

Discover more from La Versione di Banfi
La scheda bianca è surreale
Nel primo giorno i grandi elettori del Quirinale non scelgono. Comincia solo ora un dialogo col premier e tra i partiti. Quasi un insulto al Paese reale. Biden schiera truppe. Crollano le Borse
Il primo giorno di votazioni del Parlamento in seduta comune si è risolto in un nulla di fatto. Una valanga di schede bianche, 672, sono finite nelle cosiddette insalatiere, le urne che raccolgono le preferenze dei grandi elettori. 672, quante ne sarebbero servite per eleggere subito il nuovo Presidente della Repubblica. È una circostanza davvero deludente. Forse i leader dei partiti, e in genere deputati e senatori, non si rendono conto dei sentimenti degli italiani in questi giorni. Riferiscono le cronache che gli stessi delegati regionali, che arrivano dal territorio e dalla battaglia quotidiana coi problemi che comunque toccano ad un amministratore, siano molto preoccupati dell’atteggiamento trovato a Roma.
Si stenta a star dietro ad una logica politica che non ha affrontato nei modi e nei tempi giusti la successione a Sergio Mattarella. Ieri ho chiesto ad un segretario di partito, per whatsapp, se non si rendesse conto dell’impopolarità di questo voto bianco. Mi ha risposto che era la precondizione ad un dialogo che stava ricominciando faticosamente. “Meglio tardi che mai”, titola oggi Avvenire. Ma sono alchimie di palazzo difficili da comprendere, persino per noi avvezzi a queste cronache. Anche Mario Draghi sembra aver cambiato strategia: “si sporca le mani”, dice il Giornale, dialogando finalmente con tutti i leader. Surreale poi il capo della Lega Matteo Salvini che annuncia di nuovo oggi (ma ancora non fa i nomi) una “rosa del centro destra”.
Cari "grandi elettori", là fuori nel mondo reale le Borse crollano (Milano la peggiore), Biden vuole schierare le truppe al confine con l’Ucraina e fa evacuare i suoi da Kiev, ci sono centinaia di morti al giorno in Italia per il Covid, le scuole e gli uffici devono stare dietro ad una burocrazia da Covid sempre più incomprensibile. I rincari si fanno sentire. Il caffè al bar costa ormai il doppio, il pane e il latte sono aumentati. Il tempo è ampiamente scaduto. State dando una prova terribile di svalutazione oggettiva della Costituzione e delle nostre istituzioni democratiche. Il contrario esatto di quanto ha fatto per sette anni anni Sergio Mattarella.
È disponibile da oggi il secondo episodio del Podcast Le Figlie della Repubblica, realizzato dalla Fondazione De Gasperi per il Corriere della Sera con il contributo di Fondazione Cariplo, che racconta le grandi figure della nostra Repubblica secondo un punto di vista femminile, familiare e intimo: quello delle figlie. I grandi personaggi politici che hanno costruito la Costituzione e la Repubblica sono state persone come noi, uomini e donne che da schieramenti diversi hanno lottato, sofferto e amato, mettendo al servizio del Paese la loro passione e i loro ideali. La loro testimonianza è ancora attuale e preziosa. In questo secondo eccezionale episodio a raccontare la sua vita e quella di suo padre è Serena Andreotti, figlia di Giulio.
Ne è scaturito un racconto a tutto tondo dell’uomo politico e della persona che ha attraversato grandi crisi e altrettanti successi. Giulio Andreotti è stato un grandissimo servitore dello Stato, sul cui giudizio pesa un finale denigratorio che è poi stato smentito dalle sentenze finali dei processi contro di lui. Il bacio di Totò Riina è stata una delle più grandi fake news politico-giudiziarie della storia italiana che ha alimentato una rivolta contro la politica. La figlia Serena ne ripercorre le vicende con grande precisione e trasporto. Questo Podcast è nato da un’idea di Martina Bacigalupi e realizzato da Ways - the Storytelling Agency. La genialità del lavoro si deve soprattutto ad Emmanuel Exitu, che ha scritto e diretto gli episodi, con la supervisione storica del professor Antonio Bonatesta. Cercate questa cover…
… e troverete Le Figlie della Repubblica su tutte le principali piattaforme gratuite di ascolto: Spreaker, Spotify, Apple Podcast... Ecco il link per il secondo episodio.
https://www.spreaker.com/user/15800968/serena-andreotti
E qui il sito della Fondazione De Gasperi
http://www.fondazionedegasperi.org/
Scusate se parlo ancora un po’ di me. Ho preso una decisione di cui vi voglio fare partecipi per tempo. Dall’11 febbraio 2022, La Versione diventerà a pagamento. Ho pensato a questa soluzione: un giorno alla settimana, il mercoledì, uno dei giorni di massima lettura, la Versione resterà, come adesso, gratis per tutti. È un modo per restare in contatto con ognuno di voi. Nei fine settimana, come ho fatto nel periodo estivo e già a partire dal prossimo, la Versione ci sarà solo la domenica sera come raccolta delle cose più interessanti del week end. In questo modo non vi chiederò molto, sto raccogliendo le vostre reazioni su tariffe e sconti. Inoltre chi è abbonato avrà accesso ad alcuni contenuti speciali che vi presenterò per tempo. Intanto fate pubblicità a questa rassegna, seguendo le istruzioni della prossima frase.
Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.
Vediamo i titoli.
LE PRIME PAGINE
Primo giorno di votazioni per il Quirinale, ma la soluzione ancora non c’è. Il Corriere della Sera sintetizza: Colle, si tratta con tanti ostacoli. Avvenire sottolinea positivamente la riapertura di un colloquio tra i partiti: Meglio tardi che mai. Come fa il Quotidiano Nazionale: Decolla il dialogo. E si muove Draghi. Per il Domani: Adesso Draghi tratta sul Quirinale. L’alternativa dei partiti è Casini. Il Fatto va frontale contro il premier: Monarchia o Repubblica. Il Giornale è anch’esso critico ma riconosce un’iniziativa del presidente del Consiglio: Draghi si sporca le mani. Il Manifesto sceglie un’immagine diversa: Fuoco alle polveri. Il Mattino è didascalico: Colle, i partiti e Draghi trattano. Come Il Messaggero, ancor più generico: Colle, la trattativa è partita. La Repubblica attacca il capo della Lega: Il gioco doppio di Salvini. Mentre La Stampa registra: Draghi apre le trattative sul Colle. Libero innalza un cartello: Governo cercasi. La Verità resta monotematico sulla pandemia: Il Green pass diventa eterno. Mentre Il Sole 24 ore dà la notizia che riguarda i mercati: Venti di guerra e Fed, Borse in caduta.
QUIRINALE, NULLA DI FATTO AL PRIMO GIORNO DI VOTAZIONI
Cronaca della prima giornata dei grandi elettori nell’aula di Montecitorio. Una valanga di schede bianche, nomi in libertà, come se fosse un gioco. La cronaca di Virginia Piccolillo sul Corriere.
