La Versione di Banfi

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La pasta non basta

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La pasta non basta

Piano del governo per la crisi energetica. Consigli per ridurre i consumi domestici. Ma basteranno? Mosca attacca Cingolani: prende ordini da Usa e Ue. Putin compra armi da Kim? Truss ai primi passi

Alessandro Banfi
Sep 7, 2022
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La pasta non basta

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Austerity all’italiana. Sta passando l’idea che basterà cuocere la pasta col metodo suggerito dal premio Nobel Giorgio Parisi (dopo l’ebollizione si butta la pasta e si spegne il gas sotto la pentola), fare docce brevi, tenere il riscaldamento acceso solo per alcune ore, fare le lavatrici di notte ed abbassare i gradi sul termostato… Purtroppo c’è da temere che invece abbia ragione Davide Tabarelli, esperto di Nomisma energia, quando spiega oggi sulla Stampa: “Assieme alle rinnovabili, di cui tutti parlano, il risparmio è il facile appiglio per evitare questioni più difficili, come più carbone, più produzione nazionale, più rigassificatori. La solita fuga, questa volta accelerata, che ci spingerà ancora verso l'impoverimento”. Il piano Cingolani, presentato ieri, non prevede razionamenti. Razionamento è parola tabù in campagna elettorale, ma è difficile immaginare che dal 26 settembre non diventi il tema centrale delle nostre vite. Surreale poi che Mosca attacchi direttamente il Piano italiano, esempio per il Cremlino di come il nostro Paese sia “ostaggio” di Washington e di Bruxelles. Altro che ostaggi. Se non fossimo in una campagna elettorale voluta in modo sciagurato dai 5 Stelle, dalla Lega e da Forza Italia (tenetelo bene a mente quando andate a votare), il Piano del governo sarebbe molto più drastico e solido. Basta vedere che cosa hanno fatto gli altri Paesi europei in questi drammatici giorni. A cominciare dalla Francia e dalla Germania, che si sono aiutate tra di loro.

A proposito di Europa, che cosa combina la Ue? Ursula von der Leyen promette, dalle colonne della Stampa, di accettare lo schema italiano sul price cap, il tetto al prezzo. Il Sole 24 ore prefigura una decisione ancora più radicale: ridimensionare il ruolo del TTF di Amsterdam, sottraendo il prezzo del gas ad un mercato impazzito. Venerdì finalmente ci dovrebbe essere la prima decisione formale dei ministri dell’Energia dei 27. Mancano due giorni e già si teme l’opposizione interna dei Paesi nordici e dell’Est. Vedremo.

La campagna elettorale in questo scenario appare surreale. Mai come ora ci vorrebbe un senso di solidarietà e unità nazionale, visto che la casa brucia. E brucia per davvero. Per la verità l’unico che ha avuto il coraggio di dirlo è stato Carlo Calenda, ma è chiaro che andando al voto e dovendosi leader e partiti contrapporre è molto difficile mettersi intorno ad un tavolo e prendere decisioni comuni. Per di più, quelle da prendere sono decisioni molto impopolari. Meglio far finta di niente, poi si vedrà.

Dal terreno bellico le preoccupazioni vengono ancora dalla centrale di Zaporizhzhia, che non riesce ad avere pace. Clamorosa la rivelazione del New York Times, secondo cui Vladimir Putin starebbe comprando armi dal dittatorre nord coreano Kim Jong Un. Fosse vero, vorrebbe dire che la Cina non appoggia poi così tanto la Russia nell’invasione ucraina, come il Cremlino fa credere. Colpisce fra l’altro la concomitanza (vedi Foto del Giorno) dello zar di Mosca alle esrecitazioni militari comuni con Pechino, che si fa ritrarre in mimetica.   

Le altre notizie dall’estero riguardano Londra, dove si è insediata Liz Truss a Downing Street. Boris Johnson, andandosene, si è dipinto come un Cincinnato, che si dedicherà alla sua tenuta di campagna, ma che è pronto a tornare. Anche in GB la situazione economica è molto preoccupante. Salario minimo invece stabilito in California con una legge: un addetto agli hamburger guadagnerà 22 dollari l’ora.

Chiudiamo la Versione con un omaggio allo scrittore Alessandro Baricco, che interviene, dopo la leucemia che lo aveva colpito, in  una situazione pubblica: oggi parla al Festival Letteratura di Mantova e racconterà Beppe Fenoglio. Bentornato!  

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LA FOTO DEL GIORNO

L’immagine ritrae Vladimir Putin con il giaccone militare mentre assiste alle maxi esercitazioni militari Vostok 2022, cui partecipa anche la Cina.

Foto Ansa

Vediamo i titoli sui giornali di oggi.

LE PRIME PAGINE

Il Corriere della Sera sottolinea l’uscita del Cremlino: Mosca, attacco all’Italia. Avvenire annuncia l’austerità: Più sobri. E minacciati. Il Giornale rispolvera la battuta di Draghi sui condizionatori e la adatta: Pace o termosifoni. Il Quotidiano Nazionale la mette così: Il governo ci abbassa il riscaldamento. Il Manifesto gioca fra minestra e ministro e titola: Il ministro riscaldato. Il Mattino annuncia: Ecco il piano per risparmiare. Così come Il Messaggero: Gas e luce, il piano risparmi. La Verità già si lamenta del freddo: Il piano di Cingolani: congelate in pace. Libero spiega: Arriva l’austerity. Il Fatto fa i calcoli: Il caro bollette brucia già un mese di stipendio. Il Sole 24 Ore ne fa altri: Dalla Ue a Putin 85 miliardi in sei mesi. Gas, mercato di Amsterdam sotto tiro. Il Domani si occupa del ritorno in aula: Nelle scuole tira brutta aria. Il pasticcio del governo sulla riapertura sicura. In campagna elettorale La Repubblica: L’allarme di Letta. E La Stampa: Letta: democrazia a rischio.

IL PIANO RISPARMI PRESENTATO DAL GOVERNO

Il Piano del governo: stretta sui riscaldamenti e ritorno temporaneo del carbone per tagliare 8,2 miliardi di metri cubi di gas. Gli stoccaggi sono sufficienti per l'inverno, c’è bisogno subito di un rigassificatore. Dalle docce alla cottura della pasta, i «comportamenti virtuosi» raccomandati ai cittadini. Maurizio Carucci per Avvenire.

«Nel giorno in cui le autorità moscovite entrano a gamba tesa nella campagna elettorale, parlando direttamente, e in modo anomalo, agli italiani che «soffriranno » per il caro-gas, il ministero per la Transizione ecologica guidato da Roberto Cingolani rende noto il Piano di risparmi per affrontare la stagione fredda. In sostanza: una stretta sui sistemi di riscaldamento, promozione di comportamenti virtuosi e ritorno al carbone. L'insieme delle misure, pur confermando gli obiettivi di decarbonizzazione entro il 2030, ha l'obiettivo di consentire nel medio termine - ossia a partire dalla seconda metà del 2024 - di «ridimensionare drasticamente la dipendenza dal gas russo e comunque di ridurre l'uso del gas in generale». Ma cosa prevede di preciso il Piano messo a punto dal dicastero di Roberto Cingolani? Le stime del risparmio. Tra misure obbligatorie e comportamenti volontari altamente consigliati il Piano conta di mettere a segno risparmi complessivi dei consumi pari a 8,2 miliardi di metri cubi di gas naturale. Nel dettaglio, le stime dell'impatto di tutte le misure prese portano a un potenziale taglio di circa 5,3 miliardi di metri cubi di gas, considerando la massimizzazione della produzione di energia elettrica da combustibili diversi dal gas (circa 2,1 miliardi di metri cubi) e i risparmi connessi al contenimento del riscaldamento (circa 3,2 miliardi di Smc-Standard metri cubi), a cui si aggiungono le misure comportamentali da promuovere attraverso campagne di sensibilizzazione degli utenti ai fini di un comportamento più virtuoso nei consumi (che produrranno risparmi per 2,9 miliardi di metri cubi).
La riduzione dei consumi. In particolare, il piano prevede la riduzione dei consumi, regolamentando il funzionamento degli impianti di riscaldamento già entro il mese di settembre 2022, modificando la vigente regolamentazione della temperatura e dell'orario di accensione invernale. La temperatura dei riscaldamenti dovrà essere ridotta di un grado, a 17 gradi con più o meno due gradi di tolleranza, per gli edifici adibiti ad attività industriali, artigianali e assimilabili e a 19 gradi con più o meno due gradi di tolleranza per tutti gli altri edifici. L'accensione del riscaldamento viene ridotta di 15 giorni (posticipando di otto giorni la data di inizio e anticipando di sette giorni quella di fine esercizio) e di un'ora al giorno per l'accensione (a esclusione delle utenze sensibili tipo ospedali, case di ricovero eccetera). In pratica a Milano il riscaldamento potrà essere acceso per 13 ore al giorno dal 22 ottobre al 7 aprile, a Roma invece le ore saranno 11 con caldaie accese dall'8 novembre al 7 aprile mentre a Napoli le ore permesse saranno nove, dal 22 novembre al 23 marzo, e a Palermo si potrà riscaldare per sette ore giornaliere dall'8 dicembre al 23 marzo. Comportamenti da promuovere. Il Mite indica la riduzione della temperatura e della durata delle docce, l'utilizzo anche per il riscaldamento invernale delle pompe di calore elettriche usate per il condizionamento estivo, l'abbassamento del fuoco dopo l'ebollizione e la riduzione del tempo di accensione del forno, l'utilizzo di lavastoviglie e lavatrice a pieno carico, il distacco della spina di alimentazione della lavatrice quando non in funzione, lo spegnimento o l'inserimento della funzione a basso consumo del frigorifero quando si va in vacanza, la riduzione delle ore di accensione delle lampadine. Il riempimento degli stoccaggi. Per l'inverno 2022-2023 il Mite comunica che all'1 settembre è stato raggiunto un livello di riempimento degli stoccaggi di circa l'83%, un valore in linea «e anche superiore» con l'obiettivo di riempimento del 90%. Per ridurre il consumo di gas, inoltre, un contributo di diversificazione ulteriore rispetto all'apporto delle rinnovabili può essere ottenuto dalla massimizzazione della produzione di energia elettrica da impianti che usano combustibili diversi dal gas (carbone, olio combustibile e bioliquidi). L'insieme delle iniziative messe in campo consente di sostituire entro il 2025 circa 30 miliardi di Smc di gas russo con circa 25 miliardi di Smc di gas di diversa provenienza, colmando la differenza con fonti rinnovabili e con politiche di efficienza energetica».

MOSCA ATTACCA ROMA: CINGOLANI BURATTINO USA

L'attacco della portavoce del ministero degli esteri Maria Zakharova arriva da Mosca. Dice: "I tagli all'energia vengono imposti a Roma da Bruxelles, che a sua volta subisce Washington". Giovanni Pigni per La Stampa.

