La prudenza di Meloni
Illustrata la nuova Finanziaria. Cautela nei conti e nella cancellazione del Reddito. Battibecco con la stampa. Fi e Lega scontenti. Mancano le munizioni a Kiev. Rivolta aperta in Iran
Nella sostanza prevalgono cautela e prudenza. E gradualità. Anche nello smantellare il Reddito di cittadinanza, Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti hanno deciso di procedere a tempo, fissando la scadenza ad agosto. I due hanno frenato anche altre richieste di Salvini e Berlusconi, che avrebbero voluto allargare ulteriormente il deficit. L’impressione è stata confermata dalla conferenza stampa di ieri mattina a Palazzo Chigi di illustrazione della manovra, dove Meloni ha spiegato di non voler rincorrere il consenso, senza sconfessare, anzi rivendicando precise scelte di linea politica ed economica. Ma con realismo, sapendo che le risorse erano limitate e che dei 35 miliardi in ballo, 21 servivano per contrastare il caro bollette. Ci sarà tempo poi per capire nel dettaglio che cosa accadrà al “ceto medio” (citato nel titolo del Giornale) e quale sarà il destino di chi oggi è titolare del Reddito. Anche per questo le cronache raccontano di un asse fra Meloni e Giorgetti e di un certo isolamento di Salvini e Berlusconi. Bruxelles ha acceso un faro sui nostri conti ma siamo in buona compagnia di molti altri Paesi Ue, Germania compresa, come racconta Beda Romano sul Sole 24 Ore di oggi. L’attenzione europea è d’altra parte scontata, visto che la crisi energetica e dei consumi, anche dovuta alla guerra, sta provocando recessione, combinata con inflazione. Vedremo come andranno i consumi del Black Friday, nel lungo fine settimana mondiale di maggior consumo del pianeta, che inizia domani con il Thanksigiving americano.
A Palazzo Chigi, non è stato simpatico ieri il finale dell’incontro con i cronisti. Ma non è certo la prima volta che un Presidente del Consiglio battibecca con i giornalisti in conferenza stampa. Giorgia Meloni poi (si pensi alla singola critica sulla figlia portata a Bali da lei stessa amplificata) è incline ad azzuffarsi con stampa e tv, alternando vittimismo ed offese piccate. Le domande e le critiche vanno fatte. La premier ha il diritto di rispondere e anche di non dire niente. O di insolentire i cronisti. Nella sostanza è capitato a tutti: da Renzi a Conte, da Berlusconi a Monti, da Letta a Draghi. Gli inizi poi sono sempre difficili. Meloni è stata campionessa della polemica nei panni dell’opposizione, per tanti anni, non è facile passare dall’altra parte. Però meglio non esagerare. Cautela e prudenza sono grandi virtù non solo sui conti pubblici ma anche sul bilanciamento dei poteri in democrazia.
Le notizie dal fronte bellico sono concentrate sul generale inverno, grande alleato della strategia militare di Mosca. Gli ucraini devono fronteggiare temperature rigide e neve, con le infrastrutture energetiche danneggiate dai bombardamenti russi. Secondo Gianluca Di Feo di Repubblica alle forze armate di Kiev mancano anche le munizioni, dopo otto mesi di guerra, munizioni che scarseggiano in tutto l’Occidente.
Le altre notizie dall’estero ci raccontano delle proteste iraniane, che anche grazie all’amplificazione mediatica dei Mondiali di calcio in Qatar stanno facendo il giro del mondo. A Teheran c’è chi critica i calciatori ma ci sarebbero scioperi e proteste anche nelle fabbriche, a testimoniare che le manifestazioni non sarebbero solo più di donne e giovani. E che dalla critica alla Polizia morale si sarebbe ormai passati all’aperta rivolta contro il regime degli ayatollah.
Da ieri è disponibile l’ottavo ed ultimo episodio della serie podcast Maestre e maestri d’Italia, ideata da Riccardo Bonacina e da me realizzata con Chora media per Vita.it, grazie al sostegno della fondazione Cariplo. È intitolato IL RISCHIO EDUCATIVO ed è dedicato a don Luigi Giussani. Maestro di tanti maestri, il prete di Desio ha lasciato una traccia importante nella pedagogia e nelle scuole di mezzo mondo. Lo spiegano bene in questo episodio Rose Busingye da Kampala, in Uganda, e poi l’insegnante e dantista Franco Nembrini e ancora Angelo Lucio Rossi, preside di una scuola pubblica di periferia a Milano, leader nei Patti Educativi col territorio. Tre persone che si ispirano alla lezione educativa di Don Giussani e che seguono il suo metodo educativo. Rose Busingye, 54 anni, che parla da Kampala, Uganda, dove vive tuttora, spiega così il “rischio educativo”, un’idea fondamentale nell’impostazione di don Giussani, che è anche il titolo di un suo famoso libro: «È il rischio tra educatore e alunno. Si tratta proprio di non pretendere che tu sai tutto prima. Non pretendere che tu sei padrone della verità. Perché anche la libertà ha a che fare con una verità. Allora un insegnante o un professore non deve pretendere che sa tutto per essere insegnante, per fa uscire lo studente, per educare. E proprio devi dire all'altro: “Vieni con me. Io non sono la verità e anch'io sta andando verso la libertà”. Chi insegna diventa così come un compagno di cammino». Anche per questo episodio cercate questa cover del podcast…
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LA FOTO DEL GIORNO
L’immagine ritrae due giocatori dell’Arabia Saudita ringraziare in ginocchio per la clamorosa vittoria ottenuta ai mondiali del Qatar contro l’Argentina di Lionel Messi.
Foto: Peter Cziborra per la Reuters
Vediamo i titoli sui giornali di oggi.
LE PRIME PAGINE
Il Corriere della Sera dà la parola alla premier: Meloni: non inseguo il consenso. Avvenire sottolinea la precarietà dei sussidi: Reddito d’incertezza. Il Fatto spiega: Reddito: 404mila famiglie in miseria da agosto. Il Giornale critica l’opposizione: L’aiuto al ceto medio fa impazzire la sinistra rosicona. Il Quotidiano Nazionale è interessato alla previdenza: Un tetto alla pensione di chi esce prima. Il Manifesto con un gioco di parole celebra la fine programmata del sussidio a chi non trova lavoro: Relitto di cittadinanza. Il Mattino riporta una frase del monito di Mattarella sull’autonomia: «Nord e Sud, stessi diritti». Il Messaggero entra nel dettaglio: Pensione a quota 103, ma con assegno ridotto. Così come Il Sole 24 Ore: Cuneo fiscale, così aumentano gli stipendi. Pensioni, tetto a 2652 euro per Quota 103. Per la Repubblica: Reddito, scontro totale. La Stampa intervista il presidente di Confindustria Bonomi: “Questa manovra è senza visione”. Il Domani, che è stato querelato, amplifica la diatriba con i giornalisti: La premier Meloni ha un problema con la stampa (e con le domande). La Verità attacca: I sepolcri imbiancati del reddito. Libero è sempre elegante nelle metafore: A chi girano i Meloni.
MELONI: “QUESTA MANOVRA HA UNA VISIONE”
Giorgia Meloni illustra la manovra e dice: “Non è un lavoro ragionieristico, c’è una visione politica”. Poco spazio alle domande e battibecco con i giornalisti in sala stampa. Marco Galluzzo per il Corriere della Sera.
«Sono molto soddisfatta, non è un lavoro ragionieristico, c'è una visione politica, un approccio che si avrebbe in un bilancio familiare, dove hai la responsabilità delle scelte, senza poterti occupare del consenso». Giorgia Meloni commenta con questa premessa la manovra di Bilancio appena approvata dal governo. Rivendica le scelte politiche, la definisce una manovra «coraggiosa, coerente con gli impegni presi con il popolo italiano e che scommette sul futuro» del Paese. Due sono le linee guida a giudizio del presidente del Consiglio: la crescita, la tenuta del tessuto produttivo, gli aiuti alle imprese, e dall'altra parte «l'attenzione particolare alle famiglie, ai soggetti più fragili. E abbiamo stanziato 1,5 miliardi per incentivare e sostenere la natalità, perché questo è un tema economico prioritario. Con i nostri dati demografici nel medio periodo il nostro sistema produttivo e di welfare, nulla può reggere. Io credo che o questa nazione decide di scommettere sul suo futuro oppure purtroppo tutto quello che facciamo non porterà i benefici che ci attendiamo». La premier è orgogliosa in particolare per alcune misure, per gli incentivi a chi assume, per cui «azzeriamo la contribuzione», per quel miliardo e mezzo dedicato alle famiglie e alla natalità, con l'aumento dell'assegno unico per il primo anno di vita, per quel «salvadanaio del tempo» che consiste in un mese di congedo in più entro i sei di vita del bambino con l'80% del reddito. Meloni ritiene redistributiva, con un carattere sociale volto «alla tutela del ceto medio», anche la scelta di quali pensioni rivalutare ed entro quali limiti, ritiene doveroso quanto approvato sul reddito di cittadinanza (fine misura 2023 e stop ad erogazione assegno al primo rifiuto di un'offerta di lavoro) con almeno due postille. La prima: «Conte e Letta protestano? Fanno il loro mestiere, a parte che Letta, credo, nella prima versione non era nemmeno d'accordo con il reddito di cittadinanza». La seconda: «È ovvio che faremo una riforma completa della materia, ricordo anche che c'è gente che percepisce la misura da tre anni, ma non c'è scritto da nessuna parte che lo Stato si debba far carico a vita di questo onere». Un'altra sintesi è a corredo dell'illustrazione delle singole misure: «Abbiamo preso impegni in campagna elettorale sul taglio del cuneo fiscale, la norma "più assumi e meno paghi", le pensioni minime. Stiamo iniziando un lavoro e per me sono impegni che vanno concepiti nell'orizzonte della legislatura. Ma sono contenta e fiera che nella prima manovra si sia aperto un varco su tutte le misure che caratterizzano le scelte politiche di questo governo». Così come è fiera che «in Cdm non ci siano stati egoismi, che tutti abbiamo dimostrato grande collaborazione, in un clima che per me, che ho esperienza di Cdm legati alla legge finanziaria, è stato un dato inedito». Meloni ha accanto a sé il vicepremier Matteo Salvini, che annuncia che chiederà un cofinanziamento europeo per «posare finalmente, dopo 54 anni di progetti, la prima pietra» del Ponte sullo Stretto. Alla sua destra ha il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, che definisce il provvedimento «prudente, responsabile, sostenibile e coraggioso, visto che ci sono anche scelte impopolari. Non arrivo a dire che questa sia una manovra saggia perché qualcuno potrebbe dire, come Lucio Battisti, che talvolta la saggezza è la prudenza più stagnante». Nelle domande le si contesta di aver varato molteplici misure ma senza una grande novità, che è la stessa critica che lei rivolse a Draghi: si difende dicendo che contestò al premier precedente poco coraggio sul taglio del cuneo fiscale, che lei invece conferma e allarga. Le si chiede anche dei rapporti diplomatici guastati con Parigi, la risposta: «In queste ore sono stati in Francia due ministri, sia Nordio che Fitto, ci si parla, non ho avuto tempo di leggere le nuove proposte dell'Unione europea, se ne sta occupando il ministro dell'Interno Piantedosi». E a chi le domanda se lo scontro con la Francia non «le ha insegnato» qualche cosa, risponde cercando di trattenere più di un filo di contrarietà: «Insegnare? Faccio notare che il nostro governo, nonostante le critiche ricevute, ha mantenuto un profilo rispettoso e perfettamente istituzionale. E voglio rassicurare tutti su una cosa, noi abbiamo un mandato e lo perseguiremo, e non arriveranno le piaghe d'Egitto in Italia, non ci sarà nessuna crisi fra le tante previste, nessun crollo dello spread, nessun disastro causato dai sovranisti, saremo rispettati». Sui 21 miliardi di euro messi per fronteggiare il caro energia, Meloni risponde agli interrogativi sul futuro, alle domande sulle risorse necessarie quando, fra qualche mese, i 21 miliardi saranno stati spesi: «Mi chiedete cosa succederà? Faremo quello che si dovrà fare, occorre un price cap per il prezzo del gas e ci stiamo lavorando in sede europea. È chiaro che con questi tamponamenti stiamo finanziando la speculazione, e la cosa non mi rende felice, ci auguriamo che arrivino presto delle risposte efficaci da Bruxelles». C'è anche una domanda sul recente incontro con il presidente egiziano Al Sisi: conferma di aver parlato del caso Regeni, «ho registrato una disponibilità che andrà verificata nelle prossime settimane». Infine un piccolo battibecco con alcuni cronisti: ha un impegno e deve terminare la conferenza stampa, le viene contestato che non è la prima volta (al G20 di Bali ha preso appena tre domande), lei risponde con un «non ricordo tutto questo vostro coraggio in altre situazioni, e non potete pretendere che presenti una manovra di bilancio in 4 minuti».
CONTI SOTTO ESAME, L’ANALISI DI BRUXELLES
Il messaggio arriva dalle Ue: l’Italia corre rischi elevati per la sostenibilità del debito. Insieme ad altri Paesi, compresa la Germania, finiamo nell’ Alert mechanism report: cruciali le condizioni di finanziamento. Beda Romano per Il Sole 24 Ore.