«Catafalchi rossi e fumata nera. La prima giornata di voto alla Camera per l'elezione del nuovo capo dello Stato si chiude con un nulla di fatto: 672 schede bianche (almeno 200 in meno di quelle annunciate dai grandi partiti M5S, Pd, Leu, FI e FdI), 49 nulle e un caleidoscopio di nomi, inclusi Amadeus e Corona. Il più votato (36 voti) è stato Paolo Maddalena, il vicepresidente emerito della Corte costituzionale che si è occupato di tutela dell'acqua pubblica, candidato come «super partes» dagli ex M5S di Alternativa. A seguire nomi anche al centro del vortice di colloqui tra i leader. Dal presidente Sergio Mattarella - che ha detto, postato e scritto che non vuole un mandato bis, ma resta il sogno di molti -, a Mario Draghi. Dalla ministra Marta Cartabia alla direttrice del Dis Elisabetta Belloni, da Marco Cappato a Giancarlo Giorgetti, Giuseppe Conte, lo stesso Bossi e, con 7 voti, anche Silvio Berlusconi. C'è chi ha voluto segnare sulla scheda nomi di spessore come il costituzionalista Sabino Cassese, la senatrice a vita Liliana Segre o il procuratore anti 'ndrangheta Nicola Gratteri. Chi ha votato giornalisti come Bruno Vespa, il direttore AdnKronos Gianmarco Chiocci, Claudio Sabelli Fioretti, Giuseppe Cruciani de La Zanzara e Alberto Angela. E c'è chi si è burlato del voto scrivendo il nome del defunto Bettino Craxi, del calciatore Dino Zoff, di Claudio Lotito presidente della Lazio, Amadeus, o dell'ospite di Cartabianca, Mauro Corona («Vorrei conoscerlo», ha scherzato). E poi una girandola di nomi che hanno dato il senso di ciò che il presidente della Camera, Roberto Fico, aveva tentato di evitare: rendere le schede riconoscibili. Per scongiurare schede «segnate» Fico aveva annunciato che avrebbe letto solo il cognome, a meno di omonimie. Evitando iniziali puntate, titoli onorifici o inversione di cognome e nome che in passato indicavano pacchetti di voti. Ma stavolta i voti «segnati» sono stati sostituiti da un pulviscolo di voti dispersi. Il primo a votare, nella cabina predisposta per i disabili, è stato l'anziano fondatore del Carroccio, Umberto Bossi. Poi i senatori a vita. Quindi tutti gli altri. Chiamati a turni di 50 e mai più di 200 in Aula. Contemporaneamente si è votato nel drive in predisposto nel parcheggio di Montecitorio per i positivi: undici ieri. Oggi forse meno. «Grati» dell'opportunità Ugo Cappellacci (Fi) e Brescia (M5S). Voleva votare lì anche Sara Cunial, ex M5S contraria al green pass. Dalla Camera dicono che avrebbe potuto fare il tampone nella postazione predisposta e votare in Aula. Ma lei annuncia battaglie legali. E Gianluigi Paragone, positivo, grida: «Il paradosso è che un positivo vota e una sana no, perché non ha il green pass. È una buffonata. Non verrò». Aula riconvocata alle 15 di oggi, per lasciare spazio, al mattino, al funerale del deputato Vincenzo Fasano».
Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera riflette sull’inopportunità di un rito che sembra quasi un’offesa, in tempi di crisi e di emergenze.
«Un Paese che ha il terzo debito pubblico del mondo, 200 miliardi di freschi prestiti europei di cui 122 da restituire, 350 morti al giorno di Covid e una ripresa tutta da consolidare, un Paese così non può permettersi il lusso di un lunedì surreale come quello di ieri. Pareva che gli oltre mille grandi elettori, compresi i capi partito, avessero scoperto all'ultimo momento che c'era da eleggere il presidente della Repubblica per i prossimi sette anni. È abbastanza incredibile che i leader non si siano ancora riuniti, nonostante siano tutti (tranne la Meloni) nella maggioranza di governo. E la candidatura di Berlusconi, per quanto improbabile, ha rappresentato più un alibi che un ostacolo. Ieri, finalmente, sono incominciati se non altro gli incontri bilaterali, in un'atmosfera sospesa, quasi incantata, che è parsa a tutti i presidenti di Regione catapultati a Palazzo - da Zaia a De Luca, da Fontana a Bonaccini - quanto di più distante dalla vita reale, dagli ospedali, dai centri vaccinazione, dalle attività a rischio chiusura. Certo, la politica ha la sua tecnicalità e i suoi tempi. Ma qui c'è un equivoco di fondo. Il nuovo presidente della Repubblica è già stato individuato, di fatto, a febbraio. Nel febbraio scorso, però. È evidente che, quando Mattarella ha chiamato l'ex presidente della Banca centrale europea a guidare il governo di responsabilità nazionale, sullo sfondo si intravedeva uno schema di successione sul Colle. È altrettanto evidente che i partiti (con qualche eccezione) Draghi non lo vogliono. Eppure in queste settimane non hanno cercato seriamente una personalità in grado di tenere insieme l'attuale maggioranza, e neppure una che possa eventualmente succedere a Draghi a Palazzo Chigi. Mai ci si era avventurati così al buio in un'elezione presidenziale. Se le soluzioni alla prima chiama sono state rare, se i Cossiga e i Ciampi non si trovano dietro l'angolo, le altre volte almeno erano in campo i candidati: nel 1992 fu bruciato Forlani, nel 2013 Marini (e poi Prodi); ma nel 2006 si sapeva che alla quarta votazione sarebbe stato eletto Napolitano, e nel 2015 Mattarella. Questa volta gli arcana imperii e i tempi dilatati appaiono particolarmente incomprensibili, visto il momento che vive il Paese. Tanto più che, in realtà, la situazione è abbastanza semplice. Draghi ha mostrato, magari commettendo qualche errore, di essere disponibile per il Quirinale. Se i partiti valutano che sia la candidatura migliore, in grado di garantire gli alleati europei, i mercati e pure i vincitori delle prossime elezioni politiche, non sarà impossibile trovare un'intesa per un governo di fine legislatura. Se invece i leader preferiscono accordarsi su un nome di alto livello, che consenta a Draghi di restare a Palazzo Chigi senza che ne risentano il suo prestigio e la sua autorevolezza, lo facciano adesso. Non per fretta; per rispetto degli italiani e di se stessi. Sarà l'unico modo per mostrare all'opinione pubblica che l'attuale sistema ha ancora un senso, e resta preferibile far scegliere il capo dello Stato ai grandi elettori piuttosto che ai cittadini, come accade in molte democrazie parlamentari e in molti Paesi europei (e in nessuno di questi, Francia compresa, il capo dello Stato è anche il capo del governo)».
DRAGHI SI MUOVE E CHIAMA I LEADER
Tutti i cronisti e i commentatori registrano il cambio di strategia del premier Mario Draghi, che ieri ha contattato personalmente i leader dei partiti. Il commento di Stefano Folli su Repubblica.
«Sotto la valanga delle schede bianche e dei voti dispersi ieri sera si scorgeva la fiammella della trattativa. Un po' poco per sentirsi alla fine dello psicodramma e tuttavia abbastanza per uscire dal buio pesto degli ultimi giorni. Il dato più interessante riguarda il presidente del Consiglio: ha rinunciato al silenzio imperscrutabile che era ormai la sua cifra e ha accettato di vedere (o di sentire al telefono) qualcuno dei protagonisti e comprimari del rebus Quirinale. Un opportuno cambio tattico, considerando che i capi partito, per quanto espressione di una politica debole, non possono essere ignorati. Semmai un sistema impacciato e arroccato rende più amaro il ricordo di quando, quasi 23 anni fa, Carlo Azeglio Ciampi fu eletto al primo scrutinio, in base a un'intesa che coinvolse di slancio quasi tutto il Parlamento. Altri tempi. Oggi non c'è un regista indiscusso. Ci sono tre figure che si staccano dalle altre e hanno abbozzato il negoziato di cui si parla: Salvini, Enrico Letta e, sia pure con un attivismo meno scenografico del solito, Renzi. Ma questi colloqui, senza dubbio complicati, avrebbero possibilità di successo ancora minori se uno dei vertici del triangolo non fosse a Palazzo Chigi. Come dire che Draghi riconosce alle forze politiche, per quanto confuse e incerte, il loro peso determinante. Con ciò ammettendo che la trattativa riguarda, sì, il Quirinale, ma investe in modo diretto il governo prossimo venturo: la sua composizione, il suo spessore politico, quindi il programma e naturalmente chi lo guiderà. Una volta di più si torna all'incrocio decisivo: l'elezione del capo dello Stato e appunto l'esecutivo di fine legislatura vanno di pari passo. Ogni tassello del mosaico deve andare al suo posto in fretta. È quel che sta accadendo? Non proprio. Sembra che Salvini abbia smesso di farsi veicolo di improbabili candidature al Colle, ma si ponga ora come l'architetto di una rinnovata "centralità" leghista da verificare nel nuovo governo. In altri termini, vuole parecchio per sé e per i suoi prima di impegnarsi a favore di Draghi presidente. Questo scompagina le carte. Si dirà che ogni capo partito intende trovare la propria convenienza nel lasciare che la legislatura rotoli fino al 2023, anziché correre verso un anticipo elettorale che farebbe la gioia di Giorgia Meloni e, chissà, anche di qualche esponente del Pd che non lo dice, ma pensa di essere favorito dai sondaggi. Tuttavia tirare troppo la corda quando il negoziato è ai primi passi rischia di spezzarla. Con conseguenze imprevedibili che potrebbero investire non il prossimo governo, ma soprattutto quello in carica. Quel che si chiede a Salvini, come pure a Letta e a Renzi, è di contribuire alla stabilità generale, anziché considerarsi già in campagna elettorale. Nel caso fosse così, sarebbe meglio votare subito, in primavera, anziché condannarsi a un anno di scontri propagandistici pre-elettorali che ci esporrebbero allo sconcerto internazionale (vedi i commenti di Financial Times ed Economist ). Per evitare un tale esito c'è solo un mezzo: individuare per il Colle una figura non di parte ma neutra, che dia garanzie alle parti e offra un indiscutibile profilo istituzionale. Poi restano comunque da convincere i mille parlamentari, molti dei quali timorosi di essere sacrificati ai giochi di potere. Dopo anni di anti-politica non c'è da meravigliarsi se la diffidenza si è incuneata anche nel palazzo».
