La Versione di Banfi

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La saggezza del parlamento

alessandrobanfi.substack.com

La saggezza del parlamento

Rieletto Sergio Mattarella sulla spinta dei grandi elettori. Leader e partiti costretti a chiedere al Presidente il bis. Edizione speciale della Versione dedicata al Quirinale

Alessandro Banfi
Jan 30, 2022
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La saggezza del parlamento

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Edizione speciale della domenica in onore del Presidente Sergio Mattarella, rieletto grazie all’iniziativa tenace dei parlamentari che hanno agito con responsabilità e saggezza rispetto ai loro leader. I grandi elettori hanno fatto esattamente come il pubblico della Scala di Milano la sera di Sant’Ambrogio: hanno gridato il loro bis, facendo crescere ogni giorno, anche contro le indicazioni dei partiti, le schede per Mattarella. Dando al suo secondo mandato il numero di voti più alto della storia presidenziale, dopo i suffragi per Sandro Pertini, che mantengono il record assoluto e a questo punto numericamente non più raggiungibile nella storia della nostra Repubblica, visto che dalla prossima volta il numero dei parlamentari sarà inferiore. A proposito, ha vinto il Parlamento anche rispetto ai leader di partito. Ha vinto la politica nella sua accezione più costituzionale: quella degli eletti della Camera, del Senato e delle Regioni.

Hanno invece rimediato una brutta figura i leader di partito. Primo fra tutti il “citofonatore” Matteo Salvini, che in una settimana di trattative ha vissuto il suo Papeete 2. È vero: dal pomeriggio di ieri ha ripreso ossessivamente a parlare in tutti i contenitori tv, difendendo il suo operato. La sua narrazione è efficace, ma sembra inversamente proporzionale alla sostanza della sua caratura politica.

Non per niente già da ieri la Lega ha aperto un confronto interno. E il centro destra è come esploso. Anche Forza Italia ha dimostrato di avere bisogno di ripensarsi profondamente. Deve evolversi e maturare rispetto al suo padre-padrone e generoso fondatore, Silvio Berlusconi, cui solo Gianni Letta ha avuto il coraggio di dire pubblicamente quello che pensavano tutti o quasi tutti. Costretto dai fatti al ritiro della sua candidatura, ha vissuto nell’atteggiamento del “dopo di me il diluvio” bocciando tutte le altre candidature proposte. I 5 Stelle, quattro anni dopo il loro travolgente successo elettorale, pur essendo diventato parte di un centro sinistra allargato, non hanno avuto una vera linea e la leadership di Giuseppe Conte è apparsa inconsistente, personalistica, ondivaga. Ieri sera, Luigi Di Maio, certamente l’uomo politico di maggior capacità del Movimento, ha aperto una franca riflessione e uno scontro durissimo nel Movimento. Anche Enrico Letta, che pure ha obiettivamente vinto la partita a scacchi del Colle, ha dovuto fare i conti con molte insidie e divisioni interne allo stesso Partito Democratico. Ha giocato in difesa, limitando i danni. La sua strategia, “il campo largo” con i 5 Stelle, predicata da Goffredo Bettini e Pier Luigi Bersani, esce distrutta da questa settimana di giochi e sotterfugi. Matteo Renzi, insieme a Di Maio, ha salvato la situazione in almeno un passaggio dove l’asse Salvini-Conte , il “momento Papeete” come lo chiama stamattina il Manifesto, ha cercato il colpo di mano. Il leader di Italia Viva ha ricucito il rapporto coi Dem e con Leu ma non ha ottenuto l’elezione di Pier Ferdinando Casini, anche se si è posto come un leader credibile di quel nuovo Centro politico di cui probabilmente l’Italia ha bisogno. La Dc non è finita, nel senso che sono ancora i suoi uomini (provenienti dalla tradizione del cattolicesimo democratico ma anche da quello liberale) che tengono insieme le istituzioni della Repubblica. Ne riflette oggi Sergio Belardinelli sul Foglio, aprendo un discorso che andrà proseguito.

I partiti e i leader escono comunque sconfitti da questa vicenda, e più deboli. Mentre si rafforza ulteriormente l'asse tra Mario Draghi e Sergio Mattarella e anche il Parlamento è più forte. Sbaglia chi pensa che la divisione sia ancora fra tecnici e politici. Piuttosto il discrimine è fra senso delle istituzioni e del bene comune da una parte e interesse di persona o di gruppo o di corrente dall’altra. Nel futuro della politica italiana c’è molto da costruire o da ricostruire: nella riforma delle istituzioni ma anche in un sistema di partiti in cui il popolo obiettivamente si riconosce sempre meno.

Non ci resta che condividere con papa Francesco gli auguri che ha rivolto a Sergio Mattarella nel telegramma che ha inviato al Presidente dopo la sua rielezione: «Il suo servizio è ancora più essenziale per consolidare l'unità e trasmettere serenità al Paese, le auguro di sostenere il popolo italiano nel costruire una convivenza sempre più fraterna per affrontare con speranza l'avvenire».

La Versione di oggi ha un formato speciale, qui tutto dedicato all’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale. Dividerò i vari articoli cercando di separare (ardua impresa) i fatti dalle opinioni e dai commenti. Nel pomeriggio l’aggiornamento con gli altri articoli importanti del fine settimana in un’altra e-mail.

Vi ricordo intanto che è disponibile il secondo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo secondo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Serena Andreotti, figlia di Giulio.

Ne è scaturito un racconto a tutto tondo dell’uomo politico e della persona che ha attraversato grandi crisi e altrettanti successi. Giulio Andreotti è stato un grandissimo servitore dello Stato, sul cui giudizio pesa un finale denigratorio che è poi stato smentito dalle sentenze finali dei processi contro di lui. Il bacio di Totò Riina è stata una delle più grandi fake news politico-giudiziarie della storia italiana che ha alimentato una rivolta contro la politica. La figlia Serena ne ripercorre le vicende con grande precisione e trasporto. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi della Fondazione De Gasperi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…

… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il secondo episodio.

https://www.spreaker.com/user/15800968/serena-andreotti

E qui il sito della Fondazione De Gasperi

http://www.fondazionedegasperi.org/

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Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Un solo tema per le aperture di tutti i quotidiani stamane. Il Corriere della Sera sceglie: Mattarella, bis per il Paese. Molto simile Avvenire: Mattarella, bis per l’Italia. Domani sottolinea: La sconfitta dei partiti. Il Fatto, com’è nel suo stile, rosica: Ecco chi ha ucciso la Presidente donna. Il Foglio celebra ironicamente la scelta fatta: Sette anni bellissimi. Il Giornale rivela l’imbarazzo del centro destra: Obtorto Colle. Per Libero è addirittura una: Calata di brache. Quotidiano Nazionale fa un titolo papale: Sergio II. Il Manifesto gioca con le parole: Quirimane. Il Mattino mette fra virgolette il primo discorso di Mattarella: «Non mi sottraggo». E anche Il Messaggero: «Lo faccio per l’Italia». Il Sole 24 Ore va sui numeri: Mattarella presidente, voto record. «Accetto per senso di responsabilità». La Repubblica stampa un titolo in rosso e verde: Il Presidente di tutti. La Stampa apprezza: L’Italia di Mattarella. La Verità non riesce ad uscire dall’incubo Covid neanche nel confezionare il titolo sul Quirinale, quella di Mattarella è: La seconda dose.

MATTARELLA BIS. LA CRONACA DEI FATTI

Nell’orientarci e selezionare le tante pagine dedicate alla rielezione di Sergio Mattarella, proviamo a partire dai resoconti. Concetto Vecchio per Repubblica.

«Mattarella». «Mattarella ». «Mattarella». Lassù sulle tribune, dove sono stati confinati per le misure anti covid, i democratici Francesco Boccia, Stefano Ceccanti, Giuseppe Provenzano, Enzo Amendola e Andrea Casu si alzano in piedi. Anche laggiù, negli scranni dell'emiciclo, avviene lo stesso movimento. Sale un'attesa. Un mormorio. È come nel conto alla rovescia di Capodanno. «503», esclamano sulle tribune. «504». «505». «Mattarella!», dice ancora il presidente della Camera Roberto Fico, leggendo il nome sulla scheda. Quorum raggiunto. Mattarella ce l'ha fatta. Sono le 20,20 di ieri e Sergio Mattarella, 81 anni, viene rieletto presidente della Repubblica con 759 voti, all'ottavo scrutinio. I grandi elettori applaudono il bis e sé stessi. Un battimani di quattro minuti. È un applauso solenne e liberatorio allo stesso tempo. È stata la volontà della maggioranza di loro a spingere, dal basso, a questa rielezione. Per la seconda volta di fila un Capo dello Stato viene rieletto, dopo il precedente di Giorgio Napolitano nel 2013, quando nei settant' anni precedenti non era mai successo. Il sistema però è malato. Il Parlamento in questi giorni ha mandato in scena uno spettacolo grottesco. E adesso si celebra, per lo scampato pericolo. Non si andrà a votare. Mario Draghi rimane al governo. La maggioranza non cambia. La legislatura è salva. I conti tornano per i 1009. Laggiù Emanuele Fiano batte il cinque ai colleghi democratici alle sue spalle. Si avverte un senso di sollievo. I più euforici sono quelli del centrosinistra. Applaudono moltissimo i cinquestelle. E naturalmente anche a destra. Ma con meno entusiasmo, e non tutti. Quelli di Fratelli d'Italia non si alzano subito, si complimentano per dovere, diciamo. Poi subito si affossano nelle poltrone. La destra ha votato Carlo Nordio. Matteo Salvini, che in questi giorni sembrava colto da un raptus futurista, è il vero sconfitto di questo giro. Nel pomeriggio, dopo le voci sulla fuga di Giancarlo Giorgetti, il leader e il ministro si sono fatti vedere insieme, offrendosi alle domande di un nugolo di giornalisti. Come quelle coppie famose che si mostrano a favor di telecamera sorridenti, dopo essersi lanciati addosso i piatti. Anche Giorgia Meloni non se la passa benissimo. Il centrodestra vive la sua Caporetto. In Transatlantico, davanti agli schermi televisivi, ci sono i grandi elettori che non hanno potuto accedere all'aula. Ma sono soprattutto del Movimento 5Stelle, riuniti attorno a Luigi Di Maio. Anche il ministro degli Esteri è uno dei vincitori e i suoi fedelissimi gli tributano così il loro affetto. Sono talmente soddisfatti che a un certo punto, in pieno spoglio, arriva una commessa e li invita a un contegno più prudente: «Ricordo il distanziamento per ordine del questore», li ammonisce. Nessuno le presta attenzione. I leghisti qui, nel corridoio dei passi perduti, sono pochi, e piuttosto abbacchiati: l'hanno votato, Mattarella, ma non è la loro festa. Le schede passano di mano in mano, Fico le dà a Maria Elisabetta Casellati, la presidente del Senato ha l'aria scocciata di chi non vorrebbe essere lì. Poco prima dell'inizio il segretario del Pd Enrico Letta scherzava e rideva con il forzista Simone Baldelli, celebre per le sue imitazioni. Anche qui grandi sospiri di sollievo. Matteo Renzi era omaggiatissimo. Per sei giorni ha tenuto lezioni politiche. Il suo intervento a schermi unificati contro la candidatura della direttrice dei servizi segreti, Elisabetta Belloni, venerdì sera, è piaciuto molto a sinistra. A un certo punto Vasco Errani di Leu è andato a ringraziarlo. «Grazie a voi, che mi avete dato subito una mano», gli ha risposto il leader di Italia viva. Tutto è sorprendente in questa giornata. Mattarella è stato rieletto a furor di Parlamento. È il Presidente della stabilità. Ma ogni grande elettore sapeva in cuor suo che sarebbe stato anche la scelta più gradita alla maggioranza degli italiani. È una scelta rassicurante. Gli italiani che l'hanno seguito con crescente affetto sono contenti che sia finita così, e magari aggiungono «povero!», per il supplemento di fatiche che lo attende, alla sua età. Di un servitore dello Stato che è stato tirato per la giacca dall'insipienza di un ceto politico incapace di visione. La crisi dei partiti ha raggiunto il suo livello più alto. Bisognava vedere le facce di tutti, in Transatlantico, quando intorno alle undici Salvini in una dichiarazione - immortalata in un video da Repubblica - annuncia, spalle al muro, al primo piano di Montecitorio: «Draghi rimanga a palazzo Chigi, Mattarella al Quirinale, questa è la mia posizione». È la Capitolazione del Capitano. È una specie di Liberazione per gli attori che stanno votando in quel momento in massa per Mattarella. I loro voti sono tanti, ma non ancora sufficienti. Diventano più leggeri. Escono a fumare nel cortiletto. Si diffonde una contagiosa allegria. Un senso di salvezza. «È una scelta spontanea, su base parlamentare», esulta Francesco Verducci, uno dei dem che si erano esposti. «È un riconoscimento alla grandezza di Sergio», commenta Gianclaudio Bressa, un mattarelliano storico. Qualche ora dopo è fatta. Il Parlamento conferma un galantuomo al Quirinale».