«In attesa di una valutazione compiuta della Finanziaria per il 2023, appena presentata dal governo Meloni, la Commissione europea ha messo in luce ieri ancora una volta le debolezze dell'economia italiana, ricordando tra le altre cose che per evitare ulteriori derive dei conti pubblici il sostegno all'economia in tempi di crisi energetica deve essere mirato e temporaneo. Intanto, il forte aumento dell'inflazione sta mettendo a rischio la stabilità economica di molti paesi dell'Est Europa. Interpellato ieri a Strasburgo sul progetto di bilancio italiano, il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni si è voluto attendista: «Per noi è molto difficile avere una prima impressione, dobbiamo vedere il bilancio, i testi e valutarli. Penso sia anche un dovere di trattamento uguale nei confronti di tutti i Paesi». Intanto ieri la Commissione ha notato che in una decina di paesi, tra cui la Germania, i programmi di bilancio non rispettano pienamente le raccomandazioni comunitarie. In questo contesto, Bruxelles vuole maggiore coordinamento nelle politiche di bilancio, più attenzione agli investimenti e un sostegno mirato agli attori dell'economia, consumatori e società. Ha notato il commissario Gentiloni: «È una buona notizia che tutti gli Stati membri prevedano di finanziare gli investimenti pubblici per la transizione verde e digitale. Al tempo stesso, è urgente adattare le misure di sostegno per evitare un onere inutilmente elevato sulle finanze pubbliche». A medio termine, l'Italia potrebbe affrontare «elevati rischi per la sostenibilità di bilancio», ha aggiunto Bruxelles in un rapporto annuale sugli squilibri macroeconomici. «I paesi con i più alti livelli di debito sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti nelle condizioni di finanziamento. In uno scenario di aumento di 1 punto percentuale del differenziale tra crescita e interessi, il debito aumenterebbe di oltre 10 punti percentuali del Pil entro il 2023 in Italia, Grecia, Spagna e Portogallo». L'Italia è tra i 17 paesi che saranno oggetto di un particolare esame per verificare se sono segnati da uno squilibrio macroeconomico. Non è la prima volta che il paese subisce questo tipo di esame. Ieri Bruxelles ha messo l'accento su rischi noti: l'elevato livello del debito pubblico, la debolezza del mercato del lavoro, una competitività dei costi che potrebbe peggiorare per via dell'aumento dell'inflazione. Sul fronte creditizio, Bruxelles nota «miglioramenti sostanziosi» nel recente passato e soprattutto un calo delle sofferenze nel 2021, al 3,5% degli attivi bancari, un livello leggermente superiore alla media della zona euro. «Un nesso significativo tra conti bancari e conti pubblici così come il legame con alcune vulnerabilità del settore societario potrebbero aumentare il rischio di reciproca influenza negativa». Come detto, Bruxelles ha deciso di verificare la presenza di eventuali squilibri macroeconomici in altri 16 paesi europei. A essere monitorati nuovamente saranno Cipro, la Francia, la Germania, la Grecia, i Paesi Bassi, il Portogallo, la Romania, la Spagna, la Svezia. Nel contempo, il forte aumento dell'inflazione, soprattutto a Est, ha indotto la Commissione ad analizzare la situazione anche in altri sette paesi: la Repubblica Ceca, l'Estonia, l'Ungheria, la Lettonia, la Lituania, il Lussemburgo e la Slovacchia».
IL VERO FARO È LA CAUTELA
Cautela è la parola chiave con cui interpretare la prima finanziaria del governo di destra. E secondo Federico Fubini del Corriere della Sera non sarebbe un male.
«Se c'è un filo rosso che percorre la prima manovra di Giorgia Meloni, è nella cautela. Cautela nel fare disavanzo, nell'allentare i vincoli sulle pensioni o nel riformare il Reddito di cittadinanza. Cautela nello sventolare le bandiere identitarie dei partiti di maggioranza e cautela, rispetto alle premesse, persino nello strizzare l'occhio agli evasori senza eccedere. Ma cautela, anche, nell'esprimere qualunque visione del Paese e del governo negli anni futuri. Forse era troppo chiedere di più dopo appena un mese di lavoro, con una recessione alle porte e un'immensità di risorse immobilizzate (almeno) fino a marzo nella crisi dell'energia. Proprio in questo il governo un certo coraggio però lo dimostra, perché ridurrà gli sgravi sulla benzina. Quelle misure costano un miliardo al mese e quando furono prese un litro di benzina costava il 30% più di oggi, dunque ridurle è razionale. Ma non facile: milioni di italiani presto noteranno solo i rincari, quando si fermeranno alla stazione di benzina. Dopo aver detto di essere pronta anche a misure impopolari, Meloni è stata di parola. Non di parola (parlava di abolizione), ma realista la premier è stata sugli aspetti del reddito di cittadinanza che dall'inizio avevano in sé i semi della propria disfatta, perché rendono troppo facili le frodi. Qui il governo dovrà trovare meccanismi di collegamento dei disoccupati con il mondo del lavoro, sui quali ancora non si vedono proposte mature. Il resto sono misure così numerose da essere omeopatiche, a volte, per l'esiguità dell'impatto nel contesto di un budget limitato. Sicuramente aver messo mezzo miliardo su una carta per la spesa alimentare dei redditi bassi è più giusto ed efficace del taglio dell'Iva sul latte per tutti, come chiedeva Forza Italia. Le forme di condono più audaci di cui si era parlato sono scomparse dalle misure, anche se sull'aumento della soglia del contante a 5.000 euro vale il commento di "Marco F.", l'artigiano di Varese che ha scritto al Corriere il 12 novembre ammettendo di essere un evasore. Racconta il signor Marco: "Vivevo con il timore di venire segnalato all'Agenzia delle Entrate. Ora che potrò spendere fino a 5.000 euro in contanti vivrò molto più tranquillamente". Infine le pensioni. Quelle minime crescono di meno di sette euro al mese rispetto agli aumenti già programmati. Troppo piccoli per mancanza di risorse anche gli incentivi per restare al lavoro, benché l'idea del ministro Giancarlo Giorgetti sia condivisibile. Ma il dato di fondo è che si apre una nuova breccia nella Legge Fornero con l'opzione del ritiro a pieni diritti a 62 anni con 41 di contributi. La spesa sul 2023 è limitata, ma più avanti? Concedere simili finestre nei prossimi anni della legislatura finirebbe per costare una decina di miliardi e questo dovrebbe indurre tutti a guardare i numeri silenti della manovra, quelli della spesa pubblica. Già solo con il sistema Fornero (di fatto già abbandonato a favore di scappatoie un po' più onerose) la spesa per pensioni esplode di quasi 60 miliardi in tre anni e arriva a pesare il 40% di tutta la spesa pubblica, tolta quella per interessi sul debito. Ha senso? Di certo è sostenibile nei numeri del governo - che confermano quelli dell'esecutivo precedente - solo a costo di congelare, come quantità di euro, tutto il resto della spesa pubblica eccetto gli investimenti sostenuti dal Piano di ripresa. Ma l'inflazione si divorerà il valore reale di quelle linee di bilancio congelate. Così nel giro di tre anni la spesa sanitaria crolla del 14,3% in proporzione al prodotto interno lordo; la spesa per le altre prestazioni di welfare va giù del 13,5%; quella per i dipendenti pubblici giù del 13%. Sono le premesse di una crisi sociale o di forti tensioni sul debito, se non si interviene con saggezza. Per questo il governo da ora sarà chiamato a darsi una visione e a seguirla. Questo è un Paese che dal 1980 ha perso 28 punti su cento di produttività rispetto alla Francia, 47 sugli Stati Uniti e 60 sulla Germania. La produttività delle imprese (e dello Stato) è ciò che crea lavoro, reddito, gettito e riduce la povertà. Il resto sono solo palliativi: a volte necessari, altre volte solo costosi, ma alla lunga fondamentalmente inutili se l'obiettivo di tutti è invertire un declino lungo quasi mezzo secolo».
L’ASSE DELLA PRUDENZA MELONI-GIORGETTI
È prevalsa la prudenza. Anzi secondo Giacomo Salvini, che ne scrive per Il Fatto, ieri è stato evidente l’asse Meloni-Giorgetti, durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi.
«Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti sorridono e scherzano. Si scambiano foglietti scritti a mano: la premier chiede numeri sulla legge di Bilancio, il ministro dell'Economia le suggerisce le risposte. Alla sinistra di Meloni, un imbronciato Matteo Salvini. Che continua a ticchettare sul cellulare e parla solo per cinque minuti. La conferenza stampa post legge di Bilancio è l'istantanea di un momento politico. Da una parte l'asse della "prudenza" Giorgetti-Meloni, dall'altra Salvini che avrebbe osato di più: "È un primo passo - dice il leghista in conferenza stampa - tutto è perfettibile". Anche Silvio Berlusconi, anche se da Arcore, manifesta le sue perplessità: sul metodo perché "non ho ancora ricevuto bozze e testi" ma anche sul merito perché su pensioni, detassazione per le assunzioni dei giovani e Superbonus "serviva più coraggio", ha detto Berlusconi a chi lo ha sentito in queste ore. Ma per la coppia Meloni-Giorgetti questo era il massimo risultato possibile a fronte di una coperta molto corta. La presidente del Consiglio parla di manovra "coraggiosa" paragonando le sue scelte politiche a quelle di "un bilancio familiare quando mancano le risorse". Il ministro dell'Economia, affiancato dal suo "vice" (ormai un ministro de facto) Maurizio Leo, la definisce "prudente, responsabile e sostenibile". E manda un messaggio proprio a Salvini: "In tanti invocavano sforamenti di qua, sfondamenti di là, si aspettavano che facessimo un po' di follie, mi dispiace non aver assecondato questo tipo di aspettative". Giorgetti si riferisce anche a Salvini che da mesi chiede uno scostamento di bilancio sulle bollette. Per questo il leghista non può che incassare. In campagna elettorale aveva promesso l'abolizione del canone Rai, Quota 41, flat tax fino a 100 mila euro, un'ampia pace fiscale. Niente di tutto ciò è entrato in legge di Bilancio. In conferenza stampa quindi parla di "manovra non miracolosa". Rivendica i temi leghisti ma chiede subito qualche modifica. Per esempio sul condono: "Ci sono milioni di italiani che hanno cartelle più alte: vanno aiutati". Avrebbe voluto uno sconto-benzina più alto. Anche Berlusconi non è pienamente soddisfatto della manovra. In primis per una questione di metodo: lunedì non ha avuto contatti con Meloni e ha chiesto a più riprese, tramite Antonio Tajani (ieri assente perché in Kosovo), di vedere le norme scritte. "Perché non mi danno i testi?" la richiesta di Berlusconi. Che non si fida del tutto. Nel merito, Forza Italia in Parlamento darà battaglia su due temi: le pensioni minime che, rispetto alla richiesta dei 1.000 euro, sono state alzate solo a 600 e il Superbonus. FI chiederà di sbloccare i crediti per le aziende. Anche sulla detassazione per gli under 34 si chiederà "più coraggio". Temi cari a FI perché riguardano i suoi elettori: costruttori, pensionati e imprenditori. Sul reddito di cittadinanza, Berlusconi deve tenere insieme le due anime del partito - quella liberista e quella del Sud - ma è un po' in imbarazzo per il taglio all'assegno: "Noi siamo quelli che diamo i soldi non che li togliamo" è il refrain del leader di FI che lascerà che sia Meloni ad intestarsi la stretta. Per FdI non si poteva rimandare di un anno: meglio evitare di farlo alla vigilia della campagna elettorale delle europee 2024.
Intanto FI apre anche il fronte del decreto-rave: ieri i giuristi chiamati in audizione dal partito hanno criticato la norma. Nel Cdm di lunedì però si è parlato anche dello scioglimento dei Comuni per mafia approvando il commissariamento per Cosoleto (Reggio Calabria) e Anzio (Roma). Tutti i ministri sono intervenuti per chiedere di modificare la norma. Quelli di FdI, Guido Crosetto e Francesco Lollobrigida, hanno spiegato che va cambiata perché ha un impatto economico: secondo Crosetto il rischio scioglimento è un disincentivo a investire per le imprese e anche per Lollobrigida il commissariamento ha effetti negativi su tutti i settori, a partire dal turismo. Meloni si è detta d'accordo».
IL CAV SI SENTE TAGLIATO FUORI
Il fondatore di Forza Italia chiede ad Antonio Tajani: non hai neppure un pezzo di carta? Ma i giudizi severi sulla manovra vengono mitigati dopo il pranzo con la figlia Marina. Retroscena di Francesco Verderami per il Corriere.