SALVINI È IL KING MAKER DELL’ANTI DRAGHI
Oggi o domani Matteo Salvini lancerà la rosa di nomi del centro destra di cui si parla da settimane. La Lega ribadisce il no al premier: in pole position ci sarebbe la Casellati, apprezzata dai 5 Stelle. Giacomo Salvini per Il Fatto.
«Per ora più che il king sembra solo un maker. Poi si vedrà. Perché Matteo Salvini incontra tutti ma tiene ancora le carte coperte. E il percorso per intestarsi l'elezione del prossimo capo dello Stato è ancora pieno di ostacoli. Ieri il segretario leghista sembrava una trottola passando da un ufficio all'altro per incontrare i leader: di buon mattino ha visto Mario Draghi, poi Enrico Letta, Giorgia Meloni, Giuseppe Conte e i centristi Giovanni Toti e Luigi Brugnaro. E se gli incontri sono stati tutti interlocutori, in serata il leader del Carroccio fa sapere che nelle prossime ore "il centrodestra unito farà proposte di qualità, donne e uomini di alto profilo istituzionale e culturale". Un modo per far sapere anche che, almeno per il momento, resta un forte "no" sul nome di Mario Draghi, che d'altronde nell'incontro di ieri non avrebbe dato al leghista alcuna garanzia sul governo che verrà. Anche Silvio Berlusconi tiene dritta la barra del veto sul premier. Posizione che il leghista condivide con Conte, tant' è che in serata fonti leghiste parlano di "totale sintonia" tra i due. Una strategia confermata ieri pomeriggio anche da Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera, che si aggirava per il Transatlantico ripetendo a tutti gli interlocutori sempre la stessa frase: "Stiamo lavorando a una proposta di centrodestra e ci crediamo molto". Anche Antonio Tajani, durante la riunione dei grandi elettori forzisti di ieri, ha detto che "si sta lavorando a un nome di centrodestra". Così già oggi, dopo la riunione con i grandi elettori e dopo aver informato gli alleati della coalizione, Salvini potrebbe portare la rosa di nomi a Letta: "Le prossime 48 ore saranno fondamentali" ha fatto sapere il segretario del Carroccio agli alleati. E nelle ultime ore nella Lega cresce molto l'opzione che porta alla presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, seconda carica dello Stato, che secondo Salvini potrebbe trovare i consensi nel M5S (che l'aveva già votata nel 2018) ma anche nel Pd, cui farebbe gola la presidenza di Palazzo Madama. Anche a Berlusconi sembra piacere l'ipotesi di Casellati. Tra gli altri nomi ci saranno sicuramente Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio. L'ex pm di Venezia è stato proposto ieri mattina durante l'assemblea del gruppo parlamentare di Fratelli d'Italia. L'obiettivo del leader della Lega è fare breccia nella coalizione giallorosa: "Se presentiamo una figura istituzionale come fanno a dirci di no?" si chiede un esponente di peso leghista. Una strategia che però rischia di arrivare al muro contro muro con il centrosinistra che sembra intenzionato a mettere veti su tutti i nomi della rosa salviniana. E così a quel punto Salvini potrebbe arrivare a un bivio: o tentare il colpo di mano provando a trovare i voti per eleggere un presidente a maggioranza (centrodestra più i renziani), oppure scivolare su un candidato meno identitario ma che potrebbe trovare più sponda tra i giallorosa. Se Salvini esclude il Mattarella bis, il suo è un "ni" nei confronti di Pier Ferdinando Casini su cui sta provando a farlo ragionare Matteo Renzi. E alla fine, come extrema ratio, resta in piedi l'ipotesi Draghi di cui ieri ha parlato anche Umberto Bossi: "Ci si può arrivare alla fine" ha detto il Senatur arrivato a Roma per votare. Un sentiero stretto, quello di Salvini, che deve però tenere conto di una coalizione molto fragile. Perché ieri, nel Transatlantico affollatissimo, in molti tra Forza Italia e Fratelli d'Italia non apprezzavano le mosse da leader della coalizione di Salvini. Da una parte è l'ala liberal azzurra rappresentata dai ministri Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Renato Brunetta ad accusare Salvini di aver annesso Forza Italia dopo il ritiro di Berlusconi, dall'altra anche Meloni vuole essere più coinvolta. Tant' è che la richiesta di inserire Nordio nella lista dei nomi di centrodestra viene visto da molti leghisti come un dito nell'occhio all'ex ministro dell'Interno».
CASINI IN VISTA PER IL COLLE?
Nel retroscena dedicato a Forza Italia e a Silvio Berlusconi Paola Di Caro sul Corriere analizza le chance della candidatura di Pier Ferdinando Casini.
«I suoi continuano ad assicurare che «sta bene», ed è solo sottoposto a «controlli» per il suo noto problema cardiaco, che necessita approfonditi e frequenti check-up. Ma Silvio Berlusconi è ancora ricoverato al San Raffaele, ufficialmente da domenica, secondo boatos addirittura da giovedì scorso. E non si sa ancora quando sarà dimesso per poi godere di un periodo di convalescenza ad Arcore. A non far stare tranquilli i suoi spaesati parlamentari - anche se Sgarbi assicura di averlo sentito e trovato «di ottimo umore» -, che ieri si sono riuniti per rendere omaggio alla sua corsa e per testimoniare che «siamo tutti uniti, e ci muoveremo assieme al centrodestra» come assicura Antonio Tajani, è il fatto che ormai sono giorni che per i più i contatti sono interrotti. E nemmeno tranquillizza troppo la sfilata di amici di una vita e familiari che sono andati a fargli visita: domenica Dell'Utri, ieri Galliani, Confalonieri, le figlie Marina ed Eleonora e naturalmente la compagna Marta Fascina che è rimasta al suo fianco e non è scesa a Roma per votare. Un clima pesante, tanto che ieri tutti sono stati costretti a giurare che «non esistono divisioni in FI», come detta Licia Ronzulli, ed è abbastanza vero che i mugugni delle prime ore e le divisioni interne, le critiche al «cerchio magico» che ha gestito l'operazione scoiattolo esponendolo senza «dirgli la verità sui numeri», e «isolandolo», sono diffuse. Ma oggi lasciano il posto alla necessità di restare uniti, pena l'assoluta irrilevanza. «Ci sono problemi, ma non è questo il momento per affrontarli. Al futuro e all'eventuale gestione di FI penseremo più avanti. Ora dobbiamo fare quadrato attorno a lui e rimanere compatti, anche perché un eventuale gruppetto che vota in dissenso o si stacca in questa fase non avrebbe senso. Vediamo prima cosa succede con il capo dello Stato». Già, è però un fatto che Forza Italia si trovi nei giorni bollenti della trattativa senza la regia diretta del suo leader. Una posizione di debolezza, anche se Antonio Tajani sta facendo le veci del Cavaliere incontrando alleati e avversari, visto che è stato delegato da lui a rappresentarlo, mentre Gianni Letta continua a mantenere contatti con tutti e Salvini, di fatto, a fare la sintesi. Con quale risultato, è difficile dire. Mentre quindi tutti vedono tutti, viene a sera negata una chiamata di Draghi a Berlusconi, di cui molto si era parlato in Transatlantico nel pomeriggio. E la posizione ufficiale di FI su Draghi resta sempre la stessa: non può andare al Quirinale perché «deve guidare il governo» e anche perché - ma queste sono le parole che pronunciava Berlusconi nei giorni scorsi - con lui si instaurerebbe di fatto una «dittatura» dei tecnici e la débâcle definitiva della politica. Ecco allora che l'altra ipotesi che comincia a farsi strada, mentre si lavora ad una rosa di nomi che oggi il centrodestra unito dovrebbe proporre, è che sia Berlusconi a sparigliare proponendo lui la candidatura di Casini, esperto, non chiaramente di parte, della famiglia Ppe. Un discorso che stanno portando avanti soprattutto i presidenti di regione azzurri, da Occhiuto a Bardi a Toma, trovando parecchi proseliti, perché è vero che va lasciato a Salvini lo spazio per tentare l'elezione di un esponente del centrodestra, ma se non riesce, per uscire dall'angolo FI potrebbe davvero intestarsi una proposta che sarebbe per gli altri difficile da rifiutare (tranne forse che per la Meloni). Resta sullo sfondo Draghi. È ancora un no, ma quanto reggerà? Con le dovute garanzie, assicurano i bene informati, forse quello che sembrava un veto potrebbe trasformarsi in possibilità. Con Berlusconi che guarda il tutto da lontano. Finora».