«L'Italia si trova ostaggio delle decisioni politiche «senza senso» di Bruxelles e di Washington che stanno conducendo il Paese al «suicidio economico». Sono le dichiarazioni del portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, le ultime fatte sullo sfondo della guerra di propaganda, sanzioni e controsanzioni che impegnano la Russia e l'Unione europea dall'inizio del conflitto in Ucraina.
In un post su Telegram, Zakharova ha preso di mira il piano per ridurre la dipendenza dell'Italia dagli idrocarburi russi, reso pubblico martedì 6 settembre dal ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani.
Tra le altre cose, il piano prevede l'abbassamento di un grado della temperatura dei termosifoni, i quali saranno tenuti accesi un'ora in meno al giorno, ma anche delle misure comportamentali volontarie volte a ridurre il consumo dell'energia. «È chiaro che questo piano viene imposto a Roma da Bruxelles (che, a sua volta, agisce su ordine di Washington), ma alla fine sarà il popolo italiano a soffrirne», ha scritto la Zakharova nel post. Secondo la funzionaria russa, le sanzioni occidentali contro Mosca sarebbero un «sistema di concorrenza sleale» adottato dagli Stati Uniti contro le imprese italiane. «Quando la laboriosa azienda italiana crollerà, verrà acquistata a basso costo dagli yankee. Come è sempre stato. E non contate sugli investitori cinesi: dopo gli insulti inflitti dall'Occidente, Pechino non pagherà i conti degli altri», ha continuato Zakharova. Le parole della portavoce russa hanno scatenato indignazione in Italia e sono state largamente interpretate come un tentativo della Russia di influenzare l'opinione pubblica italiana alla vigilia delle elezioni. Secondo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, «è chiaro che ormai la Russia ha deciso di entrare direttamente nella campagna elettorale di uno Stato sovrano e sta giocando un ruolo che è chiaramente di ingerenza. Per questo io invito tutte le forze politiche italiane a rimandare indietro queste ingerenze». Ma al di là della propaganda di Mosca, quello dell'energia resta un problema reale: i prezzi del gas in Europa hanno raggiunto livelli circa dieci volte superiori a quelli di un anno fa. «Le famiglie e le imprese italiane rischiano di essere strozzate economicamente dagli aumenti del gas», ha riconosciuto Giuseppe Marici, portavoce del ministro Di Maio, commentando le parole di Zakharova. Ha poi puntato il dito contro il Cremlino: «Questi ultimi, a loro volta, derivano dalle speculazioni russe e da una guerra che Putin continua a portare avanti causando la morte di centinaia di vittime innocenti». Indignata anche la reazione dell'Unione europea. La portavoce della Commissione ha bollato le affermazioni di Zakharova come «folli», per poi ribadire «l'eccellente collaborazione dell'Ue con gli Stati membri sul tema energetico». Intanto il braccio di ferro sull'energia tra Russia e Unione Europea sembra aver raggiunto il suo culmine: lunedì il Cremlino ha scoperto la sua mano, dichiarando che il gasdotto Nord Stream 1 resterà chiuso fino a quando l'Ue non toglierà le sanzioni alla Russia. «Putin sta ricattando l'Europa», ha commentato Di Maio sulla chiusura del gasdotto «ed è per questo che l'Italia deve intervenire calmierando le bollette», ha aggiunto il ministro degli Esteri. Ulteriori sviluppi in questa guerra energetica sono previsti per venerdì, quando i ministri dell'energia Ue si riuniranno per discutere la possibilità di stabilire un tetto al prezzo del gas russo».

CINGOLANI RISPONDE AL CREMLINO

Il ministro Roberto Cingolani risponde alle accuse di Mosca: «Mentalità totalitaria, non prendiamo ordini da nessuno». «I sacrifici? Gli italiani sanno farne, ma saranno piccoli». Intervista di Monica Guerzoni per il Corriere.

Ministro Roberto Cingolani, il suo piano per contenere i consumi «è imposto a Roma da Bruxelles, che agisce su ordini di Washington»? E si aspettava un attacco così forte da Mosca, col suo nome e cognome?
«È un attacco che rivela una mentalità totalitaria. Noi non prendiamo ordini da nessuno. L'Italia è un Paese libero, democratico e collabora con la Ue per fare fronte comune anche sui problemi energetici».

La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, prevede che «gli italiani dovranno soffrire». Se la sente di tranquillizzare i cittadini?
«Loro stanno dando grande sofferenza ai cittadini russi, mentre noi non daremo grande sofferenza ai nostri. In pochi mesi, con una operazione ampia di differenziazione delle sorgenti, abbiamo dimezzato la dipendenza dal gas russo. E grazie al nostro programma la dimezzeremo ulteriormente».

Quanto sarà freddo il nostro inverno?
«Il nostro piano non è draconiano e non impone sacrifici onerosi, perché abbiamo lavorato bene ed è forse questo ad aver creato qualche nervosismo. Gli italiani sono un popolo molto forte e hanno capito l'importanza della sfida aperta da una guerra scellerata. Nessuno pensi che l'Italia non sia in grado di accettare minimi sacrifici per una giusta causa».

Se Putin chiuderà del tutto i rubinetti, i razionamenti saranno inevitabili?
«Non li chiuderà all'improvviso. Da tempo il Nord Stream va a singhiozzo, causando per noi una piccola riduzione di flussi, intorno ai 10, forse 15 milioni di metri cubi al giorno su un flusso totale che va da 150 a 170 milioni di metri cubi al giorno. In caso di catastrofe si potrà pensare di abbassare la temperatura dei termosifoni di due gradi e accorciare i riscaldamenti di un mese, invece di due settimane. Per ora abbiamo tenuto fuori dai sacrifici la parte industriale, ma se dovesse servire coinvolgeremo le aziende».

Quanto si può risparmiare con il Piano Cingolani?
«Solo con le misure civili e residenziali arriviamo attorno agli otto, nove miliardi di metri cubi di gas risparmiati. Numeri che soddisfano sia la quota del 15% di risparmi volontari del piano proposto dalla Ue, sia la quota obbligatoria che è circa 4 miliardi di metri cubi».

Sono previste sanzioni?
«Ma no, niente sanzioni, stiamo parlando della sobrietà del consumo energetico. Faremo con Palazzo Chigi una campagna di informazione per spiegare quali risultati incredibili danno alcune piccole azioni, come fare docce più brevi, staccare gli strumenti in stand by o abbassare il fuoco quando l'acqua bolle».

L'Italia riuscirà a intestarsi la battaglia del tetto al prezzo del gas russo?
«È la scelta che può cambiare il panorama energetico e dall'Europa arrivano segnali positivi. Per noi è molto importante che la Commissione Ue abbia recepito la necessità di un price cap, assieme alla proposta che facemmo a ottobre di disaccoppiare il costo delle energie rinnovabili dal termoelettrico».

Quando saremo indipendenti dal gas di Mosca?
«Alla fine del 2024. Grazie a Eni per la differenziazione e a Snam per gli stoccaggi ci siamo procurati circa 25 miliardi di metri cubi di gas, con una rampa di crescita che vedrà all'inizio 12 miliardi di metri cubi fluire nei gasdotti e poi altri 13 miliardi che sono di gas liquido Gnl. Di questi, una parte sarà trasformata mandando al 100% dell'operatività i nostri rigassificatori e gli altri 10 miliardi saranno trasformati dai due rigassificatori galleggianti. Piombino sarà pronto all'inizio del 2023 e Ravenna all'inizio del 2024».

I tempi saranno rispettati, o vinceranno i veti?

«La cosa veramente importante è installarli in tempo per essere sempre più indipendenti dal gas russo. Prima di parlare di razionamenti dobbiamo parlare di rigassificatori, che sono fondamentali. Più saremo indipendenti, meno risentiremo dei tagli».

La preoccupa la profonda distanza tra Meloni e Salvini sulle sanzio ni alla Russia?

«Distinguerei tra dialettica elettorale e programma di coalizione. Chi vincerà le elezioni dovrà stabilire la linea energetica di una delle più grandi economie manufatturiere del mondo, sono sicuro che la sintesi verrà fuori».

È vero che è lei pronto a restare al suo posto se a Palazzo Chigi andrà Meloni?

«C'è un tempo per i tecnici e un tempo per i politici. Io da tecnico ho fatto quel che potevo e tornerò al mio lavoro».

Senza aver portato l'Italia verso il nucleare?

«Auspico che il Paese abbandoni l'approccio ideologico e capisca che, senza una diversificazione ampia, saremo sempre in difficoltà. Il nucleare di nuova generazione è una tecnologia ideale, non produce anidride carbonica e ha un livello di sicurezza ed efficienza molto elevato».

L’AUSTERITY È UNA FOGLIA DI FICO?

Il rischio è quello di consumi già bassi in un’Italia sempre più impoverita dalla crisi energetica. L’intervento di Davide Tabarelli sulla Stampa.

«Il confine fra risparmio energetico e povertà energetica è grigio, in particolare in Italia, un paese che si sta impoverendo dalla crisi dal 2008, perché il suo Pil non cresce più. Anche per questo i suoi consumi energetici sono calati di 30 milioni tonnellate equivalenti a 167, ma questo almeno per metà, è dovuto alla deindustrializzazione, all'arretramento delle sue grandi imprese ad alto consumo di energia. Sono le cartiere, i cementifici, le acciaierie, le vetrerie, le fonderie, le fabbriche ad alto consumo di energia, il cui costo energetico nei periodi normali, incide per il 30%, oggi, con la crisi, siamo al 60%. È impossibile pagare queste fatture e si è obbligati spegnere, per non distruggere ricchezza, per non perdere denaro. Questa non è efficienza, è povertà. All'altro estremo, nei condomini delle periferie della città, le bollette le famiglie fanno fatica a pagarle. A livello nazionale l'incidenza della bolletta gas e elettricità sul reddito medio annuo di una famiglia era del 5%, in condizioni normali, ora siamo al 10%, ma sono milioni le famiglie che hanno redditi bassi e per le quali l'incidenza sale al 20 o 30%. Certo, l'Autorità e il governo sono intervenuti in aiuto delle fasce piú povere, ma ora è colpita la classe media, quella che deve sostenere l'economia con il suo lavoro e con i suoi consumi e che non ce la fa. In questa situazione stridono gli inviti a risparmiare energia che giungono da spot pubblicitari o da indicazioni della politica. L'Italia da sempre ha prezzi dell'energia più alti degli altri paesi, sia per le fabbriche che per le famiglie. Le ultime disposizioni del governo circa i risparmi negli edifici della pubblica amministrazione o nei condomini, nella migliore delle ipotesi, ci porteranno un risparmio non superiore a 3 miliardi di metri cubi su base annuale. Le stime ottimistiche dell'ultimo paino di risparmio del governo danno valori oltre i 5 miliardi. Noi ne predavamo 29 dalla Russia, 7-8 in più ce li darà l'Algeria, altri 6 arriveranno dai tre rigassificatori esistenti e dal Tap, mentre il maggior impiego di combustibili alternativi, soprattutto l'odiato carbone, ci darà altri 3 miliardi, più dei 2,1 stimati dal governo. Arriviamo a mala pena a 20 miliardi e ce ne mancano ancora 9. Questi sono i calcoli su base annua, ma quello che conta è quest' inverno, quando dovremo fare razionamento se la Russia dovesse, come probabile, tagliare del tutto. La recessione storica del 2020 della pandemia ha sottratto ai consumi 16 milioni tonnellate equivalenti petrolio, pari a 20 miliardi cubi, e se vogliamo tagliare di 9 miliardi un po' di recessione ce la dobbiamo digerire. Serve tutto in questo momento disperato, per carità, ma pensare di affrontare la crisi spegnendo le luci a casa o nei parchi, oltre ad essere velleitario, è anche dannoso, perché distrae l'attenzione dalle vere urgenze. L'illuminazione nelle case non conta più del 10%dei consumi elettrici, mentre a livello nazionale, quella pubblica conta per il 5% del totale. E l'elettricità è un quarto dei consumi energetici del paese, perché c'è anche il riscaldamento, l'industria, il trasporto. In sostanza, ipotizzando anche un risparmio del 10% sull'illuminazione, magari anche estendendo a tutto l'anno l'ora legale, il possibile calo dei consumi di gas non va oltre 0,2 miliardi metri cubi. Questo calcolo dà una misura del solito distacco fra stereotipi dell'energia e realtà delle fabbriche e delle case. Assieme alle rinnovabili, di cui tutti parlano, il risparmio è il facile appiglio per evitare questioni più difficili, come più carbone, più produzione nazionale, più rigassificatori. La solita fuga, questa volta accelerata, che ci spingerà ancora verso l'impoverimento».