«C'è stato un prima e un dopo nella giornata di Berlusconi. Ieri, prima di pranzo, l'umore del Cavaliere era lo stesso della sera precedente, quando aveva chiamato Tajani e gli aveva chiesto conto della Finanziaria alla vigilia del Consiglio dei ministri: «Hai un pezzo di carta? Qualcosa?». «No». «E ti sembra normale? Fra un'ora vi riunite e noi non siamo stati consultati». Tra i partiti non erano girate nemmeno bozze della manovra, e c'era un motivo. Durante il preconsiglio i rappresentanti del governo erano stati informati da Palazzo Chigi che «non c'è ancora un testo» e che «avrete tutto on line». Non subito. Infatti nella notte l'approvazione della legge di Stabilità da parte dell'esecutivo si sarebbe basata sull'illustrazione dei provvedimenti, non sui testi. «Abbiamo dovuto operare in tempi brevi», riconosce un autorevole esponente di FdI: «Questioni di bollinatura». Sarà, ma prima di pranzo a Berlusconi il presepe di Meloni continuava a non piacere. «È andata al G20 - si lamentava - e non ha fatto neppure una chiamata a chi ha partecipato a tanti di questi vertici». Cioè lui. Che da un mese e passa stigmatizza nei suoi conversari l'atteggiamento della premier. Ieri mattina Adalberto Signore lo aveva segnalato sul Giornale , e il titolo del quotidiano lo aveva messo in risalto: «Inflazione all'attacco - Manovra in difesa. Troppa cautela su fisco, cartelle e pensioni». Che poi era anche la linea di Forza Italia, illustrata da Mulè durante una riunione mattutina: «Diremo che la manovra non sarà il libro dei sogni ma almeno scaccia gli incubi. È una specie di tisana...». Espressione che evocava il «brodino» con cui Bertinotti preparò lo sfratto a Prodi. Il Cavaliere non è certo arrivato a questo punto, ma è evidente come finora abbia trattato il gabinetto Meloni alla stregua di un «governo amico». Le richieste azzurre sulla Finanziaria - a suo giudizio - non sono state soddisfatte appieno, sia sulla decontribuzione per i giovani sia sull'innalzamento delle pensioni minime: «Non capisco perché le abbiano portate a 570 euro invece che a 600. Mettiamo noi i trenta euro mancanti». Così i capigruppo Cattaneo e Ronzulli avevano fatto subito sapere che sulla legge di Stabilità «Forza Italia lavorerà per migliorarla in Parlamento». Nell'attesa, proprio in Parlamento la squadra di Berlusconi si prepara a dar battaglia sul decreto Aiuti quater, con una serie di emendamenti bellicosi sul Superbonus. Ma il piatto che scotta è il Reddito di cittadinanza, su cui il Cavaliere da tempo ha un'opinione diversa dalla premier. «È un punto sensibile ma abbiamo trovato un compromesso», spiega un esponente di governo di FdI: «E alla fine gli alleati si dovranno allineare. L'ha già fatto Salvini, lo farà anche Berlusconi. Perché Giorgia non si fermerà. Ci abbiamo provato pure noi in campagna elettorale, figurarci ora». Il pranzo ad Arcore doveva ancora essere organizzato quando l'ex premier si metteva a guardare la conferenza stampa di Meloni. E scopriva che nel parterre di governo l'unico partito non rappresentato era il suo. «Va bene che Tajani è all'estero - si adontava un dirigente azzurro - ma potevano chiamare il ministro Pichetto Fratin, dato che si è parlato di risorse per l'energia». L'argomento, insieme alla polemica della premier con i giornalisti, faceva passare in secondo piano una frase pronunciata dal titolare dell'Economia Giorgetti: «Sulla manovra in tanti invocavano sforamenti di qua e sfondamenti di là. Mi dispiace non aver assecondato queste aspettative». «Ma non erano i leghisti che lo dicevano?», sussurrava sibillino un meloniano lì presente. Chissà se Berlusconi l'ha colta. Una cosa è certa: dopo pranzo - parlando al telefono con alcuni rappresentanti azzurri - il Cavaliere ha usato toni diversi verso la premier: «Ha fatto quello che poteva fare. Il meglio possibile. Se avrete delle obiezioni, mi raccomando di fargliele con garbo». Clic. Tra il prima e il dopo aveva parlato a tavola con la figlia Marina... ».
BONOMI (CONFINDUSTRIA) È CRITICO
Intervista di Marco Zatterin sulla Stampa al presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Che critica la manovra del governo. Ecco alcuni passaggi, l’integrale è nei pdf.
«Quattro mesi e poi chi lo sa. Carlo Bonomi scorre l'elenco delle misure approvate lunedì sera dal governo Meloni e subito trova la quadra del pensiero. «È una legge di bilancio a tempo», riassume sicuro il presidente di Confindustria. Poi si spiega: «Giustamente, hanno concentrato due terzi degli interventi sul caro-energia, ma solo sino al 31 marzo. Bisognerà capire cosa succederà dopo. Oggi la legge di bilancio è prudente sui saldi, lo apprezziamo. Ma il primo aprile cosa ci aspetta?». Uno scherzo, forse. Meglio però sarebbe un cambiamento di rotta, lascia intendere il numero uno degli industriali, che vede un poco o nulla di fatto sul cuneo fiscale, contesta la strategia del taglio delle tasse, chiede una politica industriale vera, teme un autunno/inverno di tensioni e denuncia la manifesta carenza di prospettive. Sono i tempi più difficili, ammette. E, se non bastasse, «sulla manovra pendono tre incognite».
Quali, presidente?
«La prima è il tempo, la sua durata, cose a cui nessuno sembra pensare. Poi c'è la politica: è evidente che sono state prese decisioni per accontentare le diverse anime della maggioranza, e questo viene prima delle vere urgenze del Paese. La terza è la mancanza di visione. Sulla lotta alla povertà, come su occupabilità e produttività».
Avranno pur fatto anche qualcosa di buono?
«Dipende. Se l'obiettivo, specialmente in una fase di rallentamento congiunturale, fosse lavorare sul Pil potenziale e la crescita del Paese, i provvedimenti dovrebbero puntare in questa direzione. Se invece l'approccio è tenere insieme le varie anime della maggioranza, prendere intanto micro-decisioni e spostare tutto avanti di tre mesi, è molto diverso. A noi imprenditori preme la prima scelta, non la seconda».
Non salva nemmeno il capitolo calmiera-energia?
«Si, è importante, come chiedevamo. Certo ci sarebbe piaciuto più un intervento alla tedesca che il credito d'imposta sui costi energetici, ma va bene. Però sono fondi che finiscono a marzo. Se ad aprile puntano a nuove misure tutte in deficit, sarebbe meglio dirlo subito».
Altro di soddisfacente?
«È un bene che si sia tenuta la barra dritta sulla finanza pubblica».
Come valuta la fine del Reddito di cittadinanza?
«È un annuncio. Dicono che vogliono intervenire, però non evidenziano su quali politiche possano assicurare l'accesso al lavoro e la tutela sociale. Si daranno soldi ai centri pubblici per l'impiego che sono stati un fallimento? Avremo un sistema pubblico-privato? Si è preso tempo senza dire come intervenire per alzare l'occupabilità».Positivo l'intervento sul cuneo fiscale?
«Sul cuneo non si fa un intervento decisivo».Il governo dice altrimenti.
«Il mini-taglio aggiuntivo vale 46 euro lordi in più al mese ai dipendenti con meno redditi. Poco più di nulla. Serviva un taglio energico. La politica non si è assunta la responsabilità di farlo e coprirlo, ma offre nuovi forfait alle partite Iva. I soldi ci sono. La spesa pubblica supera i mille miliardi, riallocare qualche miliardo necessario a un taglio contributivo significativo non è impossibile. Se si fosse voluto incidere, si sarebbero trovati i mezzi».
LOTTA AL REDDITO 1. CONTE E LETTA, UNA PIAZZA PER DUE
L’opposizione si organizza ma la sensazione è che si vada verso due proteste distinte: quella del Pd e quella dei 5 Stelle. Luca De Carolis per Il Fatto.
«La disfida delle piazze, ancora. Sempre tra i fu giallorosa, che ormai non fanno che rincorrersi. Gli stessi ex alleati che a brevissimo potrebbero discutere a voce alta sul salario minimo e litigare forte sulle armi. (Ri)inizia tutto ieri mattina, un soffio prima che Giorgia Meloni presenti in conferenza stampa la sua prima manovra finanziaria da presidente del Consiglio, con l'ancora segretario dem, Enrico Letta, che lancia la piazza contro la legge di Stabilità delle destre. "Sabato 17 a Roma si terrà la nostra manifestazione contro una manovra improvvisata e iniqua" twitta. "L'avevamo già anticipato nell'assemblea del Pd di sabato scorso", aggiunge. Sostanzialmente vero, perché in quella sede Letta aveva annunciato tre giorni di mobilitazione tra il 15 e il 17 dicembre (un'idea di Nicola Zingaretti). Ma è vero anche che quella dell'ex premier è pure una mossa per precedere Giuseppe Conte, il presidente del M5S che lunedì aveva evocato anche lui la piazza, per difendere il Reddito di cittadinanza "da un governo inumano e reazionario". Di sicuro dal Nazareno precisano: "Quella del 17 sarà una piazza aperta a tutti, ma sulla manovra nel suo complesso, non solo su un tema identitario come il reddito di cittadinanza". Come a dire che non potrà essere la piazza con cui celebrare e proteggere la prima della bandiere per il Movimento. D'altronde i dem vogliono anche evitare il bis di quanto successo per la manifestazione per la pace in Ucraina, auspicata pubblicamente da Conte e poi organizzata a Roma da varie associazioni. Dopo giorni di esitazioni e mal di pancia, i dem presero parte al corteo del 5 novembre a Roma, dove Letta fu oggetto di una mini contestazione. Nel mentre, Carlo Calenda e Matteo Renzi tenevano la loro contro-piazza a Milano, con poca gente e Calenda a massacrare Bella Ciao da un microfono. Poco più di un mese dopo, siamo di nuovo lì. Con il capo di Azione che attacca l'ex compagno di partito: "Enrico, fare manifestazioni contro la manovra senza proporre un'alternativa è esattamente l'opposizione che la destra si augura di avere". Dal Nazareno replicano diffondendo lo schema della contromanovra dem. "Avere proposte e organizzare una piazza non è antitetico" aggiungono. Va bene.
Ma Conte? L'avvocato, raccontano dal M5S, trascorre la giornata a ragionare sulla "sua" piazza, quella sul reddito. Ma non si esclude una marcia, magari anche una riedizione della Perugia-Assisi che i grillini tenevano ogni anno proprio per invocare il Rdc. "Di certo Conte vuole un ampio coinvolgimento di forze sociali e politiche" spiegano. E arriva subito il parallelo con la piazza per la pace: "Come in quel caso, mira a sensibilizzare l'opinione pubblica nel segno della giustizia sociale, piuttosto che marcare una difesa d'ufficio di una riforma del Movimento". Non vuole intestarsi la piazza. Piuttosto una manifestazione allargata, in cui mostrarsi come collante delle varie anime del mondo progressista. Con il consueto obiettivo, drenare consensi da sinistra al Pd. Però deve tenere conto dell'iniziativa di Letta. "Diversi dei nostri la leggono come una risposta alla nostra piazza sul reddito" scandiscono dal Movimento. Molti, ma non Conte: almeno non ufficialmente. Ma il 17 ci sarà anche lui? "Vedremo", rispondono i grillini, anche se l'idea di fondo è esserci. Sta di fatto che in serata sulle agenzie affiora il risentimento dem: "Calenda e Conte sembrano impegnati a combattere più il Pd che il governo...". La riprova della sindrome di accerchiamento che aleggia sul Nazareno. Nonché lo specchio delle divisioni nel fu centrosinistra, su cui Meloni ieri ha messo facilmente l'accento: "Se vanno in piazza fanno il loro lavoro, però se non ricordo male Letta votò contro la prima versione del Reddito...". In questo scenario, il M5S ha presentato in Senato una mozione per rilanciare la sua proposta sul salario minimo a 9 euro l'ora, non esattamente la ricetta del Pd. Così al Fatto la capogruppo Barbara Floridia dice: "Speriamo che su questo punto convergano anche le altre forze di opposizione, soprattutto quelle che si dicono di sinistra.". È un corpo a corpo su tutto, tra gli ex conviventi nell'ex campo largo. E a breve saranno ancora le armi a dilatare le differenze. La settimana prossima alla Camera si voterà anche sulla mozione del Movimento, in cui si chiede al governo di informare il Parlamento su un ulteriore invio di armamenti all'Ucraina e di lavorare a un negoziato.I dem dovrebbero rispondere con un proprio testo, anche per evitare lacerazioni interne. Ma in Aula saranno ore complicate. Sempre per loro, quelli del centrosinistra che non esiste eppure litiga».
LOTTA AL REDDITO 2. QUELLO DELLA DESTRA È UN ATTEGGIAMENTO MORALISTICO
Lotta al Reddito. Giampaolo Cerri per Vita (qui l’integrale) ha intervistato la sociologa Chiara Saraceno. Che si chiede: ma chi è povero ha diritto ad una vita decente? A volte la maggioranza di governo dà invece l’idea di condannare chi resta indietro.
«Spieghiamo perché…
È proprio sbagliato, moralmente e anche praticamente. Perché distinguere tra occupabili e non occupabili per aver diritto al sostegno, dà per scontato che, se uno è occupabile, e immediatamente si mette sul mercato, trovi un lavoro. Basta che uno si metta sul mercato e troverà un lavoro anche con un reddito sufficiente a mantenere sé e la propria famiglia.
Le cose non vanno così…
Non vanno così neppure per persone molto più qualificate della maggioranza dei percettori del reddito di cittadinanza e a cui serve il tempo per collocarsi. E che, nel frattempo, devono anche continuare a pagare l'affitto, la luce, il gas o mantenere i figli. È proprio sbagliato. Non solo, ma persino l'Ocse anni fa…
Che cosa aveva detto?
Aveva scritto che solo un sostegno al reddito «tempestivo e adeguato» consente alla persona caduta in povertà di non sprecare il proprio capitale umano, alla ricerca affannosa di lavori e lavoretti, di mettere insieme pezzetti di reddito, ma di riqualificarsi, se necessario, e cercare un lavoro adeguato, se possibile. Aggiungo che l’idea che presiede a questo provvedimento è anche in contrasto con la proposta di raccomandazione della Commissione europea sul reddito di garanzia per i poveri.
Quella del settembre scorso…
Sì e che dovrebbe andare in discussione al Consiglio europeo nei prossimi mesi. Ed è chiarissimo quello che si vi dice.