Antonio Polito nel suo commento sul Corriere vede Casini come possibile alternativa a Draghi.
«Ci hanno provato con la tattica di Oronzo Canà, il mitico allenatore interpretato da Lino Banfi: giocare con la Bi-Zona, ovvero il 5-5-5. Ma siccome la matematica non è un'opinione, per tenere insieme la maggioranza di governo, e salvare la legislatura, sono rimaste solo due strade: o si trova il massimo comune divisore, oppure il minimo comune multiplo. Massimo è per definizione Draghi, che già da ragazzo frequentava l'omonimo liceo romano. Minimo è un candidato accettabile da tutti perché non è di nessuno, e perciò evita la rottura della maggioranza: il solito Casini, oppure uno dei due «nomi terzi», uno politico e uno proveniente della società civile, di cui hanno parlato ieri Letta e Salvini. Si dirà: ma nella vita è sempre meglio scegliere il «massimo»! I partiti risponderebbero: sì, però il «minimo» ci moltiplica, il «massimo» ci divide dal potere. Allora sceglieranno il «minimo»? Non è ancora detto; non se rischiano di perdere il «massimo», cosa che in fondo temono, per ottenere solo un «minimo». Per questo ieri, a partire da Salvini, hanno tastato il polso del «massimo»: se ti eleggiamo al Colle, chi nomini premier, ci saranno più ministri politici nel governo, sacrifichiamo qualche tecnico? Ancora una volta hanno avuto una risposta istituzionale: non è nelle prerogative del premier in carica indicare il nome del futuro premier, e comunque per me il governo funziona così com' è. Dunque i leader della maggioranza devono prendere le loro decisioni sotto il «velo dell'ignoranza», cioè senza sapere se la cosa presenterà dei vantaggi, e per chi. Salvini a questo punto ha chiesto tempo a Letta. Casini non mi piace, gli ha detto. Ma dammi quarantotto ore per vedere se troviamo un altro «minimo», che vada bene a me e a voi. Ma chi? Il Capitano ha aperto ieri un altro forno, con Conte. E ha cucinato già un nome che andrebbe bene a entrambi: Franco Frattini, cui pare debba molto anche Di Maio. Il curriculum è di tutto rispetto, ma in tempi di imminente guerra in Ucraina, qualcuno è corso sulla Rete per ritrovare le interviste con cui l'attuale presidente del Consiglio di Stato diceva: «L'Italia bussi al Cremlino», oppure «Basta con le paranoie russofobiche». Se son rose, devono però fiorire oggi. Mercoledì servirebbe per decantare la soluzione. Giovedì per votarla. Oltre le colonne d'Ercole del quarto scrutinio, hic sunt leones».
CONTE E IL REFERENDUM DEI 5 STELLE
E i 5 Stelle? Ieri hanno tenuto una certa disciplina di partito con la scheda bianca. Ma quali sono le prossime mosse? Antonio Bravetti per la Stampa.
«È iniziata la rincorsa di Giuseppe Conte. Staccato dagli altri leader, rimasto indietro mentre intorno a lui iniziano a ragionare seriamente su come mandare Mario Draghi al Quirinale, il presidente del Movimento Cinquestelle prova ora a colmare la distanza. Non può e non vuole restare fuori dalla partita. Il veto su Mario Draghi è destinato a cadere. Lentamente, ma a cadere. Con gioia di tanti grillini che fanno il tifo per il capo del governo. Di Maio rimprovera all'ex premier di non toccare palla, mentre «si sta scivolando verso l'elezione di Draghi» al Colle. Conte, ieri, ha provato a rimettere il Movimento in pista. Una girandola di incontri iniziata la mattina con Enrico Letta e Roberto Speranza. Poi Tajani, Salvini, Toti, Brugnaro. Ma soprattutto la telefonata con Mario Draghi, l'inizio del disgelo. Non è un mistero che l'attuale inquilino di palazzo Chigi parli spesso con Di Maio ( «L'ho sentito più volte- dice il ministro degli Esteri- come potrei non farlo, con la crisi ucraina in corso? »). E, a sentire alcuni parlamentari del Movimento, succede anche che ogni tanto Beppe Grillo e Draghi si telefonino. «Se Conte non si sbriga finisce che parla Grillo», confidava ieri un ex ministro. Ecco perché Conte si è messo a correre. Dopo il vertice con Letta e Speranza, l'ex premier spiega che «va scongiurata la paralisi istituzionale, che sarebbe la cosa peggiore in questo momento. Non possiamo fermare l'azione di governo neanche di un giorno solo. Questo non significa un veto a Draghi, che è un profilo alto, super partes e ci renderebbe orgogliosi di essere rappresentati come italiani, ma adesso Draghi si è assunto una grande responsabilità di governo che va portata avanti». Proprio mentre incontrava Letta e Speranza, il Transatlantico accoglieva i primi grandi elettori. Stefano Buffagni e Michele Gubitosa conversavano nervosi sul divanetto accanto alla buvette. «Draghi è un nome di alto profilo- diceva poco più tardi Buffagni- ma ci sono anche altre questioni per dare risposte ai cittadini». Eccolo il nodo che resta: l'accordo sul governo che verrà. Negli incontri del pomeriggio con Tajani, Salvini, Toti e Brugnaro, Conte ha capito che la palla sta rotolando nella direzione di Mario Draghi. Come un tiro alla fune: un passo alla volta, ma inesorabilmente, Conte sta scivolando nel campo degli avversari. Per non parlare del fronte interno. Dall'assemblea dei grandi elettori grillini sono arrivati molti inviti a correggere la rotta. Generoso Maraia, Danila Nesci, Gianfranco Di Sarno, Marialuisa Faro, Andrea Caso, Gianluca Vacca, Antonio Del Monaco, Davide Serritella. L'elenco è lungo: tutti rimproverano a Conte il veto su Draghi. Lui prende tempo, prova a strattonare la fune. Tiene il punto sulla candidatura di Andrea Riccardi, non vuole essere il primo a fare il nome di Draghi. Aspetta che siano Pd e Lega a lanciare il banchiere. Dopo gli incontri pomeridiani, in serata riunisce la cabina di regia del movimento. Ai suoi spiega che «la linea del Movimento 5 Stelle non cambia: massima apertura al dialogo con le altre forze politiche per la ricerca di un profilo condiviso, senza fermare l'azione dell'attuale governo. Dobbiamo accelerare per dare al Paese non solo un autorevole presidente della Repubblica, ma anche una soluzione che non faccia perdere neanche un giorno di lavoro al governo». La fune scivola via dalle mani in una sfumatura: il veto a Draghi non c'è più, l'imperativo diventa trovare «una soluzione» per far proseguire l'azione di governo. «L'eventuale nascita di un altro esecutivo- ragiona- avrebbe bisogno di un passaggio sulla rete degli attivisti». Mentre Conte incontra Salvini, in Transatlantico Luigi Di Maio si fa protagonista. Saluta Giorgetti, l'amico ministro con cui si concede una pizza ogni tanto, conversa fitto fitto con Brunetta, chiacchiera con Paola De Micheli e Alessandro Zan. A cercarlo, mentre staziona in bella mostra davanti alla buvette, sono molti deputati di Forza Italia. Chi ha parlato con lui racconta che la soluzione preferita da Di Maio sarebbe congelare il presente: Sergio Mattarella al Quirinale e Mario Draghi a palazzo Chigi. Ma è quasi impossibile, e lo sa. Si sta scivolando verso l'elezione di Draghi al Colle, osserva, e i Cinquestelle non hanno giocato la partita. Per Di Maio è ora che il Movimento scenda in campo. Anche perché, a sentire gli umori dei palazzi, l'ascesa di Draghi al Colle potrebbe portare proprio lui a palazzo Chigi».
