La Versione di Banfi

Share this post

La Scala chiede il bis a Mattarella

alessandrobanfi.substack.com

La Scala chiede il bis a Mattarella

Alla prima del Macbeth, ovazione dei milanesi al Presidente. Ci ripenserà? Patrick Zaki sarà scarcerato dopo 22 mesi di carcere. Colloquio di due ore fra Biden e Putin. Dire Buon Natale è inclusivo

Alessandro Banfi
Dec 8, 2021
3
Share this post

La Scala chiede il bis a Mattarella

alessandrobanfi.substack.com

Patrick Zaki tornerà libero. La decisione di ieri è del Tribunale egiziano di Mansoura, dove è comparso lo studente bolognese. Il processo contro di lui non è concluso. La prossima udienza è fissata a febbraio, ma la sua scarcerazione, dopo 22 mesi di detenzione ingiusta, è un’ottima notizia. Ci sarà tempo per capire i motivi della decisione, ma certo la pressione internazionale dell’opinione pubblica e il lavoro del nostro governo avranno pesato. Lo si capisce dal sobrio commento di Luigi Di Maio. Grande gioia a Bologna, il Quotidiano Nazionale registra la soddisfazione dell’arcivescovo Matteo Zuppi. Prossima tappa: il ritorno di Patrick ai suoi studi universitari bolognesi.

Fronte pandemia. Il Super Green pass si sovrappone alle folle e al traffico pre-natalizio delle città. Oggi è la festa dell’Immacolata. E tuttavia tutto sembra filare liscio: i controlli, a campione, sono lusinghieri per i cittadini, in pochi fanno i furbi, statistiche alla mano. Numeri ancora record per lo scaricamento dei nuovi certificati e delle vaccinazioni. Sulla stampa economica e su quella internazionale si rincorrono voci ottimistiche sulla variante Omicron, che sarebbe più contagiosa ma molto meno letale. Le Borse, che per prime erano state sensibili all’allarme, stanno recuperando quasi tutto il terreno perso dieci giorni fa. Aspettiamo dati più certi, incrociando le dita.

Sarà stata l’influenza risorgimental-nazionale di Giuseppe Verdi, o sarà stata la sovrapposizione fatale fra il gergo della platea e la circostanza istituzionale (si sono udite grida di “Bis, bis!!!” quantomai in tema), ma insomma la prima della Scala, ieri sera, è apparsa come una consacrazione d’affetto per Sergio Mattarella. Il Presidente uscente piace assai e la Milano di Sant’Ambrogio ha santificato San Sergio. Ci ripenserà il Presidente? Improbabile. Ma certo una cosa sono i giochi di Palazzo, tutt’altra il sostegno sincero della popolazione. I Milanesi imbruttiti (“Taaac!”) vogliono il bis. Interessante il commento di Ugo Magri sulla Stampa: “Ecco che cosa significa l'applauso a Mattarella: in questi sette anni è stato fissato uno standard. E dal momento che l'uomo non intende tornare sui suoi passi, i grandi elettori del prossimo presidente dovranno scegliere qualcuno con le stesse caratteristiche, che prosegua sulla stessa strada”.

È durato due ore il colloquio fra i due Presidenti, Biden e Putin, sulla crisi dell’Ucraina. Il fatto stesso che si siano parlati fa sperare e nei prossimi giorni si capirà quanto di reale c’è nel tentativo di allentamento della tensione. Una tensione che coinvolge tutta l’Europa, a cominciare dalla Polonia e dalle Repubbliche baltiche. Si tratta di scongiurare una nuova guerra.

A conclusione della Versione oggi, tre interventi su temi che coinvolgono la Chiesa cattolica. Sofri commenta le parole del Papa sull’aereo di ritorno da Cipro e Grecia. Sempre sul Foglio nuovo intervento di Tondi della Mura sulle nuove regole per Cl. E infine bell’intervento del filosofo Mazzarella dalle colonne di Avvenire sugli auguri di Buon Natale, che la Ue aveva sconsigliato. Augurare Buon Natale è inclusivo!

È sempre disponibile un episodio da non perdere nel mio podcast Le Vite degli altri realizzato per Chora Media e con Vita.it, grazie al sostegno della Fondazione Cariplo. È intitolato: LA CITTÀ TORNA MIA. Racconta la storia di Rebecca Spitzmiller, un’americana diventata italiana e romana al 100 per cento, che ha creato dal nulla un’associazione oggi diffusa in tutta Italia. Si chiama Retake ed è un’esperienza di recupero della città dal degrado e dalla sporcizia. Lei, Rebecca, ha cominciato dal muro del suo palazzo a Roma. E ora l'associazione può contare sull'aiuto di diverse persone nelle principali città italiane. Nell'ottobre di sette anni fa ha fondato Retake insieme ad altri. Da allora offre la possibilità di diventare volontari del bello e insieme responsabili del proprio ambiente. Da domani NONO EPISODIO EPSLOSIVO, ANZI VULCANICO, torneremo a Scampia per un’altra grande esperienza. Cercate questa cover…

… e troverete Le Vite degli altri su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spotify, Apple Podcast, Google Podcast... cliccate su questo indirizzo e ascoltate l’ultimo episodio disponibile e potrete anche ritrovare tutti gli altri:

https://www.spreaker.com/user/13388771/le-vite-degli-altri-rebecca-retake-v2

Trovate questa VERSIONE anche domattina nella vostra casella di posta entro le 8. Vi ricordo che potete scaricare gli articoli integrali in pdf nel link che trovate alla fine. Consiglio di scaricare subito il file perché resta disponibile solo per 24 ore. Scrivetemi se volete degli arretrati. Fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

NOTA BENE: Oggi siamo lunghi, scegliete che cosa leggere grazie ai capitoletti…

Vediamo i titoli.

LE PRIME PAGINE

Soddisfazione sulla stampa italiana per il destino dello studente egiziano di Bologna ingiustamente accusato. Il Corriere della Sera annuncia: Ora Zaki può tornare in libertà. Mentre la Repubblica riporta la sua battuta da dietro le sbarre: Zaki sarà libero. “Sto bene, grazie Italia”. Domani ricostruisce in modo completo la vicenda: Dalle accuse alle torture: tutti i misteri del caso di Patrick Zaki. Il Manifesto ironizza e festeggia a modo suo: Libertà d’Egitto. Si parla anche dello sciopero del 16 dicembre nelle aperture dei quotidiani. Il Giornale avverte: La sinistra si spacca sui sindacati in sciopero. La Stampa riporta una dichiarazione del segretario della CGIL: Landini: Draghi condizionato dai partiti. Vanno invece sul positivo, e cioè sull’accordo delle parti sociali sul lavoro da remoto il Quotidiano Nazionale: Fissate le regole dello smart working. Il Mattino: Lavoro da casa, le nuove regole. E anche il Messaggero: Lavoro agile, ecco le linee guida. Il Sole 24 Ore è ancora sul fisco: Lavoro dipendente, ecco quanto vale il doppio taglio a contributi e Irpef. Il Fatto apre sulla corsa al Quirinale, notando il rischio di ingorgo istituzionale nel caso fosse eletto al Colle l’attuale presidente del Consiglio: Se Draghi va al Colle, 3 premier in un mese. La Verità punta contro le norme anti Covid: Il super pass funziona così bene che progettano altri lockdown. Libero polemizza con un’immagine diffusa da un attivista LGBT: L’Europa cambia sesso perfino alla Madonna. Due titoli da non trascurare sulla variante del virus, il finanziario MF nota: La variante la fanno i mercati. Omicron fa meno paura e i listini corrono. Il New York Times in prima pagina nell’edizione internazionale sostiene: Prime notizie su Omicron: potrebbe essere meno letale. A proposito di Usa, Avvenire è l’unico giornale che apre sulla crisi ucraina e il dialogo fra i due Presidenti: Biden avvisa Putin.

PATRICK ZAKI SARÀ SCARCERATO

 Finisce un incubo. Patrick Zaki verrà scarcerato e manda questo messaggio: "Grazie Italia, sto bene". Lo studente di Bologna è stato 22 mesi in cella in Egitto e per lui il processo continua. Ci sarà una nuova udienza a febbraio. Francesca Caferri per Repubblica.

«Un urlo, quello della sorella Marise. Gli applausi di gioia degli amici. E poi la mamma, Hala, in tribunale per la prima volta da mesi, che quasi sviene e deve essere tenuta in piedi dal marito. Non è nell'angusta aula del tribunale di Mansoura, a due ore di auto a Nord del Cairo, che si consuma l'ultimo - per ora - atto della vicenda giudiziaria che ha visto come protagonista Patrick Zaky. Ma nei corridoi fuori dalle aule, fra venditori ambulanti di tè e biscotti e avvocati in attesa di discutere cause di furto o divorzio. Tutto, ieri mattina, è avvenuto in fretta. Patrick è stato il primo degli imputati ad entrare e dalla gabbia degli imputati ha ringraziato l'Italia: «Sto bene, grazie». Venti minuti di dibattimento e poi via all'attesa, snervante, come sempre. Un caso dopo l'altro, mentre dalle panche gli amici e la fidanzata - presente per la prima volta in aula - cercavano di scambiare qualche parola con lui. «Non abbiamo fatto nessun piano per il futuro. Vogliamo solo che torni a studiare. Sappiamo che l'università di Bologna gli ha riservato un posto anche se il corso è ufficialmente finito: lo sa anche lui. E pensa solo a tornare lì», sussurrava lei, pregando di non usare il suo nome perché frequenta un master all'estero: l'associazione con questa storia potrebbe essere pericolosa. Poi, improvvisa, la svolta. Un funzionario fa sgomberare l'aula: escono tutti, compresi i diplomatici dell'ambasciata italiana e quelli di quella canadese e americana che li hanno accompagnati per monitorare il procedimento. Fuori, davanti alla porta, l'uomo pronuncia la parola che tutti aspettavano. Ekhka Sabil, rilascio. Lo studente egiziano dell'università di Bologna da 22 mesi in carcere con l'accusa di aver diffuso notizie false e dannose contro il Cairo può uscire. La gioia esplode. E non conta se la libertà è provvisoria, se non potrà viaggiare e se il procedimento contro di lui non è chiuso e il 1 febbraio dovrà tornare per rispondere nel merito delle contestazioni. Ciò che importa è che almeno per il momento potrà tornare a casa (anche se non è chiaro quando verrà effettivamente scarcerato), da quella famiglia e da quegli amici che non hanno mai smesso di combattere per lui. Quando arriva l'annuncio, Patrick è lontano da tutti, nelle celle del piano terra del tribunale: con gli occhiali dorati alla Harry Potter, la divisa bianca da carcerato e i capelli raccolti in una coda sopra la testa, come quando lo avevamo incontrato a settembre, era stato portato via dall'aula non appena la sua avvocatessa, Hoda Nasrallah, aveva finito di presentare al giudice le sue richieste. Vestita di scuro come sempre, Nasrallah ieri mattina si è mostrata più decisa che mai. Per la prima volta una settimana fa era riuscita ad entrare in possesso delle carte che l'accusa aveva accumulato in questi mesi di procedimento contro Patrick. Dentro, non aveva trovato praticamente nulla: l'articolo in difesa dei copti uscito sul giornale on line Daraj nel 2019. E generici riferimenti a post su Facebook e alle ricerche sulla diversità di genere che Patrick aveva condotto per l'ong Eipr. Prove inconsistenti, che l'avevano convinta a non presentare una vera difesa, ma piuttosto una serie di richieste al giudice: l'acquisizione dei filmati delle telecamere dell'aeroporto del Cairo la sera dell'arresto, per provare le torture subite dal ragazzo. La testimonianza del fratello del soldato copto morto nel Sinai di cui Patrick parla nel suo articolo, per dimostrare che il testo non conteneva menzogne. La condivisione da parte dell'accusa dei post attribuiti allo studente e che lui ha sempre negato di aver scritto. Il giudice questa volta l'ha ascoltata: e si è preso fino al primo febbraio per decidere. Non solo, ma in maniera del tutto inattesa ha scarcerato l'imputato. Cosa abbia provocato la svolta è difficile da capire, nella complessa realtà egiziana. Nelle ultime settimane le pressioni della società civile si erano moltiplicate, con l'università di Bologna in prima fila e Amnesty International che aveva mobilitato cinquanta piazze in tutta Italia alla vigilia dell'udienza. Pochi giorni fa, il migliore amico di Patrick, Ahmed Mansour, aveva lanciato tramite Repubblica un appello a nome della famiglia perché il governo aumentasse la pressione sul Cairo. Ed è possibile che un intervento deciso di Roma ci sia stato, come indicano le parole affatto sorprese del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e dal premier Mario Draghi subito dopo l'annuncio. «Primo obiettivo raggiunto: Patrick Zaky non è più in carcere. Adesso continuiamo a lavorare silenziosamente, con costanza e impegno», ha scritto Di Maio. Mentre da Palazzo Chigi una nota sottolineava che la vicenda «è seguita con la massima attenzione». Non a caso il padre di Zaky ringrazia l'Italia: «Vi siamo grati per quello che fate». Ma polemiche e diplomazia ieri sera fra il Cairo e Mansoura non erano arrivate: le lacrime della mamma Hala avvinghiata all'avvocatessa Nasrallah davanti alla porta del tribunale dicevano tutto. Patrick presto sarà a casa: la guerra non è vinta, ma la battaglia sì. E per la prima volta da 22 mesi per la famiglia George Zaky è in arrivo un po' di serenità».