Come si è arrivati a questo risultato? Il retroscena di Francesco Verderami per il Corriere della Sera ricostruisce la lite nella notte su Elisabetta Belloni.

«Mattarella resta. La corsa al Colle viene interrotta all'ottavo giro per l'incapacità dei suoi protagonisti di arrivare al traguardo. Questo è il resoconto della sfida per il Quirinale politicamente più sgrammaticata della storia, zeppa di strafalcioni, scarabocchi, errori da matita blu. E dalla quale tutti escono a vario titolo sconfitti. La notte della politica è proprio l'ultima notte prima dell'esame, quando i leader si rendono conto che devono prepararsi a consegnare il compito. Ma il loro foglio è bianco. Nell'ansia di recuperare il tempo perso, dopo aver detto che «c'era tempo», Salvini si fa dare l'ennesimo mandato dagli alleati di centrodestra. Sono d'accordo che sui nomi non c'è accordo, ma su un punto si intendono: nessuno vuole un secondo incarico al capo dello Stato uscente. D'altronde il leader del Carroccio lo aveva anticipato all'assemblea dei grandi elettori leghisti: «...e non accetteremo mai un Mattarella-bis». Così, dopo aver incontrato il premier, si chiude con Letta e Conte - a loro volta divisi - per discutere chi scegliere. Già lì accade qualcosa di strano, perché il segretario del Pd davanti al capo di M5S presenta una rosa di nomi senza Draghi. Più tardi, Salvini racconterà maliziosamente che «quando con Letta parlavamo in assenza di Conte, il nome di Draghi non mancava». Stava nella lista assieme ad altri, compreso Mattarella. Non è proprio un esercizio di stile confondere in un parterre di quirinabili chi siede al Quirinale. Ma Conte e Salvini non ci fanno caso, perché nella rosa c'è il nome su cui puntano: Belloni. E dire che nel Pd era già scoppiato il putiferio tre giorni prima: proporre alla presidenza della Repubblica il capo dei servizi segreti non è roba da Paese dell'Occidente democratico. Riproporlo e trovare un'intesa su quel nome è diabolico. Eppure questo accade. E quando Conte (assieme a Salvini) rende pubblicamente noto che stanno puntando su una donna, il gioco pare chiuso. Franceschini sembra rassegnato: «È fatta purtroppo, perché con i voti della Meloni hanno i numeri. E in Aula si creerà un effetto trascinamento che ci costringerà a votarla». La De Petris, una vita passata nelle file di sinistra, si attacca al cellulare e in romanesco avvisa i compagni del Pd: «C'avete proprio rotto er...». Non proprio con queste parole, ma con lo stesso tono di voce, Guerini spiega a Letta alcuni rudimenti di politica. Più tardi confiderà a un deputato del suo partito: «Non ho mai gridato così in vita mia». Grida al telefono anche con i dirigenti di Forza Italia, perché dichiarino subito la loro contrarietà alla candidatura. Con Renzi non c'è bisogno, si muove di suo: «Hanno provato a mettercela nel (bip) con Frattini. Ora ci riprovano con Belloni. Se non li fermiamo lanceranno anche il generale Figliuolo». Renzi ha appena finito di cenare con Casini, che oscilla tra l'ottimismo e il più nero pessimismo: per questo gli ha offerto una pizza e una bottiglia di champagne. Intanto i forzisti escono dal letargo e organizzano insieme con gli altri centristi un piano per la resistenza. Nel retro di un ristorante Toti chiama Di Maio, che sta alterato di suo: «È una cosa folle. Non ne sapevo nulla. Ho sempre detto che se si deve andare su un tecnico per me c'è solo Draghi. Se è un politico, si può fare con Casini». E allora comincia la conta per Casini. Solo che Salvini non può starci, perché su quel nome i leghisti del Nord sono sopra le barricate. Dirà il governatore lombardo Fontana «non sarei più potuto andare alle feste di partito e a casa sarei arrivato solo se scortato». I numeri ballano e intanto i ministri forzisti premono perché il Cavaliere vada su Mattarella. Sanno che Draghi ha realizzato di non avere spazio e sta spingendo affinché sul Colle resti l'inquilino in scadenza di affitto. Peraltro nel pomeriggio, previdente, Giorgetti aveva invitato il dem Delrio a far sì che sul capo dello Stato uscente iniziassero a «scivolare» a scrutinio segreto un po' di voti: «Perché vedo come si stanno muovendo questi pazzi e temo che si vadano a cacciare in altri guai. Fermiamo questa giostra». E la giostra si ferma: i voti per Casini non garantiscono e Berlusconi vira su Mattarella. Per Salvini e Conte è il game over. Il leader della Lega prova a intestarsi il bis e viene bocciato dai suoi stessi compagni di partito: «Se era la sua prima scelta, avrebbe dovuto proporlo alla prima votazione». E quando Franceschini incorona Letta come «the winner», lividamente Conte rende noto che «Letta puntava su Draghi, dunque anche lui ha perso». Le scolaresche il giorno dopo salgono al Quirinale e ammettono di essere impreparate: «E con minore ruvidità di Napolitano - dice Toti - ci ha congedati». Non prima dell'ennesimo siparietto di cui si rende protagonista il forzista Barelli, che si rivolge così a Mattarella: «Presidente, se ha bisogno di spostare gli scatoloni, può contare su di noi». «Farò da me». E lo farà per sette anni: «La mia non sarà una presidenza a tempo». Di Maio avrà tutto il tempo per fare ciò che si è ripromesso: «Chiederò la verifica nel Movimento. Perché quello è pericoloso e se ne deve andare». Fine della ricreazione».

MATTARELLA BIS. VISTO DAL COLLE

Il presidente Sergio Mattarella aveva detto in più di un’occasione che temeva il bis. Ieri sera alla fine cede: «Le condizioni lo impongono, il dovere prevale sulle attese personali». Marzio Breda per il Corriere.

«I giorni difficili trascorsi con l'elezione alla presidenza della Repubblica, nel corso della grave emergenza che stiamo tutt' ora attraversando sul versante sanitario, su quello economico e su quello sociale, richiamano al senso di responsabilità e al rispetto delle decisioni del Parlamento. Queste condizioni impongono di non sottrarsi ai doveri cui si è chiamati e naturalmente debbono prevalere su altre considerazioni e su prospettive personali differenti, con l'impegno di interpretare le attese e le speranze dei nostri concittadini». Uno scambio di strette di mano e poche parole, pronunciate con tono grave come grave è il momento che il Paese attraversa, al termine di una settimana tutta in salita. Ringraziamenti a parte, non c'è nulla di davvero rituale, né tantomeno di retorico o festoso, nelle parole di Sergio Mattarella quando accoglie nella sala del Bronzino i presidenti di Camera e Senato, saliti alle 21, 40 al Quirinale per comunicargli una rielezione quasi plebiscitaria. Era l'unico modo per fargli accettare un secondo mandato al quale si era sempre detto indisponibile, per ragioni costituzionali e personali. Gli italiani tirano un respiro di sollievo. Sgombrata la mortificante incertezza in cui si sono lacerate le Camere, dando un pessimo spettacolo alla gente, ora abbiamo la garanzia di essere finalmente in sicurezza. Il che, dati i tempi, è moltissimo. Tutto era cominciato nella mattinata, in un incontro con Mario Draghi a margine del giuramento di un nuovo membro della Consulta, Filippo Patroni Griffi. Ancora prima che Matteo Salvini parlasse, per intestarsi la nomina, il premier si apparta per una mezz' ora con il padrone di casa nello studio alla Palazzina e lo «esorta» (questa l'espressione probabilmente più corretta) a non respingere il sostegno che il Parlamento si prepara a dargli. Si fa portavoce della propria maggioranza di unità nazionale, che ha consultato fino a poche ore prima. E sa che se c'è qualcuno che può chiedergli questo sacrificio è proprio lui, cui Mattarella domandò un analogo sacrificio l'anno scorso, insediandolo a Palazzo Chigi. In breve: è meglio per tutti se il tandem al vertice del Paese non viene spezzato. È questo il passaggio che sblocca sul serio la partita, ed è formalmente diverso da quello su cui nacque il bis di Napolitano. Non soltanto perché allora si era alle battute iniziali di una legislatura che appariva difficile, ma perché stavolta Draghi informa il capo dello Stato che sarà il Parlamento ad assumere l'iniziativa, indipendentemente dai leader politici. Un cambio di passo, insomma, dopo i troppi scrutini andati a vuoto con un oggettivo rischio paralisi oltre che di delegittimazione per tutti. Istituzioni comprese. Mattarella accetta, così come accetta quel che i capigruppo (non i leader) dei partiti e i rappresentanti regionali vanno a comunicargli nel primissimo pomeriggio. Non gli chiedono di restare, lo informano che lo voteranno. «Avevo altri piani, ma se serve sono a disposizione. Farò del mio meglio», replica loro il presidente. Consapevole che troppe cose sono in gioco, stavolta. A partire dai rischi di instabilità per il governo, con incalcolabili conseguenze anche sul piano internazionale, e di un avvitarsi della crisi politico-istituzionale, che potrebbe trasformarsi in crisi di sistema e ripercuotersi molto negativamente sulla stessa tenuta del Paese. Certo, osserva Mattarella davanti alla sfilata di interlocutori, «vi sarebbe stata la possibilità di eleggere una personalità di alto livello». Tuttavia, il Parlamento è sovrano e il suo rispetto per le istituzioni resta massimo. Come pure l'impegno a mantenersi in una logica di assoluta garanzia e salvaguardia per tutti. Giovedì alle 15:30 il discorso d'insediamento e il giuramento. Giusto alla scadenza delle analoghe cerimonie di sette anni fa.».

I TORMENTI DEI PARTITI: CONFRONTO DURO NEI 5 STELLE

Alla fine di sette giorni molto difficili, il Movimento apre una resa dei conti interna. La cronaca di Emanuele Buzzi per il Corriere.