Ricordiamolo.
Che chi è povero deve aver diritto a un sostegno al reddito che gli garantisca una vita «decente», questa la parola usata. E poi si aggiungeva che, se è in grado di lavorare, allora avrà il diritto, oltre che dovere, di ricevere sostegni tramite politiche attive del lavoro, personalizzati adeguati - non un lavoro qualsiasi, un reddito qualsiasi - al fine di trovare un lavoro «buono». Di nuovo, si scrive così. È chiarissimo, nella proposta della Commissione, che non è la distinzione tra occupabile e non occupabili a dover riguardare le misure aggiuntive al sostegno al reddito. Il Governo sta andando nella direzione opposta, purtroppo applauditi anche da qualcuno che dice di non essere di destra. Ma questa è un’altra storia».
A KIEV SONO FINITE LE MUNIZIONI
La situazione dal terreno bellico. Il nono mese di guerra è segnato per gli ucraini dal gelo, provocato dai bombardamenti russi e dalle speranze suscitate dalla conquista di Kherson. Ma anche dalla mancanza di munizioni. Lorenzo Cremonesi per il Corriere.
«Ghiaccio sulle strade, abitazioni al buio, comunicazioni precarie, offensive intelligenti contro il demoralizzato esercito russo e caccia alle spie dell'evanescente Putin nel più antico monastero ortodosso della capitale: così gli ucraini vivono, tra alti e bassi, lo scoccare del nono mese di guerra. Va premesso che se il 24 febbraio avessero detto loro che 273 giorni dopo sarebbero stati ancora in grado di tenere testa, se non addirittura vincere le colonne nemiche, la grande maggioranza avrebbe scosso la testa sconsolata. E questo spiega il diffuso senso di euforia cresciuto dopo la vittoria di Kherson l'11 novembre, accompagnato dalla speranza di riuscire davvero a scacciare i russi dalle zone occupate entro tempi ragionevoli. Nelle ultime ore i portavoce militari hanno ammesso di stare lanciando nuovi attacchi nella penisola di Kinburn Spits, che apre la strada verso la Crimea. Però poi s' impongono anche le necessità quotidiane: riscaldare la casa per i nonni o i bambini piccoli; dormire sotto montagne di coperte; scaldare l'acqua per lavarsi sul fornello; l'impossibilità di lavorare a causa dei blackout ai telefoni, internet e computer; l'economia nazionale dimezzata; gli ospedali in emergenza che rifiutano le terapie ordinarie; il buio in queste corte giornate di tardo autunno che costringe ad accendere le lampade a batterie già alle cinque del pomeriggio e riporta il Medioevo nelle vie del centro. Anche agli ottimisti è sufficiente guardare la neve caduta tre giorni fa che non si scioglie più per ricordare che il peggio deve ancora venire. Domina la precarietà. Putin non fa più discorsi trionfanti in pubblico, però il suo piano di mettere in ginocchio la società civile ucraina funziona. E intanto Gazprom ha minacciato di tagliare dalla prossima settimana i flussi di gas verso l'Europa, accusando Kiev di trattenere le quote destinate alla Moldavia. L'Ucraina nega. «La dimensione delle distruzioni contro la nostra rete elettrica è colossale», ha ammesso ieri Volodymyr Kudrytskyi, amministratore delegato della compagnia elettrica nazionale Ukrenergo. «In pratica l'Ucraina non dispone più di alcuna centrale termica o idroelettrica funzionante a pieno regime, specie dopo i bombardamenti della scorsa settimana. I russi hanno attaccato metodicamente ovunque anche i trasformatori e i centri di distribuzione dell'energia. Ci stiamo attrezzando con i pezzi di ricambio, che adesso stiamo importando da India, Giappone, Corea del Sud, Europa e Cina. Le riserve di gasolio sono sufficienti nel caso volessimo ricostruire l'intero sistema alimentandolo con generatori diesel. Ma occorre tempo per impiantarli e allacciarli», aggiunge. «Un altro attacco come quello dei giorni scorsi al sistema elettrico ucraino da parte della Russia lo distruggerà completamente», ha avvertito il rappresentante della politica estera della Ue Josep Borrell. Non è strano che in questa situazione d'emergenza tornino la paura delle spie e la caccia agli informatori come nei primi giorni della guerra. Ieri mattina poco dopo le sei decine di uomini dell'intelligence hanno fatto irruzione negli edifici antichi oltre un millennio del Pechersk Lavra, il monastero delle grotte nel cuore di Kiev considerato la roccaforte dell'ortodossia ancora legata al patriarcato di Mosca, che a sua volta sostiene pienamente la politica di Putin. Il 12 novembre si era diffusa la notizia che nel corso di una cerimonia fossero stati cantati inni in sostegno alla causa russa. «Cerchiamo armi e possibili sobillatori», dicono gli agenti. Non è chiaro se vi siano stati arresti. Dal Cremlino puntano il dito: «Gli ucraini aggrediscono la Chiesa».
A proposito di chiese, Giacomo Gambassi inviato di Avvenire ha incontrato Padre Andriy Zelinskyy, un gesuita ucraino accanto ai soldati che resistono all’invasione russa.
«Morto». « Morto». « Lui è caduto il 4 marzo in battaglia: lo avevo battezzato a Lourdes. Suo fratello è stato ucciso due anni fa in Donbass». È una sorta di antologia di Spoon River del ventunesimo secolo, quindi tutta digitale, il cellulare di padre Andriy Zelinskyy. Le foto sullo schermo che mostra lungo le strade di Kiev sono quelle dei soldati "amici" che ha accompagnato: nelle accademie, nelle caserme, al fronte dove lui è di casa. Ma anche al cimitero. «Ne ho sepolti molti, troppi. Erano anime pure che hanno pagato con la vita la difesa della nostra libertà e della patria», racconta il sacerdote greco-cattolico. Perché «è da otto anni che siamo in guerra con la Russia, non da otto mesi», dice riferendosi alle "crisi" mai risolte a Donetsk, Lugansk e in Crimea. «E l'Occidente ha chiuso gli occhi, non ha voluto vedere i carri armati di Mosca sul territorio ucraino. "Meglio tacere che peggiorare la situazione", è stato il ritornello. La lezione della seconda guerra mondiale non è servita. Ma se non si chiama per nome il male, non si può neppure fermarlo. Anzi, si dà alibi a proseguire nel suo intento distruttivo ». Non è un prete in divisa, padre Zelinskyy, anche se la mimetica la indossa ogni volta che è in prima linea. Ma un prete accanto ai soldati. «E alla mia gente che è anche quella in trincea » dove è rimasto per tre anni. Primo cappellano militare ucraino in una zona di guerra. E capostipite della legge che li ha istituti in maniera ufficiale e li ha inquadrati fra le forza armate. Ed è un gesuita. Orgoglioso di esserlo perché «la Compagnia è un'esperienza di frontiera, che non fa della fede una dimensione parallela ma la eleva a lente per leggere la realtà, che cerca Dio ovunque». Anche fra i colpi d'artiglieria che si sparano due eserciti. «In guerra si rischia di perdere la propria umanità - afferma il religioso di 42 anni, originario di Leopoli -. Per questo ai militari ripeto che essere uomo significa scegliere il bene, cercare la verità, difendere la giustizia, vedere la bellezza. Persino in mezzo all'orrore, alla violenza, al dolore». Descrive l'esercito ucraino come un «esercito popolare: si sono arruolati professori universitari, operai, cantanti lirici. E hanno perso la vita». E racconta il nemico che viene inviato a combattere in Ucraina: «Spesso si tratta di gente povera, mandata allo sbaraglio, che non sa neppure perché sia qui. Rubano di tutto. E, quando tornano a casa, riferiscono di aver visto tutt' altra realtà». Poi fa sapere che proseguono «gli scambi di prigionieri e anche le restituzioni delle salme dei militari morti nei combattimenti». È un volto noto nel Paese quello di padre Andriy. Amico di politici e dirigenti statali, presidente del Consiglio di sorveglianza nella Fondazione nazionale per i veterani, membro del Consiglio di amministrazione di Caritas-Ucraina, docente all'Università cattolica di Leopoli, è anche uno dei cofondatori dell'Accademia di leadership, una sorta di scuola della nuova classe dirigente del Paese. «Ero in piazza Maidan durante la rivoluzione della dignità nel 2014. Sono state liberate energie buone e giuste che andavano canalizzate. Abbiamo bisogno di nuove generazioni di politici e funzionari». E sessanta ex alunni si sono arruolati. «Troppi falsi miti segnano questa guerra. È stata presentata al mondo come una liberazione. E poi accade che i russi uccidano chi parla russo in Ucraina, perché quasi il 50% del nostro esercito parla russo e gli scontri sono soprattutto nell'Est del Paese dove la lingua più comune è il russo. O succede che gli ortodossi uccidano gli ortodossi perché l'appartenenza religiosa più diffusa qui è quella alla Chiesa ortodossa del patriarcato di Mosca. Ciò dice come l'Ucraina sia un Paese dove il pluralismo culturale e religioso non è mai stato fonte di discriminazione e si è tradotto in una convivenza armonica». Padre Zelinskyy conosce bene la Russia dove è stato anche per due anni di noviziato. «In Siberia», sorride. «L'Occidente - spiega memore dei suoi studi alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Orientale, oltre che negli Usa - ammira la Russia di Dostoevskij o di Tolstoj. Ma è una Russia teorica, che esiste solo sulla carta. Oggi è una nazione schiacciata dalla propaganda, vittima dell'ideologia della "grande Russia", che per quasi il 70 per cento sostiene l'attacco militare, che accetta pesanti limiti ai diritti e alle libertà personali. E ha al vertice una classe politica che vuole l'Ucraina sotto la sua influenza come dimostrano i tentativi di controllarla attraverso il gas, alcune oligarchie, certi partiti finanziati dal Cremlino, determinate televisioni, funzionari corrotti nelle nostre istituzioni». «La tragedia - continua - consiste nel fatto che in Russia oggi è vietato essere un "uomo" e si è solo un "cittadino obbediente al governo"». Una pausa. «La pace non è una parola magica: non basta ripeterla perché diventi realtà. Neanche basta la preghiera. È un dono di Dio ma chiede la cooperazione della persona: allora esige un cuore aperto, anche alla verità e alla giustizia».
DOPO OTTO MESI DI GUERRA L’OCCIDENTE IN AFFANNO
Gianluca Di Feo su Repubblica spiega che in Occidente mancano le munizioni per rifornire l’esercito di Kiev.
«Un diluvio di proiettili. Si parla tanto di missili e droni, ma la materia prima del conflitto in Ucraina sono i cannoni, impiegati in maniera così frenetica da svuotare le santabarbare del pianeta: le munizioni per l'artiglieria pesante sono ovunque in via d'esaurimento. Entrambi i contendenti le hanno sparate in quantità mostruosa: nelle fasi più cruente 60 mila al giorno i russi e ventimila gli ucraini. Un esempio? I moderni semoventi Pzh2000 donati dalla Germania sono progettati per tirare cento colpi in 24 ore; nel Donbass però si è arrivati a trecento, logorando canne e volate. Il volume di fuoco è così alto da condizionare le prossime operazioni. L'Occidente infatti ha promesso a Kiev sostegno ad oltranza, ma adesso deve riuscire a trovare munizioni sufficienti per alimentare gli obici della resistenza. E non è facile, perché negli ultimi trent' anni tutti hanno smesso di produrle. La carenza più assillante riguarda i 155 millimetri, lo standard della Nato. Gli Stati Uniti ne hanno già fatti arrivare all'armata di Zelensky un milione, il resto dell'Alleanza altri trecentomila. Ne servono molti di più. Al Pentagono ne rimangono due milioni, molto vicino al livello critico delle scorte strategiche. Ne ha ordinati 250 mila alla General Dynamics, che però ne sforna al massimo 14 mila al mese, ossia meno di quanto basta agli ucraini per un giorno di battaglia. L'azienda ha annunciato di volere triplicare la catena di montaggio: sarà pronta nel 2025. Che fare? Gli Usa si sono rivolti alla Corea del Sud, chiedendo di comprare 100 mila colpi. Ma Seul non vuole essere coinvolta nella crisi ucraina. In più teme la minaccia del Nord e non è disposta ad assottigliare il suo arsenale. I venti di guerra stanno contagiando tutti i continenti e innescano una nuova corsa agli armamenti. Anche gli eserciti europei si sono resi conto di avere i magazzini vuoti e non sanno dove rifornirsi: c'è letteralmente la coda. «Noi ci siamo mossi subito ma siamo tutti in fila davanti alle fabbriche di munizioni - ha detto la ministra della Difesa olandese Kajsa Ollongren - . Le scorte stanno finendo: è necessario trovare un modo di coordinarci a livello Ue». L'industria bellica aveva trascurato questo settore, dove la bassa tecnologia e i rischi ambientali consentono margini di profitto limitati. Inoltre la domanda era minima: la lunga stagione di campagne contro il terrorismo jihadista non ha avuto bisogno di cannoni e tutte le aziende si sono lanciate sui più lucrosi ordigni intelligenti. Adesso i big hanno fiutato l'affare e si stanno scatenando. Due settimane fa la Rheinmetal tedesca ha rilevato la Expal spagnola, mettendo sul tavolo 1.200 milioni. Parigi e Londra invece hanno domandato alle ditte nazionali di tararsi su un ritmo da "economia di guerra". L'Italia ha soccorso Kiev prelevando i residuati della Guerra Fredda: gli abbiamo girato alcune decine di migliaia di 155 mm regalati dagli Stati Uniti negli anni Settanta. Il conflitto ha però convinto lo Stato maggiore a correre ai ripari: in un decennio si prevede di spendere 2,7 miliardi in munizioni, mentre finora gli stanziamenti erano limitati a una manciata di milioni l'anno. Le confeziona la Simmel di Colleferro, che si era concentrata su colpi per i cannoni navali e ora tornerà ai pezzi terrestri. L'acciaio non manca, anche loro però faticano a reperire l'esplosivo: l'unico centro di produzione è in Francia ed è subissato di ordini. La carenza di proiettili è un serio ostacolo per i piani di riscossa ucraini: gli emissari americani hanno detto con chiarezza che l'aiuto proseguirà, ma è impossibile garantire gli stessi numeri consegnati finora. In ogni mossa futura, i soldati di Zelensky dovranno risparmiare il fuoco. E non va meglio con i cannoni d'origine sovietica usati da Kiev: i Paesi orientali della Nato hanno regalato gli avanzi rimasti negli arsenali, inclusi gli ultimi pezzi della Ddr. La piccola Zvs slovacca sta moltiplicando le frese per passare da 19 mila proiettili l'anno a 100 mila. Gli inglesi sono arrivati al punto di acquistarli in Pakistan e trasferirle in Polonia. Ma sono sempre troppo pochi. E i russi? Molti ritengono che pure Mosca sia in difficoltà, tanto da bussare alla porta di Kim Jong-un per attingere dai suoi bunker. Altri analisti credono che l'eredità di tritolo dell'Urss possa garantire mesi di combattimenti: ci sono foto con distese infinite di casse zeppe di ordigni. Vecchi, ma quasi sempre funzionanti. D'altronde Stalin ha chiamato l'artiglieria "il Dio della guerra" e oggi Putin resta fedele a questa linea di fuoco».