La gioia del cardinal Zuppi, arcivescovo di Bologna, raccontata dal Quotidiano Nazionale.

«La 'nonna', 33 quintali e 427 anni di età, aspetta di essere lasciata cantare nella cattedrale di San Pietro, a pochi passi dalle Due Torri: servono ventitré marcantoni per smuoverla. E' la campana più grande: «Per ora suoniamo il cuore, si sentirà comunque», dice il cardinale Matteo Zuppi. Chissà quando Patrick Zaki potrà sentire la campana. E i cuori: «E' un nostro figlio. E fratello. Lo aspettiamo», continua don Matteo, come tutti lo chiamano qui. Dal primo giorno Bologna s' è mobilitata per il suo studente. Comune, Università, Diocesi, associazioni, studenti, normali cittadini. Pochi conoscevano il master Gemma, il primo Erasmus che si occupa di studi di genere. «Non ci fermeremo finché non sarà assolto», dice la prof Rita Monticelli. E non è un caso che nelle imperiose aule nel cuore dell'Alma Mater, così come fra i gargantueschi grattacieli medievali di Asinelli e Garisenda, ma anche in Piazza Maggiore, o nei centri sociali della periferia, s' incontri l'immagine (sagome di cartone, striscioni, maxi pannelli) di un ragazzo coi riccioli e la barbetta, avvolto da un filo spinato disegnato da Gianluca Costantini. Da sconosciuto ad amico. «Continuiamo a lottare», dicono il rettore Giovanni Molari e il sindaco Matteo Lepore. Cardinale Zuppi, Zaki sarà scarcerato. «E' una grandissima gioia». Fin dall'inizio lei ha seguito le vicende dello studente. Come mai? «La detenzione era un grande dolore per tutti. Ora non abbiamo risolto tutto, anzi. Ma la città e la gente di Bologna sperano sia fatta giustizia. Al più presto». Zaki è stato nei pensieri dei fedeli. «Abbiamo pregato per lui. E per tutti coloro che nel mondo si trovano in condizioni di difficoltà e restrizione delle libertà personali. In un certo senso, Zaki è un simbolo. La Chiesa lo ha seguito con attenzione». Perché è un cristiano? «La sua famiglia è cristiana copta. Ma questo non cambia nulla: anche se fosse stato di un'altra religione, avremmo messo la stessa attenzione». Uno degli articoli di Patrick di cui si è parlato molto, riguarda proprio i problemi dei cristiani copti in Egitto. «Quello che è davvero encomiabile in Patrick è l'attenzione agli ultimi. L'impegno per l'uguaglianza. Uno stimolo per noi. Porto sempre la sofferenza di Patrick nel mio cuore, è un cittadino di Bologna, è nostro fratello». Attorno a Zaki si è stretta un'intera comunità. «Vicinanza. Amore. Fratellanza. E' entrato dentro ciascuno di noi. Zaki è un ragazzo. Ma ci ha dimostrato una cosa». Cosa? «Quanta solidarietà possa muoversi attorno a una vicenda di giustizia. Perché qui parliamo di giustizia, è incontrovertibile: non ha lasciato nessun cuore freddo, non ha lasciato nessuno indifferente. Ci ha fatti riscoprire comunità, uniti». L'attesa, le torture, la violenza psicologica, le vessazioni, i tempi infiniti: c'è qualcosa di Giobbe e della Bibbia nella storia di Patrick Zaki? «Patrick ci insegna tanto. Ha trovato una sua risposta, la scarcerazione, che non è la fine dell'incubo. Ma mi rincuora sapere che potrà riabbracciare i propri cari. Patrick è, soprattutto, la perseveranza. La dimostrazione che l'attenzione per la difesa degli ultimi non è mai inutile». E adesso? «Sono fiducioso. Ho la speranza di vederlo, qui a Bologna. Di riabbracciarlo. Patrick è un bolognese, è uno di noi. Ci ha fatto scoprire una solidarietà, una sensibilità diffusa per i diritti civili. I diritti civili non devono mai essere messi in discussione, speriamo che questa sensibilità porti altri frutti».

CON I VACCINI “22 MILA VITE” SALVATE

«I vaccini hanno risparmiato 22 mila vite». I dati di Brusaferro relativi ai primi 9 mesi del 2021 parlano chiaro. Andrea Capocci per il Manifesto.

«I vaccini hanno risparmiato decine di migliaia di vite umane solo in Italia. Lo ha detto Silvio Brusaferro, il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss), intervenendo in audizione presso a commissione Affari Costituzionali del Senato. «Secondo i dati più recenti, grazie alla copertura vaccinale a partire dalla primavera scorsa si sono potuti evitare 445 mila casi, 79 mila ricoveri e 9.800 ammissioni in terapia intensiva, oltre a 22 mila decessi», ha spiegato agli onorevoli. Sono numeri davvero importanti, che tuttavia hanno solo attutito le conseguenze della pandemia, che finora ha fatto registrare in Italia oltre 134 mila vittime. Eppure, 22 mila decessi in meno sono un numero altrettanto impressionante e che dovrebbe far riflettere chi sostiene che «i vaccini non funzionano». Anche se si tratta solo di una stima probabilistica. Il calcolo lo hanno fatto i ricercatori dell'Iss sulla base dell'efficacia dimostrata sul campo dai vaccini, e si riferisce al periodo gennaio-settembre 2021. Lo studio è contenuto nell'ultimo numero della rivista di epidemiologia Eurosurveillance. Com' è prevedibile, la fascia d'età che ha maggiormente beneficiato dei vaccini è quella degli ultrasettantenni: delle 22 mila vittime risparmiate, quasi ventimila sono in questo gruppo. Circa la metà dei decessi evitati si sarebbero localizzati nel nord Italia, che da solo vale circa la metà del totale delle vittime. Come tutte le stime, anche questa ha un'incertezza e 22 mila vittime è solo il valore più probabile. Se il vaccino si rivelasse più efficace del 10% di quanto ipotizzato dagli scienziati, le vite risparmiate sarebbero addirittura 48 mila. In caso contrario, potrebbero essere anche meno di quattordicimila. La stima citata da Brusaferro, dunque, è persino prudenziale. E non risente di un pregiudizio nazionalistico, sebbene Brusaferro e l'Iss abbiano dettato le strategie anti-pandemia del governo italiano e potrebbero avere l'interesse a ingrandire i successi delle proprie decisioni. Infatti, sullo stesso numero di Eurosurveillance è presente un altro studio che riguarda tutti i paesi europei e giunge a conclusioni simili. A firmarlo sono i ricercatori dell'ufficio europeo dell'Oms e dell'Ecdc, che non rispondono al governo italiano. Secondo i ricercatori, i morti evitati grazie ai vaccini sarebbero 35 mila, ancora più dei 22 mila stimati dall'Iss. Il surplus si spiega facilmente: la ricerca dell'Oms esamina solo gli ultrasessantenni ma si estende fino alla fine di novembre. Copre dunque anche il periodo in cui, senza vaccini, avremmo con molta probabilità assistito a una quarta ondata analoga a quella del 2020, che fece registrare un picco di quasi mille decessi al giorno. Anche in questo caso non si tratta di dati gonfiati ad arte per far fare bella figura all'Italia. Secondo i dati Oms, Francia (38 mila decessi evitati), Spagna (89 mila) e Regno Unito (185 mila, Scozia compresa) hanno beneficiato dei vaccini ancora più di noi in termini assoluti. In proporzione alla popolazione, invece, Islanda, Scozia, Israele e Norvegia sono i Paesi dell'area europea (a cui fa riferimento anche Tel Aviv per le politiche sanitarie) in cui la percentuale dei decessi evitati è stata più elevata (maggiore dell'80%). A ulteriore conferma dei numeri comunicati da Brusaferro giunge un terzo studio, compiuto da un gruppo di ricercatori italiani guidati dal fisico ed epidemiologo Alessandro Vespignani ma tutti attivi nelle università di Greenwich (Regno Unito), Boston e Bloomington (Usa). Lo studio è stato pubblicato in rete, ma non ancora valutato da una rivista scientifica. Secondo loro, nei primi sei mesi del 2021 i vaccini avrebbero salvato 29 mila vite umane, con una forchetta compresa tra i 16 mila e i 42 mila decessi in meno. Sono cifre molto vicine a quelle dell'Iss. Le statistiche ufficiali tuttavia, misurano solo 14 mila decessi in meno tra i 74 mila del 2020 e i 60 mila del 2021. Le statistiche relative alla prima ondata del 2020, però, sono largamente incomplete, perché tra i decessi ufficiali dovuti al Covid e quelli registrati all'anagrafe in eccesso rispetto allo stesso periodo del 2019 vi è una differenza di circa ventimila persone. Si tratta in gran parte di persone decedute per Covid nelle prime settimane dell'epidemia, quando il coronavirus travolse il sistema sanitario lombardo e migliaia di persone morirono senza aver ricevuto un test diagnostico. Senza i vaccini, inoltre, l'ondata autunnale che si è scaricata sui paesi dell'est Europa avrebbe colpito anche l'Italia. E il tributo di vite umane pagato alla pandemia sarebbe stato ben più alto».

Sì, ma chi controlla? Domanda ossessiva, su cui ironizza nella sua rubrica quotidiana sulla prima della Stampa Mattia Feltri.