«Una tregua durata una giornata e poi di nuovo guerra. E senza mezze misure. Il Movimento non conosce pace. Dimaiani e contiani si punzecchiano tutto il giorno. Un ping pong di stoccate. «Belloni? Non la abbiamo eletta per colpa di chi ha manie di protagonismo». «I piani di chi voleva Draghi al Colle sono falliti». Poi si scontrano direttamente i pesi massimi. Giuseppe Conte punta Di Maio dopo le parole sulla direttrice del Dis: «Ci saranno occasioni nella comunità del M5s per tutti i chiarimenti necessari. Sono state ore febbrili, finora non c'è stato modo di chiarire il significato di alcune uscite». Il ministro degli Esteri in serata si fa sentire: «Alcune leadership hanno fallito, hanno alimentato tensioni e divisioni». Poi l'affondo. «Nel Movimento 5 Stelle serve aprire una riflessione interna». Conte preferisce non replicare all'attacco diretto, ma chi è vicino al leader fa presagire che «presto» ci sarà la resa dei conti tra i due. Fonti autorevoli contiane, invece, ribattono: «Si tratta di un gesto di disperazione dopo la sconfitta di non aver portato Draghi al Quirinale». I vertici intanto lavorano a una «fase due»: rilancio del ruolo di governo, legge elettorale, oltre al confronto con alleati e big M5S. Il Movimento dopo l'elezione del capo dello Stato prova a voltare pagina. Conte nei prossimi mesi cercherà di costruire il percorso in vista delle Politiche del 2023 e di rilanciare l'azione dei Cinque Stelle in seno all'esecutivo. Non a caso il presidente M5S già annuncia: «Con Draghi ho chiesto un chiarimento. Non possiamo limitarci ad assicurare la stabilità del governo, dobbiamo essere promotori di un confronto per siglare un patto per i cittadini in cui individuare quali possano essere le priorità» del Paese. Il no all'investitura del premier al Colle è vissuto come un risultato, ma la rielezione di Mattarella lascia strascichi anche nei rapporti con il Pd, ora ai minimi termini. Le ultime ore della trattativa sono condite da retroscena e voci. Si parla di un asse nella notte con Lega e Fratelli d'Italia e altri (con 561 voti e più a disposizione sulla carta) per provare il blitz su Elisabetta Belloni nonostante i veti dem. «Ma no, solo tattica e controtattica», minimizzano nel Movimento. «Non diciamo fesserie», commenta Conte. Così come si racconta di un tentativo di un'ala del Movimento di sgonfiare al penultimo scrutinio le preferenze per Mattarella. Indiscrezioni senza conferma, che sono il preludio alle dichiarazioni che seguiranno in giornata. Intanto, i parlamentari festeggiano: molti sostengono che ha vinto la linea del gruppo e che questo deve essere un segnale per il futuro del Movimento. Ma a tenere banco tra deputati e senatori è anche il rapporto - scricchiolante - con i dem. Viene contestata la lettura di un Pd vincente: «Volevano Draghi al Colle e hanno perso». I nodi riguardano soprattutto la tenuta della coalizione dopo i sospetti e le tensioni su Belloni. «Non ci faremo mettere i piedi in testa dal Pd», dice un grande elettore. «Che vadano pure da soli, noi non abbiamo poltrone da perdere». L'idea è quella di rilanciare presto, già in primavera, la riforma della legge elettorale con il ritorno al proporzionale. Il clima è teso. Dai vertici del M5S si riannodano le trame della giornata di venerdì e filtra l'indiscrezione che durante la trattativa tra i leader sia stata sottoposta a Matteo Salvini una lista di tre nomi, tra cui Belloni e Severino, lista che aveva avuto il placet di Leu e Pd. «Quando Salvini ha dichiarato di essere d'accordo sulla candidatura di una donna al Quirinale, Conte ha accolto con favore questa disponibilità a nome del fronte progressista», spiegano nel M5S. E argomentano: «Successivamente, poi, è stato il Pd, e in particolare Guerini, che si è messo di traverso e ha scelto di defilarsi». Tuttavia, ai piani alti dei Cinque Stelle si dicono convinti che «nelle prossime settimane la situazione si chiarirà».

Ancora più esplicito Luca De Carolis per il Fatto, schierato con Conte contro Di Maio, parla di “guerra civile”.

«L'avvocato è uscito vivo dalla battaglia del Quirinale. Ha schivato Mario Draghi, e per lui vale già quasi tutto. Ma adesso Giuseppe Conte la guerra ce l'ha in casa, la scissione da ombra si fa realtà, incarnata da una voce e un volto, quelli di Luigi Di Maio. "Nel M5S va aperta una riflessione politica interna, alcune leadership hanno fallito, hanno alimentato tensioni e divisioni" scandisce il ministro alle 21 e qualcosa, davanti a Montecitorio. Attorno a sè ha un nugolo di parlamentari, per dimostrare che è forte, uno con i numeri per combattere. Ha i lineamenti tirati come una corda, mentre accusa: "Questo stallo l'ha risolto il Parlamento grazie anche a Mario Draghi". È il guanto di sfida a Conte, pubblico. Ora sarà lotta per prendersi il M5S . "Oppure si spaccherà tutto" geme un big. Di sicuro non può rifiatare un attimo, Conte, che nel pomeriggio dentro la Camera aveva raccontato la sua verità. "Non spostare Draghi da Palazzo Chigi con un'emergenza in atto era il nostro primo obiettivo" ha giurato. Senza dire che anche nomi come Pier Ferdinando Casini e Giuliano Amato l'avrebbero messo in sicura difficoltà e probabili guai. Li ha evitati grazie a Sergio Mattarella, "la nostra opzione di garanzia". Però adesso davanti a sè ha solo fronti aperti, l'ex premier. Quello con il Pd, a cui di fatto rimprovera di essere tornato indietro rispetto al suo sì ad Elisabetta Belloni, la vera carta di Conte per il Colle. E c'è la guerra civile nel M5S , lo scontro con Di Maio, quello che venerdì sera era esploso: "Trovo indecoroso buttare in pasto al dibattito, senza un accordo condiviso, un alto profilo come quello di Belloni". Meno di 24 ore dopo, l'avvocato gli risponde che di quelle frasi ne dovranno riparlare: "Arriverà il momento per chiarire il significato di queste uscite. La nostra è una comunità in cui ogni esponente politico deve innanzitutto rispondere non al leader di turno ma agli iscritti". Ma la sua prima risposta al ministro l'avrebbe già data già venerdì notte, con un messaggio in una chat: "Ti invito a essere più cauto nelle dichiarazioni, ma capisco la tua premura nei confronti di Belloni, visto che la consideri tua sorella". Nessuna risposta dal ministro, che già meditava la mossa di ieri sera. Ore prima, appena Mattarella ha superato il quorum dei voti per l'elezione, ha celebrato la notizia con i "suoi" deputati in Transatlantico. Applausi e abbracci, con in prima fila Laura Castelli e Sergio Battelli. Sembrano esserci già due partiti nello stesso Movimento, quello che i partiti li voleva demolire. "Conte ha gestito tutto malissimo, altro che vittoria" sibilano dal suo fronte. "Questo scontro è una valanga, da qualche parte arriverà" sussurra un deputato che sa di cosa parla. Tutto attorno è già campagna di annessione. In mezzo alle due fazioni del M5S c'è una vasta area grigia, rincorsa dai lealisti come dai dimaiani. Nell'attesa, Conte dice la sua sul Quirinale: "Non ci sentiamo vincitori, né sconfitti. Abbiamo assicurato continuità all'azione di governo, ma ha vinto il Paese". Piuttosto, "non siamo riusciti a eleggere una donna come presidente, e su questo il Paese ha perso". Parla a voce alta, scatta con facilità. "Asse gialloverde? Non dite fesserie". Si lamenta: "Sono state scritta schifezze in questi giorni, ma il M5S non deve giustificarsi di nulla". Racconta di aver chiesto un incontro a Draghi, perché "vogliamo condividere l'agenda politica con lui". Non vuole sentir parlare di rimpasti: "È roba verso la quale non abbiamo alcuna sensibilità". In serata, a Mattarella eletto, scende in Transatlantico a stringere mani e a concedere selfie. È la risposta simbolica a Di Maio. La guerra a 5Stelle è già qui, è già ora».

I TORMENTI DEI PARTITI: IL CASO GIORGETTI NELLA LEGA

I tormenti della Lega sono soprattutto legati al disagio di Giancarlo Giorgetti. Marco Cremonesi per il Corriere.

«Malessere o strategia comunicativa, il caso Giorgetti deflagra con un'agenzia. Un'Agi delle 12.40 in cui si chiede al ministro dello Sviluppo economico di possibili cambi al governo. E lui, vicesegretario della Lega, non dice no: «È un'ipotesi, magari c'è da migliorare la squadra...». Per poi tagliar corto: «Per alcuni questa giornata porta al Quirinale, per me porta a casa». E in effetti, appena votato, Giorgetti si allontana precipitosamente dalla Camera senza dichiarazioni. Ce n'è molto più che abbastanza per drizzare le antenne. I leghisti scuotono la testa e tutti quanti minimizzano con una qualche variazione sul seguente canovaccio: «È una cosa da Giorgetti, una botta di malumore che gli fa venire voglia di mollare tutto. Non è certo la prima volta, succedeva già negli anni Novanta quando era segretario della Lega lombarda...». Certo, c'è anche un'altra versione meno legata agli umori. C'è chi ricorda che la vicinanza tra il ministro e Mario Draghi è assai più antica dell'attuale governo: «È stato Giorgetti a convincere Salvini a dire di sì al governo Draghi. Ma l'intesa fondante era che, appunto, Draghi dopo un anno a Palazzo Chigi andasse al Colle» e qualcuno si spinge oltre: «Giorgetti avrebbe potuto in quel caso essere credibile come premier». Combinazione, da giorni soffia forte anche un'altra voce: Giorgetti potrebbe essere il candidato presidente della Regione Lombardia nel 2023. Anche se da ieri il tema dibattuto nelle conversazioni tra i parlamentari era tutt' altro: la tenuta del centrodestra come lo si è visto fino a questo momento. Mastica amaro un deputato: «Bisognerà vedere se in Lombardia effettivamente vinceremo anche l'anno prossimo Sempre che Salvini e Meloni riprendano a rivolgersi la parola». Alcune ore più tardi, da Giorgetti arriva la nota che dovrebbe chiudere il caso: «Sono felice che Mattarella abbia accettato con senso di responsabilità l'intenzione del Parlamento di indicarlo alla presidenza della Repubblica». E le dimissioni? «Per affrontare questa nuova fase serve una messa a punto: il governo con la sua maggioranza adotti un nuovo tipo di metodo di lavoro che ci permetta di affrontare in maniera costruttiva i tanti dossier, anche divisivi, per non trasformare quest' anno in una lunghissima, dannosa campagna elettorale che non serve al Paese». Insomma: «Serve una nuova fase di governo per affrontare quest' anno». A ben vedere, le dimissioni non sono affatto smentite. La nota si conclude con la richiesta di un incontro comune a Mario Draghi che, secondo Salvini, potrebbe avvenire già domani. Perché comune? «Perché in caso contrario - spiegano dalla Lega - si alimenterebbe la narrazione di voi giornalisti sugli antagonismi tra Salvini e Giorgetti». In effetti, i due si incontrano subito dopo il summit di Salvini con i grandi elettori leghisti. Un lungo confronto in cui Giorgetti dice al segretario come la vede lui. Qualcosa del genere: «Possiamo restare al governo o uscire. Ma restare come stiamo facendo oggi, perennemente tenuti in ostaggio ed esposti ai continui attacchi di Pd e M5S, non può essere». Si potrebbe anche fare, prosegue Giorgetti, «ma ci vorrebbe lo scudo di Draghi: non possiamo continuare a farci mettere al collo crisi nate anni fa». Insomma: «Senza scudo, la strada diventa impervia». Attenzione. Secondo Giorgetti tutto nasce non da un atteggiamento men che disponibile di Draghi nei suoi confronti. Semmai, spiega un amico del vicesegretario leghista, «è come quando un tuo amico, un tuo amico vero, non ti difende pensando che comunque non si rovinerà l'amicizia». La versione degli attacchi degli alleati sarà più tardi ribadita da Matteo Salvini su La7: «Se uno lavora tutto il giorno per risolvere una crisi e alla notte ci sono Pd e 5 Stelle che disfano tutto, così non può continuare». E quando, a Porta a porta, gli chiedono se sia necessario un rimpasto, chiosa: «Qualcuno sta rendendo al massimo, qualcuno non direi». Da Palazzo Chigi, nessuna reazione. Anche se in piazza Colonna c'è chi ritiene che la vicenda Giorgetti sia stato un «tentativo di spostare l'attenzione mediatica altrove rispetto all'elezione del capo dello Stato».