GAS, LA BEFFA DEL TETTO
Il meccanismo europeo scatterà solo quando i prezzi supereranno i 275 euro Mwh per due settimane di fila. È una beffa: non sarebbe servito neanche nei mesi più difficili. Marco Bresolin per La Stampa.
«Dopo mesi di pressioni e trattative, la Commissione europea ha messo sul tavolo una proposta per fissare un "price cap" sul gas. Ma il meccanismo rischia di rivelarsi un'arma spuntata: alle condizioni stabilite, nei mesi scorsi non sarebbe mai scattato. Nemmeno durante i picchi registrati ad agosto. Perché non basterà superare la soglia (decisamente alta) dei 275 euro per Megawattora: la quotazione dovrà rimanere al di sopra di questo livello per due settimane consecutive e il divario con gli indici di riferimento per il gas liquefatto dovrà essere di almeno 58 euro per Megawattora per 10 giorni consecutivi (all'interno delle due settimane). Uno scenario che sin qui non si è mai realizzato. Presentando la misura, Kadri Simson ha ammesso che «non si tratta di una bacchetta magica che farà abbassare i prezzi del gas». Secondo la commissaria all'Energia, la proposta rappresenta piuttosto «un atto di equilibrio» tra «i rischi e i vantaggi» e soprattutto un tentativo di raggiungere un compromesso tra quel gruppo (minoritario) di Paesi che si è sempre opposto a questo strumento e quelli come l'Italia che invece lo chiedono da tempo, ma che ora lo considerano insufficiente. «La nostra proposta deve rispettare la sicurezza dell'approvvigionamento" si è giustificata la commissaria, cercando di andare incontro a Germania e Paesi Bassi che continuano a essere contrari, soprattutto alla decisione di rendere la sua attivazione automatica, proprio perché temono rischi per le forniture. Ma evidentemente all'interno della stessa Commissione c'era chi chiedeva di osare di più. Pur senza criticarlo esplicitamente, Paolo Gentiloni ha lasciato trasparire il suo scetticismo. «È un segnale - si è limitato a dire il commissario - ma se sarà sufficiente lo vedremo...». Il confronto ora si sposta al tavolo dei governi, che giovedì si riuniranno per una prima discussione al Consiglio Energia straordinario. Un via libera già questa settimana è considerato impossibile: si punta a chiudere l'accordo entro dicembre in modo da renderlo operativo dal 1° gennaio. Da un punto di vista pratico, come detto, il meccanismo per limitare il prezzo a 275 euro per Mwh si attiverà automaticamente nel caso in cui si realizzassero entrambe le condizioni (due settimane consecutive con i prezzi sopra i 275 euro e uno spread di 58 euro con gli indici Gnl per almeno 10 giorni consecutivi all'interno di quel periodo). Ma si applicherà soltanto sul "month ahead" del Ttf di Amsterdam, vale a dire sulla quotazione media del mese precedente. Dunque non per gli acquisti "spot" e nemmeno per gli scambi fuori borsa. Inoltre il meccanismo potrà essere immediatamente sospeso in una serie di casi: automaticamente qualora lo spread con gli indici Gnl si riducesse, oppure attraverso una decisione della Commissione nel caso in cui emergessero problemi di approvvigionamento. Non solo: in caso di "rischi" di approvvigionamento, l'esecutivo Ue potrà addirittura evitare l'attivazione automatica del meccanismo. Intanto Gazprom ha annunciato che a partire dalla prossima settimana ridurrà i flussi di gas attraverso l'Ucraina: Mosca accusa Kiev di trattenere una parte del metano destinato alla Moldavia. L'Ucraina ha però smentito, accusando la Russia di «utilizzare il gas come strumento di pressione politica».
CRISI MIGRANTI, SCHINAS: “SOLUZIONE COMUNE EUROPEA”
Venerdì i ministri Ue discuteranno un nuovo piano per fronteggiare la migrazione. Francesca Basso per il Corriere ha intervistato Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione Ue che si occupa di migranti.
«Non possiamo più gestire la migrazione sull'urgenza, passando di crisi in crisi, dobbiamo rompere questo modello di lavoro e operare nell'ambito di soluzioni comuni europee strutturate e sancite dal diritto dell'Ue: la soluzione definitiva è rappresentata dalle nostre proposte contenute nel Patto per la migrazione e l'asilo», presentato nel settembre 2020. Parla Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione Ue con delega alla promozione dello stile di vita europeo, che include anche la migrazione. «Finché non avremo questo grande accordo - spiega - saremo costretti a operare come pompieri». Schinas oggi interverrà alla plenaria del Parlamento Ue, insieme alla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson, sulla necessità di una soluzione europea all'asilo e alla migrazione.
Quali sono le novità del piano d'azione per il Mediterraneo centrale?
«È un'ulteriore prova della nostra capacità di gestire le crisi. Per evitare che i nostri Stati membri litighino pubblicamente sulla migrazione, cerchiamo di aiutarli a trovare una via d'uscita, ma questo di per sé non è una soluzione definitiva. La soluzione definitiva è solo nel Patto. La novità di questo piano, che discuteremo con i ministri venerdì, è che non si occupa solo di ricerca e salvataggio. Copre ciò che accade prima che le navi si trovino vicino all'Europa, grazie a numerosi e solidi partenariati con le organizzazioni internazionali e i Paesi di origine e di transito, e riguarda anche ciò che accade dopo che queste persone sono state salvate in mare con il meccanismo di solidarietà. Questo è il valore aggiunto».
Perché lo avete proposto proprio adesso?
«Perché la vicenda Ocean Viking ha creato una crisi europea e ha portato due dei nostri Stati membri a confrontarsi su qualcosa che normalmente deve essere risolto in modo diverso. Secondo il diritto internazionale, la responsabilità è del Paese nelle cui acque territoriali si trova la nave. L'Italia si è rifiutata di ottemperare pienamente e ha mandato la nave in Francia creando questa situazione per avere una soluzione europea. Immaginate cosa sarebbe successo se anche i francesi non avessero accettato. Ora bisogna disinnescare questa mini crisi e trovare soluzioni pratiche che aiutino sia l'Italia a gestire questo percorso sia la Francia che ha dovuto accettarne le conseguenze».
Come si lega il piano con il Patto per la migrazione e l'asilo in discussione?
«Una volta ottenuto l'accordo dell'Ue sul patto, avremo una soluzione olistica e completa, che coprirà tutti gli aspetti della gestione dell'immigrazione e dell'asilo. Ma soprattutto si baserà sul diritto Ue, farà parte della legislazione comunitaria. Sarà giuridicamente vincolante, sarà obbligatorio per tutti e non volontario come lo è ora, questa è la differenza principale».
Che lettura dà delle tensioni tra Roma e Parigi?
«Non è il mio ruolo dare un giudizio politico da Bruxelles. L'unica cosa che posso dire è che il governo italiano è nuovo. E credo che la crisi dell'Ocean Viking sia stata un'esperienza pedagogica, tutti i governi dei nostri Stati sanno bene che hanno più da guadagnare lavorando con Bruxelles e i loro partner piuttosto che contro di loro».L'Italia lamenta di essere stata lasciata sola e che il meccanismo di solidarietà non funziona.
«Non si può accusare l'Europa di non aiutare e, allo stesso tempo, non contribuire a una soluzione europea che sarebbe l'aiuto definitivo. Molti dei problemi che i Paesi di primo ingresso stanno affrontando sono dovuti proprio alla mancanza di strumenti giuridici».
Nel piano si parla di discussione all'interno dell'Organizzazione marittima internazionale sul bisogno di un quadro di regole e linee guida per le navi. Quanto ci vorrà?
«Per noi il ruolo delle Ong non è un argomento tabù. Rispetto alla scelta di una modifica del diritto internazionale, che è molto macchinosa, questa idea di avere un codice di condotta e misure molto mirate è qualcosa di relativamente facile».
Cosa si aspetta dal consiglio di venerdì?
«Questo piano d'azione non riguarda solo i due Paesi o i cinque del Mediterraneo centrale, ma tutti i 27. Non ci aspettiamo decisioni. Ma accettiamo chiaramente la titolarità politica di queste 20 azioni».
AUTONOMIA. L’ALLARME DI MATTARELLA
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha parlato di Nord e di Sud all’Assemblea nazionale dell’Anci. Il suo monito da Bergamo davanti ai sindaci riuniti: “L'interesse generale della Nazione viene prima del particulare”. Concetto Vecchio per Repubblica.
«Occorre rifuggire la tentazione della chiusura nel ristretto orizzonte del proprio particulare », scandisce Sergio Mattarella a Bergamo, dinanzi a migliaia di sindaci. E al ministro Roberto Calderoli, che lavora per l'Autonomia differenziata. Assemblea nazionale dell'Anci. Titolo: «La voce del Paese». Scroscianti applausi per il Capo dello Stato. «Pensavo di avere chiuso un anno fa a Parma», concede al suo arrivo nella città più colpita dalla pandemia. E invece rieccolo qui, nel settennato bis. Con un messaggio ineludibile sulla coesione sociale del Paese. E sulla necessità di garantire gli stessi diritti a Nord e a Sud. Un messaggio chiaro e forte. Il Sud è insorto contro la Lega. Teme di finire in un campionato di serie B. E il Presidente della Repubblica - senza mai nominare il disegno di Calderoli - ha ribadito che nessuno può rimanere indietro. «Punti fermi sono la garanzia dei diritti dei cittadini, che al Nord come nel Mezzogiorno, nelle città come nei paesi, nelle metropoli come nelle aree interne, devono poter vivere la piena validità dei principi costituzionali». In un altro passaggio ha ricordato che «la Costituzione sancisce il principio di uguaglianza per i cittadini e, naturalmente, vale per i Comuni, che devono essere messi in condizione di adempiere ai compiti loro affidati, per poter concorrere a realizzare il principio costituzionale della pari dignità dei cittadini». I governatori del Sud sono sulle barricate. Lo spettro si chiama «devoluzione delle competenze». Ben 23. Dalla scuola ai trasporti, dall'energia al fisco. «Incostituizonale », l'ha definita il governatore della Puglia, Michele Emiliano. Vedremo. Perché anche per Fratelli d'Italia si tratta di una riforma difficile da digerire così. Mattarella sorvola sul dibattito tra le forze politiche. Quello spetta al Parlamento. Lui ha a cuore l'unità del Paese. Tutto il discorso, interrotto più volte dagli applausi, è un invito a ridurre il fossato delle disuguaglianze. L'opposto del disegno nordista. Dice: «Occorre ridurre le distanze nella possibilità di esercizio dei diritti: perché oggi, tra realtà urbane e aree interne, tra centri di grande collegamento, comunità montane, e realtà insulari non sempre i diritti e i servizi riescono ad essere assicurati in modo eguale. La coesione del Paese passa anche, e vorrei dire soprattutto, dai Comuni». Lo fa parlando del Pnrr («Non possiamo permetterci ritardi. I problemi vanno individuati e risolti»), quando afferma che vanno ristretti i divari «fra chi gode di determinati servizi e chi invece li raggiunge a fatica»). L'unica citazione è per Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze, emblema di una politica solidale e inclusiva. Dice Mattarella: «È nella missione dei sindaci essere portatori degli interessi generali del Paese. Non si farebbe neppure il bene della propria comunità immaginarlo contrapposto a quello delle comunità vicine o, addirittura, a quello della più ampia comunità nazionale». Sull'Autonomia i sindaci diranno la loro. Per il loro presidente, Antonio Decaro, l'obiettivo rimanga «il miglioramento del livello e della qualità dei servizi pubblici per tutti i cittadini italiani, nel tentativo di ridurre le distanze che ancora esistono fra varie zone del Paese». Mattarella è poi tornato sul Pnrr, che «l'Italia non può non eludere per colmare ritardi strutturali ». Ha ribadito l'importanza della sanità pubblica. Ha incoraggiato la battaglia contro la pioggia di avvisi di garanzia che ne minano l'azione amministrativa: «Considero meritevole di ogni attenzione l'impegno che da tempo l'Anci conduce per definire con più coerenza lo status giuridico degli amministratori e i confini delle loro responsabilità». Infine, ha ribadito il suo sostegno «alla coraggiosa lotta delle donne iraniane».