«Una delle domande più frequenti da inizio pandemia è: sì ma chi controlla? C'era il lockdown, bisognava restare in casa e uscire soltanto per inderogabili necessità e tutti: sì ma chi controlla? (E infatti controllavamo che il vicino non uscisse troppo spesso col cane). Arrivò il Natale, ricordate le regole su quanti ospiti fossero consentiti? Quanti congiunti e che si intendesse per congiunti? E subito: sì ma chi controlla? E poi col Green Pass al ristorante e ora il Super Green Pass sul tram, di nuovo, sì ma chi controlla? Le sacrosante inquietudini per le limitazioni della libertà non sembrano toccare i più, propensi piuttosto a un bel regime militare. Sì ma chi controlla? Si vorrebbe un soldato per ogni italiano, ed è curioso perché è un'aspirazione applicata soltanto al Covid. Per guidare l'automobile è necessario essere provvisti di patente e mica te la chiedono al casello, e a nessuno salta in testa di dire: sì ma chi controlla? Tantomeno per le tasse, obbligatorie quanto la mascherina in ascensore. Lì siamo tutti più liberisti di Von Hayek: lo Stato si fidi e stia alla larga. Sarà la strizza, ma se si parla di Covid chiunque sembra dimenticare che le democrazie stabiliscono le regole e si dà per scontato che i cittadini le rispetteranno. Se poi qualcuno non le rispetta, ci saranno delle conseguenze solo se per caso lo si scopre. Nelle democrazie non c'è bisogno di sentinelle, e ne abbiamo avuta la centesima riprova ieri: di centoventimila controllati (pochissimi) erano senza Super Green Pass in un migliaio scarso (niente), meno dell'uno per cento. Il regime militare non c'è, ma noi sembriamo un esercito».

LO SCIOPERO DEL 16 DIVIDE LA SINISTRA

La mobilitazione del 16 dicembre, decisa da Cgil e Uil, spiazza la sinistra. Il segretario del Pd Enrico Letta lancia un appello: "Serve unità". Giovanna Casadio per Repubblica.

«Siamo preoccupati per la tenuta sociale del Paese. Oggi serve unità, e serve anche al fronte sindacale». Enrico Letta lancia un appello. Nel rispetto dell'autonomia del sindacato, che il segretario del Pd tiene sempre a rimarcare, lo sciopero generale del 16 dicembre annunciato da Cgil e Uil - e a cui la Cisl è contraria - certifica non solo uno strappo nel sindacato, ma è anche un boccone amaro per la sinistra e i Dem. Il Pd è spiazzato: non è il momento di scendere in piazza, nel pieno di una nuova ondata di pandemia e di tensioni crescenti tra le forze politiche in vista del voto per il Quirinale. Peppe Provenzano, vice di Letta, ieri ha sentito Landini e Bombardieri per tentare una mediazione. Dice che il partito non si dà per vinto: fino all'ultimo cercherà di ricostruire il dialogo. E il segretario dem ribadisce: «Lavoriamo per ricomporre le fratture». Anche il governo si muove. Un'ipotesi a cui si sta lavorando per scongiurare lo sciopero è quella di aumentare il fondo sul caro-bollette, aggiungendo ai 2,8 miliardi già previsti altri 800 milioni. La posta in gioco è alta. L'accusa del sindacato al governo Draghi di avere varato una manovra che manca di equità, dà la misura della distanza con il centrosinistra. Il giudizio del Pd è positivo, lo esprime Antonio Misiani, responsabile economia dei Dem: «La manovra è espansiva e finanzia misure sociali importanti, dalla riforma degli ammortizzatori sociali alla sanità, al reddito di cittadinanza, all'università». E sul taglio dell'Irpef, la nota più dolente per i sindacati, Misiani sostiene che «sarebbe stato preferibile sterilizzarlo per i redditi più elevati, ma il 90% degli sgravi va a favore dei primi tre scaglioni di reddito e le buste paga di oltre dieci milioni di lavoratori dipendenti beneficeranno nel 2022 di un miliardo e mezzo di decontribuzione. L'ultima cosa che possiamo permetterci è una stagione di conflitti sociali». È una frattura non facile da ricomporre tra un centrosinistra, "sorpreso" e "sconfortato", e il sindacato. La sottosegretaria all'Economia, Maria Cecilia Guerra, di Leu, ammette a proposito di equità: «I temi del lavoro precario, delle pensioni, dell'equità fiscale, che Cgil e Uil pongono possono trovare solo in parte accoglimento nella legge di Bilancio, ma dovranno essere oggetto di confronto tra governo e parti sociali. Nel contesto attuale, con una maggioranza così eterogenea, la legge di Bilancio, grazie anche al nostro impegno, dà già importanti segnali nella direzione del sostegno al welfare, dalla sanità al contrasto alle diseguaglianze ». E se la sinistra promette che in Parlamento si può migliorare la manovra, sono pochi i leader che pensano di andare in piazza con i sindacati. Loredana De Petris, senatrice capogruppo del Misto, di Leu, è pronta a battersi in aula e in piazza. «Sarò con il sindacato? Sì, certo. La goccia che ha esasperato la situazione è stato lo stop in Consiglio dei ministri del contributo di solidarietà per le bollette». Stessa opinione del presidente dei deputati di Leu, Federico Fornaro, che però in piazza non va: «Non protesto contro il governo che sostengo». Cgil e Uil sembrano aprire uno spiraglio e in una conferenza stampa congiunta si dichiarano disponibili a un confronto con il governo prima dello sciopero. Ma contestano il metodo usato finora («Il confronto se ci deve essere, deve essere vero») e il merito («La riforma è espansiva? Ma per chi?»). Quanto alla decisione di proclamare lo sciopero da soli, Landini e Bombardieri spiegano: «Non andiamo in piazza contro le altre organizzazioni sindacali, contro la Cisl, ma per sostenere quello che tutti insieme abbiamo detto in questi mesi di mobilitazione il sindacato è unitario ma ci divide la sensibilità sulle risposte». La Cisl di Sbarra invece ritiene «sbagliato scioperare e radicalizzare il conflitto». Mancano ancora otto giorni allo sciopero. Il tavolo con il governo potrebbe riprendere se arrivasse un segnale sulla manovra. «Ogni margine per ricucire un rapporto prima dello sciopero generale deve essere sfruttato», invita la sottosegretaria Guerra».

Dario Di Vico sul Corriere della Sera scrive un editoriale in cui critica la scelta dell’astensione dal lavoro decisa da Cgil e Uil. Il principio sindacale sarebbe del tutto autoreferenziale: “Sciopero ergo sum”.

«Toccherà ai più sofisticati studiosi della modernità controversa tentare di classificare questo strano sciopero perché-non-c'è-abbastanza visto che a noi comuni mortali la dichiarazione di Maurizio Landini e Pier Paolo Bombardieri ha lasciato di stucco. Nella tradizione del sindacalismo italiano la scelta di indire uno sciopero generale non è stata mai presa a cuor leggero tanto che dalla fine dagli anni 80 a oggi se ne contano attorno a 15. Eppure i segretari generali di Cgil e Uil hanno voluto giocare questa carta, hanno accettato scientemente di spaccare l'unità sindacale senza che fosse nato un vero casus belli. Sulle pensioni, infatti, è previsto un tavolo di negoziato, sugli ammortizzatori sociali il governo ha messo soldi e la discussione è ancora aperta, sulla precarietà proprio in questi giorni si è venuti a conoscenza di una direttiva europea sulla gig economy molto favorevole alle tesi sindacali, e sulla riforma della tassazione il governo Draghi, dopo tanto tempo, è intervenuto ridisegnando le aliquote. Concedendo così alla fascia di reddito tra i 30 e i 35 mila euro «una riduzione che vale alla stregua di un raddoppio della tranche contrattuale», come ha messo in evidenza il segretario della Fim-Cisl, Roberto Benaglia. Senza quindi avere in mano una piattaforma chiara e incisiva, e comunque rapportata alla gravità della decisione presa, la grande Cgil e la piccola Uil chiederanno ai lavoratori di incrociare le braccia mentre l'attenzione del Paese è concentrata sulla nuova campagna di vaccinazione e mentre il mondo politico attende con ansia crescente il voto per designare il successore di Sergio Mattarella. Anche il timing, dunque, congiura contro la decisione di Landini e Bombardieri che di conseguenza appare corroborata da una sola motivazione: sciopero ergo sum. Si tratta di una scelta tesa a difendere i presunti diritti (di veto) delle organizzazioni, non a tutelare le persone. La salvaguardia della macchina sindacale con i suoi riti e le sue contraddizioni prevale e due delle tre trade unions italiane non fanno altro che scegliere la strada percorsa in passato dai partiti. La sopravvivenza dei gruppi dirigenti prima di tutto. Nei comizi del 16 dicembre i leader di Cgil e Uil grideranno di volere rinverdire i fasti della concertazione e di scioperare anche per questo motivo. Ma in realtà è stato proprio Landini a chiudere da subito la strada all'ipotesi di un programma condiviso lanciata nell'assemblea di Confindustria di fine settembre e fatta propria all'istante dal premier Mario Draghi. Solo il raggiungimento di un patto tra le parti sociali avrebbe avuto la forza di imporre in sede di riforma fiscale, ad esempio, un robusto intervento sul cuneo contributivo. Solo il prestigio che sarebbe derivato loro dalla ritrovata coesione (dopo il precedente positivo del protocollo comune anti-Covid) avrebbe permesso alle rappresentanze di imprenditori e sindacati di imporre le proprie scelte ai partiti che sorreggono il governo in Parlamento. In mancanza di quest' elaborazione e di una buona pratica da «coalizione delle relazioni industriali» le parti sociali non possono che arrendersi in buon ordine al primato della rappresentanza universalistico-parlamentare. La verità è che al di là delle confuse dinamiche che stanno portando all'approvazione della legge di Bilancio, il sindacalismo confederale italiano sembra aver perso la bussola. Appare un viandante incerto e malfermo sulle gambe. Alle politiche attive del lavoro sembra preferire quelle passive e nessuno dei grandi fenomeni che caratterizza questa fase di trasformazione del processo produttivo, dalla tenuta delle filiere al mismatch tra offerta e domanda di lavoro, dalla contraddizione di avere una manifattura di caratura europea e un terziario low cost per finire al governo delle grandi transizioni digitale ed ecologica, vede un'elaborazione originale da parte delle confederazioni. Quando succede qualcosa di veramente innovativo, come è accaduto diversi anni fa per i primi accordi di welfare aziendale e di recente con la revisione dell'inquadramento professionale dei metalmeccanici, è la contrattazione dal basso o di categoria a lanciarli e non certo la fantasia delle segreterie confederali. In più, come si è visto con le esitazioni e lo scetticismo praticato durante la prima campagna vaccinale, Cgil e Uil hanno perso la cultura di sistema dei loro grandi leader del passato, dei Lama e dei Benvenuto, e sono diventati meri gruppi di pressione. Anche la democrazia interna lascia sempre più a desiderare, laddove una decisione pesante come quella dello sciopero generale è stata presa in fretta e furia dai gruppi dirigenti romani senza quell'adeguata e trasparente consultazione delle strutture di base che avrebbe conferito alle scelte della strana coppia Landini-Bombardieri tutt' altra legittimazione».

Conferenza stampa di Maurizio Landini per spiegare lo sciopero indetto con la Uil. Il segretario della Cgil dice tra l’altro: “Non possiamo pagare noi il prezzo delle trattative all'interno della maggioranza”. La cronaca della Stampa.