LETTA: NON POSSIAMO PERDERE DRAGHI
Enrico Letta è molto preoccupato ma insieme è soddisfatto che sia iniziato un confronto. Carlo Bertini per La Stampa.
«Qui rischiamo una crisi al buio che potrebbe farci perdere Draghi sia al Colle sia a Palazzo Chigi, da troppi giorni il centrodestra sta scaricando il peso delle sue tensioni sulla sua figura e sul governo». A fine giornata, dopo aver visto Matteo Salvini e parlato con Mario Draghi, Enrico Letta è molto preoccupato. E con i suoi dirigenti lancia un alert: l'incontro con Matteo Salvini «è andato bene», dice ai big della segreteria, perché anche il capo leghista dice che bisogna trovare un'intesa su un nome condiviso, senza andare ad un muro contro muro, spiegano dal Nazareno. Il problema però è che Salvini pone condizioni di ogni sorta, sia per far andare Draghi al Colle, sia per la permanenza del premier al governo, chiedendo di contare di più in entrambi i casi. «L'offensiva di Draghi per verificare se ci sono spazi per la sua elezione», come la definisce un ex ministro, non sembra aver prodotto grandi risultati. Anzi. Dopo uno spiraglio di sole, il cielo si è riempito di nubi. E ora qualcuno spera in un vertice di Draghi con i leader dei partiti per sbloccare la situazione. L'espressione contrita di Pierferdinando Casini mentre entra alla buvette della Camera, la dice lunga sui patimenti del candidato più gettonato dopo Mario Draghi. «Bisogna aspettare», dice il navigato ex presidente della Camera, sfoggiando un completo gessato blu delle grandi occasioni: se ogni giorno ha la sua pena, quella di ieri era assistere all'affondo del premier con i partiti. Che però ancora non ha fatto breccia come sperava Letta. Salvini infatti ha sfoderato le sue pretese sul governo, se è vero che avrebbe chiesto la casella di ministro dell'Interno per il suo ex capo di Gabinetto, il prefetto Matteo Piantedosi, nome poco gradito alla sinistra. Aprendo una trattativa a cui il premier avrebbe posto un freno ma che conferma la volontà di pesare di più e di creare problemi a Draghi. I dem già sono irritati infatti. Sentendo cosa pensano i pezzi grossi del Pd su come il premier dovrebbe pilotare la sua candidatura, si percepisce una critica preventiva: «Draghi non può promettere ministeri - fa notare uno dei capicorrente Pd - ma deve fare da levatrice al futuro governo e muoversi come fece Mattarella, come se fosse già presidente, con cautela». Tutti i ministri dem, da Lorenzo Guerini ad Andrea Orlando, ammettono nelle loro riunioni che se si sbloccasse la partita su Draghi (con 5stelle, Lega e Forza Italia disponibili a votarlo) «non potremmo dire di no», ma l'entusiasmo non è alle stelle. Non è un mistero che Dario Franceschini tifi per Casini, al pari di Matteo Renzi, ma su Draghi il Pd sarebbe compatto, al netto di franchi tiratori ex renziani, magari vogliosi di rifilare un «colpetto» al segretario e a blindare il governo per evitare rischi. No a Casellati, ma si tratta Letta punta a uscirne bene: a Salvini ha ripetuto che il Pd non voterebbe Maria Elisabetta Casellati, Letizia Moratti e Marcello Pera. E che l'unica strada per avere un governo efficace resta un patto di legislatura e la ricerca di un nome super partes sostenuto da una maggioranza larga come quella di Draghi. Altrimenti - è questo il ragionamento - il rischio di una crisi di sistema è alto, «non solo di governo, ma diremo al mondo che non siamo in grado di tutelare in posizioni chiave la più preziosa risorsa di cui disponiamo». Invece ci sono i margini per una trattativa, sia per tutelare Draghi che il governo. Letta spera si sia aperto un dialogo, farà il secondo presssing su Salvini oggi, anche perché se Draghi tramontasse, pochi nel suo partito credono a un bis di Mattarella: e molti ex renziani tifano per un compromesso, anche se la sinistra non ritiene che Casini possa essere il punto di caduta: potrebbe non garantire Draghi nella funzionalità del governo, dicono quelli che si immedesimano nei pensieri del premier...».
PANDEMIA, INIZIA LA DISCESA DI OMICRON
Il commissario Figliuolo è ottimista: dopo tre mesi ora calano i positivi. Gli infetti attuali sono scesi di 25mila: non accadeva da ottobre. La cronaca di Chiara Campo sul Giornale.
«Buone notizie, sembra che siamo arrivati al plateau della curva per quanto riguarda Omicron per cui si sta andando in discesa, speriamo che questo sia il trend consolidato. Negli ultimi due giorni anche in Lombardia il numero degli ingressi in ospedale è inferiore al numero dei dimessi, questo fa ben sperare». Il generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario all'emergenza Covid, proprio ieri ha fatto un sopralluogo in Lombardia, prima a Gallarate, dove l'ex caserma dell'Aeronautica Militare è stata trasformata in un grande centro vaccinale e per i tamponi, poi al centro vaccinale pediatrico realizzato nella stessa struttura che ospita anche l'ospedale in Fiera a Milano. É da lì che Figliulo, con il responsabile della campagna vaccinale in Lombardia Guido Bertolaso, lancia il monito: «Le doti dolenti ci sono. Ora qui sono ricoverate in terapia intensiva 25 persone, tutte non vaccinate. Ci tenevo a dirlo, spero che chi ancora esita capisca questo messaggio, è davvero molto importante vaccinarsi». Ieri l'Italia registrava 2,7 milioni di positivi, 25mila in meno rispetto al giorno prima. La campagna «va avanti secondo i ritmi prefigurati, abbiamo superato l'87,2% di persone totalmente vaccinate, siamo a 30,3 milioni di booster o richiami su una possibile platea di 39,5. Questo ha alzato una buona barriera contro la variante Omicron. L'Italia sta facendo molto bene, siamo visti anche a livello internazionale come un punto di riferimento, siamo un benchmark. Bertolaso anticipa che arriverà «probabilmente» a febbraio in Lombardia anche il nuovo Novavax, ma «come già succede per Pfizer e Moderna non si potrà scegliere».Insieme spingono l'acceleratore sulle vaccinazioni per i bambini, «la Lombarda ha raggiunto oltre il 33% di prime dosi su una media nazionale del 28,5 - fa i conti Figliuolo -, ora è seconda solo a Puglia e Calabria. Dobbiamo spingere». La Lombardia lo farà «anche rivedendo dalla prossima settimana tempi e spazi disponibili, come anticipa Bertolaso: «Apriremo di più i centri fino a mezzanotte invece che la mattina, quando i bimbi sono a scuola e i genitori lavorano, e il prossimo sarà il primo weekend con tutti i centri vaccinali della Lombardia aperti senza bisogno di prenotazione per i bambini. Sono la nostra priorità e vogliamo che le famiglie vengano quando sono più libere». Sul green pass senza scadenza per chi ha il booster e sulla revisione delle regole per le quarantene nella scuola Figliuolo specifica che «le norme sono fatte in un preciso momento, poi tutto può essere adeguato in funzione della circolazione del virus. C'è un tavolo tecnico a guida Ministero della Salute e daremo presto delle risposte di buonsenso a tutte queste richieste». Secondo un'elaborazione della Società italiana di pediatria su dati dell'Istituto superiore di sanità solo il 7% dei 3,6 milioni di bambini italiani tra i 5 e 11 anni ha completato il ciclo con due dosi e il 27% ha fatto la prima. La crescita del tasso di incidenza sta rallentando «in tutte le fasce d'età tranne che nei bambini - avverte la presidente Sip Annamaria Staiano -. Nell'ultima settimana ci sono state circa 400 ospedalizzazioni tra 5 e 11 anni sui 835 della fascia 0-19». Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) calcola invece che a livello giornalieri la percentuale di posti occupati da pazienti Covid nei reparti ospedalieri di area non critica è ferma al 30% in Italia ma cresce in 11 regioni o province autonome: Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Bolzano, Trento, Sardegna, Sicilia, Valle d'Aosta e Friuli Venezia Giulia. Cala in Lombardia, Marche, Toscana. Stabile in Basilicata, Calabria, Molise, Piemonte, Puglia, Umbria, Veneto. E in Lombardia da ieri chi si vaccina è obbligato a presentare anche la carta d'identità. «Purtroppo - spiega Bertolaso - abbiamo rilevato dei furbi che si presentavano con tessera sanitaria non loro», per far ottenere un green pass ai no vax».