VON DER LEYEN: SÌ AL PRICE CAP

La presidente della Commissione Ursula von der Leyen viene intervistata da Marco Bresolin per La Stampa e dice: “Con il tetto al prezzo taglieremo le entrate del Cremlino. Occorre ridurre i consumi nelle ore di punta”.

«Con l’ultima scusa utilizzata per sospendere i flussi di gas attraverso il Nord Stream 1, Putin ha gettato la maschera: sta manipolando il nostro mercato energetico e sta usando le forniture di gas come arma». Per Ursula von der Leyen è arrivato il momento di difendersi, contrastando il caro-energia, ma anche di attaccare, riducendo le entrate della Russia «che servono per finanziare la sua atroce guerra contro l’Ucraina». La presidente della Commissione europea ha finalmente messo a punto un piano per rispondere a questo «giochetto cinico di Putin» che ha fatto salire alle stelle il prezzo del gas e di conseguenza quello dell’elettricità. Pur senza entrare nei dettagli tecnici, alcuni dei quali ancora in via di definizione, Von der Leyen anticipa a La Stampa e ad altri giornali europei i contorni dei provvedimenti che saranno sul tavolo: una riduzione dei consumi di elettricità, un meccanismo per redistribuire ai cittadini gli extra-profitti delle compagnie energetiche, un tetto al prezzo del gas russo e misure di liquidità per sostenere le aziende alle prese con la volatilità del mercato. Spetterà ai governi trovare un’intesa e poi metterli in pratica. Von der Leyen dice che gli Stati membri saranno alle prese con «un test di unità e solidarietà»: il confronto tra i 27 si preannuncia infatti duro, esattamente come il prossimo autunno. Ma la presidente è ottimista: «Gli europei hanno la forza economica, la creatività e lo spirito di squadra per superare questa prova di resistenza e per mantenere il controllo della situazione». L’appuntamento decisivo sarà venerdì, quando i ministri dell’Energia arriveranno a Bruxelles per discutere del piano messo sul tavolo dalla Commissione. Alla luce del confronto, in caso di accordo, l’esecutivo Ue raccoglierà gli input definitivi per tradurre queste proposte in atti legislativi veri e propri. Con ogni probabilità l’intero pacchetto di misure sarà reso noto martedì, vale a dire alla vigilia dell’atteso discorso sullo Stato dell’Unione che Ursula von der Leyen pronuncerà al Parlamento Ue, e non durante il suo intervento in plenaria. Una scelta per rispondere a chi – come il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel – l’aveva accusata di essersi mossa in ritardo e di prendere tempo con l’obiettivo di sfruttare la vetrina assicurata dal tradizionale appuntamento di Strasburgo. Il “price cap” per Gazprom Il provvedimento che ha di fronte a sé il sentiero più stretto è senza dubbio quello che prevede di fissare un tetto al prezzo del gas. Tanto che si valuta la possibilità di utilizzare una base giuridica diversa da quella delle sanzioni per aggirare l’ostacolo dell’unanimità (l’articolo 122 del Trattato oppure la politica commerciale dei dazi). I tecnici della Commissione hanno elaborato diversi modelli, che vanno dall’applicazione di un prezzo amministrato su tutto il mercato all’ingrosso fino all’istituzione di un’entità unica per gli acquisti da Mosca. Ma Ursula von der Leyen sembra essere d’accordo con quello proposto a suo tempo dal premier italiano Mario Draghi: «Un tetto al prezzo del gas russo importato via gasdotto è indispensabile per limitare le entrate di Putin che servono per finanziare la sua atroce guerra contro l’Ucraina». Uno studio pubblicato ieri dall’organizzazione finlandese Crea (Centro di ricerca sull’energia e l’aria pulita) dimostra che nei primi sei mesi di guerra la Russia ha incassato 158 miliardi di euro grazie all’export di combustibili fossili, che le hanno permesso di finanziare interamente l’invasione in Ucraina (costata sin qui 100 miliardi di euro, secondo le stime). Il 54% è stato acquistato dai Paesi Ue, che hanno versato nelle casse di Putin 85 miliardi. Anche per questo, dopo aver approvato l’embargo sul carbone e sul petrolio, l’Ue sente la necessità di muoversi sul gas. E se Putin decidesse di venderlo ad altri? «Per la Russia - Von der Leyen ne è convinta - è quasi impossibile trovare nel breve periodo nuovi clienti che acquistino via gasdotto». Pur in assenza di compratori alternativi, però, Gazprom potrebbe sempre decidere di bruciare il metano (come del resto pare stia già facendo) piuttosto che consegnarlo ai cosiddetti “Paesi ostili”. Von der Leyen ricorda che la dipendenza Ue da Mosca si è già ridotta notevolmente («Il gas russo che acquistiamo via gasdotto è sceso al 9% del totale delle importazioni dell’Unione europea, l’anno scorso era al 41%») e che gli sforzi degli Stati membri negli ultimi mesi hanno dato i loro frutti: «Le nostre politiche di diversificazione rispetto ai combustibili fossili russi stanno pagando. La Norvegia, per esempio, oggi fornisce all’Ue più gas della Russia. Oltre a questo, i cittadini europei stanno già risparmiando importanti volumi di gas e i nostri stoccaggi si stanno riempendo a un ritmo persino superiore rispetto al previsto. Siamo pronti». Staccare la spina Adesso, però, secondo la Commissione è arrivato il momento di attuare un piano di risparmio per ridurre anche i consumi elettrici. Come per il gas, gli Stati avranno un obiettivo da raggiungere. Ma non si tratterà di un taglio lineare. «Dobbiamo risparmiare elettricità in modo intelligente» anticipa Von der Leyen. Come? «Dobbiamo focalizzarci sulla riduzione dell’uso dell’elettricità durante le ore di punta, proprio per appiattire i picchi. Per questo lavoreremo con gli Stati membri per trasferire il più possibile il consumo di elettricità verso periodi in cui la domanda è inferiore». Per dare l’idea della direzione in cui si vuole andare, la presidente fa un esempio molto concreto: «Alcuni processi industriali automatizzati potrebbero passare al fine settimana oppure di notte». Redistribuire i profitti C’è poi quella che von der Leyen definisce «una situazione paradossale»: «Le società energetiche stanno facendo grandissimi guadagni non previsti che sono completamente slegati dai loro costi o dai loro investimenti, mentre i clienti devono pagare bollette astronomiche». Bruxelles ha intenzione di introdurre una misura d’emergenza per «riportare un equilibrio sociale». In che modo? «Proporremo di canalizzare questi guadagni delle società energetiche verso le famiglie più vulnerabili e verso le imprese. Questo assicurerà che i cittadini possano beneficiare più rapidamente e chiaramente dei nostri investimenti massicci nelle rinnovabili. Che costano meno, sono pulite e fatte in casa». Si tratterà in pratica di una specie di imposta sugli extra-profitti da applicare a chi produce energia senza usare il gas. Ma il prezzo non sarà pagato soltanto da loro: allo studio c’è anche una sorta di prelievo sui combustibili fossili. «Ci aspettiamo che il settore energetico acceleri la sua transizione verde – riconosce Von der Leyen –, investendo nelle rinnovabili e contribuendo al risparmio d’energia». Liquidità e speculatori L’ultimo capitolo del piano punta invece a introdurre uno scudo contro la speculazione. Come spiegato in un documento interno pubblicato ieri da La Stampa, da un lato c’è l’ipotesi di sottoporre la Borsa del gas di Amsterdam (Ttf) alla supervisione dell’Autorità europea degli strumenti e dei mercati finanziari (Esma) oppure di creare un nuovo indice di riferimento per il gas naturale liquefatto. Dall’altro però c’è l’esigenza di proteggere le utility europee «dalla volatilità del mercato manipolato da Putin»: Von der Leyen assicura che la Commissione «userà tutta la sua flessibilità per agevolare un sostegno temporaneo da parte degli Stati» a queste aziende in modo da «assicurare loro liquidità» ed evitare che vadano in default. Perché si tratta di società «indispensabili per mantenere le luci accese, le case calde e per far funzionare la nostra economia».  

COME L’EUROPA HA FINANZIATO LA GUERRA

In sei mesi la Ue ha versato 85 miliardi alla Russia. Il record è dovuto alle importazioni europee di gas, petrolio e carbone di Mosca dall'inizio dell'invasione in Ucraina. Riccardo Sorrentino per Il Sole 24 Ore.