«Il dialogo con il governo non è interrotto, si può riprendere in ogni momento. Siamo pronti a confrontarci su tutto, prima e dopo lo sciopero generale, ma ci devono essere cambiamenti molto forti: dalle tasse alle pensioni. Lo sciopero è uno strumento che serve proprio a portare a casa qualcosa». Maurizio Landini, nel corso della conferenza stampa convocata per spiegare le ragioni dello sciopero del 16 dicembre, lascia una porta aperta al confronto con Mario Draghi. Accanto a lui, il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri cerca di minimizzare le divisioni con la Cisl: «Non c'è un sindacato unico in questo Paese, ci sono storie e sensibilità diverse. Io sono sicuro che riprenderemo il percorso unitario». Prima di lasciare l'albergo vicino al Tesoro dove ha incontrato i giornalisti, il leader della Cgil, pensando di parlare a taccuini spenti, si sfoga con i pochi rimasti. E mette subito nel mirino il premier Mario Draghi. «Come dice Bombardieri, andate a rileggere quello che diceva Draghi sulla riforma del fisco quando ha chiesto la fiducia al Parlamento. Vedrete che non c'è coerenza tra quello che sosteneva e quel che ha fatto». Landini non lo dice esplicitamente, però il tema è evidente: il presidente del Consiglio non ha mantenuto la promessa. Ha dovuto mediare con i partiti? «È stato eletto sul quel programma. Se poi ha dovuto mediare con gli altri, il prezzo non lo possiamo pagare noi». Il problema principale è che la revisione dell'Irpef pensata da esecutivo e maggioranza non assicura la progressività: «Deve cambiare tutto il senso della riforma - dice - per noi le quattro aliquote non vanno bene perché premiano chi guadagna tanto, non quelli che prendono poco. Basta guardarsi in giro in Europa, in Germania non funziona così, c'è un sistema progressivo». Per avvalorare la sua tesi il segretario della Cgil cita più volte la Banca d'Italia, l'istituzione di cui Draghi era governatore e dentro cui ha scelto i profili a cui affidare i posti chiave del governo, come il ministro dell'Economia Daniele Franco. «Bankitalia ha chiesto di fare detrazioni e decontribuzioni a partire dai redditi più bassi perché non è questo il momento di agire sulle aliquote». Landini snocciola cifre, dati che, precisa, «ci hanno fornito a Palazzo Chigi». Quindi, «le persone con un reddito di 20mila euro cosa se ne fanno di 50 euro in più? E allo stesso modo che senso ha dare 300 euro a chi arriva a 80mila euro l'anno? Non è una cifra che cambia la vita. Se io do 4-500 euro a chi prende 10mila euro invece lo aiuto davvero». Tuttavia, questa riforma «sbagliata» dà «10 euro a chi ne prende 10mila e 900 sopra i 60mila». Landini allarga le braccia e alza la voce: «A me non sembra normale, non è corretta una manovra che non si preoccupa di chi sta peggio. Neanche sotto tortura direi mai che una cosa così funziona». Quando il premier, incontrando Cgil, Cisl e Uil, la settimana scorsa avanzò la proposta del contributo di solidarietà per i redditi superiori ai 75mila euro, sterilizzando il loro beneficio fiscale per dirottare quei soldi nella lotta al caro bollette, «io gli dissi che non ero contrario, coglievo la novità, ma evidenziai che il mio giudizio complessivo sull'intervento sul fisco non sarebbe cambiato». In sostanza, Landini ammette che molto probabilmente lo sciopero generale sarebbe stato proclamato lo stesso. «Questo lo avremmo deciso al direttivo della Cgil, ma è una misura che non avrebbe modificato la nostra valutazione». Lo show di Landini prosegue davanti ai pochi presenti, con evidente preoccupazione dello staff. Il segretario è un fiume in piena, nessuno riesce a interromperlo. Anche Bombardieri che è accanto a lui fa fatica a intervenire. Il numero uno di Corso Italia dà una definizione secca del pacchetto fiscale inserito in legge di bilancio: «Con quel provvedimento non si mette in campo una redistribuzione di otto miliardi. Bensì si ipotizza una riforma ingiusta che non affronta il problema della progressività perché non allarga la base imponibile e riduce il numero delle aliquote in modo sbagliato». E soprattutto «il rischio è che diventi la base della riforma del fisco», spiega riferendosi alla delega che giace in Parlamento. Questo significa che «l'attuale governo e tutti quelli che verranno dopo devono sapere che quella riforma non la faranno mai con il nostro consenso. Se riescono a farla ugualmente, auguri, ma non con noi. E la gente deve capire cosa sta succedendo. La politica si assumerà le responsabilità di ciò che sta facendo». Nonostante le dichiarazioni pubbliche sul dialogo, Landini non crede che ci sia ancora spazio per negoziare su imposte e cuneo fiscale. L'esecutivo non ha ancora depositato l'emendamento su Irpef e Irap al Senato e probabilmente non lo farà prima della prossima settimana. Eppure per il leader della Cgil il ritardo non è un segnale: «Ci hanno telefonato per comunicarci in modo molto chiaro che la trattativa è finita, nessuno ci ha detto che si poteva discutere ancora. Per me la partita è chiusa».

Ma sullo smart working il dialogo sociale ha funzionato. Intesa sul lavoro agile: stessa paga e benefit ma niente straordinari. Giusy Franzese per il Messaggero.

«Ci speravano un po' tutti. Ma con l'improvvisa virata di Cgil e Uil verso la protesta di piazza sulla manovra, un accordo adesso sullo smart working nel settore privato non era poi così scontato. È andata bene: l'intesa è arrivata. Tutte le 26 parti sociali, tra rappresentanti dei lavoratori e rappresentanti dei datori di lavoro, convocate in videoconferenza dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, hanno dato il via libera al Protocollo sul lavoro agile. Un risultato importante per il contenuto stesso dell'accordo, ma anche per «il metodo del dialogo sociale», come ha sottolineato Orlando. «Un metodo - continua il ministro - da proseguire e riutilizzare perché di fronte alle sfide che abbiamo davanti è davvero importante creare il massimo della coesione, dell'unità, della convergenza degli interessi in vista di un punto di equilibrio che corrisponde agli interessi di carattere generale». E non è un caso che - nel contesto di una soddisfazione generale da parte di tutte le parti sociali - sul metodo si concentri anche il commento di Confindustria, da mesi promotrice di un patto sociale di cui per adesso si sono perse le tracce: l'accordo sul lavoro agile - dice Maurizio Stirpe vice presidente di Confindustria con la delega a lavoro e relazioni industriali - «è la prova che, quando le parti sociali esercitano il proprio ruolo, e il governo si rende disponibile a costruire con loro una adeguata sintesi, i risultati si ottengono in tempi brevi e senza inutili polemiche. Mi auguro che sia una esperienza replicabile, l'inizio di una stagione feconda, pragmatica. Focalizzata sulle cose da fare». E veniamo ai contenuti dell'intesa, tenendo ben presente che non si tratta di una legge, ma di un accordo tra le parti sociali che deve poi essere recepito nella contrattazione nazionale di primo o secondo livello. È una cornice di riferimento, sono linee guida. Significa che se un'azienda non vuole aderire non è obbligata per legge. Un rischio che esiste, anche se, essendo stato firmato da ben 26 organizzazioni, è remoto. A ogni modo per schivarlo nello stesso accordo si prevedono incentivi per le imprese che adotteranno il Protocollo nella contrattazione di secondo livello. LE NUOVE REGOLE Le nuove regole sono contenute in otto pagine e sedici articoli. E partono dal presupposto che il lavoro agile, esploso durante la pandemia per far fronte alle tante restrizioni, sia «diventato un tassello sempre più strutturale dell'organizzazione del lavoro» ed è capace di «migliorare il benessere della persona e l'organizzazione aziendale». Il Protocollo fissa una serie di principi importanti. Primo tra tutti: l'adesione allo smart working deve avvenire su base volontaria e serve un accordo scritto tra datore di lavoro e azienda. L'eventuale rifiuto del lavoratore non potrà essere motivo di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, né rileva sul piano disciplinare. Il patto tra azienda e lavoratore deve prevedere la durata dello stesso accordo sul lavoro agile (a termine o a tempo indeterminato) e l'alternanza tra i periodi di lavoro all'interno e all'esterno dei locali aziendali. L'azienda potrebbe anche chiedere - per motivi di sicurezza dei dati aziendali - l'esclusione di alcuni luoghi di lavoro frequentati da pubblico estraneo (tavolino di un bar, ad esempio). A chi lavora da remoto l'azienda non può tagliare lo stipendio: «Lo svolgimento della prestazione in modalità agile - si legge nel Protocollo - non deve incidere sugli elementi contrattuali in essere quali livello, mansioni, inquadramento professionale e retribuzione del lavoratore». Il principio vale per i «premi di risultato riconosciuti dalla contrattazione collettiva di secondo livello» e per «le forme di welfare aziendale e di benefit previste dalla contrattazione collettiva e dalla bilateralità». Non ci deve essere nessuna discriminazione tra lavoratore in presenza e lavoratore in smart working nemmeno relativamente alle «opportunità rispetto ai percorsi di carriera, di iniziative formative e di ogni altra opportunità di specializzazione e progressione della propria professionalità». NIENTE MAIL IN FERIE Per principio il lavoro smart «si caratterizza per l'assenza di un preciso orario di lavoro e per l'autonomia nello svolgimento della prestazione nell'ambito degli obiettivi prefissati». Ovviamente il lavoratore in smart dovrà coordinarsi con il suo responsabile che potrà comunque prevedere delle fasce orarie. Non è previsto lavoro straordinario. Un punto dolente emerso durante la sperimentazione di massa dello smart working è quello relativo alla richiesta di disponibilità continua da parte dei capi verso i propri collaboratori in smart. Non sarà più possibile. Il protocollo prevede esplicitamente che nell'accordo tra azienda e lavoratore siano individuate fasce di disconnessione, durante le quali il lavoratore può ignorare telefonate, messaggi, mail e richieste varie del proprio capoufficio. Il diritto alla disconnessione vale sempre nei periodi di assenza legittima dal lavoro (malattia, ferie, permessi, ecc.). A proposito di permessi: anche il lavoratore in smart working può richiedere «ove ne ricorrano i relativi presupposti», la fruizione dei permessi orari previsti dai contratti collettivi o dalle norme di legge quali, a titolo esemplificativo, i permessi per particolari motivi personali o familiari, come quelli della legge 104 del 1992. È inoltre garantita la tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Il Protocollo istituisce anche un Osservatorio nazionale bilaterale di monitoraggio».

QUIRINALE 1. LA SCALA VORREBBE IL BIS

Più della musica, che Sergio Mattarella ama, più dei bei costumi e delle arie della Netrebko, parliamo della prima della Scala di ieri sera come grande evento politico. È già successo in questo Paese. La cronaca di Marzio Breda sul Corriere.