Libero si occupa del dottore no vax finito in manette, con l’accusa di omicidio colposo. La cronaca è a firma di Alessandro Gonzato.
«Intrugli a base di funghi e niente ricovero. Il paziente, cardiopatico, iperteso, con colesterolo, diabete e problemi di prostata, aveva da giorni 39 di febbre. L'8 dicembre è stato stroncato da un infarto del miocardio. Il suo medico, Roberto Petrella, ginecologo di 75 anni, (...) strenuo no-vax, ieri è stato arrestato e posto ai domiciliari con l'accusa di omicidio colposo: non avrebbe effettuato una diagnosi corretta (per telefono, peraltro) e non avrebbe indicato un adeguato trattamento terapeutico. Qualche ora prima del decesso (l'uomo abitava nel Casertano), stando alla ricostruzione dei fatti la moglie avrebbe telefonato preoccupata al dottore - alle 6.20 del mattino - il quale le avrebbe sconsigliato di portarlo all'ospedale: «Ma no! Se ci va muore, lo intubano (...) aspetta! Stia tranquilla, lei è nel panico, non muore suo marito (...) dagli delle spremute, dagli delle vitamine, polivitamine, hai capito?». Tra queste il mix di funghi. Il gip di Catanzaro ha disposto il provvedimento per evitare la reiterazione della condotta, dal momento che secondo la procura, Petrella - su cui pendeva già la richiesta di radiazione da parte dell'ordine dei medici di Teramo, la sua città- aveva sollecitato i pazienti più volte a seguire cure alternative, chiamiamole così, prive di validità scientifica. Lo avrebbe fatto anche con una signora che a casa aveva un famigliare positivo al Covid («le persone vaccinate stanno morendo a decine, il virus non esiste, lo fanno apposto - testuale) che secondo Petrella, appunto, (ipse dixit a novembre 2020 all'inviato di "Piazza Pulita", su La7) «non esiste, esiste il virus influenzale». E di seguito, in un italiano zoppicante: «Il vaccino è inutile e contiene sostanze pericolosissime. Diminuisce le difese immunitarie ed è una manipolazione genetica. Il virus ce l'abbiamo dalla nascita, ce li abbiamo tutti. Devono distruggere l'Italia è quello Bill Gates, Fauci ha finanziato con i soldi. Tutti i ceppi antinfluenzali del 2019 e del 2020 contengono il Covid-19, bastardi! Dove stanno questi morti? Dove sta la pandemia, voi dati i numeri, non date le certezze. Studiate!». Lui ha studiato e due giorni prima che il paziente morisse riportiamo le intercettazioni telefoniche della Procura - alla moglie aveva detto «che la febbre vuol dire liberazione dalle tossine, per alcuni giorni non succede niente». Invece alla sua segretaria, dopo che questa gli aveva comunicato la morte del «camionista», avrebbe risposto: «(...) quando uno c'ha l'omocisteina alta, il colesterolo alto, il diabete alto, rischia la morte da un momento all'altro». Poi, riferendosi alla chiamata della moglie del paziente: «Mi ha chiamato a me e io... che ti pozzo far (...) cioè, tu stai là e chiami a me... è morto eh!». A inizio novembre Petrella era balzato agli orrori delle cronache per aver partecipato a una riunione di no-vax a Fabriano (Ancona) dentro a una chiesa, incontro che ha prodotto 21 positivi e 87 persone in quarantena. Secondo il Petrella nei vaccini contro il Covid ci sono «tessuti umani di feti abortiti» e negli Stati Uniti c'è una società che uccide «dai 4 ai 5 mila bambini al giorno» per usarli come componenti per i farmaci sviluppati per fermare la diffusione del virus. L'Ordine di Teramo, dicevamo, lo vuole cacciare dal 2019, ma lui ha fatto ricorso e il provvedimento è sospeso. La radiazione è stata decisa a causa della campagna condotta dal ginecologo avversa alla vaccinazione gratuita e obbligatoria contro il papilloma virus sulle ragazze di 12 anni».
RAPPORTO PEDOFILIA, RATZINGER CHIEDE SCUSA E SI CORREGGE
Dichiarazione del Papa emerito a parziale correzione di una sua precedente presa di posizione. Domenico Agasso per La Stampa.
«Dal Monastero Mater Ecclesiae nei Giardini vaticani giungono le prime parole di Ratzinger dopo il report sulla pedofilia nell'arcidiocesi di Monaco, di cui il futuro Papa Benedetto XVI è stato arcivescovo dal 1977 al 1982. Rappresentano una correzione rispetto a una dichiarazione cruciale rilasciata relativamente al dossier (che ha individuato 497 vittime dal 1945 al 2019 e 235 responsabili): il Pontefice emerito, contrariamente al suo precedente resoconto, riconosce di avere partecipato alla riunione dell'Ordinariato il 15 gennaio 1980, durante la quale si parlò di un sacerdote della diocesi di Essen che aveva abusato di alcuni ragazzi ed era giunto a Monaco per una terapia. «L'affermazione contraria era quindi oggettivamente errata», ammette per conto di Ratzinger il suo segretario monsignor Georg Gaenswein. In quell'incontro si diede il via libera al trasferimento nella diocesi di Monaco e Frisinga di padre Peter Hullermann, che poi avrebbe compiuto altre violenze sessuali. Ratzinger sostiene che lo sbaglio «non è stato commesso in malafede» ma fu «il risultato di una svista nella stesura della dichiarazione». Si dice «molto dispiaciuto», si scusa e ribadisce «vergogna e dolore» per gli abusi. E precisa che sul pedofilo di Essen «non è stata presa alcuna decisione circa un incarico pastorale»; piuttosto, la richiesta è stata approvata solo per «consentire una sistemazione per l'uomo durante il trattamento terapeutico a Monaco». Resta in piedi, però, la questione che Ratzinger era a conoscenza delle accuse di pedofilia al prete. Al di là delle dinamiche e responsabilità da individuare, Oltretevere più di un prelato nota due aspetti formali: la «solitudine di Ratzinger» e l'«inciampo» del cambio di versione. La parziale ammissione è apparsa «affrettata». Benedetto ha parlato tramite Gaenswein, che ha rilasciato il comunicato all'agenzia cattolica tedesca Kna, ripresa dal sito della Santa Sede Vatican News. «Ma non sembra esserci una strategia organizzata con l'apparato ufficiale della comunicazione vaticana», dice un alto prelato. In sostanza, Benedetto apparirebbe per ora solo o quasi a difendersi contro le gravi accuse giunte dalla natia Baviera, quei «comportamenti erronei» nell'affrontare quattro casi di preti abusatori. Non pochi monsignori pensano che il Papa emerito sia sotto attacco «con l'intento di screditarlo per l'inossidabile legame con l'ortodossia»: non sarebbe un caso che le imputazioni arrivino «dalla Germania, dove la Chiesa è prevalentemente aperturista e riformista». La nota diramata da Gaenswein informa che Benedetto XVI si è fatto inviare subito «il rapporto dallo studio legale Westpfahl Spilker Wastl come file Pdf». Anche se cerca «di leggerlo velocemente, chiede la vostra comprensione che a causa della sua età e salute, ma anche per le grandi dimensioni (quasi 2mila pagine, ndr), ci vorrà del tempo per leggerlo per intero. Ci sarà un commento sulla perizia».