I TORMENTI DEI PARTITI: LE DIVISIONI NEL PD

Enrico Letta festeggia ma coltiva sospetti sul leader 5 Stelle. La cronaca di Maria Teresa Meli.

«Nel Transatlantico di Montecitorio Dario Franceschini, che sul Quirinale non ha giocato la sua stessa partita, lo acclama così: «Eccolo, the winner». Ma lui, Enrico Letta, applaudito dai colleghi di partito, non ha voglia di brindare come il vincitore della giornata. Anche se aveva già detto giorni fa che il Mattarella bis sarebbe stato «il massimo». Il segretario dem infatti è preoccupato: «Siamo contenti, però c'è poco da festeggiare perché questa soluzione denota una profonda crisi politica e istituzionale». E ancora: «Ci aspettano mesi difficili con una maggioranza complessa». I timori di Letta non sono legati esclusivamente al fatto che per la seconda volta i partiti hanno dovuto chiedere a un presidente di restare al suo posto perché non sono riusciti a trovare una soluzione. C'è dell'altro: l'andamento delle trattative ha rivelato non solo la pochezza di alcuni leader ma anche la loro inaffidabilità. Da questa vicenda, però, secondo Letta, sono emersi anche segnali positivi: «L'autonomia di Forza Italia è un passaggio politico non irrilevante. Vedremo come sarà possibile far evolvere il rapporto». Potrebbe aiutare la riforma elettorale: «Deve essere assolutamente in agenda perché è la più brutta di sempre». Torna all'orizzonte il proporzionale. Va bene a Fi e anche al M5S e mette fuori gioco la destra di Meloni e Salvini. La giornata di Letta sabato comincia presto, nonostante la nottata non proprio tranquilla. Il segretario pd pronuncia queste parole all'assemblea dei grandi elettori dem prefigurando la possibile soluzione della vicenda: «Anche accedere alla saggezza del Parlamento è democrazia». E il Parlamento un'indicazione l'aveva data: quella di Mattarella. Nomi, in quel consesso, il segretario non ne pronuncia, ma nella notte si era consumata l'ultima trattativa. Già venerdì mattina Renzi aveva capito quale fosse l'unica via d'uscita possibile e aveva profetizzato: «Non escludo la rielezione di Mattarella». Ma la serata era andata come era andata. Con Letta che aveva accettato di inserire il nome di Elisabetta Belloni nella rosa per venire incontro alle richieste di Conte e con Conte che aveva strappato con l'alleato annunciando che quella era la candidatura ufficiale. Renzi, ancora una volta, era scattato avanti. E aveva stoppato Belloni, non prima di aver avvertito la diretta interessata al telefono: «Niente di personale, però io sono contrario». Nei dem nel frattempo montava il malumore verso Conte e verso la candidatura di Belloni. Anche se Il Riformista rivela che in una chat riservata di parlamentari pd circolava l'invito a votare la candidata di Conte e Salvini. Un input dal Nazareno? Al Pd smentiscono. Anche perché nella tarda serata dell'altro ieri era già partita la controffensiva dem contro il tandem Conte-Salvini. Il Nazareno aveva fatto asse anche con Di Maio. Il ministro degli Esteri e quello della Difesa Guerini si erano parlati per bloccare quell'operazione, convinti, come del resto anche Letta e Renzi, che Conte e Salvini volessero «far saltare il governo per destabilizzare tutto e andare alle elezioni». E per l'ennesima volta il segretario dem si è dovuto interrogare sul suo alleato: «Ci vuole una profonda riflessione sul nostro rapporto con lui», aveva spiegato ai suoi. Più affidabile Di Maio, che gli annunciava: «Noi alla fine andremo su Mattarella». E proprio su quel nome Letta concentrava la sua ultima trattativa notturna. Quella con Berlusconi. Ma l'indomani mattina Letta riceveva un'altra brutta sorpresa da Conte, che rilanciava su Belloni. Nuovi tira e molla e conciliaboli, alla fine il nome di Mattarella metteva tutti d'accordo. Letta e Renzi, ancora una volta uniti, sottolineavano l'inopportunità che fossero i leader ad andare al Quirinale a chiedere al presidente il bis. Conte e Salvini, ancora una volta uniti, insistevano su questa ipotesi. E Conte proponeva che il leader di Iv non facesse comunque parte della delegazione. Renzi serafico gli rispondeva: «Io non voglio venire, ma se vai tu vengo anche io perché non riesco a stare senza di te».

I TORMENTI DEI PARTITI: FORZA ITALIA FA DA SOLA

Che cosa accade in Forza Italia? Alla fine ha rivendicato autonomia, ma la discussione interna ora è inevitabile. Conchita Sannino su Repubblica.

«Li riconosci da come hanno rialzato la testa. «Ci siamo ripresi uno straccio d'orgoglio. Ma tra noi, qui, le cose devono cambiare ». Era questione di ore. Dopo la zampata di Silvio di venerdì sera, dopo il suo perentorio "Basta comando io", non tarderà la resa dei conti di Forza Italia. Che sarà duplice, beninteso. Verso Salvini certo. Ma soprattutto: interna. Sono state quarantotto ore avvelenate, per il leader azzurro, quelle finite ieri con la telefonata «affettuosa » tra lui e Mattarella e il tripudio del presidente bis. Berlusconi ha troppi colpi da smaltire. E l'ultimo sa d'incredibile: giovedì sera, sempre ricoverato ma in forma, il fondatore era pronto a ri-piombare in pista. Di nuovo: per il Quirinale. «Lo voleva proprio fare. Ha incaricato Tajani di portare la proposta al tavolo del centrodestra », racconta un big che ora guarda il soffitto di Montecitorio, un filo di imbarazzo. «È finita molto male. Meloni non sapeva se ridere o urlare. L'idea è caduta in un secondo. Subito dopo, si è deciso di andare a contarsi tutti ma su Casellati: e sappiamo che disastro è stato». E perché avallare la debacle della seconda carica dello Stato, allora? Il fedelissimo offre riscontri: «Perché la presidente del Senato ha fatto il diavolo a quattro per farsi votare. Era sicura di farcela, sicura di avere voti dal Misto e dal Pd. "Elisabetta, non ho motivo di dubitare" fa lui, dalla clinica. Ci credo che, dopo, si è inferocito il doppio». E ora i berluscones non chiedono solo il "regolamento" nella coalizione. Contro Salvini, ovvio, per l'«inadeguatezza» nella gestione delle trattative, per il «ritmo imbarazzante » di nomi presi e bruciati. È nel partito che la falla è larga. Un pezzo della formazione azzurra vorrebbe la testa di Antonio Tajani e Licia Ronzulli. Lei, la fedele senatrice-assistente - pur senza mai tradire la voce di Berlusconi è considerata da sempre troppo vicina alle strategie del Capitano. Ma è soprattutto lui, il coordinatore, nel mirino. Non sarebbe stato in grado - questa è l'accusa - di gestire Matteo sulla giostra delle candidature- flop. E di più: avrebbe lasciato che si demolisse la discesa in campo di Berlusconi. Non una, ma due volte, se si considera il colpo di coda del leader, bloccato tre sere fa. Tajani, insomma, non ci avrebbe mai creduto davvero. Né durante la prima, lunga fase di "consultazioni" interne. Né giovedì notte, quando Salvini aveva virato sulla seconda carica dello Stato: andando a sbattere. Ed è inutile chiedere ieri, in Transatlantico, al capo leghista se si sia giustificato con Silvio per la caduta devastante: «Veramente è Forza Italia a dover spiegare dove sono finiti i quaranta voti dei suoi. Glielo chieda». A fine corsa, ormai, resta che il pugno sul tavolo del presidente ha restituito agli azzurri un po' d'identità perduta. «A un certo punto non si capiva più nulla. E lui ci ha tolto gli schiaffi di dosso», lo lisciano a distanza, i seniores dal Transatlantico. Lui, il vecchio re: deposto e sempre rinato. Che giovedì , coi tentativi che vanno a vuoto, con messaggi sempre più aspri ai suoi, prima prova a tornare in lizza. Poi, 24 ore dopo, letteralmente esplode: anche con Tajani, quando scopre che il leader leghista e Conte hanno chiuso sull'ipotesi Belloni. «Basta, fermo il gioco. Faccio io», si sentono le urla al telefono. A quell'ora per Berlusconi è in campo ancora Casini, ma dice anche Mattarella per evitare il baratro. Tajani, un minuto dopo, detta alle agenziela nota del leader . È la tarda sera di venerdì. In quegli stessi minuti, un'adiratissima Renata Polverini si sta sfogando a voce alta, in Transatlantico, coi colleghi 5S: «Dove sei Berlusconi? Ci sfracelliamo senza di lui». E infatti ieri sera è in abito rosso, la senatrice. Si limita a confermare: «Per me Tajani e Ronzulli hanno fatto tutto il possibile. Ma lui ha ridato la linea: con due parole, da lontano. Perché è avanti».

LE INTERVISTE: STEFANO CECCANTI, L’UOMO DEL GIORNO

Per una volta cito me stesso. Ho intervistato ieri per Domani quotidiano il deputato del Pd Stefano Ceccanti, costituzionalista, che più di tutti ha voluto il Mattarella-bis. E ne rivendica l’origine parlamentare, “dal basso”. Eccola:

«È l'uomo della giornata decisiva. Nello spazio per le dirette televisive di fronte a Montecitorio si mettono in fila per una sua dichiarazione in diretta. E pensare che Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato del Pd, era apparso a lungo come l'ultimo giapponese nella giungla. Continuava a insistere per il nuovo incarico di Sergio Mattarella al Quirinale almeno da due mesi ed era sembrato inopportuno ai più, soprattutto ai suoi compagni di partito. I dem predicavano l'accordo con gli altri leader, con l'alleato di coalizione Giuseppe Conte e quello di governo Matteo Salvini. Dopo la rielezione di Mattarella Ceccanti è decisamente felice, se non euforico: «Abbiamo sfondato. Abbiamo sfondato: la richiesta del bis a Mattarella è nata dal basso, dai parlamentari, dai grandi elettori che hanno cominciato a far crescere la sua candidatura, facendola emergere rispetto a tutti i giochi dei leader e al continuo falò di candidati». Due giorni fa c'è stato il passaggio chiave, perché qualcuno a destra ha cominciato a votare Sergio Mattarella. «Sì, è stata la giornata dell'orgoglio parlamentare ed è cominciata con lo scrutinio dove hanno votato solo gli elettori del centrodestra più qualcuno del misto. Durante il tentativo Casellati ben 46 elettori hanno votato Mattarella, di cui, a mio parere, almeno 35 del centrodestra. Alla sera i 336 hanno dilagato. Il punto è che il parlamento e i delegati regionali hanno offerto una delle possibili via razionali di uscita, forse la più praticabile, dal momento che sono destinate all'insuccesso tutte le candidature che distruggono la maggioranza e che conducono ad elezioni». Non c'era alternativa? Chiedo a Ceccanti se non pensi che così mettono in imbarazzo lo stesso presidente uscente. «Adesso i leader si stanno rendendo conto che è la soluzione giusta. Ma questo bis è nato dalla spontaneità del voto parlamentare, dalla libertà di deputati e senatori, dal basso. È nato esattamente come la richiesta del bis della platea della Scala di Milano la sera dell'8 dicembre. Ma io vi chiedo: quale italiano non condivide, non sente come giusta, questa scelta?». Facciamo a Ceccanti l'obiezione naturale, anche questa sorge spontanea, con 60 milioni di italiani, con un bel po' di cittadini over 50, non si poteva trovare un'altra soluzione? «Devo dire una cosa a voi di Domani quotidiano che ospitate opinioni molto autorevoli. C'erano solo tre candidati veri in questa elezione del nuovo presidente: Sergio Mattarella, Mario Draghi e Giuliano Amato. Non c'erano davvero tutti questi nomi, che infatti via via sono caduti Draghi e Amato, per ragioni diverse, non sono stati accettati dai partiti e dai leader. Era chiaro da tempo, da ben prima dell'inizio delle votazioni che l'unico vero candidato restava il presidente uscente». Matteo Renzi, che conosce Ceccanti molto bene, a questo punto se la prenderebbe. Italia viva ha lanciato Pier Ferdinando Casini. «Pier Ferdinando Casini poteva passare se appoggiato da tutti, non in una fase di forte rivalità dei partiti e all'interno dei partiti. Stamattina ho visto la sua presa di posizione molto seria. Realistica. Un'altra classe rispetto ad altri candidati bruciati dalla vanità e dalla insensatezza del tritacarne di questi giorni». La dinamica nel Pd A proposito, che cosa è accaduto nel Partito democratico? «Sono stati giorni difficili per tutti. Dopo la prima votazione, quando abbiamo cominciato a votare Sergio Mattarella, mi sono trovato addosso i controlli cronometrici: i capi dei gruppi non volevano che votassimo e conteggiavano il tempo sotto le cabine. Io ho dichiarato apertamente il mio voto. D'altra parte non capisco se c'è tanta simpatia per i franchi tiratori degli altri, è giusto rispettare i propri grandi elettori. Pensi che l'altra sera all'ultima votazione, qualcuno pretendeva da me che i voti per Mattarella restassero sotto la soglia dei 200. Poi hanno capito che scherzavano col fuoco La logica non può essere quella del controllo poliziesco». Vuoto politico Nel vuoto della politica si è infilata l'ostinazione dei peones, e ora ci sarà un'altra anomalia costituzionale col secondo mandato. «Sono convinto che il presidente saprà mettere mano a questa faccenda, insieme al parlamento. D'altra parte si apre una fase, quella finale della legislatura, che impone una nuova serie di regole sull'impianto istituzionale, a cominciare dalla nuova legge elettorale. L'unica cosa chiara è che non c'è tempo e modo per elezioni anticipate, soprattutto con Mattarella al Quirinale».

LE INTERVISTE: CASINI, L’ARTE DI METTERSI DA PARTE

Tommaso Ciriaco per Repubblica intervista Pier Ferdinando Casini, candidato fino a ieri mattina quando ha chiesto ai grandi elettori di non votarlo per favorire il bis di Mattarella.

«Incredibilmente, il volto sembra quello di dieci anni fa. Le rughe degli ultimi giorni evaporate. Pier Ferdinando Casini non è riuscito nell'impresa. Ma sa incassare, anche perché non ha vinto neanche chi avrebbe negato la politica, come fosse buona solo per essere «gettata in un cestino dei rifiuti». «Ho visto sette Presidenti della Repubblica. Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano uno e due, Mattarella uno e due. Era ipotizzabile che i candidati non venissero dalla politica, a quei tempi? No. I tecnici non possono pensare di sostituire la politica. Se dopo 39 anni di vita parlamentare vedo l'ex Presidente della Bce a Palazzo Chigi e magari un tecnico valentissimo al Quirinale, posso chiedermi se si tratta di una fisiologia normale di una democrazia che funziona, o se c'è qualcosa che non va?». Qualcosa non andava, se si ipotizzava Draghi o un altro tecnico al Colle, e un premier non politico? «Dico che ho cercato solo di affermare questo principio. Quando ho visto che la ridda di ambizioni personali di chi dovrebbe solo servire il Paese è diventata prevalente, ho fatto un passo indietro e ho detto: viva Mattarella». Casini sprofonda nella poltrona piazzata in un corridoio disperso di Montecitorio. Poco prima si era quasi commosso abbracciando Clemente Mastella. «Ho lottato fino all'ultimo, Pier». «Lo so, fratello». Ci è andato vicino, senatore? «Forse sì, ma in politica ci sono sempre le montagne russe. Ho sempre avuto la convinzione che alla fine sarebbe prevalsa una soluzione diversa. E tra queste, Mattarella è di certo la migliore». Dopo Mattarella, era lei il candidato più forte tra i parlamentari? «Forse. Ma l'unico principio che mi stava a cuore era la credibilità del Parlamento e della politica. Si è molto discusso del mio profilo Instagram, dove ho scritto durante le votazioni: "La passione politica è la mia vita". Volevo affermare che se la politica è in crisi, è certamente colpa della politica, ma anche che in nessuna parte del mondo si è ipotizzato di cambiare le cose con strumenti diversi dalla politica. Ai tempi della mia generazione chi non era nei Palazzi, sparava. E abbiamo visto quando la politica viene rimpiazzata cosa succede: è successo con la supplenza giudiziaria e, di recente, con poteri esterni». Cosa intende? «Il fatto che tra i principali candidati alla Presidenza non ci fossero parlamentari, ad eccezione della Presidente del Senato e del sottoscritto, è il segno devastante della subalternità di una politica marginalizzata. Ma vado oltre». Vada. «Sono molto rispettoso dei tecnici, essenziali per il funzionamento della vita democratica. I politici non possono avere il complesso di autosufficienza, ma i tecnici non possono pensare di sostituire la politica. Se il Parlamento, che ha affidato a un tecnico la guida dell'Italia, non afferma la sua centralità, non va bene. E per fortuna l'ha fatto con Mattarella, alla fine». Ma non è proprio perché lei sarebbe stato l'emblema del parlamentarismo, la nemesi e la mortificazione dei tecnici, che la sua candidatura è caduta? «Beh, sì, in effetti io sarei stato proprio questo. Non c'è dubbio che sarei voluto essere quello che sono. Per questo ho postato su Instagram quella foto, io sono io, non ho bisogno di plastiche facciali». L'incastro che non è andato a buon fine è stato Salvini? «Quando un ingranaggio si inceppa, c'è sempre un granello. Che la Meloni e Salvini non mi volessero, lo ritengo dal loro punto di vista comprensibile. Che i 5S facessero fatica a votarmi, beh: mi sarei preoccupato del contrario, per me e per loro. Ho recuperato uno straordinario rapporto umano con la comunità del Pd, con Renzi e con Silvio Berlusconi. Non ho niente da rimproverare a nessuno, sia chiaro». La fine della sua candidatura è nata allora fuori dal Palazzo? «Non lo so. Alla fine non è uno stop a me: ci sono tanti altri parlamentari che potevano fare il Presidente bene, a sinistra e a destra. Perché non sono stati presi in considerazione?». Pensa che abbia pesato l'ambizione di Draghi di andare al Colle? È stato un errore? «Mi sembra che sia sotto gli occhi di tutti. E mi sembra che non sia servito come ricostituente del governo». C'è chi ha detto: il premier ha bloccato Casini. È così? «Non credo alle parole attribuite al Presidente del Consiglio nei confronti di una mia eventuale Presidenza, perché il mio rapporto con lui è stato fantastico. D'altronde, sono stato messo quasi sotto accusa quando presiedevo la commissione banche perché dicevano che ero il difensore d'ufficio di Draghi». Vi siete sentiti? «Sì, affettuosamente. Abbiamo avuto un colloquio fantastico e lui mi ha espresso la stima, contraccambiata. Penso che sia una risorsa per l'Italia e sia fondamentale rafforzare il suo governo, non indebolirlo». Ma pensa anche che la voglia di Colle del capo del governo abbia reso inevitabile Mattarella? «È una sua tesi. Diciamo che è una tesi che ha molti sostenitori, ma io preferisco non esprimermi». Elisabetta Belloni, capo del Dis, presidente della Repubblica: sarebbe stata una forzatura? «Belloni per me è tra le migliori funzionarie dello Stato. Sono suo amico ed estimatore. Non spettava a me dare un giudizio». Ma per lei è stato doloroso? «Non ho rimpianti e mi sento sollevato. Nella vita bisogna saper distinguere tra i valori che contano e le illusioni ottiche. Il potere è una cosa che c'è e non c'è». Sembra che abbia dormito poco. «Non perché avevo gli incubi, ma perché la gente mi chiamava fino alle due di notte. In queste circostanze le persone fanno un bilancio della propria vita. Una sera chattavo con i leader, parlavo al telefono con Enrico Letta, e i miei due figli piccoli di 13 e 17 anni stavano sul divano senza muoversi, estasiati. La passione politica va coltivata nei ragazzi». Casini incrocia un deputato amico. Gli passa la moglie. «Cara, non piangere. Sono sereno. La vita è bella. E noi siamo ancora giovani».

LE INTERVISTE: LUPI, GRAZIE AL SALVAGENTE

Maurizio Lupi parla al Corriere: «Ci stavamo avvitando per fortuna c'era il salvagente». Il leader di Noi con l'Italia viene intervistato da Giuseppe Alberto Falci.

«Meno male che c'era il salvagente» confida Maurizio Lupi, deputato e leader di Noi con l'Italia. Lo dice proprio nel giorno in cui Sergio Mattarella viene rieletto con 759 voti, ovviamente. Sta dicendo che con questo Parlamento era inevitabile la riconferma del presidente uscente? «Rischiavamo ancora una volta di mandare in paralisi l'istituzione più alta. Ci stavamo avvitando in una serie di scrutini a vuoto. Mai come questa volta i cittadini hanno percepito le votazioni per il Quirinale come un esercizio bizantino, fatto di vecchie liturgie, di rose che non arrivano, di pregiudizi da parte dell'uno e dell'altro schieramento». E dunque l'unico equilibrio possibile era quello che prevede Mattarella al Colle e Draghi a Palazzo Chigi? «A mio avviso, no. È solo la strada più semplice e disperata di una politica che non sa assumersi responsabilità, ascoltare l'altro e fare compromessi alti per il bene comune. Si poteva individuare una figura politica, penso a Pier Ferdinando Casini. Si trattava solo di fare un passo indietro tutti per farne fare uno avanti agli altri. Come avremmo fatto se ci fosse stato il vincolo della non rieleggibilità?». Ora la domanda che ricorre è: dopo le divisioni di questi giorni reggerà il governo? «Sarebbe una contraddizione se il Parlamento rieleggesse Mattarella con un plebiscito, e poi il governo Draghi, che resta un capolavoro dello stesso Mattarella, fosse messo in crisi. Il governo Draghi, nato un anno fa in un contesto emergenziale, è stato un grande passo in avanti. Bisognava imparare da quella lezione. Quel metodo sarebbe stato utile per individuare il candidato migliore». Però il clima di unità nazionale non si è visto. «Abbiamo fatto il capolavoro di bruciare nell'ordine la seconda carica dello Stato e il capo degli 007. O comprendiamo questo o non lamentiamoci se nel 2023 avremo una situazione di paralisi». Quali errori ha commesso il centrodestra? «È stata un'occasione mancata. L'immagine di venerdì sera è la rappresentazione plastica della coalizione: da una parte Salvini, dall'altra Meloni, nel mezzo Forza Italia e centristi a dire "Tu, Matteo, non ci rappresenti"». La coalizione è in frantumi. Cosa succederà adesso? «Usciamo con le ossa rotte. Ora solo se saremo capaci di capirne le ragioni potremo avere la forza di ripartire. Se continueremo a giustificarci è finita». La divisioni nella coalizione avranno come effetto la nascita di un centro che riunisca i vari cespugli e sia indipendente dal centrodestra? « Il ruolo del centro è fondamentale e lo si è visto in questa partita. Attenzione, però, il centro non può essere una sommatoria di sigle, deve ricollegarsi alla società». Si riparla di ritorno al proporzionale. Lei è favorevole? «Credo che all'interno della coalizione possa riaprirsi la discussione».