«È un applauso interminabile, sei minuti, quello che rimbalza dalla platea ai palchi della grande sala del Piermarini all'arrivo di Sergio Mattarella. Non dovrebbe stupirlo troppo. Gli è già capitato altre volte di esser destinatario di un omaggio così fragoroso, alla Scala. Per esempio il 7 dicembre 2018, quando lo si vide congedarsi dal pubblico tutto in piedi ad acclamarlo e lui, con un visibile imbarazzo, abbassava le mani come per dire «grazie, grazie, basta così». L'ovazione di ieri sera è però molto diversa, perché la cadenzano anche richieste urlate di un «bis» che non hanno nulla a che fare con la musica, come succede di solito. Quella richiesta di replica (perché questa è la traduzione letterale di bis) va ben oltre gli attestati di stima, vicinanza e di affetto. Ha un preciso significato politico. Sottintende infatti la speranza che possa accettare una rielezione considerata quasi unanimemente come provvidenziale per l'Italia. Si dirà che il pubblico del teatro milanese rappresenta soprattutto una borghesia alta che poco ha a che vedere con il popolo. E che non sarà la Scala a dare l'investitura al prossimo presidente. Tutto vero. Ma un certo valore simbolico lo ha la circostanza che le urla per il bis vengano in particolare dal loggione, sede interclassista dei melomani. E poi, come si è verificato nei mesi scorsi, conterà pure qualcosa che a incalzare il capo dello Stato con la stessa identica richiesta sia sempre e soprattutto la gente comune, la più diversa: attori, cantanti, scolaresche che lo incrociano per strada, insegnanti, operai, medici. Il perché lo conosciamo: siamo ancora schiacciati da ondate di pandemia da Covid-19 e con una ripartenza economica cominciata bene, sì, ma da perfezionare e consolidare. Ecco il motivo per il quale moltissimi italiani coltivano la speranza di vedere ancora Mattarella al Quirinale per un secondo mandato, in tandem con Mario Draghi a Palazzo Chigi. Perché loro due sono, congelati insieme ai loro posti, una garanzia di continuità per la definitiva messa in sicurezza del Paese. Una luce nel buio di questi anni difficili. Tuttavia, si sa, il dodicesimo capo dello Stato ha ripetutamente e fermamente escluso questa possibilità, per almeno tre motivi: 1) perché è contraria allo spirito, anche se non alla lettera, della Costituzione; 2) perché l'eccezione di Giorgio Napolitano, l'unico suo predecessore a essere stato rieletto, era appunto un'eccezione che, in quanto tale, non può diventare una consuetudine; 3) perché, oltre al fatto che non può esistere una monarchia repubblicana, «nessuno è davvero insostituibile», come sembra si sia sfogato con gli intimi. Pressato da sentimenti popolari e convenienze di partiti estenuati dal gioco del potere che è inutilmente in corso ormai da mesi, il presidente si ritrova ad ascoltare adesso nuovi appelli sussurrati davanti a lui, tra un atto e l'altro del Macbeth . Il direttore d'orchestra, Riccardo Chailly, lo saluta assieme ai musicisti commentando il caldo applauso del teatro con un malizioso doppio senso: «Le hanno chiesto il bis come ai grandi cantanti, ed è rarissimo alla Scala». Lo stesso fa, con deferenza obliqua, la senatrice a vita Liliana Segre: «Al Quirinale l'anno prossimo vorrei un presidente come Mattarella», frase a interpretazione semplice, dato che un alter ego mattarelliano non c'è. Analoghi auspici indiretti pare gli siano accennati da altre personalità che lo salutano nell'anticamera del palco reale: da Giorgio Armani all'étoile Roberto Bolle, accomunati nell'esprimere «dispiacere» all'idea che Mattarella lasci il Colle. Il sindaco Beppe Sala, che aveva pronosticato «un grande tributo» al capo dello Stato, si premura di ricordare le tante visite a Milano di Mattarella. Ha ragione, sono state 25, a riprova di un rapporto molto saldo con la città come con il resto della Lombardia. Un legame che ha segnato il riconoscimento del ruolo di questa terra nelle trasformazioni culturali, economiche e sociali del Paese».

Marco Iasevoli nell’editoriale di Avvenire interpreta la richiesta popolare del bis come un’esigenza di unità costituzionale del Paese.

«Il senso di unità che il Paese può riscoprire intorno all'istituzione e alla persona del suo Presidente è un patrimonio che la Repubblica non può disperdere per beghe partitiche. I sei minuti di applausi tributati ieri a Sergio Mattarella dalla Scala di Milano si aggiungono alla lunga ovazione del San Carlo di Napoli di pochi giorni fa, e suonano da Sud a Nord come un monito a leader impegnati in infiniti e stucchevoli giochi tattici: il Colle più alto non è proprietà dei capipartito, non è nemmeno nelle disponibilità esclusive dei 1.008 delegati che tra poco più di un mese si riuniranno nell'aula di Montecitorio, e che mai come in questa circostanza dovranno mettere da parte interessi parziali e farsi interpreti intelligenti delle necessità e dei sentimenti della gran parte dei concittadini. Dalle case della cultura di Milano e da Napoli, ma anche dalle scuole e dalle università che Mattarella sta visitando a conclusione del settennato, si avverte con chiarezza che nell'era di partiti fragilissimi e ondivaghi la figura del capo dello Stato rappresenta quel filo, insieme sottile e resistente, a cui si aggrappano le migliori energie e la residua speranza che questo Paese possa davvero e finalmente cambiare. Le ovazioni vanno dunque seriamente assorbite dai partiti come un messaggio politico. Non rappresentano invece una lusinga personale al capo dello Stato. Non gonfiano l'ego, ne siamo certi, di un Presidente che ha fatto di una umanità sincera e mai esibita la cifra del settennato. E non possono cancellare così, di colpo, come un'onda emotiva, le solide motivazioni istituzionali che Mattarella ha sinora opposto all'ipotesi della rielezione, che tanti problemi risolverebbe a leader gravidi di proclami e poveri di soluzioni e di metodo. Quel «bis» che i cittadini gli chiedono deve fare i conti con una profonda riflessione che Mattarella ha già compiuto circa i rischi di trasformare l'eccezione in normalità, l'emergenza in ordinario. Già questa logica dello stato di eccezione permea troppi aspetti della vita sociale ed economica, radicarla nelle istituzioni fondamentali può essere un vantaggio a breve termine, ma un danno pesante a medio-lungo termine. L'ipotesi della rielezione va quindi quantomeno ricacciata nel suo luogo originario: l'ultima faticosissima istanza cui si ricorre solo ed esclusivamente per evitare un oggettivo baratro al Paese. Quell'appello - «bis, presidente» - va dunque preso, al momento, nel suo dato possibile: l'avvenuta completa identificazione tra il profilo umano e politico (europeista, solidale, costruttivo, razionale, realista) laicamente espresso dal cattolico democratico Mattarella e l'istituzione della Presidenza della Repubblica. È una traccia ai partiti - tutti - per cercare con responsabilità una «continuità istituzionale» senza chiedere, e quasi pretendere, comode 'exit strategy'. O almeno provarci sinceramente, cosa che sinora non è accaduta».

Alessandro Sallusti evoca la tragedia del Macbeth, per consigliare Mattarella di non farsi tirare per la giacchetta.

«La crème della borghesia italiana, convenuta ieri alla prima della Scala ha votato: il prossimo Presidente della Repubblica deve essere Sergio Mattarella. Al suo ingresso nel palco reale del teatro dei teatri, Mattarella è stato accolto da un lunghissimo applauso sfociato poi in un coro "bis, bis, bis", dove la richiesta di replicare non era per l'opera - il Macbeth di Verdi - che ancora doveva iniziare bensì per il settennato presidenziale che sta per finire. Per una volta il sentire dell'élite non appare poi così lontano da quello del popolo che su Mattarella ha mediamente un giudizio altrettanto positivo. Ma anche se è vero che la politica italiana, soprattutto negli ultimi anni, assomiglia molto a una operetta, il parlamento non è un teatro e la democrazia ha un copione che non può essere stravolto più di tanto. Sette anni, dice la Costituzione, e salvo comprovate emergenze sette deve durare il mandato. Difficile sostenere che se la sinistra non ha in questo giro i voti per eleggere un suo candidato allora siamo in emergenza per cui avanti con chi c'è. Dura sostenere che siccome alla lotteria del voto segreto potrebbe uscire un presidente di Centrodestra allora l'emergenza è doppia e Mattarella va inchiodato alla poltrona. Avere e dimostrare affetto e stima per Sergio Mattarella, come ha fatto ieri il popolo della Scala è come faremo anche noi in qualsiasi circostanza, non significa non avere affetto e stima per la democrazia che, probabilmente non a caso, stabilisce per sua tutela che Mattarella debba lasciare la poltrona del colle più alto a qualcun altro. Il primo a essere convinto di ciò è proprio il Presidente, che più volte di recente ha ribadito la sua indisponibilità a rimanere. Ma da qui al voto, previsto per i primi giorni di febbraio, applausi, lusinghe e appelli al bis si moltiplicheranno mettendo a dura prova la coerenza dell'attuale Capo di Stato. Che immaginiamo ben conosca la trama, scritta da William Shakespeare, del Macbeth a cui ha assistito ieri. Che in estrema sintesi mi perdoneranno i melomani e i colti racconta dei catastrofici effetti della ricerca del potere per il proprio interesse personale. Rischio da cui, ne siamo certi, Mattarella è lontano anni luce. Ma non altrettante certezze abbiamo nei riguardi di chi oggi lo vuole tirare per la giacca».

Ugo Magri sulla Stampa non crede che Mattarella cambierà idea ma quegli applausi sono un messaggio chiaro:

«È piuttosto improbabile che Sergio Mattarella si lasci condizionare dalla standing ovation ricevuta alla Scala. Le ragioni per cui non concederebbe un bis sono note a tutti e, in fondo, anche a quanti ieri gli chiedevano di restare: dopo l'eccezione di Giorgio Napolitano, che venne rieletto in circostanze straordinarie, il secondo mandato diventerebbe una regola, col rischio di trasformare la Repubblica in una specie di monarchia. Al solo pensiero Mattarella inorridisce, e questa sua convinzione esige rispetto. È chiaro che non siamo davanti a un puntiglio immotivato. Ma nello stesso tempo è impossibile ignorare il sentimento di cui il tempio italiano della musica si è fatto interprete. In 75 anni di democrazia non era mai successo che il presidente uscente venisse acclamato da un teatro intero. A nessuno, neppure al popolarissimo Sandro Pertini, era stato chiesto con tanto calore di ripensarci, di rimanere al suo posto. Per l'uomo Mattarella accomiatarsi così è una gran bella soddisfazione. Legittima quel sentimento che tutti provano dopo un lavoro ben fatto, al termine di una missione nel suo caso per niente scontata. Non era facile cavarsela in una stagione dominata dai populismi, dai sovranismi, dagli istinti primordiali, da leader spesso insofferenti alle regole del gioco che questo signore dalle maniere gentili ha saputo mettere al posto loro e accompagnare alla porta, l'uno dopo l'altro. Mai una chiacchiera sul suo conto o su quello dei suoi collaboratori. Uno stile presidenziale ispirato alla sobrietà (qualcuno per caso ha incontrato Mattarella nei salotti romani dove si fanno raccomandazioni e affari?). Una predicazione assertiva, magari perfino troppo, dei cosiddetti valori civili. E infine, quasi a smentire chi gli contestava un eccesso di prudenza, la scelta di Mario Draghi per tentare l'impossibile. In attesa che su Mattarella si pronunci la critica, il pubblico lo ha già giudicato. E le forze politiche farebbero un grave errore a sottovalutare questo segnale che arriva da Milano. Se c'è qualcosa che dannatamente stride con la standing ovation della Scala sono le manovre piccole e grandi della corsa al Quirinale. Mentre i partiti cercano un bandolo della matassa, e ogni giorno che passa questa più si aggroviglia, il Paese fa udire la propria voce reclamando figure di garanzia da tutti rispettate, non intriganti ma capaci di intervenire quando serve e, al momento giusto, di lasciare senza rimpianti la propria poltrona. Ecco che cosa significa l'applauso a Mattarella: in questi sette anni è stato fissato uno standard. E dal momento che l'uomo non intende tornare sui suoi passi, i grandi elettori del prossimo presidente dovranno scegliere qualcuno con le stesse caratteristiche, che prosegua sulla stessa strada».

QUIRINALE 2. SE È DRAGHI, VA ELETTO PRIMA DEL 3 FEBBRAIO

Il Fatto intervista Gaetano Azzariti, costituzionalista, che a differenza di tanti suoi colleghi (ieri aveva parlato Cassese in questo senso) ritiene che non sarebbe affatto pacifico che una volta eletto Draghi al Colle possa fare lui le consultazioni per il nuovo governo. Per Azzariti c’è almeno un limite temporale.

«Molti esponenti politici prevedono e vogliono Mario Draghi al Quirinale. Ma Gaetano Azzariti, docente di Diritto costituzionale all'Università Sapienza di Roma, ha più di qualcosa da eccepire: "Nulla da dire sull'autorevolezza di Draghi, molto apprezzato anche a livello internazionale, sebbene non possa nascondersi che una tale scelta potrebbe sottoporre a stress il sistema politico. E sarebbe esclusiva responsabilità dei partiti".