«Graduali e cumulative. Come sempre. A luglio e ad agosto le sanzioni europee hanno inciso, e non poco, sull'economia russa. Prima ha fatto da cuscinetto il rialzo delle quotazioni: malgrado la flessione degli acquisti di combustibili fossili - secondo l'ultimo rapporto del Crea, il Centre for Research of Energy and Clean Air finlandese, che sostiene non solo la riduzione globale di queste fonti di energia, ma anche il blocco totale dell'import dalla Russia - il flusso di risorse dalla Ue a Mosca nei primi sei mesi di invasione dell'Ucraina è stato di 85 miliardi di euro (contro i 113 miliardi dell'intero 2019 in base ai dati Comtrade). Il primo importatore è stata la Germania, 19 miliardi, seguita da Olanda (11,1), Italia (8,6 miliardi), Polonia (6,7 miliardi) e Francia (5,5 miliardi). A luglio e ad agosto le importazioni della Ue sono però calate del 35% rispetto ai livelli di gennaio-febbraio, e questo trend è destinato ad accentuarsi. In totale, la Russia ha ricavato 158 miliardi di euro dalle sue esportazioni di combustibili fossili. Hanno inciso molto i maggiori acquisti di petrolio da parte di India, Cina, Emirati, Egitto e Turchia, e di carbone da parte della Cina. Pechino si conferma quindi un grande sostegno per Mosca: ieri ha annunciato che pagherà in rubli e yuan il gas russo (anche se ha scarse possibilità di acquistare il gas negato all'Europa: mancano i gasdotti). Il bilancio statale russo ha così beneficiato di 43 miliardi di euro, a fronte di spese belliche valutate in 100 miliardi. A luglio però il ministero delle Finanze di Mosca ha ammesso di aver registrato entrate inferiori al previsto di 1,2 miliardi di euro. Le entrate fiscali, escludendo il petrolio, sono in calo del 15% circa: un segnale delle difficoltà dell'economia. I dati di luglio e agosto, in particolare, mostrano che l'export totale di gas russo è calato del 56%, di carbone del 29%, di Lng del 15% e di prodotti raffinati del 34%. Solo l'export di greggio è aumentato, del 19%: la Russia starebbe vendendo a sconto del 20% rispetto ai prezzi di mercato. «Solo una piccola parte dell'impatto in arrivo delle sanzioni è stato realizzato» finora, spiega il rapporto. Le importazioni Ue di greggio sono calate a luglio e agosto del 17%, ma a regime la flessione dovrebbe raggiungere il 90%. Malgrado il rialzo delle quotazioni, la Russia registra allora 170 milioni di euro al giorno di mancati ricavi, a fronte di una riduzione del 18% dell'export totale rispetto a febbraio. Ue, Usa, Giappone e Gran Bretagna fanno mancare alla Russia 250 milioni al giorno. Sono state molto efficaci le sanzioni sul carbone: l'export è ai minimi. La Russia non ha trovato acquirenti alternativi, e ha pesato il divieto della Svizzera di trattare i relativi contratti sul carbone russo: passavano per Zurigo almeno due terzi degli scambi. Molte miniere, nell'Oblast di Kemerovo, hanno chiuso. Per il petrolio occorrono invece sanzioni più incisive, spiega il rapporto: la Russia ha trovato un canale alternativo nelle navi. L'impatto sarebbe maggiore se la Ue vietasse alle sue navi il trasporto del petrolio russo destinato a Paesi terzi, e l'uso dei suoi porti, e se Gran Bretagna e Norvegia vietassero di assicurare i viaggi. Le sanzioni stanno colpendo anche altri settori. A giugno la produzione siderurgica è calata del 25% su base annua, soprattutto a causa - secondo vice primo ministro Denis Manturov - della ridotta domanda interna, in particolare dal settore delle costruzioni. Analogamente le vendite di automobili sono scese del 75%. L'inflazione al 15% ha ridotto i salari reali che sono calati a loro volta del 6% in un anno. Graduali e cumulative, le sanzioni incidono».

NON FACCIAMO COME CON I BANCHI A ROTELLE

Arriva l’austerity ed è inevitabile, ma non seguiamo l’esempio di Arcuri e Conte… Lo dice Alessandro Sallusti per Libero.

«Chi come me non è più giovane ricorda bene, per averlo vissuto, il primo regime di austerity nazionale post bellico. Correva l'anno 1973, mese di dicembre, e il governo Rumor, ultimo in Europa, annunciò misure per contrastare la crisi petrolifera anche in quell'occasione figlia di una guerra (quella arabo-israeliana detta del Kippur) che metteva fine a oltre un decennio di sviluppo e crescita continua, il boom degli anni Sessanta. Rumor fermò completamente le auto nei giorni festivi (anche quella del Capo dello Stato), accorciò gli orari di negozi, bar, ristoranti e cinema, illuminazione pubblica ridotta del quaranta per cento, quella privata dimezzata dalle 21 alle 7, la Rai doveva chiudere le trasmissioni alle 22,45 in modo da mandare a letto tutti gli italiani. L'austerity andò avanti un anno e mezzo con qualche correttivo, più che economico fu uno shock psicologico e sociale e favorì la malavita che dal tramonto all'alba diventò padrona assoluta delle città. Cinquant' anni quasi esatti dopo ci risiamo: altra guerra, altra austerity, altra presa di coscienza che il sistema è più fragile di quanto si potesse immaginare e che nessuna delle nostre comodità può essere data per acquisita. Non è la fine del mondo - la mia generazione è sopravvissuta alla grande a quel 1973 - ma certo è l'ingresso in un mondo diverso. A breve ci sarà chiesto di vivere, lavarci, spostarci, cucinare eccetera eccetera secondo nuovi parametri. Bene, non sarò tra quelli che si tirano indietro per partito preso, non invocherò la violazione di diritti costituzionali ma a una condizione: niente pagliacciate come è stato all'insorgere dell'emergenza Covid. In altre parole, niente cose tipo i banchi a rotelle del tragico trio Conte-Speranza-Arcuri, non date la caccia armata alla vecchietta che si scalda con la stufa come avete fatto con quegli innocui signori che durante il lockdown facevano una corsetta sulla spiaggia deserta; non mandate poliziotti a misurare la temperatura dell'acqua nella doccia e non schedate nessuno. Lo abbiamo capito bene, siamo nella merda e non dubito che come fu per il Covid anche per l'austerity la stragrande maggioranza degli italiani farà tutto ciò che serve. Senza Dpcm, con buon senso da entrambe le parti».

MELONI PROPONE UNA BICAMERALE

La leader di Fdi a Porta a Porta prova a rassicurare gli avversari rilanciando la soluzione "dalemiana" per modificare la Carta. Poi smentisce l'alleato leghista sulle sanzioni alla Russia: "Non è vero che non la danneggiano". Emanuele Lauria per Repubblica.

«Le riforme? Voglio farle con tutti». Sulla strada che la vede proporsi ogni giorno di più in veste istituzionale, con un make up politico rassicurante, Giorgia Meloni fa un salto indietro di 25 anni. E nel rilanciare il presidenzialismo («La madre di tutte le leggi») si dice favorevole a una bicamerale, sul modello di quella con cui Massimo D'Alema tentò di modificare la Carta: «È una delle soluzioni su cui sono d'accordo, sono per aprire un dibattito». Negli studi di Porta a Porta, dove arriva con il senatore Giovanbattista Fazzolari che cura il programma di FdI, la candidata premier risponde a distanza a Enrico Letta, che aveva avvertito sui rischi di una rappresentanza bulgara del centrodestra in parlamento. E la leader di Fratelli d'Italia dice in sostanza che non ha alcuna intenzione di cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza. Nessun «allarme democratico», a sentire lei. Con una sola avvertenza, ribadita fuori dagli studi Rai, prima di infilarsi in macchina: «Non mi faccio impantanare dalla sinistra, se pensano di ricominciare con i giochetti non andiamo da nessuna parte ». In via Teulada Meloni torna a parlare come la grande favorita di questa corsa elettorale. E non molla di un millimetro su quello che, in caso di vittoria, sarà il suo ruolo. A costo di bordeggiare attorno alle competenze del Quirinale. Prima commenta alcuni retroscena che lei stessa cita e secondo i quali Mattarella potrebbe dare l'incarico a una personalità indicata dal Pd, nel caso in cui pur con il centrodestra vincente - i dem risultassero il primo partito davanti a FdI. «Uno dei motivi per votare per noi è scongiurare questa ipotesi », afferma Meloni. Man mano che ci si inoltra nella campagna elettorale, la deputata romana rivendica i suoi diritti. E spazza via definitivamente anche altri dubbi: a domanda diretta, dice che non è nei progetti sottoporre al Capo dello Stato nomi diversi dal suo: «Se gli italiani diranno che siamo i primi nella coalizione proporrò al Presidente della Repubblica di poter guidare il governo. Non ho sempre voluto essere in prima fila ma nemmeno mi sono mai tirata indietro». Davanti alle telecamere di Bruno Vespa, Meloni smentisce plastici dissapori con Salvini: «La foto con le mani davanti nei capelli? Non stava parlando Matteo quando ho fatto quel gesto, a meno che lui non faccia il ventriloquo. Per carità, abbiamo i nostri battibecchi però montarli ad arte no». Sui contenuti, le distanze con il leader del Carroccio rimangono, anzi si accentuano. Specialmente sull'atteggiamento in politica estera, su quelle montanti critiche del leghista alle sanzioni alla Russia che nello stato maggiore di FdI vengono lette solo come un affannoso tentativo di recuperare consenso. Di certo, Meloni su questo punto la pensa in modo molto diverso da Salvini. «A me non torna, come dice lui, che le sanzioni non stiano dando effetti. La crescita della Russia era prevista al 6 per cento, ora stanno festeggiando per un -3,5 per cento e ci metteranno 10 anni per tornare al Pil di prima della guerra. Le sanzioni sono lo strumento più efficace ». Una risposta secca a Salvini anche sul ricorso al deficit contro il caro- bollette: «Per rifondere i sovraccosti da qui a marzo servono 3 o 4 miliardi di euro dai fondi europei: non serve uno scostamento di bilancio da 30 miliardi. Anche perché, da solo, non fermerebbe chi specula sul prezzo del gas». Infine la conferma che anche sul reddito di cittadinanza ci sono posizioni diverse nel centrodestra: se Lega e Forza Italia sono per riformarlo ma non cancellarlo, Meloni taglia corto: «Io il reddito di cittadinanza voglio abolirlo, per un fatto culturale. Lo dico chiaramente: serve assistenza per chi non può lavorare, per chi può ci sono i centri per l'impiego o il fondo sociale europeo ». Tutto concorre a costruire la risposta alla domanda-tormentone: è pronta a governare? «Nessuno può dirsi pronto ma s' impara, come a fare la mamma. Io mica lo sapevo come si faceva. L'importante - dice Meloni - è che ci sia amore».

L’ACCREDITAMENTO IN AMERICA

Giorgia Meloni e le elite mondiali. Se ne occupa Wanda Marra sul Fatto.

«Da una parte accreditamento rispetto all'establishment in maniera trasversale, dall'altra mantenimento dei rapporti con i mondi più tradizionali di riferimento di Fratelli d'Italia: è su questa falsariga che si va delineando la visita di Urso a Washington agli inizi della settimana prossima (prima dovrebbe volare a Kiev). Per l'organizzazione, Urso si appoggia a Dario Cristiani, ricercatore del German Marshall Fund. Il quale a sua volta si interfaccia con l'ambasciata italiana negli States. Gli inviti sono partiti per tutti i think tank più importanti di DC. La lista di quelli che accorreranno con i loro rappresentanti è indicativa. Ci sarà il Centre for American progress, fondato da John Podesta, che è stato tra i consiglieri di Barack Obama e poi presidente della campagna elettorale di Hillary Clinton (la quale solo qualche giorno fa ha sdoganato Giorgia Meloni). E poi l'Atlantic Council, che pochi mesi fa ha premiato Mario Draghi per la leadership internazionale. Tanto per restare a quelli più democratici e progressisti. Ma poi ci saranno i rappresentanti di quelli più conservatori come l'American Enterprise Institute, al quale fu già legato Ronald Raegan e l'Heritage Foundation, che ha ospitato più di un intervento di Donald Trump. La lista dei think tank mette in luce ancora una volta due elementi: il bisogno degli States di mettere da subito il cappello a un qualsivoglia governo italiano e il bisogno di FdI di prendere tutto l'elettorato. La domanda è una: quale Giorgia sarà quella che dovrebbe diventare premier? Non ci saranno solo i think tank ad accogliere Urso, ma anche alcuni esponenti della Georgetown University. Va detto che non si tratta del primo evento di questo tipo organizzato dal George Marshall Fund: è stato Cristiani a organizzare la visita di Enzo Amendola insieme all'Ambasciata italiana nel 2020. E sempre lui ha organizzato la visita del Copasir a giugno. Presidente Urso, che ora studia per la delega ai Servizi».