LE INTERVISTE: MELONI, RABBIA E ORGOGLIO

«Si è barattata un'elezione per sette anni in cambio di sette mesi di sopravvivenza in Parlamento». Giorgia Meloni parla con Paola Di Caro del Corriere.

«Confessa di sentirsi «oggi più sola nel Palazzo, ma magari fuori no». Ma non ha nessuna intenzione di «lasciare soli i milioni di italiani che votano e credono nel centrodestra - ancora maggioranza in questo Paese - che hanno diritto ad essere rispettati, considerati e rappresentati. Oggi il centrodestra per come lo abbiamo visto non c'è più. Ma lo prometto: lo ricostruiremo». A sera Giorgia Meloni non ha ancora superato la delusione per «l'enorme occasione sprecata», la possibilità di eleggere per la prima volta al Quirinale una figura d'area. E pur «orgogliosa del mio partito, Fratelli d'Italia, che si è mosso con compattezza totale, che è entrato in questa partita con una posizione e con quella è uscito», ancora non si capacita di come «non si sia voluto nemmeno provare a vincere». Chi non ha voluto? «Avevamo i numeri, come maggioranza relativa, almeno per dare le carte. Ma nella coalizione molti non lo hanno voluto. I centristi di Cambiamo lo hanno in pratica dichiarato, una parte di Forza Italia non lo voleva». Berlusconi? «Non lo so, non l'ho sentito molto in questi giorni, se non fugacemente». E Salvini, che voleva fare il kingmaker? «Difficile fare il maker se rimetti lo stesso King...». Non se lo aspettava da lui? «No. Non l'ho capito, lo trovo incomprensibile. Ho scoperto dalle agenzie che avrebbe votato Mattarella. L'unica ipotesi alla quale tutti i leader del centrodestra avevano detto no con apparente convinzione. Ed è la seconda volta che apprendo dalle agenzie di scelte su cui sembravamo d'accordo poi totalmente disattese: prima l'ingresso di FI e Lega nel governo Draghi e ora questa». Vi siete sentiti, chiariti? «No. D'altronde non credo ci sia molto da chiarire». Ma con Berlusconi e Salvini oggi siete ancora alleati? «In questo momento no. Mi sembra che abbiano preferito l'alleanza col centrosinistra, sia per Draghi sia per Mattarella. Se per fare una prova manca un terzo indizio, quello è la legge elettorale: c'è chi cercherà di cambiarla in senso proporzionale. Se ci staranno, ci sarà poco da aggiungere, perché con il proporzionale si riproduce la palude degli ultimi governi». Ma perché secondo lei nel centrodestra non si è voluto tentare la partita? Per strategia o paura? «Per paura. Non solo dei partiti del centrodestra, ma di tantissimi in Parlamento. Hanno barattato sette anni di presidente della Repubblica con sette mesi di legislatura, o se vogliamo di stipendio».

LE INTERVISTE: CARFAGNA CONTRO SALVINI

Mara Carfagna è intervistata da Repubblica e accusa Salvini di cercare un asse con Conte.

«Mattarella in fondo al tunnel: la soluzione migliore raggiunta nel modo peggiore? «La rielezione di Sergio Mattarella - dice la ministra Mara Carfagna - è certamente l'approdo ideale per il Paese, prima che per i partiti. Consente la continuità dell'azione di governo in una fase drammatica: stiamo lottando ancora contro la pandemia, dobbiamo mettere a terra i progetti del Pnrr e e abbiamo il dovere di non perdere il vantaggio acquisito nella ripresa economica. Mattarella, inoltre, garantisce il dialogo con l'Europa e allontana lo spettro di una soluzione improvvisata, caotica, che poteva compromettere la stabilità e condurre a elezioni anticipate». Con il passare dei giorni il parlamento è sembrato quasi implorare questa via d'uscita. «Al parlamento, che ha lanciato un appello corale alla ragionevolezza, va un grazie. Ma va ringraziato soprattutto il Presidente Mattarella, che ha mostrato alto senso di responsabilità caricandosi il peso di un incarico che non aveva preso in considerazione. E, se permette, riconoscerei anche i meriti di Draghi, che ha svolto un ruolo decisivo negli ultimi passaggi della crisi». Il ritorno a Mattarella, dopo tanti tentativi a vuoto, è stato un fallimento della politica o dei leader? «Sono stati commessi molti errori in questo percorso: li ha fatti il centrodestra come il centrosinistra. Penso che il vero vulnus di questa elezione - e dell'intera legislatura - stia dentro la cultura politica di chi pensa di risolvere i problemi con i blitz». Allude alla candidatura di Elisabetta Belloni? «Qualcuno voleva usarla per accreditarsi come king maker: inqualificabile dare il nome di uno dei più stimati alti funzionari pubblici in pasto ai media». Parla di Salvini. «Mi sembra che con Conte sia stato l'artefice di quell'operazione». Con l'elezione di Mattarella svanisce la possibilità, reclamata dal centrodestra, di esprimere per la prima volta la candidatura per il Quirinale. «È un peccato: era giusto rivendicare quel diritto. Ma è stata una prova di maturità fallita. Siamo stati fortunati perché l'assemblea ha preso in mano la situazione, e bene hanno fatto i moderati ad accompagnare questa soluzione». Meloni dice che bisogna rifondare il centrodestra. «Io non so se questa coalizione è finita. So che è finita l'illusione di governarla dettando la linea politica sui social e confrontandosi più con i follower che con dirigenti e parlamentari. Chi mira a rimettere assieme il centrodestra deve assumersi la responsabilità dell'ascolto e della mediazione. In questi giorni abbiamo vissuto l'esito della gara per la leadership fra Salvini e Meloni. Purtroppo, la regola per cui chi ha più voti fa il premier non funziona. Innesca una competizione che disintegra il centrodestra. La leadership non si fonda su consensi e sondaggi, quanto sulla capacità di essere inclusivi e rappresentativi. Il centrodestra che funziona é quello che abbiamo visto per vent' anni guidato da Silvio Berlusconi, a trazione europeista, moderata, garantista». Da dove si riparte? «Il solo modo per ricominciare daccapo è prendere atto dello stato d'animo del Paese, che è cambiato rispetto a quattro anni fa. Le famiglie, le imprese, non chiedono più salti del buio. L'era del populismo è finita, chi l'ha interpretata, anche con successo personale, deve rendersene conto. Io credo che i leader siano consapevoli degli errori fatti». Uno, su tutti. «Almeno un paio. La decisione di contarsi sulla presidente Casellati senza aver costruito intorno a lei sufficiente consenso e il non aver fatto, fino all'ultimo, un tavolo di maggioranza allargato a Fratelli d'Italia. A me spiace che un partito come Fdi resti fuori dalla coalizione che sostiene Mattarella». Che futuro ha una coalizione uscita a pezzi dal voto per il Capo dello Stato? «Io vedo, per il futuro, due sole scelte possibili: da un lato chi, prima e dopo il voto del 2023, intende lavorare per la ricostruzione del Paese e dall'altro chi immagina rivincite surreali sulla stagione del governo di unità nazionale. Manca un anno alle elezioni: ognuno decida da che parte stare». Giusto, come fa la Lega, adombrare la necessità di un rimpasto nel governo? «È una decisione che spetta al premier, abbiamo piena fiducia in lui. L'importante, in ogni caso, è che vengano garantiti continuità nell'azione di governo e ampiezza della maggioranza, per sostenere le sfide che ci attendono. Non si perda tempo».

LE INTERVISTE: FORMICA, CI HANNO SALVATO I PEONES

Rino Formica, esperto esponente del Psi della prima Repubblica viene intervistato da Fabio Martini della Stampa.

«Oramai le riflessioni di Rino Formica somigliano ad aforismi politici: «A noi ci hanno "salvato" i peones!». Sarebbe a dire? «Sarebbe a dire che in Parlamento c'è stata una disperata rivolta degli autoconvocati: la loro sopravvivenza di parlamentari ha coinciso con la sopravvivenza del potere democratico e del Parlamento! Molti di loro forse neanche lo sanno che hanno battagliato per la democrazia. Per la prima volta abbiamo assistito ad un attacco del potere esecutivo al potere di garanzia, rappresentato dalla Presidenza della Repubblica e al potere legislativo». Classe 1927, già ministro socialista, Rino Formica ha iniziato a far politica nel 1944 in casa Laterza a Bari, un giorno che da lì passò Benedetto Croce e da allora non ha più dimesso la passione per la cosa pubblica. Ventinove gennaio 2022: al netto della retorica che oramai accompagna ogni evento, che giorno è stato? «E' tornato al vertice della Repubblica un presidente forte di suo come Mattarella e alla presidenza della Corte Costituzionale abbiamo un democratico come Giuliano Amato. Due personalità che rappresentano una garanzia per le istituzioni. Nessuno dei due ha però una forza reale come quelle che si muovono fuori dal Parlamento». Perché tanto allarme democratico? «In queste settimane si è consumato uno scontro tra chi voleva mantenere l'equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione e chi voleva cambiarlo a Costituzione invariata». Draghi? «Il sistema dell'informazione quasi non se ne è accorto: ma quando mai palazzo Chigi e il suo leader sono stati il centro dell'organizzazione politica? Mai l'istituzione si era fatta partito. Neppure quando la Dc aveva il 40 per cento». Ma si è trattato di un'ambizione personale «Appunto l'ambizione di un "partito personale"». Draghi non ha mai mostrato di avere ambizioni partitiche o politiche in senso stretto, non le pare? «Peggio. Ambizioni di potere. Ancora più pericolose. Se avesse fondato un partito, benissimo. Monti non era pericoloso: ci ha provato e non è andata bene. Ogni tanto si alza in Senato e fa il cigno: io ne sapevo più di voi». Per qualche mese il governo sarà più forte? «Nei prossimi mesi vengono al pettine nodi politico-sociali inediti. Si svolgerà il referendum sulla giustizia: nella campagna elettorale saranno coinvoltemilioni di persone, toccate direttamente da problemi di giustizia civile, penale, tributaria». Il governo resisterà un anno? «Un anno di governo reale non c'è. Fra sei mesi siamo in campagna elettorale, comunque. Ecco perché mi fa ridere il "patto di legislatura"». L'ammaccato Salvini di queste ore non aspetta altro che tornare libero a scorrazzare? «Per forza. Con una aggiunta che le anticipo». Sarebbe a dire? «Che quasi nessuno dei ministri draghiani sarà candidato nel proprio partito. Non Brunetta e neppure le donne di Forza Italia. Ma anche quelli del Pd rischiano tranne Orlando che ha una sua componente. Non parliamo poi di quelli della Lega». Forza Italia si renderà disponibile per un'alleanza di centro-sinistra? «Forza Italia non può che avere una posizione liberale. Per necessità. Mediaset produce informazione, non scarpe. E quando si arriva al dunque, gli interessi da tutelare non sono industriali, perché Berlusconi ha bisogno del pluralismo delle idee come imprenditore. Sulla candidatura Belloni una posizione liberale è venuta proprio da Forza Italia». Sul tema si è esposto Renzi, da lei mai risparmiato «E invece dico: viva Renzi! Ha detto l'abc. Dopo 75 anni di vita democratica, ma come caspita si fa a pensare che si passa dalla guida dei Servizi alla guida dello Stato senza un lavaggio elettorale?».

I COMMENTI. IL PATRIOTTISMO DI TARQUINIO

Ecco il vero patriottismo, scrive Marco Tarquino su Avvenire.