Ritiene una forzatura eleggere per la prima volta al Colle un presidente del Consiglio in carica?

Avrà pure un senso il fatto che si tratterebbe del primo caso. I presidenti della Repubblica sino ad ora eletti sono state figure di grande esperienza politica o di grande competenza tecnica, ma in nessun caso impegnati nella prima linea del governo al momento della loro elezione. Tutte le difficoltà procedurali di cui si parla in questi giorni riflettono una situazione poco meditata. Leggo di esponenti politici secondo i quali Draghi dovrebbe continuare al Colle il proprio lavoro, e ciò dimostra incultura costituzionale. Il capo dello Stato è colui che deve verificare l'operato dei governi: sovrapporre la funzione di governo con quella di garanzia è preoccupante.

Poniamo che Draghi venga eletto: come si eviterebbe una crisi di governo incontrollabile?

Un sistema politico accorto avrebbe solo una via. La Carta stabilisce che le Camere devono essere convocate 30 giorni prima della scadenza del mandato del presidente della Repubblica in carica. Se non vogliamo trovarci in un grave imbarazzo istituzionale Draghi dovrebbe essere eletto in brevissimo tempo, nella prima votazione, per permettere a Sergio Mattarella di procedere alla nomina del nuovo governo entro la scadenza del suo mandato, prevista il 3 febbraio. E il presupposto politico è un accordo per la nomina di Draghi al Colle ma anche di un suo successore a capo del governo. Tutto dovrebbe avvenire prima del 3 febbraio, ossia prima che l'attuale presidente del Consiglio assuma le funzioni di capo dello Stato, altrimenti sorgerebbero conflitti difficilmente districabili.

Mattarella potrebbe dimettersi appena eletto Draghi.

A mio avviso sarebbe inopportuno: Mattarella dovrebbe prima risolvere la crisi di governo.

Altrimenti sarebbe Draghi a nominare il suo successore a Palazzo Chigi…

Proprio per questo non auspico le dimissioni di Mattarella.

Se Draghi gestisse la crisi, sarebbe un conflitto di interessi?

Mi limito a dire che sarebbe sicuramente inopportuno, anche se per lui sarebbe di certo un obbligo costituzionale gestire la crisi una volta assunte le funzioni presidenziali. Evitare questa situazione non dipende da Mattarella e da Draghi ma dal sistema politico, che dovrebbe fare di tutto per evitare di sottoporre a stress il sistema costituzionale.

Draghi al Quirinale comporta dei rischi, insomma.

Anziché delle persone, si dovrebbe discutere dei difficili compiti che dovrà svolgere il prossimo presidente. Stiamo eleggendo un garante politico della Costituzione per i prossimi sette anni, che saranno sicuramente turbolenti dal punto di vista sociale, perché il post emergenza per il Covid e il rilancio dell'economia non saranno un pranzo di gala, ma anche da un punto di vista istituzionale, visto che il prossimo Parlamento dovrà essere rivoluzionato in conseguenza del taglio dei parlamentari. Dovremo cercare un presidente che rappresenti l'unità nazionale, ma che sia anche attento che tutti i prossimi cambiamenti avvengano nel perimetro della Carta tuttora vigente.

E un bis di Mattarella?

Esprimo un fortissimo apprezzamento per la sensibilità costituzionale di Mattarella, l'unico che si rende conto del fatto che la rielezione di un capo dello Stato sarebbe un vulnus difficilmente recuperabile. Non perché sarebbe incostituzionale, e infatti c'è il precedente di Giorgio Napolitano. Ma gli equilibri costituzionali si fondano su regole e precedenti. Una seconda rielezione al Colle consoliderebbe una prassi che è meglio non affermare».

QUIRINALE 3. I PARTITI HANNO RINUNCIATO ALLA POLITICA?

Riflessione non banale del giurista Carlo Galli per Repubblica. Un vero nodo della corsa al Colle è che i partiti danno l’impressione di aver rinunciato alla politica.

«L'importanza del Capo dello Stato è ovvia, in quanto è il rappresentante simbolico della nazione e il detentore di un grande potere regolatore informale. Ma oggi la sua elezione si è caricata di significati politici ulteriori: è divenuta il terreno di prova per la definizione di alleanze, e di una possibile ripresa del ruolo politico dei partiti, dopo che di fatto non hanno gestito l'emergenza Covid e sono stati "commissariati" da un presidente del Consiglio esterno a essi, come Draghi. Ma se le grandi manovre per la presidenza vogliono essere l'avvio di una stagione di rinnovato protagonismo dei partiti, si comincia male: le forze politiche non sembrano in grado né di trovare un accordo né di imporre un uomo a maggioranza. La ridda di nomi che viene fatta circolare è segno di debolezza e confusione, oltre che funzionale a bruciare questo o quello. C'è quindi il rischio che aumenti il discredito in cui i partiti versano, e che il messaggio politico ai cittadini sia di ancora maggiore debolezza e casualità. E per di più è possibile che se sarà eletto Draghi alla presidenza la coalizione di governo si spacchi e si vada a elezioni (anticipate o no) senza che non si veda il varo di una nuova legge elettorale e la modifica dei regolamenti di un Parlamento che uscirà indebolito dall'amputazione, di sapore populista, a cui è stato sottoposto. In realtà, per dimostrare la propria esistenza in vita e la propria utilità, i partiti non avrebbero che l'imbarazzo della scelta, se volessero davvero fare politica. Il Paese è impegnato in un'emergenza che non passa, che sfibra parte della popolazione e che alimenta vecchie e nuove difficoltà di tenuta della società - insicurezza e paura impattano sulla qualità delle vite individuali e della convivenza e hanno ovvi riflessi nel rapporto con le istituzioni, anch'esse di fatto trasformate durante la pandemia. La ripresa economica, pur ottima, esibisce interne contraddizioni che non mancheranno di pesare socialmente (resta aperta la questione-salari, e la qualità dell'occupazione lascia a desiderare, mentre la non-occupazione rimane alta, soprattutto fra le donne e al Sud). C'è poi un problema formativo enorme non solo per la Dad ma (al di là della buona volontà dei singoli) per il disorientamento del mondo scolastico e universitario su modalità e finalità dell'istruzione e della ricerca. Ci sono questioni internazionali che ci interpellano da vicino, a livello geopolitico e geoeconomico - dai rapporti con il Nord-Africa a quelli con la Ue, dalle questioni poste dalla Russia alla qualità della leadership degli Usa. C'è da gestire una transizione economica verso un modello produttivo verde o almeno carbon neutral, che avrà anche ripercussioni occupazionali. Lo spazio per un'azione politica di analisi, ideazione, proposta, dibattito, conflitto, c'è - ben al di là del Pnrr. E se la politica implica un discorso pubblico su mezzi e fini dell'azione collettiva, sull'orientamento del potere, si impone anzi, come sempre e più che mai, la necessità della politica. Il nostro Paese ha conosciuto fasi di forte impegno politico quando i partiti erano in grado di inquadrare obiettivi chiari: la ricostruzione postbellica, il passaggio al centrosinistra, la lotta al terrorismo, l'ingresso nell'euro. Quello che manca oggi è l'individuazione non propagandistica di obiettivi per governare una fase di transizione dagli sbocchi imprevedibili - come se la politica si esaurisse, a sinistra, in episodiche prese di posizione sui diritti individuali e, a destra, nella rendita elettorale derivante dal disagio sociale: è da questa mancanza che nasce un'offerta politica provvisoria, fluttuante, emotiva, superficiale, che disorienta più che orientare, e che resta non credibile e non creduta. Non si parla di piani di riforma della scuola, della pubblica amministrazione, non si confrontano progetti di sviluppo, modelli di difesa e di politica internazionale - il dibattito politico si riduce alla rissa sui vaccini e sui Green Pass. Quello che manca è insomma una politica che prenda sul serio sé stessa, e il proprio dovere di determinare democraticamente il destino e l'assetto di un Paese. Secondo un vecchio motto, nessuno va tanto lontano come chi non sa dove sta andando. Oggi, però, va anche messo in conto che chi non riesce a proporsi alcuna meta corra il rischio di smarrirsi per via».

CONTE DICE CHE BERLUSCONI HA FATTO ANCHE COSE BUONE

Nel movimento 5 Stelle il giorno dopo la rinuncia al seggio, c’è chi critica la scelta di Giuseppe Conte. Lui spiega che “entrerà in Parlamento dalla porta principale”. La cronaca sulla Stampa.

«È un Giuseppe Conte quasi "revisionista" quello che risponde in Tv alle ormai quotidiane lusinghe di Silvio Berlusconi. Il leader M5s usa una frase che in politica si sente spesso, ma associata ad un altro periodo storico: «Ha fatto anche molte cose buone», dice l'ex premier parlando del leader di Fi durante la trasmissione "L'aria che tira" su La7. La domanda, ovviamente, era sul Quirinale, visto che Berlusconi da giorni ammicca ai 5 Stelle, riconoscendo il valore del reddito di cittadinanza e definendo il Movimento in qualche modo simile a Fi. Un corteggiamento pubblico accompagnato da voci - fatte filtrare sapientemente - su una pattuglia di parlamentari M5s disponibile a votare il Cavaliere per il Colle. Conte assicura che i 5 stelle non potranno votare per Berlusconi, ma risponde con garbo, forse anche con una punta di malizia, per far risaltare il peso che avrà il Movimento nella partita del Quirinale. «C'è rispetto nei confronti di un leader e di una forza politica - dice - c'è il rispetto nei confronti di una figura che ha avuto un ruolo istituzionale importante nel Paese». Un leader, appunto, che «ha fatto anche molte cose buone, ha interpretato anche la voglia di rinnovamento di una parte del Paese che si è identificata con lui». Detto, questo, precisa: «Ma sicuramente - complice anche un conflitto pervasivo di interessi - ci sono stati dei passaggi che non sono nel Dna del Movimento 5 stelle». Dunque, «quando io dico che M5s non ha come candidato Silvio Berlusconi significa che rispetto un altro leader di una forza politica, ma noi abbiamo bisogno di trovare un presidente della Repubblica che possa unire il Paese, essere il garante di tutti e non solo di una parte». Chi parla di un M5s diviso al voto per il Colle, garantisce, fa «una previsione sbagliata». E, aggiunge, «vedrei bene una donna al Quirinale, senz' altro». Su Mario Draghi pronuncia poche parole: «Sta lavorando bene per il Paese. Cerchiamo di sostenere l'azione di governo, perché è importante». Il leader dei 5 stelle torna anche sulla sua rinuncia a correre alle suppletive per il collegio della Camera lasciato libero da Roberto Gualtieri. Nega che la vicenda abbia creato tensione con il Pd: «Non c'è stata alcuna incomprensione. Poi lo chieda a loro, ma non penso che (Letta, ndr) possa esserci rimasto male». In Parlamento, spiega, «vorrei entrare dalla porta principale», cioè «alle elezioni politiche». Il presidente di Italia viva Ettore Rosato non perde l'occasione per un commento velenoso: altro che «porta principale», dovrebbe ricordare che «è stato nominato premier nell'estate del 2018, senza essere in Parlamento, con un programma-contratto scritto da 5Stelle e Lega in un tavolo al quale non era nemmeno invitato». Ma Conte, in Tv, ne ha anche per Carlo Calenda e Matteo Renzi, che si sono ribellati all'idea di una sua candidatura alle suppletive: «Si cerca un po' di notorietà. Con Calenda e Renzi ci sfideremo alle politiche».

BIDEN AVVERTE PUTIN SULL’UCRAINA

In caso di invasione della Russia, ci sarà una durissima risposta economica, questo l’avvertimento lanciato dal presidente Biden nel colloquio con Putin, durato ieri due ore. La cronaca di Giuseppe Sarcina per il Corriere.