TREMONTI CONTRO BRUNETTA, LA REPLICA

Nei giorni scorsi Giulio Tremonti aveva accusato l’ex collega Renato Brunetta di essere l’estensore della famosa lettera di richiamo della Bce a firma Draghi-Trichet dell’estate del 2011. La cosa curiosa è che finora su Tremonti stesso sono gravati sospetti di slealtà e doppio gioco per quelle drammatiche settimane finali dell’ultimo governo Berlusconi. Oggi comunque Brunetta risponde sul Corriere.

Il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, risponde all'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti sulla lettera inviata al governo italiano nel 2011 dal presidente della Bce Jean-Claude Trichet e dal presidente designato Mario Draghi affermando di non essere l'estensore della missiva ma di avere responsabilmente informato l'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

«Oggi, in un'intervista al Corriere della Sera , il professor Giulio Tremonti si ostina a riproporre una ricostruzione falsa e arbitraria dell'origine della lettera che il 5 agosto 2011 l'allora presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, e l'allora presidente designato, Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, inviarono al governo italiano guidato da Silvio Berlusconi». Così il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta in una nota diffusa per correggere la versione del suo ex collega. «Un puntuale, mai smentito, resoconto della vicenda è contenuto nel mio libro "Berlusconi deve cadere" (maggio 2014). Non sono stato l'estensore della lettera, come sostiene Tremonti, allora ministro dell'Economia e delle Finanze. Sono stato, invece, a differenza sua, il ministro che il 4 agosto 2011 venne a conoscenza dell'esistenza della missiva, nata a Francoforte, e che informò prontamente e responsabilmente il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, alla presenza del sottosegretario Gianni Letta. Ogni altra versione dei fatti è priva di fondamento», conclude il ministro da poco uscito da Forza Italia».

LETTA PUNTA TUTTO SUL VOTO UTILE

Enrico Letta alza ancora i toni della campagna elettorale nella speranza di raccogliere voti sul Pd. Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera.

«Il voto si avvicina e i toni si alzano. L'appello che Enrico Letta rivolge in video ai candidati del Pd alle Politiche è netto e punta a convincere quella fetta di elettorato di sinistra che è ancora indecisa: «Voglio lanciare un allarme per la democrazia italiana». È la prima volta che il segretario dem è così esplicito e fa un atto d'accusa così forte nei confronti degli avversari politici. «Peso le parole, non voglio parlare a vanvera», prosegue il leader pd, come a dimostrare che non sta drammatizzando la situazione perché è in campagna elettorale e i pronostici sono favorevoli al centrodestra. «Abbiamo 17 giorni - afferma Letta - per cambiare la storia del nostro Paese ed evitare che l'allarme per la democrazia italiana diventi realtà». Secondo il leader dem infatti «il Rosatellum con la riduzione dei parlamentari può creare scenari da incubo, come lo stravolgimento della Costituzione, un rischio per la democrazia». Un atto d'accusa, quello di Letta, a cui replica subito Giorgia Meloni: «Il Rosatellum pessima legge? Infatti è stato scritto e imposto dal Pd, con il voto contrario di FdI». Critico anche Renzi: «Letta conosceva la legge, la verità è che ha sbagliato alleanze». Nel suo appello ai candidati il segretario dem osserva: «Ci sono tre percezioni sbagliate che si stanno diffondendo nel Paese». «La prima - spiega - è la vittoria annunciata della destra e quindi di conseguenza un clima da liberi tutti, di voto per chi mi pare, e così il rischio è che invece del voto utile ci sia il voto della superficialità». Nel mirino del leader pd ci sono Carlo Calenda e Giuseppe Conte: «I consensi a loro sono un aiuto alla destra». Piccata la replica del leader 5 Stelle: «È una mistificazione arrogante». C'è poi, ad avviso di Letta, «una seconda percezione sbagliata: non governeranno, vinceranno ma non governeranno perché si squaglieranno e a quel punto rientrerà in gioco tutto, si rimescoleranno le carte in Parlamento, sarà una falsa partenza e poi tutto tornerà normale». «Percezione sbagliatissima - sottolinea il numero uno del Nazareno - perché con una vittoria larga della destra tutti quelli che sono al di fuori non avranno nessuna voce in capitolo». Infine, la «terza percezione sbagliata - aggiunge Letta - è che tanto l'Europa alla fine ci salva, che non ci possono far fallire, che sistemeranno le cose loro». «Mi ricorda un po' la Brexit», osserva il segretario pd, che aggiunge: «Non è che dopo ci salva qualcun altro. Sta a noi nella campagna elettorale salvare noi stessi e salvare l'Italia». Letta parla ai candidati perché gli elettori indecisi intendano. È a loro che si rivolge quando afferma: «Un più 4% di voti dati a Calenda o a Conte e tolti al Pd daranno il 70% di seggi in Parlamento alla destra. Con il Rosatellum, infatti, il 43% dei voti assicura alla destra il 70% della rappresentanza parlamentare. Un 4% in più a noi significa invece tenere la destra sotto il 55%». Dunque, per lo stesso segretario del Pd l'impresa è più che ardua. Secondo la valutazione del leader dem è che ci sono «60 collegi uninominali ballerini», per questa ragione il segretario insiste sul voto utile: «In quei collegi una crescita nostra consentirebbe di riportare la partita in una logica di contendibilità». Dopo l'appello ai candidati, il comizio romano in piazza Santi Apostoli, luogo del cuore dell'Ulivo. Con Letta, Nicola Zingaretti, Elly Schlein e i candidati del Lazio. In piazza anche Dario Franceschini. E Letta chiuderà la campagna elettorale del Pd proprio a Roma, il 23, in piazza del Popolo».

IL PRESSING DELLA SOCIETÀ CIVILE

Nasce un coordinamento tra le realtà sociali e del volontariato che in vista delle elezioni hanno pressato i partiti su solidarietà e sussidiarietà. Appuntamento ieri a Roma, Leonardo Becchetti dice: accorciamo le distanze tra il Paese e il Palazzo. Agnese Palmucci per Avvenire.

«Non un partito, ma uno «spartito» con accenti sulle note dei migranti, dei diritti, del fisco e dell'ambiente. Una partitura solida di priorità per il Paese, da affidare al Parlamento eletto il prossimo 25 settembre. E poi al futuro governo. L'Alleanza della società civile ha rilanciato ieri a Roma, nel Palazzo della Cooperazione, il suo appello alla politica, alla presenza di candidati alle elezioni nazionali e sindaci. A presentare il progetto, cittadini, movimenti ed enti del Terzo settore riuniti per chiedere che vengano messi al centro il bene comune e l'esperienza di centinaia di realtà impegnate sui territori. «Oggi nasce un luogo, un contenitore - ha detto Leonardo Becchetti, economista e promotore, lo scorso agosto, dell'appello - che punta a ridurre la distanza tra società civile e il mondo politico, aggregando la domanda». L'obiettivo è che la cittadinanza attiva diventi «alleata della buona politica» e la stimoli «ad andare verso una certa direzione». L'Alleanza della società civile nasce per essere una «propodello sta di benedizione, per integrare i partiti con le realtà cittadine », ha detto Mauro Magatti, docente di Sociologia all'Università Cattolica di Milano, tra i promotori del progetto. Il metodo, secondo il coordinatore di Retinopera, Gianfranco Cattai, è quello di chi «vede la diversità come ricchezza ». Uno dei punti più critici, invece, come ha ribadito Tiziano Treu, presidente del Cnel, resta la difficoltà di coinvolgere i giovani su politica e sussidiarietà. Nelle tavole rotonde, le associazioni firmatarie hanno sottolineato il proprio appello nell'appello. Per Retinopera, che raccoglie 24 associazioni e movimenti nazionali cattolici, al primo posto ci sono l'integrazione europea e la pace in Ucraina. Carla Collicelli, di Asvis, ha posto invece l'accento sul disagio psichico dovuto alla crisi pandemica ed economica, per cui viene in soccorso la risorsa del volontariato, che crea nei cittadini un «sentimento di sé relazionale». Leggendo i programmi elettorali, però, come sottolinea Chiara Tommasini, presidente di CsvNet, è evidente che il volontariato «non è una priorità condivisa». L'immagine "spartito" è di Alessandro Rosina: il docente di Demografia e Statistica all'Università Cattolica ha messo in primo piano le questioni cruciali della denatalità e del «degiovanimento », che «impediscono alla nostra società di progredire». Al ricco panel hanno preso parte anche molti altri rappresentanti della società civile e del Terzo settore. E non è stato un dialogo senza interlocutori. Tra i numerosi amministratori locali presenti Angelo Moretti, consigliere comunale a Benevento, secondo il quale la buona politica «ha a che fare con la fisicità delle persone, delle città, dei borghi». A portare le istanze dei paesi italiani, la sindaca del borgo calabrese Roseto Capo Spulico, Rosanna Mazzia, e il sindaco di Castelspoto, nel beneventano, Vito Fusco. Presenti in video anche i primi cittadini di Bologna e di Assisi, Matteo Lepore e Stefania Proietti. L'ultima parola ai candidati politici nazionali. «Abbiamo bisogno di una buona comunità - ha detto Graziano Delrio, deputato dem, - e se qualcuno pensa di poter vincere le battaglie da solo, il Paese non ce la farà». Per Marco Bentivogli e Rossella Moroni, candidati del Pd, la società civile deve tornare ad essere «pietra miliare della ricostruzione». Antonio Palmieri, candidato di Forza Italia, ha sottolineato come la sussidiarietà sia un «patrimonio comune a tutte le forze politiche». Per Lorenzo Malagola, candidato di Fdi, la prossima legislatura potrà essere «costituente anche per un patto sociale». Del resto, ha osservato la candidata di Azione- Iv Maria Chiara Gadda, pur partendo da prospettive diverse si devono condividere battaglie politiche per il bene comune. Insomma, una sinfonia pronta per essere suonata è già sul tavolo dei futuri orchestrali».

LA GUERRA PASSA ANCORA DA ZAPORIZHZHIA

Le notizie dal campo bellico. Non c’è pace per Zaporizhzhia. Anche ieri esplosioni e timori per il peggio. Il racconto di Francesco Semprini per La Stampa.