«Sergio Mattarella succede a Sergio Mattarella. Ed è un gran bel giorno per l'Italia. Il voto della speciale Assemblea chiamata a eleggere il Presidente della Repubblica ha corrisposto infine all'attesa e al desiderio esplicito della stragrande maggioranza del Paese, quella che chiedeva il «Mattarella bis» e non per calcolo ma per gratitudine. Un'infinità di italiani che in questi tribolati anni ha trovato saldo riferimento nel «presidente concittadino», nel suo senso del dovere e del limite, nell'amore per le Istituzioni, nella stima molte volte dimostrata per coloro che fanno e danno lontano dai riflettori. Patriottismo, come qualcuno, anzi qualcuna, la leader della destra d'opposizione a tutto, aveva evocato quale 'prova del sangue' del nuovo inquilino del Colle? Sì, patriottismo. Patriottismo vero: civile, antiretorico, inclusivo, costituzionale. Patriottismo italiano ed europeo. Sanamente laico perché di profonda radice cristiana. E chi conosce sul serio la storia della nostra democrazia sa che questo non è un gioco di parole, ma una cultura preziosa e una costante qualità politica, che Sergio Mattarella ha interpretato con appassionata coerenza per tutta la sua vita. Un servizio politico così lungo che, a ottant' anni, avrebbe voluto non concludere, ma rallentare, dandogli ritmo e intensità molto differenti. Lo sappiamo tutti, anche perché nel Messaggio di fine 2021 ce lo ha detto, con un sorriso e a chiare note, che si sentiva all'ultima riflessione e all'ultimo augurio da Presidente. E questo, ovviamente, anche per ragioni personali ma, soprattutto, per alto convincimento. Aveva spiegato che cosa l'abbia portato a mutare avviso rispetto a qualche decennio fa, argomentando che non è bene che Capi dello Stato che durano nella carica per sette anni vengano rieletti e che sarebbe stato ancora meno positivo se questo fosse avvenuto per due volte consecutive, dopo il bis imposto, in una impasse diversa e altrettanto seria, a Giorgio Napolitano nel 2013. Eppure, Mattarella si è inchinato all'indicazione pressoché unanime del Parlamento e dei delegati delle Regioni. E anche questa è una dimostrazione esemplare: andare oltre i limiti che si riconoscono e che si vorrebbe tener cari, proprio per il senso del proprio limite che porta a onorare un dovere urgente, stavolta simile a quello per cui - giusto un anno fa - chiamò Mario Draghi a governare il necessario e l'indispensabile con una coalizione giudicata impossibile. Si dice spesso, e in questi giorni lo si è fatto più volte per commentare lo sfiorire di ambizioni e di 'rose' e il moltiplicarsi delle spine sulla via del Quirinale, che in Italia alla Presidenza della Repubblica «non ci si candida, ma si viene candidati». Si dice, ma magari non ci si crede del tutto. Stavolta, però, non ci sono dubbi: è stato eletto il Non Candidato per eccellenza. E l'amplissimo consenso di ieri sera conferma che di scelta eccellente si è trattato. Più di qualcuno, magari, dirà che è stata anche la scelta disperata di leader politici che avevano sbagliato troppo e che rischiavano di mettere in crisi pure il governo Draghi, dopo aver discusso malamente, mentre si sgambettavano a vicenda, del trasloco dell'attuale premier al Colle. L'importante è che non abbiano sbagliato tutto. L'Assemblea, del resto, aveva cominciato a votare 'Mattarella' in crescendo e senza aspettare permessi dai gran capi. Generali che, al sesto giorno di giri a vuoto, si sono accodati infine alle truppe parlamentari (memori forse di quel sindacalista francese che sentenziò: «Sono il loro capo, perciò li seguo»). Alcuni più acciaccati di altri. Altri meno. Altri ancora per nulla. Ma questo è un bilancio che qui, oggi, non interessa fare. Questo è davvero un bel giorno per l'Italia, grazie al Parlamento e al nostro Presidente».

POLITO. LA CRISI DEI PARTITI

Traccia invece un bilancio Antonio Polito sul Corriere della Sera che analizza la crisi dei partiti.

«Ora che tutti i reduci si issano sulle trincee, laceri e contusi, per sventolare la bandiera e cantare vittoria, ci sono due modi più intelligenti di festeggiare lo scampato pericolo. Il primo è alzare gli occhi al cielo e ringraziare ancora una volta il santo protettore dell’Italia; il secondo è abbassare lo sguardo sulle macerie fumanti della battaglia che hanno ingaggiato, e fare il conto dei morti e dei feriti, per cominciare a capire come si possa ricostruire un edificio politico bruciato fino alle fondamenta, un sistema ormai patologicamente non più in grado di prendere decisioni. Il paesaggio è irriconoscibile. Il centrodestra non c’è più. E stavolta non è una metafora, è una constatazione. Per molto tempo non vedremo più su un palco insieme Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Il tweet della leader di Fratelli d’Italia delle 11.38 di ieri mattina, «Non voglio crederci», con cui ha salutato la decisione di Salvini di pregare Mattarella per un altro mandato, rimarrà a ricordarci data e ora del divorzio nella destra. L’immagine di Elisabetta Casellati che esce piegata e scossa dall’Aula del Senato, inseguita dall’ingiuria di una settantina di franchi tiratori, segna il momento fatale della ritirata. Il comunicato della sera di venerdì con cui Forza Italia annunciava che di lì in poi avrebbe trattato per sé, sanciva che non c’è più un Capitano. Salvini non è più il capo di niente, se non della Lega. E non è nemmeno chiaro fino a quando, dopo una tale sconfitta sul campo. Azzardiamo un pronostico: se continua così, una riforma elettorale in senso proporzionale diventa paradossalmente una necessità per Salvini e per Meloni: insieme non possono più stare. Ma pure il paesaggio del «campo largo» è devastato. Il surrogato di centrosinistra che Letta sperava di mettere in piedi per le prossime elezioni ha perso una delle due ruote del carro: Giuseppe Conte. L’ex avvocato del popolo, al momento culminante, ha sentito il richiamo della foresta, e ha tentato il colpo con Salvini e Meloni, in un’inedita alleanza verde-nero-gialla. L’incolpevole Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti candidata a capo dello Stato, è stata a un passo dall’essere usata per spaccare la maggioranza di governo e il Parlamento. Si deve alla prontezza di riflessi democratici di Matteo Renzi e Luigi Di Maio (ormai capo indiscusso della fetta più grossa dei Cinque Stelle), e anche alla resistenza nella notte della Repubblica di politici più sottotraccia, da Speranza a Franceschini, da Quagliariello a De Petris, da Toti a Tajani, se ieri mattina l’Italia non si è svegliata senza più un governo e senza ancora un capo dello Stato. Enrico Letta è riuscito a tenere insieme il Pd, e questo è già un miracolo; e soprattutto a salvare Draghi, anche se al governo e non al Quirinale come avrebbe voluto, evitando l’avventura. Il suo è stato un efficace gioco di rimessa, con una sola defaillance: l’esitazione di un paio di ore con cui ha aperto la strada all’ultima manovra Salvini-Meloni-Conte, offrendo loro nella lista il nome della Belloni. Al posto dei palazzi crollati, ci sono ora solo dei buchi, dei vuoti, in cui si potrà forse ricostruire, se si troveranno i materiali e gli architetti. Lo spazio più grosso è al centro. Venerdì notte Forza Italia e spezzoni centristi si sono riuniti per la prima volta in un’ideale «convention». Dall’esterno Matteo Renzi si è riconquistato una credibilità, ricucendo i rapporti con il Pd e tracciando il sentiero della resistenza alla destra. Si sa che l’ex «enfant prodige» avrebbe scelto Casini, e con lui i centristi di ogni risma, compresi quelli che alloggiano nel Pd come Franceschini. Ma può incassare il bis di Mattarella come un successo: in fin dei conti fu lui a sceglierlo sette anni fa, e non si era sbagliato. Dategli un proporzionale, e vi solleverà il Centro. Ma a ben vedere la vera grande sconfitta di questa settimana è un’idea della politica, che in nome del popolo si presenta da anni come nuova, diversa, irriverente, moderna, anti-politica; e che invece dietro la maschera ha dimostrato di essere solo una specie deteriore di politica, persino più bizantina, misteriosa e opaca della precedente, fatta di incontri notturni e di missioni segrete, che i media non a caso hanno finito col raccontare come si fa con le indagini sui delitti. Un’idea populista, che tratta il popolo non come sovrano ma come spettatore, e tenta di accattivarsene i favori a furia di conigli nel cilindro e colpi di teatro. Matteo Salvini ne è stato il massimo interprete per questo, anche oltre le sue responsabilità, esce come il vero perdente. Le carte che doveva dare se le è portate il vento, insieme alle rose, in una narrazione da casting televisivo, con il leader in giro per Roma a citofonare in cerca di candidati. Purtroppo c’è qualcosa di insito nel nostro sistema che rende inevitabilmente poco trasparente il processo di scelta del capo dello Stato, e non hanno torto coloro che se ne preoccupano e vorrebbero cambiarlo. Ma stavolta si è superato il limite. E però, come spesso accade, Dio ha accecato chi voleva perdere. E alla fine al Quirinale andrà un uomo che concepisce la politica democratica, per nostra fortuna, all’opposto. La serietà che avevamo invocato prima che tutto cominciasse, l’abbiamo avuta solo nell’esito finale. Visti i tempi, è già molto».

TRAVAGLIO. IL NUOVO NEMICO È LUIGI DI MAIO

Il Direttore del Fatto ne ha per tutti, ma è praticamente l’unico commentatore che vede in modo positivo la performance di Giuseppe Conte. In compenso ha trovato un altro Nemico: Luigi Di Maio.