GUERRA IN UCRAINA, BIDEN ALLERTA LE TRUPPE
La crisi sull’Ucraina. Il Presidente Usa Joe Biden mette in allerta 8.500 soldati e la Nato invia jet e navi verso Baltico e Mar Nero poi chiama gli alleati europei e si consulta con Draghi. Alberto Simoni, corrispondente da Washington per La Stampa.
«Soldati in stato di allerta, armi agli ucraini e ritiro del personale non necessario dall'ambasciata a Kiev. Il presidente americano Joe Biden imprime un'accelerazione drammatica nella gestione della vicenda ucraina e poi parla con gli alleati europei - fra cui il premier italiano Mario Draghi - in una videoconferenza durata 1 ora e 20 per fare il punto sulla situazione e ribadire la compattezza alleata. La Casa Bianca ha sottolineato «l'unanimità» di vedute con gli europei sia sui «preparativi per imporre gravi costi economici alla Russia» sia su come «rafforzare la sicurezza sul fianco orientale». Biden ha enfatizzato la totale unanimità anche per dissipare i dubbi sulla tenuta occidentale e fare chiarezza su alcune divergenze emerse negli ultimi giorni con Berlino sulla consegna di armi a Kiev. «In febbraio il neo cancelliere tedesco Olaf Scholz sarà alla Casa Bianca» aveva annunciato pochi minuti prima della videoconferenza la portavoce di Biden Jen Psaki in un ulteriore gesto distensivo. Fonti di Palazzo Chigi hanno riassunto l'incontro sottolineando «l'esigenza di una risposta comune» e «il sostegno alla sovranità e all'integrità territoriale dell'Ucraina». La diplomazia internazionale ha rilanciato la necessità di tenere «aperto un canale di dialogo con la Russia» chiarendo nel contempo «le gravi conseguenze che un ulteriore deterioramento della situazione potrebbe comportare». Ben prima della conference call gli europei erano rimasti sorpresi dalla rapidità con cui Usa, Regno Unito e Australia avevano deciso l'evacuazione del personale diplomatico dalle ambasciate a Kiev definendo l'azione - parole di Josep Borrell, capo della diplomazia Ue - «un'eccessiva drammatizzazione». Il fatto è che a Washington sembrano convinti che il ventaglio delle misure di deterrenza non può reggersi interamente sulla minaccia delle sanzioni, pur se pesantissime e destinate a colpire non solo il comparto finanziario ed energetico ma anche - secondo un'anticipazione del Washington Post - la capacità russa di procurarsi all'estero semiconduttori e altre materie chiave per le tecnologie. La via maestra resta la diplomazia e Washington continuerà a perseguirla con determinazione. Ma nessuno scarta ormai apertamente l'ipotesi che non possa fallire tanto da far dire a Linda Thomas Greenfield, ambasciatrice Usa all'Onu: «Siamo pronti a ogni opzione se la soluzione diplomatica non funzionasse». Questra strada sembra più stretta di qualche giorno fa: i rapporti che sono arrivati a Biden nel weekend a Camp David hanno convinto la Casa Bianca ad ampliare il ventaglio delle opzioni delle deterrenza. Preoccupano non solo i 100mila soldati russi ai confini con l'Ucraina e la possibilità di un'invasione, ma anche le esercitazioni che ai primi di febbraio Mosca terrà in Bielorussia dove ha già spostato 13mila uomini. Da lì si aprirebbe un'altra direttrice per l'invasione. Secondo il Dipartimento di Stato, Mosca è nella posizione di «lanciare un attacco in qualsiasi momento». Nei giorni scorsi Blinken aveva ipotizzato una finestra fra il 15 gennaio e il 15 febbraio. Pertanto, anche le informazioni di intelligence riferite dalla Cnn che «la Russia proverà a prendere Kiev e rovesciare il governo» ora vengono trattate con un livello di credibilità maggiore. Boris Johnson ha parlato di prove di piani per «una guerra lampo per prendere la capitale Kiev». La risposta è affidata al Pentagono che ha messo in stato di allerta 8500 soldati basati negli Usa ai quali - ha precisato il portavoce John Kirby - non è stata ancora assegnata una missione né un ordine di dispiegamento. Tuttavia, gli uomini sono «pronti in caso di necessità» poiché «è ormai chiaro che Mosca non ha alcuna intenzione di perseguire una de-escalation». Il segretario generale Jens Stoltenberg ha ribadito che l'Alleanza «prenderà tutte le misure necessarie per proteggere e difendere tutti gli alleati, incluso il rafforzamento del fronte orientale». I soldati dell'Alleanza sono in uno stato di allerta e pronti al ridispiegamento. Il Pentagono sta anche individuando 5mila uomini di stanza in Europa occidentale da dispiegare nei Baltici. Sono 40mila i militari della forza multinazionale su cui poter subito far affidamento. In quest' ottica Danimarca, Spagna, Francia e Paesi Bassi manderanno uomini, aerei e navi, a protezione delle frontiere orientali. Attualmente la Nato ha 4mila soldati schierati in battaglioni multinazionali nei tre Paesi baltici e in Polonia. Ieri notte invece è atterrato un secondo velivolo americano a Kiev portando 80 tonnellate di equipaggiamenti che si aggiungono alle armi e munizioni arrivate il giorno prima. Stessa operazione la stanno conducendo i britannici. L'attivismo militare di Nato e Usa ha innescato la replica di Mosca che parla di «annunci isterici». Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha tuonato contro «le manovre della Nato» e avvertito che il rischio «di provocazioni da parte ucraina nel Donbass è più alto». In questo clima da venti di guerra Macron proporrà a breve a Putin una road map della de-escalation».
Anna Zafesova sempre sulla Stampa scommette che Mosca non si azzarderà mai ad una vera invasione militare sul campo.