«Nessuna pace per Zaporizhzhia. Da poco il sole si è alzato sull'Oblast più martoriato in questa fase della guerra. Alcuni lampi, boati a seguire, si concentrano sempre lì, dalle parti di Energodar, sul territorio controllato dalle ruppe di Mosca dove si erge la centrale nucleare più grande d'Europa. La gente del posto si alza di soprassalto, le piattaforme social si intasano di allarmi e immagini piene di fuoco, è un nuovo bombardamento. Ancora una volta troppo vicino all'impianto dove la esile task force permanente dell'Aiea, l'agenzia atomica Onu, è rimasta per presidiare la salute dello stabilimento. Poco dopo escono i dispacci, che raccontano di una potente esplosione sentita nella città, poi il black-out. Il sindaco Dmytro Orlov riferisce di una potente esplosione: «Subito dopo la corrente elettrica e l'acqua sono state interrotte contemporaneamente». Tutto questo nel giorno in cui l'agenzia Onu rende noto il risultato della missione iniziata il 1 settembre: ha osservato danni in diverse zone causati «con alcuni dei danni vicino agli edifici del reattore», afferma l'Aiea nel suo rapporto di 52 pagine diffuso ieri pomeriggio. Gli esperti, prosegue il testo, «hanno osservato che alcuni lavori di riparazione erano già stati effettuati o erano in corso per alcuni dei danni e hanno notato che ulteriori lavori sarebbero necessari per riparare tutti i danni causati». L'Agenza chiede di fermare i bombardamenti sull'impianto e nei suoi dintorni per mantenere l'integrità fisica della centrale e dunque di stabilire «una zona di sicurezza». «L'attuale situazione» nella centrale nucleare di Zaporizhzhia «è insostenibile», afferma Aiea. È la prima volta che un conflitto militare si è svolto tra le strutture di una centrale nucleare di queste dimensioni. «Un incidente nucleare può avere un serio impatto nel Paese e oltre i suoi confini», prosegue il rapporto degli ispettori dell'Onu, sottolineando che nell'area dell'impianto sono stati registrati diversi episodi che «hanno violato i principi di sicurezza nucleare». Di conseguenza, «in attesa della fine del conflitto e del ristabilimento di condizioni stabili, c'è bisogno urgente di misure temporanee per evitare che un incidente nucleare sia provocato dai danni fisici causati da strumenti militari». L'Aiea chiede quindi di «l'immediata creazione di una condizione di sicurezza nucleare e di una zona di protezione di sicurezza». Petro Kotin, presidente di Energoatom, l'ente statale di Kiev per l'energia nucleare, afferma che la missione dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, ha un mandato limitato per cui non può pretendere che la Russia ponga fine alla sua occupazione dell'impianto, che costituisce «la radice del problema». Per questo, occorrerebbe invece avviare una missione di pace con la partecipazione dei 'caschi blu dell'Onu. Kotin ha definito la situazione della centrale «molto pericolosa» e senza precedenti a causa dei danni alle linee elettriche che la collegano alla rete elettrica ucraina. Inoltre, ha aggiunto, le autorità di Kiev si aspettano di ascoltare dall'Aiea qualcosa di più di «semplici espressioni di preoccupazione». Intanto prosegue sugli altri fronti la controffensiva ucraina, da Kherson a Karkhiv. Mentre gli occhi restano puntati su Zaporizhzhia, il conflitto avanza. Dopo il successo simbolico dello stop al referendum in programma a Kherson per l'annessione alla Russia, le forze ucraine hanno rivendicato un'ulteriore avanzata della controffensiva, che trova conferme anche dal Pentagono. Per il consigliere presidenziale Oleksiy Arestovych, «dall'inizio dell'operazione di liberazione del Sud dell'Ucraina, l'esercito ha ripreso diversi insediamenti sulla sponda occidentale del Dnipro» e nelle prossime settimane sarà in grado di accerchiare il nemico sulla sponda opposta del fiume, iniziando a ricacciarlo indietro. Una scommessa che si affianca ai progressi rivendicati sul fronte orientale, mentre un consigliere di Kiev ha detto di aspettarsi a breve l'annuncio di «grandi notizie dal presidente Zelensky sulla controffensiva nella regione di Kharkiv». E intanto, anche la resistenza continua la sua battaglia. A Berdyansk, sul mar d'Azov vicino a Mariupol, il comandante russo della città «occupata» è rimasto ucciso dall'esplosione di un'autobomba in pieno giorno e in pieno centro».

PUTIN COMPRA ARMI DA KIM

«Lo Zar compra armi dalla Nord Corea»: la rivelazione è del New York Times, che cita fonti dell’intelligence americana. La circostanza confermerebbe che c’è stato un «no» della Cina. Ne scrivono per il Corriere Guido Olimpio e Andrea Marinelli.

«La Russia sta acquistando milioni di proiettili per artiglieria e razzi dalla Nord Corea. Ad affermarlo fonti dell'intelligence Usa citate dal New York Times . L'informazione potrebbe essere una conferma indiretta dell'alto consumo di munizioni da parte degli invasori, i cui depositi sono stati distrutti in gran numero. Mosca si è rivolta al regime di Kim - scrive il giornale - dopo aver bussato alla porta della Cina. Pechino è disposta ad aiutare sul piano economico ma, in apparenza, non vuole farsi coinvolgere in quello militare, a parte qualche sponda tecnica e la partecipazione ad esercitazioni in comune in corso in queste ore. I russi si sono allora rivolti a chiunque abbia arsenali compatibili. I coreani, che da anni si preparano ad un conflitto, hanno sviluppato una componente d'artiglieria massiccia, quindi possono rispondere alle richieste per armi anche di medio e lungo raggio, quelle impiegate in modo intenso negli ultimi mesi. Non solo. Si è anche ipotizzato che in futuro gruppi di operai provenienti dal paese asiatico possano lavorare nel Donbass. Al momento è un progetto sbandierato dai filo-russi anche a fini propagandistici. Sempre la Russia avrebbe ottenuto centinaia di droni d'attacco dall'Iran, altro partner pronto a colmare un gap dopo l'uso ampio dei velivoli di concezione locale. Con l'intensificarsi delle operazioni belliche a oriente e nel settore di Kherson gli osservatori hanno analizzato la disponibilità di scorte. L'opinione dominante era che gli occupanti disponevano di buone riserve pre-guerra e potevano mantenere una cadenza di tiro alta, superiore a quella degli ucraini. Almeno per qualche mese. Poi doveva intervenire l'industria a riempire i vuoti ma sulla capacità di produzione sono stati avanzati dei dubbi. E la mossa in direzione di Kim - se reale - sarebbe un segnale di sofferenze nella catena industriale. O si teme che lo diventi. Del resto lo stesso problema riguarda Kiev che ha dovuto affidarsi alle forniture rastrellate con l'aiuto dell'Occidente (ad esempio Pakistan e altri stati hanno garantito munizionamento pesante) e non sono mancati episodi di bombe scadenti, guai lamentati anche dai russi. Inoltre negli Usa è intensa la preoccupazione sul non avere materiale da stoccare a sufficienza per rispondere alle necessità del Pentagono e dell'Ucraina. Burocrazia, tempi tecnici, mancanza di coordinamento sono ostacoli non risolti. Le mosse dei contendenti, in parallelo a quelle dei rispettivi sostenitori, confermano purtroppo che ci si prepara ad un conflitto lunghissimo dove si spara molto sul campo di battaglia e su quello della propaganda. Con accuse, contro-accuse, rivelazioni, indiscrezioni. Fondate o meno».

ERDOGAN SI PROPONE COME MEDIATORE

Le manovre di Ankara. Dopo quella raggiunta sul grano, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan cerca una nuova intesa sulla centrale nucleare. Marta Ottaviani per Avvenire.

«Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, cerca di bissare il successo ottenuto con l'accordo sul gas e si propone come mediatore anche per quanto riguarda la centrale nucleare di Zaporizhzhia. Nei giorni scorsi ha sentito al telefono il presidente russo, Vladimir Putin, e gli ha esternato tutte le sue preoccupazioni su una situazione che rischia di diventare esplosiva e preoccupa la Mezzaluna. Stando ai media turchi, i due leader avrebbero fatto un punto della situazione sull'Ucraina. Molto più sfumati i media russi, che non hanno fatto accenno alla proposta di mediazione di Ankara. Ma la Turchia ci crede ed è determinata ad andare avanti, anche perché, in caso di altro successo, allora potrebbe ambire a condurre le mediazioni anche per la fine del conflitto. E per risultare più credibile, il presidente turco ha giocato la carta energia, sottolineando che l'alleato Putin sta utilizzando il ricatto sul gas come arma contro le sanzioni. «Noi non abbiamo problemi con il gas naturale. L'Europa raccoglie quello che semina. Credo che l'Europa passerà questo inverno con seri problemi». Erdogan da anni ha abituato la comunità internazionale con una politica estera sempre più audace e pragmatica, contrassegnata da cambi repentini di alleanze, voltafaccia all'Occidente, ricatti e anche la capacità di condurre affari con entrambe impegnate in un conflitto. Fino a questo momento è sicuramente il leader che ha saputo guadagnare di più in prestigio da questa crisi internazionale. Ma la sua ambivalenza, il suo giocare su più tavoli, è una caratteristica che fa sorgere anche molti dubbi nella comunità internazionale. Dall'inizio dell'operazione militare speciale, Ankara ha condotto una politica di equidistanza, che sono nelle ultime settimane si è sbilanciata a favore di Kiev. Per mesi, il presidente Erdogan ha aiutato la Russia di Putin, rifiutandosi di applicare le sanzioni, e l'Ucraina di Zelensky, vendendo loro i micidiali droni Bayraktar e spendendosi in favore dell'unità territoriale dell'ex repubblica sovietica. Ma solo per suo tornaconto».

TRUSS, DEBUTTO SENZA SLANCI

Le altre notizie dall’estero. In primo piano la Gran Bretagna. La nuova premier Liz Truss vola in Scozia dalla Regina. Debutta senza slanci sotto la pioggia battente. “Supereremo la bufera”, dice nel primo discorso a Downing Street. Luigi Ippolito per il Corriere.

