. L’Ucraina diventerà uno Stato smembrato e sull’orlo del fallimento, mantenuto in vita dal denaro e dalle armi dell’Occidente. La Russia dovrà sopportare l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e il rischio continuo di una ripresa delle ostilità, come appunto avviene nei frozen conflicts. E l’Europa continuerà a pagare il prezzo della sua discesa nella tomba di un impero americano seppellito da un mondo divenuto ormai multipolare».
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