«Se ci fosse il bicchiere, potremmo dire che è mezzo pieno, perché ci siamo risparmiati tutti i peggiori al Quirinale. Ma non è rimasto più nulla, neppure il bicchiere. Non è la "sconfitta della politica" (come cianciano i presunti nemici dell'"antipolitica"), perché alcuni politici hanno provato fino all'ultimo a darci una degna presidente della Repubblica. È la sconfitta degli italiani per mano degli altri politici che han fatto di tutto per impedirlo e, non avendo la forza di realizzare le loro cattive intenzioni, si contentano di bruciare le poche buone e buttare la palla in tribuna imbalsamando il Mattarella bis. Che ora tutti i lanciatori di cappelli spacciano per un proprio successo personale: peccato che non lo volesse nessuno (neppure l'interessato), tranne i gruppi parlamentari 5Stelle (per salvare le poltrone) e il pd Orfini. Mattarella (bis). Aveva ripetuto in tutte le salse di ritenere la rielezione una sgrammaticatura istituzionale, e lo è (per giunta con un tecnico al governo e un politico nell'unico posto dove non dovrebbe stare: la Consulta). Più sgrammaticato del bis ci sarebbe solo una presidenza a tempo in stile Napolitano per scaldare la poltrona a Draghi: speriamo che almeno quella ce la risparmi. Draghi. Forte (si fa per dire) dell'appoggio del potere finanziario-editoriale e dei suoi camerieri Letta sr. e jr., Di Maio, Giorgetti&C. (più Salvini, ma solo nei giorni pari), il premier ha provato con ogni mezzo a farsi incoronare presidente di una Repubblica presidenziale, travolgendo regole, prassi e buona creanza, a costo di spappolare la sua maggioranza e i relativi partiti e di esporre il governo e l'Italia alla tempesta. Ma non ce l'ha fatta: i primi sconfitti sono lui e i suoi trombettieri. Se la Casellati non avesse fatto peggio, la sua sarebbe la carica istituzionale più delegittimata. La ubris, nella tragedia greca e nella commedia politica, è un peccato mortale. Conte. Oltre a B., non voleva Draghi né gli invotabili Amato, Casini, Cartabia, Casellati, Cassese&C.: e li ha sventati, dando sponda al no di Salvini sul premier (nei giorni dispari). Come piano B, non gli dispiaceva il Mattarella bis invocato a gran voce dai gruppi M5S : e l'ha avuto. Il suo piano A erano tre nomi di livello e non di parte: Riccardi, Belloni e Severino. Ma giocava con due handicap: non poter votare nessuno dei candidati altrui e dover trattare col coltello di Di Maio conficcato nella schiena. Venerdì sera poteva fare strike dopo il vertice con Letta e Salvini, concordi sulla rosa che includeva la Belloni: l'unica candidata che non aveva veti da nessuno, anzi godeva da giorni dei consensi di tutto il centrosinistra e della Meloni, cui si era aggrappato in corsa pure Salvini dopo lo sfracello Casellati. Un compromesso "alto" e innovativo, gradito anche a Draghi ormai rassegnato a restare premier. Poi non la "crisi della politica", ma alcuni politici con nome e cognome - Letta, Di Maio, Tajani e Renzi - l'hanno sabotata e affossata per puri interessi di bottega. Gli elettori se ne ricorderanno, si spera. Salvini. Da quando qualcuno gli ha parlato del kingmaker senza spiegargli cosa sia, è rientrato in modalità Papeete senza mai azzeccarne una. Ha incenerito una dozzina di candidati, fino al capolavoro Casellati. Poi, per coprirne le tracce, ha avuto un lampo di lucidità sulla Belloni. Ma è stato un attimo. Ieri ha detto che il Mattarella bis è il suo trionfo: come no. Letta jr. C'è chi aveva diversi candidati, chi molti, chi troppi: lui non ne aveva nessuno. Anzi uno - Draghi - ma non poteva dirlo per non sfasciare il Pd e il centrosinistra. Ha chiesto un presidente condiviso tra i due poli, ha dato tre volte il via libera alla Belloni ("scelta onorevole") finché non s' è concretizzata e lì, quando l'hanno condivisa i due leader del centrodestra e quello del primo partito, l'ha bocciata perché lui voleva Draghi e Renzi, i renziani Pd e B. volevano Casini. Con i mirabili risultati di spaccare la maggioranza e il centrosinistra, apparire un po' meno responsabile di Salvini e far incazzare Mattarella. Ora dovrà spiegare agli eventuali elettori perché, grazie a lui, l'Italia non ha la sua prima presidente della Repubblica, ma lo stesso di prima. Meloni. Ha lasciato che Salvini girasse a vuoto fino a rintronarsi e schiantarsi, poi l'ha portato dove voleva lei: sulla Belloni. E s' è pure concessa il lusso di dare del sessista a Letta e di distinguersi dagli altri non votando Mattarella. Con B. al San Raffaele e Salvini al Papeete, si conferma l'unica testa pensante del fu centrodestra. Renzi. Esistendo ormai solo su tv e giornali, fino a un anno fa era il perfetto Demolition Man: infatti distrusse tre governi (tra cui il suo), il Pd, Iv e se stesso. Ora non riesce più neppure a demolire: la Belloni l'ha affossata il Pd. Ha sponsorizzato fino all'ultimo Casini (che non meritava, poveretto) escludendo il Mattarella bis, e ora finge di averlo voluto lui. Non fiori, ma opere di bene. Di Maio. È il Renzi dei 5Stelle. Beniamino dei giornaloni (quelli che gli davano del bibitaro), ma non più degli elettori (vedi insulti sui suoi social), ha giocato fin da subito per Draghi (che un anno fa voleva "uccidere in Parlamento"), contribuendo a mandarlo al massacro, contro il suo leader e il suo movimento. Ha incontrato, sentito e promesso voti a tutti, anche a quelli che quattro anni fa non voleva vedere neanche in cartolina. Ha definito "mia sorella" la Belloni, poi ha fatto di tutto per impallinarla. Per molto meno, se fosse ancora il capo dei 5Stelle, si sarebbe già espulso».

SALLUSTI. LA  DELUSIONE NEL CENTRO DESTRA

Nell’editoriale per Libero Alessandro Sallusti esprime tutta la delusione per l’epilogo.

«Chi più e chi meno, alla fine tutti tranne Giorgia Meloni, hanno calato le brache e addio nuovo Presidente della Repubblica, tanto più un primo presidente non di sinistra. Ci avevamo creduto e in questi giorni non lo abbiamo nascosto anche se, ora dopo ora, era chiaro che i giocatori in campo, pur impegnandosi, non erano in grado per mancanza di esperienza e in parte di numeri di raggiungere l'obiettivo. All'ultimo, un po' tutti, proprio in zona Cesarini come si dice nel calcio, hanno preferito - grazie a un intervento su Salvini di Silvio Berlusconi al quale perdere non è mai piaciuto - un pareggio a una sconfitta. Bene, ma a che prezzo per il Centrodestra? Sul terreno sono stati sacrificati sei illustri rappresentanti della classe dirigente (Pera, Moratti, Nordio, Frattini, Belloni, Cassese) la cui credibilità è stata bruciata in cambio del nulla, a terra resta la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, azzoppata e ridicolizzata vittima un po' di se stessa e un po' di chi l'ha illusa. Ecco, non era questo lo scenario che ci eravamo immaginati. Siamo onesti: è stato un disastro, non tanto per il risultato finale a quel punto inevitabile, ma per il modo pasticciato e a tratti imbarazzante con cui ci si è arrivati, tanto valeva per il centrodestra intestarsi da subito Mattarella o Draghi come era chiaro già da martedì. Un disastro le cui conseguenze non saranno indolori. Se fino a ieri Mario Draghi passava per un dittatore illuminato, da domani è possibile che si comporti da despota, probabilmente un bene per l'economia meno per la democrazia. Se fino a ieri si poteva immaginare una proficua collaborazione fra i tre parenti serpenti Meloni, Salvini e Berlusconi da domani - e chissà per quanto - l'attuale Centrodestra sarà una coalizione soltanto formalmente. E infine, se la quarta gamba del Centrodestra (Toti, Brugnaro e soci) si poteva sperare fosse una sicuro e leale compagno di viaggio, oggi sappiamo che per loro il Centrodestra è soprattutto un bus su cui salire solo per essere eletti governatori o sindaci. Può una coalizione oggi così messa candidarsi a guidare il Paese? Matteo Salvini avrà ancora la forza e l'autorevolezza per guidare il centrodestra essendosi giustamente intestato il comando delle operazioni? Non tocca a noi dare risposte, ma al più presto qualcuno dovrà darle. Perché il fatto che il ciclone Quirinale abbia travolto anche e di più sia i Cinque Stelle che la sinistra di Letta, che questa volta Matteo Renzi si sia perso nei suoi intrighi senza toccare una palla buona se non per stopparla è una amara consolazione. Auguri di buon lavoro al presidente Sergio Mattarella. Chissà quante dovrà vederne nei prossimi sette anni».

MATTARELLA BIS. CHE COSA FARÀ DRAGHI

L’elezione di Mattarella vista da Palazzo Chigi. Tommaso Ciriaco per Repubblica.

«Fino all'ultimo, Mario Draghi ha tentato di conquistare il Quirinale. Ma fino all'ultimo, ha anche considerato la conferma di Sergio Mattarella come l'alternativa migliore - forse addirittura l'unica davvero in grado di ammortizzare l'eventuale fallimento della scalata al Colle. «La rielezione di Sergio Mattarella - dice non a caso a sera il premier - è una splendida notizia per gli italiani. Sono grato al Presidente per la sua scelta di assecondare la fortissima volontà del Parlamento di rieleggerlo». C'è un prima e un dopo, questo è ormai evidente. Perché l'ex banchiere esce ammaccato dal tornante e intende spendere i prossimi dodici mesi per rilanciare quell'immagine di decisionismo e pragmatismo indebolita dalla sfida per il Colle. E infatti adesso che la polvere della battaglia inizia a depositarsi, Palazzo Chigi lascia intravedere il profilo del premier che sarà: basta compromessi - almeno questo è l'impegno elaborato nelle ore amare in cui si è dissolto il "progetto Quirinale"- basta mediazioni al ribasso come quelle pretese negli ultimi mesi dai partiti, massimo impegno sulle riforme facendo leva sull'ombrello garantito da Mattarella. C'è un prima e un dopo, dicevamo. Il momento della presa di coscienza risale al pomeriggio di venerdì. Dopo la mortificazione di Maria Elisabetta Casellati, il capo dell'esecutivo viene messo al corrente di una dinamica parlamentare ormai inevitabile: nessuno controlla più le coalizioni, nessuno può garantire la tenuta dei grandi elettori. Senza un patto largo tra tutte le forze del Parlamento, il rischio è quello di finire impallinato dai franchi tiratori. E infatti, la candidatura dell'ex numero uno della Bce non finirà mai in Aula. Da venerdì pomeriggio, insomma, parte rilevante delle energie dell'ex banchiere si concentra sul "dopo". Prende forma anche lo slogan con cui supportare l'azione dell'esecutivo e l'immagine del presidente del Consiglio, che è anche la lettura politica per affrontare la nuova fase: il "Paese dei due Presidenti". Saranno loro, è la tesi, a traghettare l'Italia fuori dalla tempesta. E sempre a loro è affidata la difesa di un quadro che i partiti, litigiosi e deboli come mai finora, hanno dimostrato di non saper gestire. In realtà, la partita politica si farà d'ora in avanti più complessa. Le coalizioni, intrappolate sotto le macerie di queste elezioni, promettono tensioni future e nuovi strappi. Un assaggio arriva quasi immediatamente, quando ancora è in corso lo scrutinio per il bis di Sergio Mattarella. Giancarlo Giorgetti lascia intendere di volersi dimettere. Parte la caccia all'interpretazione del gesto, anche e soprattutto nella galassia "draghiana". Proprio Draghi chiede al leghista di posticipare ogni scelta, per non indebolire subito un esecutivo che ha bisogno vitale di mostrarsi solido, compatto e pronto a ripartire. Il ministro dello Sviluppo accetta una breve tregua, ma secondo diverse fonti leghiste starebbe comunque meditando l'addio. Da mesi è stanco delle battaglie con Salvini, deluso dai molti errori, esausto perché incastrato in una posizione impossibile, tra la leadership del segretario e il rapporto solido con Draghi. Se è vero che il premier non ha intenzione - non per il momento, almeno - di mettere mano alla squadra di governo, è altrettanto vero che nessuno immagina un film uguale a quello andato in onda fino ad ora. Inevitabile, visto che alcuni dei ministri hanno osteggiato apertamente l'elezione del capo dell'esecutivo al Quirinale. Draghi, però, metterà davanti a tutto la necessità di ricompattare una squadra sfibrata da settimane durissime. E così facendo, proverà a difendere la formula di unità nazionale, in attesa di capire l'evoluzione della resa dei conti nella Lega e nel Movimento. Non cambierà i suoi ministri, insomma. O meglio: lo farà se e quando lo riterrà, non perché glielo chiedono le forze di maggioranza. E si dedicherà a quello che ritiene di sapere fare meglio: elaborare soluzioni. Negli ultimi tre mesi diversi nodi non sono stati sciolti e il premier deve e vuole occuparsene. Il Pnrr resta la bussola, ovviamente, ma le pensioni rappresentano un terreno minato da affrontare presto e con decisione. Farà tutto quel che serve per risolvere la questione dei balneari e dell'ecobonus, su cui Carroccio e 5S avevano posto veti e frenato ogni soluzione drastica. In fondo, è la filosofia che l'aveva guidato per tutta la prima fase. E che tornerà, anche a costo di progressivi strappi. L'obiettivo è rafforzare l'immagine di protagonismo in Europa, a cui Draghi tiene molto e a cui non intende rinunciare».

Leggi qui tutti gli articoli sul Quirinale di domenica 29 gennaio:

https://www.dropbox.com/s/y0iok43y826bryf/Articoli%20La%20Versione%20SPECIALE%20QUIRINALE%2030%20gennaio.pdf?dl=0

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