«Due ore di colloquio online e un primo risultato: Joe Biden e Vladimir Putin hanno concordato di affidare «ai loro team il compito di proseguire» il confronto sulla crisi ucraina. Le telecamere hanno mostrato le sequenze iniziali del summit. Atmosfera apparentemente rilassata. Putin: «Saluti, signor presidente». Biden: «Un piacere rivedersi, sfortunatamente l'ultima volta, al G20, non c'è stata l'opportunità di incontrarsi. Spero che la prossima volta ci vedremo di persona». Ma il comunicato finale diffuso dalla Casa Bianca ha ben altro tono. Innanzitutto si sottolinea come «Biden abbia espresso la profonda preoccupazione degli Stati Uniti e degli alleati europei per l'escalation delle forze armate che stanno circondando l'Ucraina». Poi il passaggio più duro: «Deve essere chiaro che noi e i nostri alleati risponderemo con forti sanzioni economiche e con altre misure nel caso di un'ulteriore escalation militare. Il presidente Biden ribadisce il suo sostegno alla sovranità e all'integrità territoriale dell'Ucraina». Solo alla fine arriva l'appello: «Torniamo alla diplomazia, facciamo lavorare i nostri consiglieri». L'obiettivo immediato è assicurare un «cessate il fuoco» permanente nell'intera regione. Poi si dovrebbe aprire la nuova fase di trattative. Ma il sentiero è stretto. Gli accordi di Minsk, aggiornati del 2015, prevedono, in grande sintesi, che Kiev riprenda il pieno controllo dei confini, quindi anche del Donbass occupato dai filorussi. In cambio il Parlamento ucraino dovrà varare una riforma costituzionale che dia più autonomia alle regioni orientali. Questo schema, però, appare superato dai fatti. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenski pensa che il Paese sarà al sicuro solo al riparo dello scudo Nato. Una prospettiva che Putin ritiene semplicemente inaccettabile e per questo ha dislocato 175 mila soldati a ridosso del confine con l'Ucraina. Biden ieri ha confermato l'impressione diffusa da giorni a Washington. In caso di aggressione russa, gli americani non invieranno soldati per difendere Kiev. Che cosa faranno, allora? Il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, si è presentato davanti ai giornalisti per dare alcune risposte. Innanzitutto Biden continuerà a consultarsi con gli alleati. Ieri il presidente ha telefonato ancora a Mario Draghi e ai leader di Germania, Francia e Regno Unito, così come aveva fatto l'altra sera, alla vigilia del summit con Putin. «Lavoriamo con loro sulle eventuali sanzioni economiche», ha detto Sullivan. Secondo le indiscrezioni le misure potrebbero escludere Mosca dal circuito Swift per i pagamenti su scala internazionale; bloccare la convertibilità del rublo; chiudere i canali di finanziamento per le società petrolifere, a cominciare da Gazprom. Potrebbero essere colpite anche le banche di Stato, come la Vtb e la Gazprombank . Sullivan ha anche avanzato l'ipotesi di chiudere il gasdotto «North Stream 2» che collega direttamente Russia e Germania: «Non è ancora entrato in funzione e potrebbe essere un buon deterrente per Mosca». La Reuters riferisce di un accordo in questo senso tra Washington e Berlino. Gli Usa, inoltre, aumenteranno le forniture militari all'Ucraina. Stando a informazioni raccolte negli ambienti vicino al Pentagono, verrebbero consegnate altre batterie di missili anti tank Javelins e squadriglie di droni. Infine, se Putin dovesse aggredire l'Ucraina, gli Stati Uniti «rafforzeranno le difese militari in Polonia, Romania e nei Paesi baltici».

MOZAMBICO, I RAID DEGLI SHABAAB

Secondo la denuncia di Human Rights Watch, ci sono continui raid nei villaggi degli estremisti shabaab, che prendono in ostaggio le giovani per abusarne o per rivenderle. In passato sono state accusate di violenze anche le forze di sicurezza del Paese. Paolo M. Alfieri inviato in Mozambico per Avvenire.

«Quando piombano nei villaggi, armi in pugno, per i civili c'è poco da fare. Chi può si dà alla fuga nella boscaglia, chi resta indietro sa che il suo destino può essere segnato. Ad aspettarli c'è il furto delle loro poche cose e, spesso, la morte. Donne e bambini, poi, sono di frequente vittime di sequestri: le prime diventeranno schiave sessuali, i secondi rivenduti nella tratta di esseri umani o sfruttati. È una storia che si ripete, quella che va in scena da almeno quattro anni nella provincia mozambicana di Cabo Delgado, una storia che accomuna uno dei conflitti più dimenticati del mondo alle tante guerre «a bassa intensità » sparse nel pianeta. Protagonisti dei raid nei villaggi, spesso allo scopo di autofinanziarsi, sono gli estremisti shabaab, un gruppo che usa la bandiera dell'islamismo (e di presunti legami con il Daesh) per brama di potere e denaro. Sono oltre 600, denuncia ora Human Rights Watch (Hrw), le donne e le ragazze rapite dal gruppo, alcune delle quali messe in salvo ma in gran parte ancora in mano agli estremisti. Altre donne sono state vendute a combattenti stranieri per una cifra compresa tra 600 e 1.800 dollari Usa, mentre in alcuni casi sono state le famiglie a riuscire a riavere le loro ragazze dietro al pagamento di un riscatto. Protagonisti di una serie di attacchi sia contro i villaggi che contro le forze di sicurezza, gli shabaab hanno trovato a Cabo Delgado terreno fertile per il loro reclutamento, da un lato con la comparsa di predicatori islamisti dal-l'estero, soprattutto dalla Tanzania, dall'altro a causa dell'emarginazione che le popolazioni locali hanno storicamente sofferto, ancora di più dopo la scoperta di importanti risorse naturali come rubini e gas naturale, che hanno contribuito all'arrivo di multinazionali straniere, dalla francese Total all'italiana Eni, dall'americana ExxonMobil ai cinesi di Cnpc. Molte comunità locali sono state evacuate dal governo per far posto ai progetti di estrazione, così che ex pescatori e giovani senza prospettive sono andati a ingrossare le fila del gruppo, arrivato a contare anche 5mila uomini. Solo l'arrivo, negli ultimi mesi, di forze ruandesi e di altri Paesi vicini ha consentito alle forze locali di riprendere terreno, ma gli estremisti, in cellule più piccole, continuano ad attaccare. «I leader di al-Shabaab dovrebbero rilasciare immediatamente ogni donna e ragazza che tengono in stato di prigionia», sottolinea Mausi Segun, direttrice per l'Africa di Hrw. A ottobre, un funzionario locale ha dichiarato che l'esercito stava trattenendo centinaia di persone, per lo più donne e bambini, liberate dalle basi shabaab nel Complesso sportivo di Pemba. L'obiettivo era di separare i civili dai sospetti combattenti. Il funzionario ha affermato che le persone detenute nella struttura stavano ricevendo cure, ma non ha specificato la natura dell'aiuto o chi lo stesse fornendo. Secondo Hrw, il governo del Mozambico ha l'obbligo di prevenire, indagare, perseguire e punire i responsabili di abusi, nonché fornire rimedi tempestivi, accessibili ed efficaci alle vittime e ai sopravvissuti. Di abusi dei diritti umani, peraltro, sono state spesso accuse in passato anche le forze di sicurezza mozambicane. Difficile, in un conflitto come quello del Cabo, distinguere con facilità i soprusi degli uni e gli abusi degli altri».

CL, CARISMA E REGOLE PARTECIPATE

Nuovo intervento sulle pagine del Foglio di Vincenzo Tondi della Mura, docente di Diritto costituzionale e anche studioso di Diritto canonico, sulle vicende del Movimento di Comunione e Liberazione.

«C'è gloria per tutti!". Parafrasando la sostanza dell'editto di Costantino, con il quale nel 313 l'imperatore romano riconobbe ai cristiani e alle minoranze piena libertà di culto e pari dignità, verrebbe da dire che questa è la sintesi delle comunicazioni rese dal presidente ad interim della Fraternità di Comunione e liberazione, Davide Prosperi, ai suoi aderenti. Se il carisma non è verticistico, ma comunionale (in quanto destinato a continuare nel tempo non solo nel fondatore o in chi gli succede, ma in tutti i membri della realtà originata dallo stesso, così come ha spiegato padre Ghirlanda ai Memores Domini); se la relativa responsabilità grava su ciascuno; se insomma - riprendendo don Giussani - "Il singolo è responsabile di tutta la Fraternità in cui è immerso, qualunque sia la sua condizione attuale, di salute o di malattia, di letizia odi prova", allora le conseguenze sono chiare, semplici e alla portata dell'esistenza di ognuno. Esse sono state declinate dallo stesso Prosperi: 1) non avere timore dei cambiamenti, ma intensificare il proprio impegno quotidiano di adesione a Cristo; 2) avvertire l'urgen - za di una stima verso gli altri compagni e la responsabilità verso l'unità del movimento, da perseguire secondo un desiderio di concordia che è solo frutto di libertà; 3) nutrire fiducia verso la Chiesa, così da essere veramente fedeli alla storia particolare incontrata da ciascuno. Il tutto, all'interno di quella polifonia di esperienze vocazionali (contemplativa, sacerdotale, missionaria, matrimoniale) originate dalla storia di Comunione e liberazione. Basterebbero questi brevi cenni, per dare forma e sostanza all'imminente processo di revisione dello Statuto, chiesto dal decreto pontificio a tutte le associazioni laicali nel segno della rotazione delle cariche di vertice. Per meglio comprendere la valenza del passo richiesto, occorre considerare che lo Statuto di un'associazione (al pari di ogni altra Costituzione) non è un atto qualsiasi, da formulare o revisionare in via riservata e indipendente dalla considerazione e dal consenso degli altri consociati. Esso costituisce l'atto fondamentale di un'associazione, in quanto enuclea in modo formale le "ragioni dello stare insieme" proprie degli associati, definendo le modalità organizzative, i ruoli, le garanzie e ogni ulteriore profilo della vita della singola comunità. Un'eventuale revisione, pertanto, deve coincidere con la riscoperta dei fattori aggregativi originari, così da adeguarli alle esigenze dei tempi sopraggiunti; deve consentire la ripresa del cammino iniziale, dopo aver reso evidente la necessità da cui muove e l'obiettivo preso a riferimento. Una revisione, in definitiva, costituisce sempre un fatto di popolo, che necessita di ragioni pubbliche, dibattute, condivise e adeguate, così da rendere ancora più attuali le originarie "ragioni dello stare insieme". Il rilievo vale ancor più nel caso di specie. La scelta di revisionare lo Statuto, infatti, è derivata da una decisione esterna e non interna alla Fraternità; è stata dettata d'imperio dal dicastero pontificio per ragioni non facilmente comprese e talora nemmeno apprezzate dai consociati. Di qui, la sfida di rendere comprensibile e condivisa una revisione da molti avvertita come estranea alle esigenze associative; di rendere insomma partecipata una scelta invece obbligata. Anzitutto un chiarimento. Quanto chiesto dal decreto pontificio non è esauribile in una semplice revisione di facciata, o in un maquillage istituziona - le. Non si tratta soltanto d'introdurre nelle associazioni religiose regole analoghe a quelle disposte dal legislatore statale per gli enti rappresentativi (si pensi alla legge Severino), che vietano ai titolari delle cariche la relativa permanenza per oltre due mandati consecutivi. Esiste certamente un'analogia fra le due figure, consistente nella pari esigenza di sventare il rischio di personalismi, "cerchi magici" e conseguenti violazioni dei diritti dei consociati (significativa è la Nota esplicativa del decreto pontificio). L'analogia, tuttavia, si ferma qui; per il resto valgono le ragioni di differenza fra il diritto dello Stato e quello della Chiesa. Nella Chiesa la tutela riconosciuta ai singoli dissenzienti e alle minoranze non discende tanto dai principi liberali dell'eguaglianza, della rappresentanza, della separazione dei poteri e via dicendo; deriva, piuttosto, dalla consapevolezza di come il Corpo di Cristo non possa essere appannaggio di una maggioranza, né tantomeno possa essere smembrato da progetti settari, o da appropriazioni personalistiche dei carismi donati dallo Spirito Santo. Nel modello di governo della Chiesa non compare un'ansia di controllo del Popolo di Dio; il metodo della comunione non teme o mortifica la diversità, ma la esalta (San Paolo, Galati, 2,9). Vale l'insegnamento che la Tradizione riconduce a sant' Agostino: "Unità nelle cose necessarie, libertà in quelle dubbie, carità in tutte". Sicché è lasciato spazio all'avventura della libertà, anche spirituale; è lasciato spazio a quell'inquietudine umana, la quale - riprendendo Papa Francesco - rappresenta "il segnale che lo Spirito Santo sta lavorando dentro di noi [sicché] la libertà è una libertà attiva". Persino nel momento elettorale del Sommo Pontefice e nel caso di eventuali fratture nel Collegio dei cardinali, la libertà degli elettori viene a tal punto preservata, da trovare solo nella preghiera l'unico elemento di responsabilizzazione (Paolo VI, Romano pontifici eligendo, cap. V, n. 76). La revisione dello Statuto chiesta dal decreto pontificio si pone nella prospettiva rappresentata. Ed è significativo che nelle proprie comunicazioni Prosperi abbia indicato l'unità della Fraternità quale esito della responsabilità personale e di una concordia rimessa alla libertà di ciascuno. In linea con il rispetto di quell'inquietudine che la vita della Chiesa assicura ai propri fedeli, la revisione della governance della Fraternità dovrà "riflettere l'originalità del carisma" di Comunione e liberazione. Per farlo occorrerà (ri) scoprirne le ragioni; occorrerà considerare che "ognuno di noi è responsabile del carisma incontrato e dell'unità del movimento". E' il momento della costruzione, cioè dell'adesione quotidiana a Cristo».