«Dalla lirica di Boris Johnson alla prosa di Liz Truss: la nuova premier della Gran Bretagna si è presentata alla nazione con un discorso privo di slanci, di frasi a effetto o di citazioni colte, ma tutto incentrato sulle questioni concrete da affrontare. Ci sono «forti venti contrari», ha ammesso, ma il Paese può «superare la tempesta» e diventare la «moderna, brillante Gran Bretagna che io so possiamo essere». Il tempo stesso non è stato clemente con la nuova leader del governo e fino all'ultimo minuto la sua apparizione di fronte al portone di Downing Street è stata in forse, con la pioggia che si abbatteva implacabile su Londra: poi una rapida schiarita le ha consentito di pronunciare l'arringa d'esordio, che non è però riuscita granché a scaldare gli animi. Si sapeva che Liz Truss non è una grande oratrice, ma se voleva fare impressione sul pubblico - che a stento la conosce - avrebbe dovuto sicuramente escogitare qualcosa di meglio invece di un'orazione fiacca e incolore. La neopremier ha reso omaggio al suo predecessore, lodato per la Brexit, la risposta al Covid e la reazione alla Russia; poi è passata subito a elencare le sue priorità, che sono il taglio delle tasse, la crisi energetica che morde nelle tasche dei cittadini e il servizio sanitario in crisi. Ma anche qui ha evitato promesse specifiche e si è limitata a dare indicazioni generiche: «Trasformeremo la Gran Bretagna in una nazione di aspirazioni», ha promesso. Mai nella storia recente un nuovo capo del governo ha dovuto fronteggiare una situazione economica e sociale così difficile: l'inflazione viaggia al 13 per cento e potrebbe superare il 20 nei prossimi mesi, l'economia sta per entrare in recessione e milioni di persone questo inverno dovranno scegliere se mangiare o riscaldare la casa. Liz Truss ha poche settimane davanti per dimostrare che è in grado di invertire la rotta: nelle sue intenzioni c'è un congelamento dei prezzi dell'energia che potrebbe costare alle casse dello Stato fino a 100 miliardi. E sui mercati si avvertono già i primi scricchiolii rispetto alla tenuta della sterlina, già ai minimi, e delle finanze pubbliche.
Per Liz Truss è stata una giornata frenetica, che si è aperta col volo in Scozia per incontrare la regina nel castello di Balmoral e ricevere l'investitura a premier; poi il volo di ritorno e il rientro in macchina attraverso le strade di Londra, fino a Downing Street. In serata, dopo il discorso, ha avviato la formazione del suo governo: vicepremier è un'altra donna, Therese Coffey, che ha anche il dicastero della Salute, ma la nomina di maggiore spicco è quella di Kwasi Kwarteng, primo nero a diventare Cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro del Tesoro: sarà lui il braccio destro della premier e dovrà coadiuvarla nella risposta alla crisi economica. Agli Esteri è stato nominato James Cleverley, anche lui di madre africana, mentre agli Interni è stata destinata Suella Braverman, di origine indiana. In questo modo, tutti i ministeri chiave del governo sono andati a persone di colore: e se si considera che la premier è donna, al vertice dell'esecutivo non c'è nessun maschio bianco. A precedere Liz in Scozia era stato Boris Johnson, che è andato a rassegnare le dimissioni nelle mani di Elisabetta. Di prima mattina, il premier uscente aveva pronunciato il discorso di addio, lamentandosi ancora una volta di essere stato fatto fuori in modo ingiusto e inaspettato. Ma soprattutto, ha lasciato planare un avvertimento: come Cincinnato, ha detto «torno al mio podere». Ma come tutti sanno, Cincinnato venne richiamato dal Senato per salvare la Repubblica romana in pericolo. Liz Truss è avvertita: se fallirà, la restaurazione johnsoniana è già dietro l'angolo».

22 DOLLARI ALL’ORA, SALARIO MINIMO IN CALIFORNIA

Una nuova legge dello Stato americano fissa un tetto orario per i dipendenti. Sconfitta la resistenza delle grandi catene. Alberto Simoni per La Stampa.

«Ventidue dollari all'ora per girare un hamburger sulla piastra, servire un Frappuccino a Starbucks o infarcire di guacamole un burrito con carne di pollo a Chipotle. La rivoluzione del lavoro passa, come spesso accade per molti cambiamenti sociali in America, dalla California, lontano dai riflettori delle beghe politiche di Washington, ma dove associazione dei lavoratori, deputati e lobby dei proprietari delle catene di fast food per anni si sono dati battaglia. E promettono di continuare visto che il milione di dollari in operazioni di lobby finora non ha fruttato grandi successi. Il governatore democratico Gavin Newsom, stella nascente del firmamento democratico, moderato con venature progressiste sui diritti, un obbligo nel Golden State, ha scelto il Labor Day - lunedì, una delle feste comandate più rispettate ed evocative d'America - per apporre il suo sigillo a una legge che cambia radicalmente le dinamiche del lavoro nelle catene dei fast food dello Stato. In settimana l'Assemblea legislativa aveva approvato il Fast Act, una legge che istituisce un Consiglio composto da dieci persone fra rappresentanti dei lavoratori, dei proprietari e da due delegati statali, per migliorare le condizioni di lavoro, la tutela della sicurezza e i salari di mezzo milione di addetti all'industria dei fast food. La rivista Forbes l'ha definito un balzo sul modello europeo di cogestione. E Kate Andrias, professore di diritto del Lavoro alla Columbia University, ha etichettato la legge come «uno dei passaggi più importanti nella storia della California». Di fatto dà ai rappresentanti dei lavoratori un posto nella sala di comando. Il Consiglio (Fast Food Council) avrà la possibilità di portare a partire dal 2023 la paga oraria base a 22 dollari l'ora, 7 dollari in più del minimo salariale in vigore (in gennaio sarà portato a 15,50 dollari), e una cifra record a livello nazionale. Dal 2024 i salari verranno regolarmente ridiscussi per aggiustarli al costo della vita. Dal testo approvato invece sono stati stralciati i capitoli sui benefit e quello sulle assenze per malattie.
Il Fast Food Council è il punto di approdo di un lungo braccio di ferro iniziato già nel 2012 dal movimento «Fight for $15» quando la battaglia era l'innalzamento a 15 dollari del minimo salariale. I sindacati hanno appoggiato sin dall'inizio il movimento dei lavoratori dei fast food osteggiato invece dalle grandi corporations, le più toccate e coinvolte dalla riforma. Mary Kay Henry, presidente del Service Employees International Union, quasi due milioni di iscritti, ha detto che quanto ottenuto supera le difficoltà che i lavoratori avevano affrontato nel tentativo di portare la rappresentanza e tutela sindacale in ogni singolo ristorante. Basta vedere la reazione di Starbucks che ha chiuso negli ultimi mesi i bar in tutto il Paese in odore di aprirsi alle union. Tutte le catene di ristoranti con più di cento ristoranti e bar a livello nazionale saranno soggette alle nuove norme californiane che invece non coinvolgono i piccoli ristoratori che a questo punto sono però chiamati a fare ulteriori sforzi per garantirsi manodopera di valore e standard di sicurezza all'altezza. La legge ha trovato molte resistenze, e non solo dal mondo industriale. La Camera di Commercio statunitense due settimane fa ha inviato una lettera al Senato della California invitandolo a respingere il provvedimento. La tesi di Washington è che la legge avrà una ripercussione sui prezzi e alla fine i costi dei salari ricadranno sui consumatori. L'alleanza delle grandi catene che si sono opposte alla mossa di Newsom - Chipotle, Yum Brande, Chick-il-A, In-N-Out Burgers, Burger King - ha stimato in un 20% gli aumenti che ricadranno sugli avventori di hamburger e pollo fritto. Un cheeseburger da McDonald's dagli attuali 3 dollari arriverà a costarne oltre 3,50 e quei 0,50 serviranno - la lettura che hanno dato i rappresentanti delle compagnie - a pagare il salario minimo».

ISRAELE AMMETTE: UCCISA LA GIORNALISTA

Israele, arriva l'ammissione: «È molto probabile che i soldati abbiano ucciso la giornalista». Shirin Abu Akleh, reporter palestinese di Al Jazeera, era stata colpita a Jenin. Davide Frattini per il Corriere.

«Venti proiettili in pochi secondi, dieci verso l'albero dietro cui Shirin Abu Akleh cercava di proteggersi.
Sparati da dentro il blindato, la mira presa attraverso il mirino telescopico, «ma non so dire se sia stato io a colpirla», ha risposto il soldato agli ufficiali. Così l'inchiesta ufficiale dell'esercito israeliano ha concluso che «sì, c'è l'alta probabilità che la reporter sia stata uccisa dai nostri militari», non c'è però la certezza e «di sicuro non l'intento criminale», bisogna tenere conto che «gli scontri nella zona erano intensi, in quel punto c'erano anche miliziani palestinesi che bersagliavano i nostri
». Quindi niente indagine penale, per lo Stato Maggiore finisce qui: «È stato un deplorevole incidente, accaduto durante un'operazione contro i terroristi», commenta il generale Aviv Kochavi. Sono gli americani (la giornalista palestinese aveva la doppia nazionalità) a chiedere «di accertare le responsabilità». Ed è la famiglia da Gerusalemme Est a «denunciare il tentativo di nascondere la verità»: «Andremo alla Corte penale internazionale, non ci fermeremo fino a quando non otterremo giustizia». Quel mercoledì mattina, l'11 maggio, Shirin si era mossa con la troupe dell'emittente Al Jazeera per raggiungere Jenin. Il villaggio a nord della Cisgiordania è diventato in questi mesi la prima linea come ai tempi della seconda intifada, qui l'esercito aveva combattuto la battaglia più dura, parte dell'operazione Scudo Difensivo ordinata da Ariel Sharon per colpire i gruppi estremisti dentro ai territori. Shirin c'era anche allora, anche allora indossava il casco e il giubbotto antiproiettile blu con la scritta in inglese Press (Stampa), tutti i segnali per poter fare il proprio lavoro in mezzo agli scontri senza diventare un bersaglio. È stata centrata al collo, i colleghi dei giornali palestinesi l'hanno portata in ospedale, già morta. Era uno dei volti più noti del canale satellitare, i giovani arabi la considerano un simbolo, sono cresciuti con le sue cronache dei quattro anni di «rivolta» agli inizi del Duemila. L'Autorità palestinese ha condotto l'autopsia, non ha voluto consegnare il proiettile estratto agli israeliani, alla fine ha permesso agli esperti americani di analizzarlo ma era troppo distorto, non è stato possibile risalire all'arma. Indagini indipendenti - anche del quotidiano americano New York Times - hanno ricostruito quei minuti attraverso i video disponibili, hanno geolocalizzato la posizione della giornalista, dei miliziani palestinesi e dei soldati israeliani (con i quali ovviamente non hanno potuto parlare). Hanno stabilito che il fuoco mortale è arrivato dalla direzione delle truppe, che in quel momento i palestinesi - è sempre stata la tesi-scusa dei portavoce militari - non sparavano verso quell'albero dalla corteccia ancora scheggiata».

L’UTERO IN AFFITTO RESTA NELL’OMBRA

Il business dell'utero in affitto preferisce restare nell'ombra: non sarà alla Fiera di Parigi. Daniele Zappalà.