ADDIO A ROBERTO MARONI
È morto Roberto Maroni. Attivista del Carroccio dalla prima ora, l’avvocato di Varese è stato Ministro degli Interni, segretario della Lega e più volte parlamentare. Il ritratto di Marco Cremonesi per il Corriere.
«Quante vite, Bobo. Tre volte ministro e una volta vicepremier, segretario della Lega autodimesso senza che nessuno glielo chiedesse, governatore che improvvisamente lasciò la sua Lombardia. Controcanto perenne di chiunque guidasse la Lega, persino quando a guidarla era lui: «Ah! Ci fosse un segretario». Il «barbaro sognante» che mai rinunciò a ricordare di essere, soprattutto, «un velista» e un «soul boy». Non c'era, Roberto Maroni, quel 12 aprile 1984 quando a Varese fu fondata da Umberto Bossi la «Lega autonomista lombarda». Di Bossi era il miglior amico, con lui aveva già fondato la Società cooperativa editoriale Nord Ovest, insieme facevano notte a discutere e a far gran scritte sui muri, perché i muri «sono i libri dei popoli». Si erano conosciuti perché il futuro «Capo» aveva letto una lettera di Maroni alla Prealpina contro una costruzione a Lozza, la piccola patria «del» Bobo. Ma alla fondazione, lui non c'era. Sempre un po' così, quel suo cercare di essere sempre da un'altra parte. Esserci, ma senza farsi ingoiare. Leghista senza mai rinnegare la sinistra degli anni verdi, a cui semmai riservava l'ironia sorniona che era la sua seconda pelle. Ne fa spesso le spese uno dei suoi migliori amici, il giornalista dell'Unità Carlo Brambilla. Proprio Bossi, e non voleva fargli un complimento, definì Maroni «un aquilone che sta lontano da chi ha in mano il filo». Voleva studiare filosofia e fare il giornalista, fece giurisprudenza e l'avvocato. Bossi lo voleva a tempo pieno nella Lega e lui non voleva mollare l'ufficio legale di Avon («Facevo meglio a restar là»), ma già nel 1990 è consigliere comunale a Varese. Pochi anni più tardi, primo ministro dell'Interno non democristiano, firmò il decreto Biondi che fu ribattezzato «salvaladri» e il giorno dopo se ne pentì. Poco dopo, Bossi decise di sfiduciare il primo governo Berlusconi ma lui no, si oppose. Il popolo leghista non la prese bene, ma Bossi lo salvò dalle ire della base. Perché Maroni era anche quello: poco propenso allo scontro, ma capace fino all'ultimo di far sentire e valere il punto: «Ho perso? Ma no, ho tenuto la posizione». Al ministero L'anno dopo, nel 1996, già entrato e uscito dal Viminale per la prima volta (saranno due), si guadagna l'unica condanna della sua vita, quella per aver addentato il polpaccio di uno dei poliziotti che stavano perquisendo via Bellerio per la Guardia nazionale padana. Dai tafferugli uscì in barella. Anche lì, aveva tenuto la posizione. Molti leghisti hanno messo in dubbio il suo afflato indipendentista, e il dubbio è legittimo, però fu pure «primo ministro» della Padania. Salvini allora militava nei comunisti padani, Maroni stava con i Democratici europei, riformisti e laburisti. Al Viminale si conquistò la palma di «miglior ministro dell'Interno di sempre». Lo dicevano in tanti, anche da sinistra, ma la consacrazione fu quando certificò il primato Roberto Saviano, nel pieno del successo di Gomorra. Si narra che a convincere dell'incarico uno scettico Oscar Luigi Scalfaro fu l'allora capo della polizia Vincenzo Parisi, dopo una cena con Bossi e lo stesso Maroni. Fatto sta che da ministro partecipò con il suo amato gruppo, il «Distretto 51», al festival soul di Porretta terme. Scritta *sulla maglietta: «Radio Mafia». Prima dichiarazione: «La Lega federalista, con un leghista al Viminale, diventa il garante dell'unità d'Italia». Per anni ci si è chiesti se nelle frequenti sconfessioni delle trattative costruite da Bobo da parte di Bossi, il giovane di Lozza giocasse di ruolo con il Capo tonante. Si sa che tutto finì una sera, correva il 2011, quando Giancarlo Giorgetti portò ai leghisti il messaggio del «Capo»: vietato invitare Maroni a qualsiasi evento della Lega. Lo si accusava di intelligenza con il nemico, i giornalisti. Di aver raccontato alla stampa la storia degli investimenti in diamanti. È la «fatwa»: «A Bobo ho scaldato il latte tutte le mattine - dirà Bossi - ma è il nostro braccio debole e va amputato». È lì che entra in scena Salvini: già consapevole della potenza dei social, in 48 ore organizza per «il» Bobo 200 incontri pubblici. È la premessa per la «notte delle ramazze», quando Bossi si scusò con i militanti. Pochi giorni ancora e darà le dimissioni. Anche qui: Maroni era il candidato naturale alla successione, ma non pochi sono convinti che, senza la spinta della fatwa , Bobo avrebbe accettato di sbiadire sullo sfondo. La battaglia, però, lo galvanizza, e nel luglio 2012 è alla guida della Lega. Un ruolo che ama poco: darà la dimissioni e sosterrà Salvini alla sua successione. Anche se il comune sentire sfumerà presto. Silvio Berlusconi lo vuole a tutti costi governatore della Lombardia, partita tutt' altro che facile: la Lega è ai minimi storici, il centrodestra non sta bene e si è candidato anche l'ex sindaco Gabriele Albertini. Ma alla fine, la sfida è vinta. Poi, di nuovo il Maroni sfuggente: l'8 gennaio del 2018 annuncia a sorpresa che non si sarebbe ricandidato. Si parla di un suo ritorno in Parlamento, di concerto con Berlusconi. Non avverrà: lui prende, e con 5 amici attraversa in barca a vela l'Atlantico. Dopo, si dedica a quello che fanno gli ex presidenti di successo: board di aziende private, alta formazione universitaria, collabora con Il Foglio. Lo scorso ottobre, un altro dei colpi «alla Bobo»: entra nella Consulta contro il caporalato chiamato dal ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, avversaria pubblica di Salvini. Ma lui pensa già di tornare alla politica, candidandosi a sindaco di Varese. La malattia, non gli uomini, glielo impedirà».
IL PAPA COMMISSARIA LA CARITAS INTERNATIONALIS
La scelta drastica di Papa Francesco arriva dopo un'indagine che ha evidenziato carenze nelle procedure di gestione. Non ci sono evidenze di cattivo uso dei beni economici o di comportamenti sessuali impropri. Sarà Pier Francesco Pinelli il commissario straordinario. Gianni Cardinale per Avvenire.
«Papa Francesco commissaria Caritas Internationalis (CI). Un provvedimento drastico, annunciato ieri con un decreto firmato lunedì, preso per favorire il «rinnovo » dell'istituzione. Lo scopo è «migliorare» l'espletamento della «missione» attraverso «una revisione dell'attuale assetto normativo al fine di renderlo più adeguato alle funzioni statutarie dell'Ente, nonché preparare quest' ultimo alle elezioni da svolgersi durante la prossima Assemblea generale» prevista per il prossimo maggio. Commissario straordinario è stato nominato Pier Francesco Pinelli che potrà dirigere CI «con tutti i poteri di governo, a norma del diritto comune e degli Statuti e del regolamento dell'ente e con piena facoltà di derogare a questi ultimi, qualora lo ritenesse opportuno o necessario». Con il decreto cessano quindi dai rispettivi incarichi i membri del Consiglio di rappresentanza e del Consiglio esecutivo, il presidente e i vice presidenti, il segretario generale, il tesoriere e l'assistente ecclesiastico. Mentre Pinelli verrà coadiuvato nelle sue funzioni dalla spagnola Maria Amparo Alonso Escobar, attuale responsabile dell'advocacy di CI, e supportato dal gesuita portoghese Manuel Morujão «per l'accompagnamento personale e spirituale dei dipendenti». Per la preparazione della prossima Assemblea generale sarà poi affiancato dal cardinale Luis Antonio Tagle, finora presidente dell'istituzione, che «si occuperà particolarmente di curare i rapporti con le Chiese locali e con le organizzazioni membro di Caritas Internationalis». Il commissario straordinario, afferma infine il decreto, «agirà d'intesa con il Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale (Dssui)» che secondo la Costituzione apostolica della Curia Romana Praedicate Evangelium è competente nei confronti di CI. E proprio un distinto comunicato stampa di questo Dicastero fornisce ulteriori elementi sul provvedimento pontificio. In esso si spiega che in quest' anno il Dssui ha commissionato «una verifica dell'organizzazione e del benessere lavorativo del Segretariato generale di CI e l'allineamento con i valori cattolici della dignità umana e del rispetto per ogni persona». La verifica è stata effettuata «da una commissione di esperti indipendenti». Oltre a Pinelli, ne hanno fatto parte don Enrico Parolari e Francesca Busnelli, entrambi psicologi. La nota spiega che « stato invitato a partecipare alla verifica il personale di CI, ma anche ex dipendenti e collaboratori». Dal lavoro svolto, viene specificato, «non sono emerse evidenze rispetto a cattiva gestione finanziaria o comportamenti inappropriati di natura sessuale», ma «al tempo stesso sono state evidenziate tematiche e aree che richiedono attenzione urgente». Inoltre «sono state rilevate carenze relative alle procedure di gestione con effetti negativi anche sullo spirito di squadra e sul morale del personale». «Negli anni più recenti abbiamo visto aumentare notevolmente i bisogni delle molte persone che Caritas assiste, ed è indispensabile che Caritas Internationalis sia ben preparata ad affrontare queste sfide», è il commento del cardinale gesuita Michael Czerny, prefetto del Dssui, riportato nel comunicato. Il nuovo commissario Pinelli, spiega la nota del Dssui, «è un professionista laureato in Ingegneria con un modo di procedere più umanista che tecnico, che utilizza per risolvere contesti complicati, rimboccandosi le mani con professionalità e buon senso per immergersi nei problemi da cui far emergere e valorizzare gli aspetti positivi e correggere ciò che non funziona». Pinelli, «formato nella spiritualità ignaziana, sin da giovane è stato attivo nell'ambito del volontariato nel recupero dalle tossicodipendenze, nella cooperazione allo sviluppo, nel sostegno alle opere missionarie e nella catechesi».
IRAN 1. LA PROTESTA DEI CALCIATORI
A Teheran il silenzio dei calciatori della Nazionale ai Mondiali del Qatar divide i manifestanti. C’è chi lo critica come opportunismo. Ma i giocatori al loro ritorno rischiano davvero. Greta Privetera e Alessandra Muglia per il Corriere.
«A noi, da qui, quelle bocche serrate e quegli sguardi fissi dei giocatori iraniani durante l'inno, prima della partita contro l'Inghilterra nei Mondiali in Qatar, hanno ricordato i pugni chiusi e alzati nel guanto nero dei velocisti americani Tommie Smith e John Carlos che, nel 1968, nello stadio Olimpico di Città del Messico, compivano uno dei gesti più potenti della storia dello sport, appoggiando in silenzio i movimenti per i diritti degli afroamericani. Ma a Teheran l'effetto è stato opposto. Quello che sui giornali occidentali è stato definito un «segno coraggioso», nelle strade e nelle piazze d'Iran è stato letto più come «opportunismo», «codardia». «Disonorati», urlavano dagli spalti. «Disonorati», scrivono su Twitter gli attivisti. Non è un aggettivo qualunque. È lo stesso che i manifestanti usano per definire i pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, nemici numero uno delle proteste che infiammano il Paese da ormai 68 giorni dove almeno 416 persone sono state uccise, 72 solo questa settimana, 56 delle quali nelle regioni curde. «Se i giocatori iraniani avessero voluto fare un gesto vero, avrebbero dovuto rifiutarsi di scendere in campo, la Fifa doveva espellere l'Iran», spiega Bita, 32 anni, attivista di Teheran. «Non cantare l'inno è un gesto diluito, un furbo escamotage che hanno trovato per lavarsi la coscienza e fingere vicinanza con il popolo. E intanto il regime sui suoi giornali li chiama "traditori": hanno perso su ogni fronte». Decine i video che girano sui social di festeggiamenti al contrario: «Si vedono ragazzi in scooter sventolare la bandiera inglese. A ogni goal dell'Inghilterra Teheran esultava», continua Bita. Molti attivisti accusano la nazionale di essere collusa con il potere. Non è piaciuto l'incontro tra la squadra e il presidente Raisi poche ore prima di partire per Doha. Un colloquio che agli occhi di molti conferma una certa intesa, o almeno una sottomissione: «Alcuni gli hanno baciato addirittura le mani». A difendere i suoi atleti ci prova il commissario tecnico Carlos Queiroz che sul suo account Instagram scrive «I giocatori non sono i nostri nemici». «Elnaz Rekabi, la ragazza che ha partecipato senza velo ai campionati di arrampicata di Seul, è stata coraggiosa. Come Vouria Ghafuri, centrocampista dell'Esteghlal, o Hossein Mahini, difensore di Persepolis, che è in stato fermo. Così come le ragazze del basket senza velo o i ragazzi della nazionale di beach soccer. La nazionale non rischia quello che rischiano loro», dice Faris, studentessa iraniana, su Telegram. Davvero quell'inno silenzioso è senza rischi? «È un regime brutale, abbiamo visto di cosa è capace, basti pensare all'esecuzione di David Afkari giustiziato nel 2020, il campione di lotta libera diventato poi anche un simbolo delle proteste del 2018 contro il carovita», dice Rob Koehler, direttore generale di Global athlete, l'associazione sportiva internazionale per i diritti degli atleti. Koehler risponde alle critiche contro la nazionale spiegando che bisogna tener presente le pressioni a cui questi atleti sono sottoposti. «Se non fossero partiti per il Qatar avrebbero subito ogni tipo di intimidazione e rappresaglia. Io credo abbiano fatto bene a partecipare anche perché i Mondiali offrono l'opportunità di accendere ulteriormente i riflettori. Non bisogna incolpare i giocatori ma la Fifa che non protegge gli atleti. L'unica federazione che ha avuto il coraggio di sospendere l'Iran è quella del judo». Mentre sui social si discute di «palloni insanguinati», il regime ha attaccato gruppi di dissidenti curdi iraniani nel nord dell'Iraq, giustificandosi così: «Sono attacchi necessari per proteggere i nostri confini».