SOFRI SUL PAPA E IL CHIACCHIERICCIO

Adriano Sofri sulla prima pagina del Foglio si occupa delle parole pronunciate da Papa Francesco sul volo di rientro da Cipro e Grecia, in particolare di quanto detto sulle dimissioni dell’Arcivescovo di Parigi.

«Il Papa ha fatto un altro viaggio ammirevole, e ha detto cose preziose sui migranti e sull'Europa. Poi, sull'aereo, dove la gravità si riduce fino ad annullarsi, ha detto cose forti, senza precedenti, sull'arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit, di cui aveva appena accettato le dimissioni. Ha detto: "Le piccole carezze, i massaggi che faceva alla segretaria, così sta la cosa. E questo è un peccato, ma non è un peccato grave. I peccati della carne non sono i più gravi. Così Aupetit è un peccatore come lo sono io, come è stato Pietro il vescovo su cui Gesù ha fondato la Chiesa e che lo aveva rinnegato. Come mai la comunità del tempo aveva accettato un vescovo peccatore? Era una chiesa normale, nella quale si era abituati a sentirci tutti peccatori, umili. Si vede che la nostra Chiesa non è abituata a dire vescovo peccatore, siamo abituati a dire che è un santo, il vescovo. Il chiacchiericcio cresce e toglie la fama di una persona. Il suo peccato è peccato, come quello di Pietro, il mio, il tuo. Ma per il chiacchiericcio, un uomo al quale hanno tolto la fama così non può governare. Questa è una ingiustizia. Per questo ho accettato la rinuncia di Aupetit: non sull'altare della verità, sull'altare dell'ipocrisia". Sono molti e contrastanti i pensieri sollevati da queste parole, del resto pronunciate in un tono affabile e sicuro. Ora se lo mangeranno, si pensa: un'alleanza trasversale di clericali bigotti e ragionevoli femministe, i primi scandalizzati - nello scandalo fanno il nido - da un Papa che dice "siamo tutti peccatori" e intende che davvero siamo tutti peccatori. Le seconde, forse, indignate dalla comprensione per un rapporto diseguale come quello fra un uomo in alto nella gerarchia e una donna con un ruolo di servizio. E poi si pensa: ecco, riviene fuori il gesuita e la passione per la casistica, come nei famigerati malati manuali dei confessori: le carezze, quante, e in che parti, e quanto pesanti? E i massaggi, una mano, due? E poi la frase così netta su Pietro peccatore, rinnegatore. (C'è poi il peso schiacciante degli abusi commessi al riparo della chiesa contro i minori, e anche di questi Francesco ha parlato a suo modo: ma non sono peccati della carne, sono crimini contro le persone che li hanno subiti). Si può pensare infatti che il Papa Francesco si lasci tradire dalle parole, nei voli di ritorno. Un'agenzia d'informazione che si dichiara cattolica, abita in via della Conciliazione, e proclama la missione di divulgare le vere parole del Papa, martedì, in un lungo pezzo firmato, aveva provveduto a emendare i passaggi più avventati: mutando le "carezze" in "carenze", i"massaggi che l'arcivescovo faceva alla sua segretaria" in "messaggi che inviava". Sicché il bravo arcivescovo Aupetit risultava destituito per carenze e messaggi. Restava l'ingombro della frase successiva: "I peccati della carne non sono i più gravi". Il redattore dell'agenzia ha semplicemente tolto il "non". I peccati della carne sono i più gravi. E tutto è tornato a posto. L'avvocato del diavolo rideva. E' vero, suscitano pensieri contrastanti le parole di Francesco. A me sembra che li superi e li riscatti tutti la conclusione: "Per questo ho accettato la rinuncia di Aupetit: non sull'altare della verità, sull'altare dell'ipocrisia". Il Papa, sia pure da un corridoio d'aereo, lontano dalla cattedra, dichiara di aver ceduto al chiacchiericcio e alla sua ingiustizia, e di averlo fatto sull'altare dell'ipocrisia. Chissà se ci sono ancora orecchie capaci di sentire la coraggiosa enormità di queste parole».

BUON NATALE È UN AUGURIO INCLUSIVO

Eugenio Mazzarella, ex parlamentare Pd, e Filosofo dell’ Università Federico II di Napoli, torna dalle colonne di Avvenire sul documento Ue, poi ritirato, a proposito degli auguri.

«L'augurio più inclusivo che c'è vale per tutti, per i cristiani di più. Documento di lavoro interno, proposta per l'Assemblea o per la Commissione che fosse, la direttiva Ue di evitare nella comunicazione ufficiale dell'Europa gli auguri di 'Buon Natale', e i nomi di Maria, Giuseppe, Gesù perché simboli non inclusivi dell'accoglienza che dobbiamo ai simboli e ai valori di altre culture e confessioni religiose, è quanto di più offensivo ci possa essere per l'identità europea, il buon senso e soprattutto per quello che quei simboli (le 'figurine' del Presepe cristiano) veicolano. E cioè l'accoglienza della vita così come viene al mondo, anche nella sua 'estraneità' alle leggi della natura e della storia, ai vincoli e alle convenzioni di ogni cultura. Quel che va in scena, nella storia delle culture umane, dall'Annunciazione alle figurine del Presepe è la nascita di un'antropologia, quella cristiana, dove 'prima' viene la vita al di là dei panni (Re del mondo o poveraccio, reietto) che indosserà. Cristianità ovvero Europa, cioè la nostra 'cultura' (quella che si pone il problema di non offendere le culture degli altri), si gioca su un sentire fondativo di una capacità di accoglienza dell'umano - eccedente nel suo mistero a tutte le sue condizioni naturali, biologiche e culturali - affacciatasi alla storia nell'esperienza cristiana della vita. Esperienza che ha proposto alla civiltà del Mediterraneo, regnanti Augusto e Tiberio, quello che sarebbe di- venuto il suo patrimonio morale distintivo: una dignità dell'uomo che non è nella disponibilità di nessun potere umano (che la può solo riconoscere), ma solo dell'amore, della fondativa solidarietà universale del fatto umano garantito nella paternità incarnata di Dio. E poiché è stata, è divenuta, questa capacità è possibile, e abbiamo una natura conforme a essa. È un fatto storico, perché è stata concepita nel cuore dell'accoglienza umana, la cui ispirazione divina è il vero miracolo del cristianesimo. L'esperienza cristiana della vita come questa capacità di accoglienza del divino dell'uomo, dell'uomo come gli venga come a lui «divino», è il contenuto antropologico dell'Incarnazione cristiana nella scena dell'Annunciazione. Perché la stessa divinità di Cristo lì è stata «concepita» ( afferrata dal cuore e dalla ragione) nel seno di Maria e nel cuore di Giuseppe: nella loro accettazione della rottura dell'ordine naturale (Maria che dice sì, che accoglie l'annuncio, l'iniziativa di Dio, anche se è immacolata e «non conosce uomo», Luca 1,34); e dell'ordine culturale (Giuseppe che pensò di rimandarla in segreto, e non lo fece e tenne con sé la donna, Matteo 1, 18-24). Il Cristianesimo è stato inventato, 'trovato', da questo, da questo puro genio dell'accoglienza, che ti libera da tutto, da tutte le condizioni date; che fa incarnare il divino in mezzo agli occhi, che ci fa vedere divino ogni uomo che ci venga incontro o che incontri caduto sulla strada. La morale del Samaritano ne è la logica conseguenza. Come divenire storico - è la sua perenne scommessa educativa, il cuore dell'evangelium, al di là delle abissali cadute ha vissuto e che continua a vivere - il cristianesimo è la trasmissione di questo genio dell'accoglienza dell'umano. Cristo è il Maestro-testimone di questo genio, di questa personalizzazione della fede in cui metto il mio cuore su un altro, in un altro in un incontro che mi rinnova. E mi fa libero, libero da ogni condizionamento del Potere. 'Buon Natale' è l'invito e l'augurio ad ogni uomo a 'ri-nascere' così, libero, accogliente; quale che sia la sua cultura, la sua razza, la sua religione (il nome dell'unico Dio che gli è nativo, e persino del non-Dio del suo possibile ateismo; dove per Dio, se c'è, l'uomo resta solo un'occasione). 'Buon Natale' è l'augurio più inclusivo che c'è. Solo un'Europa ed europei che non sanno più chi sono, possono pensare di offendere augurandosi ed augurando 'Buon Natale'. Buon Natale - laicamente, interreligiosamente, interculturalmente - significa solo 'rinasci': non come sono io, ma in te, come sei tu, solo migliore - per te e per i tuoi fratelli. Per i cristiani, qualcosa in più: ricordati del Bambino (e del Maestro che è divenuto) che te lo ha insegnato. A meno che l'invito a 'rinascere' all'incontro con gli altri non sia proprio quello che si vuole evitare; troppo impegnativo. Meglio 'Buone feste', per consumare senza essere disturbati un po' di più e non cambiare niente dei giorni feriali finite le feste. L'avevano capito i pastori. Possibile non lo capiscano i dottori del Sinedrio europeo? Buon Natale a tutti».

Leggi qui tutti gli articoli di mercoledì 8 dicembre:

https://www.dropbox.com/s/942emqvam5je3by/Articoli%20La%20Versione%20dell%27%208%20dicembre.pdf?dl=0

Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.

Share this post

La Scala chiede il bis a Mattarella

alessandrobanfi.substack.com
Comments
TopNewCommunity

No posts

Ready for more?

© 2023 Alessandro Banfi
Privacy ∙ Terms ∙ Collection notice
Start WritingGet the app
Substack is the home for great writing