«Nessuna esultanza, certo, ma almeno la sensazione che per una volta, nel fosco business planetario dell'utero in affitto, qualcosa si muove timidamente nel senso giusto. In Francia, dopo anni di battaglie, le associazioni antisurrogata non nascondono una punta di soddisfazione, dopo la scomparsa quest' anno della "Gpa" (Gravidanza per altri) dagli stand di "Désir d'enfant", la controversa fiera annuale alle porte di Parigi rivolta agli aspiranti genitori, già nel mirino di accese proteste e di reportage - anche da parte di Avvenire - per aver spalancato le porte alla propaganda del lucroso traffico degli uteri in affitto. La scelta di fare retromarcia è stata formalmente annunciata dagli organizzatori, consapevoli più che mai, dopo gli avvertimenti delle associazioni, di esporsi a conseguenze legali in caso di promozione di una pratica illegale, anche se in realtà quasi mai perseguita dalle autorità transalpine, anche per via di un clima mediatico spesso più che accondiscendente. Di fatto, a parte qualche volume sulla surrogata nella sezione libri, nessun metro quadrato è stato ceduto alle famigerate agenzie internazionali specializzate nella pratica che non figurava neppure all'ordine del giorno delle conferenze previste. Una scelta, nondimeno, che i curatori di "Désir d'enfants" dicono apertamente di rimpiangere, a riprova di quell'«anestesia delle coscienze » ancora in marcia denunciata a gran voce dalle associazioni. Ma il recente attivismo legale di diverse sigle sembra almeno portare i primi frutti, limitando ufficialmente la propaganda sulla pubblica piazza, in attesa magari d'evoluzioni legislative anch' esse nella direzione giusta, a tutela della dignità delle donne e dei bambini. In proposito, qualcosa sembra muoversi anche fra i ranghi parlamentari, dopo anni segnati da un deludente "letargo" che aveva di fatto raffreddato le speranze nate dopo i primi sussulti abolizionisti emersi in Europa proprio dalle parti del Parlamento francese. Lo scorso 9 luglio, 16 deputati neogollisti del gruppo Les Républicains, guidati dal 37enne Thibault Bazin, hanno depositato una proposta di legge costituzionale «volta a proscrivere la Gpa», chiedendo una modifica del titolo 8 della Carta fondamentale, con termini molto chiari: «Nessuno può ricorrere alla gestazione per altri». Un simile passo aprirebbe certamente la strada a caratterizzazioni penali più precise delle violazioni. In proposito, per il momento, il testo di riferimento resta una legge del 1994 sul rispetto del corpo umano, in virtù della quale i trasgressori possono essere perseguiti per il «delitto d'incitamento all'abbandono di un bambino». Ma per molti giuristi, questa fattispecie penale non riflette per nulla la realtà del business organizzato su scala planetaria dei ventri femminili usati per alimentare un mercato sempre più lucroso. Lo scorso febbraio, agli sgoccioli della passata legislatura, 36 deputati di centrodestra avevano già depositato un'altra proposta di legge «volta a rendere giuridicamente efficace la proibizione della gestazione per altri». Non mancano dunque nuovi fermenti, a riprova dei sicuri effetti delle campagne energiche reiterate di sigle associative di sensibilità anche diverse, come la Coalizione internazionale per l'abolizione della maternità surrogata (Ciams), la Manif pour Tous, o l'associazione Giuristi per l'Infanzia. Certo, questo 2022, sullo sfondo della guerra in Ucraina, ha talora evidenziato ancor più l'ampiezza del fenomeno, con arrivi documentati di madri surrogate ucraine sul suolo transalpino. Ma il sogno di frenare e un giorno contenere sostanzialmente il turpe commercio torna forse a far capolino fra le associazioni».

BARICCO TORNA CON FENOGLIO

Alessandro Baricco sta meglio ed oggi parlerà al Festival Letteratura di Mantova. Tema scelto: Beppe Fenoglio. L’intervista è di Raffaella De Santis per Repubblica.

«Impossibile non parlare subito di quello che gli è successo, non chiedergli come sta. Alessandro Baricco ha una bella voce, piena e ridente. «Non pensavo di essere così in forma». Ormai sono passati mesi dall'annuncio della leucemia e dal trapianto. Per lo più in questo tempo si è riguardato, ma ora torna davanti al suo pubblico: «Ho scelto Mantova per ricominciare. Mi sembrava un bel posto per ripartire, è un festival a cui sono molto legato». In libreria è appena arrivato un suo nuovo saggio intitolato La Via della Narrazione (Feltrinelli), poche pagine molto speciali, brevi folgorazioni sulla scrittura e i suoi segreti che rielaborano il succo di una lezione alla Scuola Holden. Al Festival Letteratura oggi l'argomento sarà però Beppe Fenoglio: «Lo amo molto, per le mie grane ho un po' trascurato il suo centenario».

L'annuncio della malattia ha scatenato un'ondata incredibile di affetto. Se lo aspettava?
«Mi ha molto stupito, è stata una sensazione bellissima. È strano, attraversiamo vite intere, anche professionalmente parlando, senza sapere in realtà che cosa abbiamo scatenato. Ci sono alcuni regali che quest' esperienza mi ha fatto: sicuramente uno è questo».

E gli altri?
«Ehhh me li tengo per me (ride). Non è il caso di parlarne più di tanto ma francamente l'ho trovata un'esperienza fantastica. Posso dire ufficialmente che sono un uomo molto fortunato, perché sono qua che mi preparo per andare a parlare a Mantova».

Torna anche in libreria con questo piccolo saggio  (La via della narrazione, Feltrinelli ndr). Il titolo fa pensare alle "Vie dei Canti" di Chatwin.
«Allude al fatto che la narrazione è un tao, come il tiro con l'arco o la cerimonia del tè.È una via in senso orientale, una di quelle discipline fisiche che portano a un compimento spirituale».

Una forma di meditazione?
«È un gesto che si compone di tre gesti: al primo diamo il nome di storia, al secondo di trama e al terzo di stile. Quando queste tre cose accadono in un unico flusso, c'è la narrazione. Nel linguaggio comune confondiamo spesso storia e trama,ma la storia è sferica, è uno spazio, un continente, e la trama è la linea ferroviaria che lo attraversa. L'unico tratto vagamente misterioso è quello dello stile, senza il quale la narrazione rimane orfana, senza voce».

I social hanno liberato la narrazione di massa, trova che lo stile ne abbia risentito, che si sia appiattito?

«Lo stile è una cosa rara, certo, ma mi sembra ce ne sia più oggi di quando ero giovane. Perfino alcuni tik toker hanno una voce irripetibile, tutta loro».

E tra gli scrittori, qualcuno l'ha conquistata di recente?
«Sono rimasto colpito dal romanzo Gli invisibili di Pajtim Statovci, pubblicato da Sellerio. Ha tutto: trama, stile, voce».

Si può insegnare a scuola ad avere uno stile?
«No, ma la scuola può aiutare a riconoscerlo, può insegnare a cantare meglio. In alcuni casi può domarlo. Lo stile è una specie di cavallo selvaggio, va ricondotto al controllo altrimenti rischia di esplodere».

Al di là di tutto, il talento rimane misterioso?

«Ho visto persone che avevano una voce fantastica, uno stile pazzesco che non riuscivano a mettere insieme una trama. Così come c'è gente che ha delle storie in testa bellissime ma non sa tradurle in un linguaggio. Purtroppo ci sono anche tanti ragazzi poveri di storie».

Tra le nuove generazioni?
«Non immagina quante storie ho letto alla Holden sui"momenti indimenticabili passati con il nonno".
Come è possibile che un ragazzo nell'immenso fondo della sua mente trovi solo quella storia?».

Come se lo spiega?
«Mi pare un difetto dell'Occidente. A un certo punto mi è accaduto di andare a insegnare insieme ad altri della Holden in Colombia e siamo rimasti secchi, perché i ragazzi colombiani erano grandi narratori.
In generale i mondi più acerbi, più poveri, più avventurosi, più aperti, più rischiosi sono carichi di storie. L'Europa è un continente molto vecchio, molto viziato, molto safe, molto normatizzato. C'è un'educazione democratica ormai spessissima, ingombrantissima. Pesa naturalmente il fatto che qui c'è gente che ha inventato il romanzo, è un po' difficile rilanciare quando hai avuto quei padri».

La cancel culture e l'esasperazione del politicamente corretto fanno parte di questo processo?

«Il controllo dispotico sul linguaggio non fa bene ai narratori. Le democrazie in Europa nel corso del tempo hanno costruito un modello di educazione che riduce al minimo i rischi. Si sacrificano quote di libertà per cercare di costruire dei cittadini morbidi. Qualsiasi movimento di insofferenza è demonizzato a priori. I narratori invece devono essere selvaggi, brutali, indipendenti, liberi, spinosi, fastidiosi. Abbiamo perso la forza impetuosa dell'Italia post-bellica».

Quell'energia che c'era in autori come Fenoglio?

«È stato un grandissimo costruttore di trame, molto più moderno di tutti quelli che scrivevano ai suoi tempi. Quando ha presentato all'Einaudi La paga del sabato, Vittorini e Calvino glielo hanno bocciato, sostenendo che era troppo cinematografico. E questo la dice lunga. Fenoglio era in anticipo di trent' anni. In Italia abbiamo dovuto aspettare la mia generazione, quella di Sandro Veronesi e Susanna Tamaro, perché il cinema contaminasse in maniera positiva la letteratura. Fenoglio ha uno stile fantastico, una lingua che non esiste, vagamente dialettale, petrosa, dritta. La sua voce la riconosci subito. Come succede per Cormac McCarthy o Thomas Bernhard, ti restano dentro alcune mosse che ti viene da imitare, è capitato anche a me. Il suo insuccesso è largamente attribuibile all'incapacità di marketing dei piemontesi. La sua era una forma di aggressività timida. Mi riconosco in lui anche antropologicamente».

Che lei non sappia promuoversi non è poco credibile?

«Sembra strano dirlo ma francamente penso di sì. Ho fatto tante cose ma parlo poco. Non sono mai andato al premio Strega per esempio. Da giovane mi scrissero per invitarmi a votare nella giuria, risposi "no grazie". Non ho mai voluto partecipare, non è la mia tazza di tè. Fare il proprio mestiere senza preoccuparsi della società letteraria è molto piemontese. Forse è un misto di arroganza e timidezza, una ribellione venata di paura».

È anche poco attivo sulla piazza social.

«Ho aperto un mio profilo Instagram per un anno durante la scrittura di The Game, ma scaduto l'esperimento con grande felicità l'ho chiuso. Proteggo la mia vita».

La malattia però l'ha annunciata in Rete.

«Certo, ogni tanto devi dare una grande notizia e la dai. Ma quello non è il mio ritmo, ho un senso della privacy, della riservatezza che custodisco».

Per queste ragioni non ha mai scritto autofiction?

«Il solo libro in cui ho raccontato delle storie che appartengono al mio mondo familiare è Emmaus, che mi è costato un'enorme fatica. Per il resto ho scritto di me in modo indiretto».

E da lettore come giudica chi racconta solo di sé?

«Carrère è un grande, uno scrittore che ammiro moltissimo, gli invidio il giro di frase, la vitalità, ma confesso che a volte mentre leggo i suoi libri mi vergogno per lui».

Racconterà mai la malattia?

«Forse tra vent' anni scriverò la storia di un postino viennese del 1921 e là dentro ci sarà quello che ho vissuto, chissà».

Nel nuovo saggio cita Lacan. Scrivere è un processo psicoanalitico?

«È un luogo comune pensare che scriviamo solo ciò che abbiamo vissuto e censuriamo. In realtà narriamo la parte mancante di noi, quella che non siamo riusciti a portare a compimento. È la pagina bianca della nostra esistenza che scriviamo, il futuro. In questo senso il gesto di narrare è un tao. È un rito quotidiano, come lo yoga, come respirare. Presume una cura, una lentezza, una pazienza. E si può imparare, proprio come il tiro con l'arco».

Leggi qui tutti gli articoli di oggi mercoledì 7 settembre:

Articoli di mercoledì 7 settembre

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