IRAN 2. LA PROTESTA DEGLI OPERAI
Dalle donne ai giovani e giovanissimi, ora la protesta si è allargata alle fabbriche. Anche se in Iran non c’è un’organizzazione sindacale unitaria. Il punto è di Farian Sabahi per Il Manifesto.
«In seguito alla morte di Mahsa Amini, molte manifestazioni hanno avuto luogo in quartieri modesti di grandi città come Teheran, Shiraz e Isfahan e gli operai di varie industrie hanno dato avvio a scioperi. Vi sono state astensioni dal lavoro in parte dell'industria petrolchimica, nonché in diverse fabbriche in varie località. In Iran gli scioperi sono solitamente motivati da vertenze locali (stipendi bassi, spesso pagati in ritardo). In queste settimane, nei cortei degli scioperanti sono invece stati scanditi slogan antiregime e a sostegno della protesta nazionale innescata dall'uccisione della ventiduenne curda. Si tratta di iniziative autonome, prive di coordinamento a livello nazionale. Siamo ancora distanti dallo sciopero generale, evocato dall'opposizione in esilio, per dare l'ultima spallata alla Repubblica islamica». A commentare la partecipazione operaia alle proteste in Iran è Siavush Randjbar-Daemi, docente di Storia moderna del Medio Oriente presso l'Università St. Andrews, in Scozia. È autore del volume The Quest for Authority in Iran (IB Tauris, 2018). Si occupa della sinistra iraniana e dei movimenti laici tra l'inizio dei moti rivoluzionari nel 1977 e la fine della presidenza di Abolhassan Bani-Sadr nel 1981. A proposito di sindacati, lo studioso ricorda come in Iran «non esistano sindacati giuridicamente indipendenti. Negli ultimi quindici anni ne sono emersi alcuni, su base locale, i cui membri sono stati spesso perseguitati dalle autorità. È il caso degli autisti dei bus pubblici Vahed a Teheran e dei dipendenti dello stabilimento Nishekar Haft Tappeh nel Khuzestan (sudovest). Recentemente è stato fatto un tentativo per costituire un sindacato unificato, la Etehad-e Kargaran-e Azad-e Iran (https://www.etehad-e.com)». Oltre a scioperare, i ceti operai della Repubblica islamica prendono parte alle proteste. A proposito dei settori industriali in cui sono operativi gli operai che, in qualche misura, partecipano alle manifestazioni di strada, Randjbar-Daemi racconta: «In base alle notizie che abbiamo ricevuto dalle fabbriche e da importanti industrie, coloro che sono assunti a progetto nella società petrolchimica statale a Bushehr e Assaluyieh hanno organizzato diverse giornate di sciopero in maniera indipendente. Da ultimo, è attualmente in corso uno sciopero di alcuni lavoratori presso la fabbrica di pneumatici Iran Tyre. Duranti gli ultimi giorni hanno effettuato uno sciopero anche i lavoratori di un'altra fabbrica importante nell'indotto automobilistico, la Cruise». I moti scaturiti dalla morte di Mahsa Amini, diventati contestazione contro l'intero regime, non hanno quindi come protagonisti soltanto le classi medie urbane: «Appare molto probabile che gli operai si siano uniti alle folle che hanno preso parte alle proteste che si sono svolte in decine di città iraniane. Ed è probabile che il loro impegno prosegua». Se le proteste sono acefale, anche gli operai non hanno dei loro leader per due motivi: come già accennato, in Iran non esistono sindacati generali indipendenti che siano tollerati dalle autorità; in secondo luogo - continua lo studioso - «le principali sigle storiche della sinistra iraniana sono del tutto marginali nella Repubblica islamica, dove hanno pochi seguaci, ma sono invece rimaste attive nella diaspora. Penso al partito comunista Tudeh, ai diversi rami dei Fadaiyan e ad altri movimenti della sinistra iraniana». Qualora le proteste continuassero, «potrebbero sancire l'ascesa di una nuova generazione di leader tra gli operai con rivendicazioni sindacali», profetizza Randjbar-Daemi. In ogni caso, di questi tempi a scioperare in Iran non sono soltanto i ceti operai. Ad abbassare le serrande, «appena è stata data la notizia della morte di Mahsa Amini, sono stati i commercianti delle principali città curde, ovvero Mahabad, Sanandaj, Bukan, Paveh. In queste località i mercanti hanno aperto saltuariamente e per brevissimi intermezzi. Questo atteggiamento è stato replicato su scala minore dai commercianti di Tabriz nel corso delle tre giornate - dal 24 al 26 del mese di Aban - in cui gli iraniani hanno commemorato le vittime delle proteste nazionali contro il caro-benzina del novembre 2019. A differenza di quelli dei ceti operai, gli scioperi dei bottegai nella provincia iraniana del Kurdistan sono motivati da ragioni prettamente politiche, inerenti alla morte di Mahsa Amini. Si tratta di vedere se, in futuro, vi sarà un connubio tra queste due diverse correnti di sciopero».
IRAN 3. NEL MIRINO È IL REGIME
Paolo Mastrolilli per Repubblica intervista il professore della Johns Hopkins di New York Vali Nasr. Il vero bersaglio della protesta, secondo l’esperto, è diventato il regime degli ayatollah.
«Usa un'immagine molto evocativa, Vali Nasr: «Questa protesta è cominciata come il momento George Floyd dell'Iran, ma si sta allargando verso una contestazione complessiva della Repubblica islamica, e quindi rappresenta una minaccia esistenziale per il regime». Poi però il professore di origini iraniane alla Johns Hopkins University School of Advanced International Studies avverte: «L'Occidente sta sostenendo bene i manifestanti, ma non ha molte leve per favorire la caduta del regime, che potrebbe avvenire domani o anche mai. Quindi deve continuare a porsi il problema di come affrontare gli altri elementi di attrito con Teheran, come il programma nucleare, quello missilistico, e gli aiuti militari alla Russia in Ucraina».
Quali sono le origini della protesta?
«È cominciata come reazione alla morte della giovane Mahsa, contro il velo e per la libertà delle donne di vestirsi come credono. Non aveva un particolare connotato anti regime, ma si è rapidamente estesa per la frustrazione assai profonda nella società iraniana contro il governo totalitario, le limitazioni culturali, le difficoltà economiche. Anche la parte più conservatrice è insoddisfatta del presidente Raisi. Quindi la protesta è diventata persistente, e si è allargata dalle ragazze che toglievano il velo alla squadra di calcio che non canta l'inno. Da poche piazze a molte città. Anche gli slogan sono cambiati, dalla richiesta di lasciare in pace il corpo delle donne, alla libertà della persona, ai diritti. Ora si inneggia alla morte della dittatura, quindi il regime è diventato il bersaglio».
Quanto è profonda nella società?
«Si è sviluppata verso altre dimensioni. Siccome Mahsa era curda, la sua morte ha generato manifestazioni in quelle regioni, che non sono le uniche dove il regime ha imposto la legge marziale e inviato le truppe della Guardia rivoluzionaria. La repressione è stata sanguinosa anche nel Baluchistan, dove oltre cento persone sono state uccise in un solo giorno, negli scontri dopo la preghiera del venerdì dei sunniti locali. Quindi la protesta ha acquistato una dimensione etnica, che rende il governo incapace di fermarla. Non sono scese in piazza centinaia di migliaia di persone, o milioni come nel 2009, ma siamo ormai in una guerra d'attrito tra regime e manifestanti. Il governo non sta vincendo, la protesta persiste, e quindi sfida la Repubblica islamica».Teheran accusa le interferenze straniere.
«Non c'è dubbio che la frustrazione nella società sia ampia. Masha ha rappresentato il momento George Floyd dell'Iran, dove la morte di una ragazza mentre era detenuta dalla polizia per una questione frivola come il velo messo male, ha scatenato la rabbia non solo delle donne laiche, ma anche di molte famiglie vicine al regime. La gente è stanca delle sanzioni e l'isolamento dal resto del mondo. Poi c'è una profonda disconnessione tra le nuove generazioni e il governo rivoluzionario. I giovani, non solo i teenager, parlano il linguaggio dei diritti universali, mentre il regime usa ancora quello terzomondista e antimperialista degli anni Settanta. Sono differenze profonde e reali. I leader iraniani vedono la cospirazione straniera dietro qualunque problema, ma anche la guida Khamenei qualche settimana fa ha ammesso che le interferenze possono essere la mosca che si posa sulla tua ferita, ma se non avessi la ferita non ci sarebbe neppure la mosca».
La protesta è una minaccia esistenziale per il regime?
«Potrebbe diventarla, perché si è estesa a molti temi, e ora è specifica contro il regime. La gente non crede più nella causa terzomondista e antimperialista della Repubblica islamica, e non è più disposta a pagare il prezzo che richiede».
Come giudica la risposta degli Usa e dell'Occidente?
«Buona, stanno prendendo sul serio le proteste. Però non hanno molte leve sul regime, perché le sanzioni ci sono già per il programma nucleare e la vergogna internazionale non interessa alla Repubblica islamica. Più il regime si sentirà minacciato, più inasprirà la repressione».
L'accordo Jcpoa per impedire a Teheran di costruire l'atomica è morto?
«Capisco che Biden dica di non volerlo rinnovare ora, però i problemi del programma nucleare, quello missilistico, e gli aiuti dati alla Russia restano. Serve un piano B per affrontarli, perché non c'è la certezza che la protesta rovesci il regime».
KOSOVO-SERBIA, L’ITALIA MEDIA
Missione dei ministri italiani Antonio Tajani e Guido Crosetto per favorire una soluzione alla nuova crisi balcanica. C’è l’ipotesi di una conferenza a Roma. Stefano Giantin per Repubblica.
«Un freno d'emergenza tirato bruscamente, su pressioni americane, che congela almeno per il momento una delle più gravi crisi balcaniche degli ultimi anni, quella "guerra delle targhe" che da mesi infiamma il confine tra Serbia e Kosovo. Lo ha attivato in una tesissima notte, tra lunedì e martedì, il premier kosovaro Albin Kurti, che ha annunciato di aver «accettato la richiesta » dell'ambasciatore Usa Jeffrey Hovenier «di rinviare di 48 ore l'imposizione di multe» ai serbi nel Nord che ancora circolano su auto con targa emessa da quella Serbia a cui rimangono fedeli. Targhe con le sigle di città oggi parte del Kosovo indipendente, come Mitrovica, che per la minoranza serba sono molto più di una lastra di metallo. Molti rifiutano quelle con l'odiata sigla "Rks", sinonimo dell'indipendenza di Pristina. E l'oltranzismo di Kurti, che a inizio novembre aveva ribadito che avrebbero dovuto accettarle con le buone o a forza di multe entro metà 2023, ha portato al precipitare della crisi nelle ultime settimane, con proteste serbe, dimissioni in massa di poliziotti, doganieri, giudici e funzionari di etnia serba che si erano ormai integrati nelle istituzioni del Kosovo. E timori di scontri armati. L'ultimo tentativo di disinnescare la miccia era stato fatto lunedì, in un meeting d'urgenza a Bruxelles tra Kurti e il presidente serbo Vucic. L'esito, un ennesimo flop. È stato Kurti stavolta a rigettare il compromesso Ue, rinviare le multe in cambio dello stop all'emissione di nuove targhe serbe. Lo aveva svelato l'Alto rappresentate Ue agli Esteri, Josep Borrell, ammonendo sui rischi di una escalation. Che, con la tregua di 48 ore, appare per ora evitata. La palla torna alla diplomazia, con Ue e Usa al lavoro per raggiungere un'intesa. «Siamo pronti al compromesso », ha ribadito intanto ieri la leadership di Belgrado, dove ieri sono atterrati anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani e quello della Difesa, Guido Crosetto, in un mini- tour balcanico che ha toccato gli epicentri della crisi, la capitale serba e Pristina. Visita che segnala come l'Italia voglia «essere protagonista nei Balcani» proponendosi come paciere anche tra Serbia e Kosovo, ha suggerito Tajani. Il ministro ha evocato l'idea di una grande conferenza a Roma, tra Balcani e Italia. La speranza è che, prima del summit romano, le cose non precipitino di nuovo. Più che di una tregua «si tratta infatti dell'ennesima piccola posticipazione» nell'affrontare i problemi alla radice, spiega il politologo dell'Ispi, Giorgio Fruscione. Ora, almeno, «c'è la chance per Ue e Usa di trovare un compromesso di breve periodo», almeno sulle targhe. Ma i nodi veri da sciogliere, come la normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo, rimangono aggrovigliati».
ISRAELE, DIVISIONE FRA UOMINI E DONNE?
Separazione tra donne e uomini negli eventi pubblici e guerra alle Ong. L’ultradestra israeliana congela il governo: lo vuole più radicale. E chiede misure simbolo. Michele Giorgio per il Manifesto.
«Moshe Gafni, presidente del partito dei religiosi ultraortodossi “Degel HaTorah”, ieri ha incontrato il premier incaricato Benyamin Netanyahu per confermare il congelamento dei negoziati per il nuovo governo a causa del mancato accordo sulla distribuzione dei ministeri. Ma più di tutto per insistere sull'abolizione della legge che vieta la separazione tra donne e uomini negli eventi pubblici in Israele. «Una donna haredi (ultraortodossa, ndr) non andrà a un evento dove non c'è separazione tra uomini e donne. Cosa vogliono quelli che all'improvviso parlano contro questo? Che le donne se ne stiano a casa?», ha spiegato Gafni a Channel 2 News affermando l'esistenza di una «persecuzione legale» per chi intende praticare la separazione. Il nuovo governo israeliano non ha ancora visto la luce e gli alleati religiosi ed estremisti del leader della destra Netanyahu premono affinché sia rispettato subito l'impegno di imprimere una svolta conservatrice al paese, a ogni livello, a cominciare dalla società. Non chiedono una totale separazione dei sessi ma la vogliono vedere applicata subito negli eventi culturali in cui sono coinvolti i religiosi ortodossi. Poi si vedrà. La richiesta ha suscitato un vespaio. Condanne sono giunte dal premier uscente Yair Lapid, un laicista, e dalla leader laburista Mirav Michaeli che ha risposto ammonendo che è il governo che sta formando Netanyahu a rappresentare una minaccia per la democrazia. Ma i promotori della separazione tra uomini e donne non si sono lasciati impressionare, soprattutto Bezalel Smotrich di Sionismo religioso che dalla vittoria elettorale del primo novembre si è rivelato il più vorace degli esponenti della destra estrema religiosa, finendo talvolta per superare il suo alleato ultranazionalista, accusato di razzismo, Itamar Ben Gvir. Lunedì Smotrich ha esortato il nuovo governo ad «agire» contro le organizzazioni per i diritti umani che ha descritto come una «minaccia esistenziale per lo Stato di Israele». Parlando a una conferenza intitolata «Organizzazioni per i diritti umani gestite da Hamas», organizzata dal gruppo di attivisti di destra Ad Kan, ha intimato al governo entrante di prendere di mira i centri che difendono i diritti umani e ad usare contro di loro mezzi legali e di sicurezza. «Di fronte alla delegittimazione, all'incitamento, al terrorismo e alla calunnia, è ora di iniziare a rispondere», ha detto tra gli applausi dei presenti. Per Gilad Ach, presidente di Ad Kan, «le nuove circostanze politiche sono un'ottima occasione per mettere ordine in questa vicenda. È giunto il momento per la Knesset di istituire un meccanismo di controllo per le ong. I soldati non devono essere in prima linea senza alcuna protezione (legale) contro questi terroristi in giacca e cravatta». Nei mesi scorsi l'esercito israeliano ha chiuso in Cisgiordania sette ong per i diritti umani, tra cui la storica Al Haq, vincitrice di riconoscimenti internazionali, descrivendole come parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Israele non ha prodotto prove concrete e definitive di questa presunta affiliazione. La destra però si scaglia anche contro le Ong israeliane per i diritti umani che denunciano violazioni e crimini commessi da soldati e coloni israeliani contro i civili palestinesi sotto occupazione militare. Smotrich, non a caso, reclama il ministero della Difesa per realizzare i suoi piani incendiari, non solo contro le Ong. Netanyahu starebbe facendo, secondo i media israeliani, il possibile per dirottarlo verso un altro ministero temendo un contraccolpo internazionale, in particolare dagli Stati Uniti».
DA ASSISI AD UR: PELLEGRINAGGIO DI PACE
Visita di una delegazione della diocesi di Assisi a Kerbala e tra i luoghi santi dell'Iraq, alla ricerca delle radici comuni. La ricostruzione dopo la tempesta del Daesh passa anche dall'incontro e dal dialogo tra le religioni. Cristianesimo e islam, la fratellanza possibile sotto il cielo che parlò ad Abramo. Luca Geronico per Avvenire.
«Noi come religiosi dobbiamo rafforzare il rapporto con Dio e servire l'uomo. Dobbiamo scendere dalle nostre poltrone e incontrare l'uomo». Sorride affabile nella "divaneria" della moschea di Hussein - il più importante luogo santo per gli sciiti con il mausoleo di Ali a Najaf - lo sceicco Abdul Mahdi al-Karbalai: «Gesù viveva accanto agli uomini e noi, come i profeti, dobbiamo essere una porta per la misericordia di Dio. Dobbiamo imparare da Gesù e dagli altri profeti», afferma calmo lo sceicco conosciuto da tutti come il portavoce del grande ayatollah Ali al-Sistani. Il suo volto pacato che ogni venerdì, attraverso la televisione, entra nelle case di molti iracheni che ascoltano il "grande sermone", ora accoglie qui a Kerbala la piccola delegazione giunta da Assisi. Attraversare i portici che portano alla tomba di Hussein, a Kerbala - un centinaio di chilometri a sud di Baghdad - è un'esperienza che allarga i confini del sacro: in questo luogo nel 680 d.C. il figlio di Fatima, e quindi nipote del profeta Maometto, venne trucidato assieme a familiari e sostenitori dalle truppe del califfo omayyade Yazid. La moschea mausoleo di Hussein è al cuore dello sciismo: il martirio di Hussein sancì infatti la separazione definitiva tra sunniti e sciiti e ogni anno, per la festa dell'"ashura", più di venti milioni di pellegrini visitano la moschea che ospita la tomba del martire sciita. In origine un minuscolo villaggio che attorno all'accoglienza di pellegrini da tutto il mondo ha visto fiorire una città santa, ed ora potrebbe diventare una tappa del cammino interreligioso dei figli di Abramo. «In questo periodo la nostra maggiore attività è ancora di indagare tutti i crimini commessi nella Piana di Ninive e a Mosul: chiese, moschee, templi yazidi distrutti oltre a violenze sulle persone. Raccogliamo le prove che devono servire a far allontanare la gente da tutto questo: l'islam rifiuta tutto ciò che è violenza», spiega lo sceicco al-Karbalai che ricorda pure come nel «tempo della prova» a Kerbala «abbiamo accolto molti profughi da Mosul e dall'Ambar» che sono rimasti qui «finché non è passata la tempesta». La «tempesta», ovviamente, è il Daesh che per tre anni ha seminato terrore nel Nord dell'Iraq, ma la «svolta» di cui ti parlano gli accompagnatori che fanno strada ai delegati della Diocesi di Assisi attraverso gli enormi portici della moschea è stata la visita di Papa Francesco in Iraq all'inizio di marzo del 2021. Il detto dell'imam Ali: « Le persone sono di due tipi: o sono tuoi fratelli nella fede o tuoi simili nell'umanità» è divenuto un motto che ha aperto nuovi varchi e avviato contatti sinora inesplorati. La foto del cardinale Gianfranco Ravasi sul telefonino dell'addetto stampa della moschea, pure lui in visita a Kerbala, è come un piccolo "trofeo" del nuovo corso. A Najaf - l'altra città santa sciita a un centinaio di chilometri più a sud - è l'ayatollah Murtada al-Shirazi a ricevere la delegazione della "Commissione Spirito di Assisi" che, dopo aver celebrato con un convegno lo scorso 6 marzo nella città di San Francesco il primo anniversario della preghiera interreligiosa di Papa Francesco a Ur, ha risposto all'invito dell'ambasciata irachena di visitare i luoghi santi dell'Iraq. Un pellegrinaggio di pace - con l'intenzione di costruire un ponte fra Assisi e Ur - iniziato con una celebrazione eucarisitica sulla tomba di San Francesco: una riedizione aggiornata, dopo poco più di otto secoli, del viaggio di San Francesco fino in Egitto per incontrare il sultano al-Malik al-Khamil. «La vostra - afferma austero e solenne l'ayatollah al-Shirazi nel salottino della scuola teologica a poche centinaia di metri dalla moschea-mausoleo di Ali - è una missione nobile di apertura di ponti. Sono necessari tre punti di partenza per il dialogo tra le religioni». Il primo: «Dio è il punto di incontro. "Al-Salam", la pace è uno dei nomi di Dio. Come è scritto nel Corano: tu guardi Dio e devi camminare sulla via della pace». Un dialogo che vuol dire pluralismo: «Come musulmani crediamo nel valore della democrazia che produce pace. La democrazia deriva dal Corano: in una sura si dice che se non ci fosse la sfida tra i partiti non ci sarebbe un comando. Senza questa sfida sarebbero caduti minareti e campanili». Da Najaf - questo è il secondo punto - una mano tesa al dialogo tra le religioni e una sincera ammirazione per Gesù di Nazareth. Per affermarlo l'ayatollah, in modo solenne, apre il libro di un autore religioso del 1.160: «Ti abbiamo mandato per la misericordia nel mondo. La missione di Gesù è la carità, la preghiera di Gesù è a faccia a faccia con Dio». Toni molto poetici, prima di inanellare una versione sciita del discorso della montagna. «Beati gli operatori di pace, saranno più vicini a Dio nel giorno della risurrezione. Beati i puri di cuore, visiteranno Dio nel giorno della risurrezione...». E poi, terzo punto per il dialogo tra le religioni, la responsabilità. «Dio parla a Gesù: tu sei responsabile. Abbi pietà del debole, non trascurare l'orfano. Quello che sulla terra è per voi uomini, ma anche per gli animali: occorre responsabilità per l'ambiente». Il pensiero, con spontanea naturalezza, va a un altro incontro - il 6 marzo del 2021 - in una spoglia casa nel centro di Najaf tra il grande ayatollah Ali al-Sistani e papa Francesco. « È stato un avvenimento coraggioso e storico. Una visita importante dal punto di vista spirituale, ma ora è importante fare altri passi concreti perché possa portare i dovuti frutti. Per questo il vostro lavoro come delegazione da Assisi è importante per dare concretezza ai risultati di quell'incontro. Chi fa il primo passo, indica una direzione, ma non può fare da solo: ci deve essere una collaborazione. Più incontri ci saranno, più frutti ci saranno», conclude l'ayatollah Murtada al-Shirazi. La presa di contatto, da parte di una delegazione diocesana italiana, con i luoghi santi sciiti in Iraq è come un piccolo seme nella costruzione della fratellanza fra le fedi che, dopo la pubblicazione del Documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi e dell'enciclica Fratelli tutti, ha nella figura di Abramo il suo simbolo. Così il 2 novembre lo spiazzo davanti alla ziggurat di Abramo, nel parco archeologico di Ur che accolse papa Francesco e gli altri leader religiosi iracheni è tornato a popolarsi. Scolaresche in festa e autorità locali hanno salutato il delegati della Terza conferenza del Comitato permanente per il dialogo interreligioso tra Iraq e Vaticano. I primi in assoluto svolti in Iraq, anche questo un risultato - gestito da governo iracheno e il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso del Vaticano - del viaggio di papa Francesco in Iraq. Molto significativo il tema scelto per il confronto fra i rappresentanti della Chiesa cattolica, sciiti, sunniti e altre minoranze religiose: l'educazione dei giovani con una particolare attenzione ai programmi scolastici e alla formazione degli insegnanti. La conferenza è stata così l'occasione per tornare a visitare i luoghi che papa Francesco aveva chiesto di custodire per ripercorrere «il cammino di Abramo» che fu «una benedizione di pace». Sotto il cielo che parlò ad Abramo, è tornata a risuonare la preghiera pronunciata il 6 marzo 2021: « Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all'ebraismo, al cristianesimo e all'islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra...». Due giorni dopo, in Bahrein, papa Francesco incontrando i membri del Muslim council of elders, ha affermato: «Vengo a voi per camminare insieme, nello spirito di Francesco di Assisi, il quale era solito dire: "La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori"». Per poi aggiungere: «Credo che abbiamo sempre più bisogno di incontrarci, di conoscerci e di prenderci a cuore, di mettere la realtà davanti alle idee e le persone prima delle opinioni, l'apertura al Cielo prima delle distanze in Terra: un futuro di fraternità davanti a un passato di ostilità, superando i pregiudizi e le incomprensioni della storia in nome di Colui che è Fonte di Pace. D'altronde, come potranno i fedeli di religioni e culture diverse convivere, accogliersi e stimarsi a vicenda se noi restiamo estranei gli uni agli altri?» Intanto a Qaraqosh, nella Piana di Ninive ripopolata dopo la cacciata del Daesh, la fiamma di una lampada a olio, partita il 27 ottobre dalla tomba di San Francesco, attende accesa nella cappella del monastero dei Fratelli di Gesù redentore l'arrivo dei primi pellegrini sul cammino di Abramo».
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