«Una guerra ibrida si vince sempre", ripete da settimane Yulia Latynina, scrittrice e oppositrice russa, convinta che il Cremlino non si azzarderà mai a correre il rischio dei "boots on the ground" in Ucraina, preferendo rimanere nel mondo virtuale della sua propaganda. La guerra impazza già nella dimensione mediatica, e mentre la Tv ucraina mostra aerei americani e britannici che atterrano a Kiev pieni di aiuti militari, i talk show russi parlano di una imminente "occupazione della Nato". La tensione aumenta al punto che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è costretto per la seconda volta in pochi giorni a rivolgersi alla nazione: «Non ci sono motivi di panico, la situazione è sotto controllo», dichiara, mentre Washington richiama il personale diplomatico da Kiev e invita i suoi cittadini a lasciare quella che rischia di diventare una zona di conflitto. Mentre poco o nulla trapela dalle stanze della diplomazia, le controparti stanno aprendo le loro carte. A iniziare è stato Putin, con il suo ultimatum a Usa e Nato. Un bluff, secondo il Centro di strategie difensive di Kiev: un'analisi, firmata tra gli altri dall'ex ministro della Difesa Andriy Zagorodniuk, boccia l'ipotesi di una guerra su larga scala come "improbabile". La Russia non ha i mezzi per una guerra "vera", militari ancora prima che economici e politici, e gli esperti ucraini concordano su rischi altissimi di guerra "ibrida": propaganda e cyberwar uniti a incursioni nel Donbass già occupato. In altre parole, più o meno quello che succede da otto anni ormai. Quello che è cambiato è che Joe Biden sembra aver accontentato la richiesta di Putin di venire preso sul serio, e insieme a un invito al negoziato strategico Mosca ora riceve piccoli e grandi moniti. Rinforzi alla Nato nell'Est Europa, minacce di sanzioni economiche, voci raccolte dalla Cnn sugli Usa che cercano forniture di gas alternative per l'Europa, nuovi aiuti Ue a Kiev: l'offensiva, almeno a livello retorico, è passata agli occidentali, e non a caso negli ultimi giorni i diplomatici russi hanno cominciato a declassare nella loro retorica l'importanza del dossier Ucraina. Intanto la Borsa di Mosca e il rublo continuano a precipitare, ed è sintomatico che esperti del calibro Andrey Kartapolov - ex general-colonello dello Stato Maggiore, oggi a capo del comitato Difesa della Duma - stanno teorizzando che la supremazia russa nel campo dei missili rende "obsoleta" la logica delle sfere d'influenza e dei territori "cuscinetto". L'inno ai nuovi missili ipersonici può suonare come un delirio, ma permette una retromarcia onorevole: un Paese così potente da poter spazzare via Washington e Londra non ha bisogno di perdere tempo con una ex colonia ribelle. Se una guerra è "ibrida", vincerla a parole è perfino più importante che nella realtà. La proposta di riconoscere le "repubbliche popolari" di Donetsk e Luhansk già occupate e mantenute da Mosca è apparsa in sordina nell'ordine del giorno della Duma, in attesa di capire se il Cremlino la accetterà come piano B per non perdere la faccia. Dal punto di vista di quei putiniani che si rendono conto che la guerra sarebbe fatale innanzitutto per loro, si tratta infatti di una soluzione ottimale: la situazione sul terreno di fatto cambierebbe poco, senza (quasi) violare i paletti delle sanzioni posti da Biden, i militari russi che sfondano il confine ucraino. La propaganda canterebbe una nuova conquista "geopolitica" di Putin, impegnato nel delicato compito di convincere i russi (e la sua stessa élite) della sua insostituibilità in vista delle elezioni del 2024. Che potrebbe essere la vera partita che il Cremlino sta giocando sulla pelle dell'Ucraina».
Analisi di Gian Micalessin sul Giornale: all’Ucraina, più che la Nato, servirebbe l’Europa.
«Euromaidan o Natomaidan? Otto anni dopo, il dubbio (o il sospetto) è quanto mai lecito. Mentre sulla crisi ucraina si allunga l'ombra di una nuova guerra fredda, o addirittura di uno scontro armato, l'Europa e la stessa Ucraina sembrano aver perso di vista gli obbiettivi delle proteste che, il 22 febbraio 2014, costrinsero alla fuga il presidente filo-russo Viktor Yanukovych. Dietro quelle dimostrazioni non c'era il sogno di entrare nell'Alleanza Atlantica, ma bensì di aderire a un «Trattato di associazione europea» capace di garantire uno sviluppo economico allargato all'orbita europea e non più limitato esclusivamente alla sfera post-sovietica. L'accordo, rifiutato al tempo da Yanukovych, è diventato realtà il primo settembre 2017. Ma la firma dei trattati non coincide quasi mai con la loro piena e concreta applicazione. E questo è assai evidente in Ucraina. A otto anni dalla cacciata di Yanukovych, il Paese non s' è avvicinato di molto all'Europa. A Kiev - come nel migliore dei «gattopardi» post sovietici - tutto è cambiato mentre nulla cambiava. Gli oligarchi restano al di sopra della legge e al potere politico, mentre corruzione e sfruttamento delle risorse pubbliche per interessi personali rendono il paese incompatibile con gli standard minimi previsti dalla legislazione e dalle regole europee. Ma a Bruxelles, come a Kiev, pochi sembrano farci caso. Anche perché il mantra più in voga non è più l'adesione all'Unione europea, ma all'Alleanza Atlantica. Insomma le aspirazioni di sviluppo economico e progresso sociale germogliate con Maidan sembrano esser state dimenticate e abbandonate a vantaggio di una crescente aspirazione alla difesa da Mosca. Ragioni in parte giustificabili, vista l'annessione della Crimea e l'appoggio russo ai secessionisti del Donbass. Ma vale anche il discorso inverso. Sostenere astrattamente, come fa l'amministrazione Biden, assieme ai paesi Baltici e alle capitali dell'Europa orientale, il diritto di Kiev a entrare nella Nato equivale a regalare pretesti a Mosca, accrescere la tensione e allontanare la realizzazione di quell'accordo di Associazione europea che rappresentava il vero grande sogno dell'Ucraina. Da questo punto di vista, il pacchetto di aiuti per oltre un miliardo di euro, prospettato ieri dai ministri degli Esteri dell'Unione, va sicuramente nella direzione giusta. Ma da solo non basta. L'Europa deve saper dialogare alla pari con gli Stati Uniti ricordando alla Casa Bianca che il permanere della contrapposizione militare con Mosca non è in linea con gli interessi dei 27 in quanto allontana lo sviluppo e il progresso dell'Ucraina. Anche perché un modello di sviluppo europeo capace di garantire opportunità e benessere anche alle regioni orientali è il più efficace per riunire il Paese e rimarginare le ferite secessioniste. Mentre lo scontro con Mosca, nel nome dell'Alleanza Atlantica, contribuisce soltanto ad allargare il fossato con l'Europa».
Domani preghiera per la pace, indetta da Papa Francesco. Luca Geronico per Avvenire.
«La «preoccupazione» per la crisi in Ucraina è fra le priorità per papa Francesco che domenica durante il dopo Angelus ha lanciato un appello a tutte le persone di «buona volontà» perché domani, nel segno della fratellanza umana, sia una «giornata di Preghiera per la pace». «Seguo con preoccupazione l'aumento delle tensioni che minacciano di infliggere un nuovo colpo alla pace in Ucraina e mettono in discussione la sicurezza nel continente europeo, con ripercussioni ancora più vaste », ha affermato Jorge Bergoglio domenica da piazza San Pietro. «Faccio un accurato appello a tutte le persone di buona volontà perché elevino preghiere a Dio Onnipotente affinché ogni azione e iniziativa politica sia al servizio della fratellanza umana più che di interessi di parte. Chi persegue i propri scopi a danno degli altri, disprezza la propria vocazione di uomo, perché tutti siamo stati creati fratelli», ha aggiunto il Pontefice. «Per questo e con preoccupazione, viste le tensioni attuali, propongo che mercoledì prossimo, 26 gennaio, sia una giornata di preghiera per la pace», è stato l'appello di Francesco. Un rischio escalation nel cuore dell'Europa che ha mobilitato i vescovi di Ucraina e Polonia, che ieri hanno diffuso un appello congiunto per «la ricerca del dialogo e della comprensione » al fine di scongiurare il «pericolo di una guerra». L'occupazione del Donbas e della Crimea, afferma l'appello - firmato fra gli altri dall'arcivescovo Sviatoslav Szewczuk, primate della Chiesa Greco-Cattolica Ucraina e dall'arcivescovo Stanislaw Gadecki, presidente della Conferenza episcopale polacca - ha dimostrato che Russia «violando la sovranità nazionale e l'integrità territoriale dell'Ucraina, manca di rispetto per le norme vigenti del diritto internazionale». I vescovi chiedono invece di cercare «metodi alternativi alla guerra per risolvere i conflitti internazionali». Un'esigenza urgente, perché «il potere terrificante degli strumenti di distruzione a disposizione anche delle medie e piccole potenze» rende «praticamente impossibile limitare gli effetti del conflitto». Per questo i vescovi ucraini e polacchi chiedono che qualsiasi divergenza sia risolta «non con l'uso delle armi ma attraverso gli accordi». La minaccia di intervento militare sta peggiorando una situazione umanitaria già difficile in Ucraina: dal 2014, ricorda Caritas Ucraina che ha lanciato un appello alla solidarietà internazionale: sono state più di 14000 le vittime e 1,3 milioni gli sfollati».
GIÙ LE BORSE, LA PEGGIORE È MILANO
Tempesta perfetta ieri sui mercati di tutto il mondo. Le grandi incertezze sulle future mosse della Banca centrale americana e sulla crisi con Mosca per l’Ucraina scatenano le vendite. Milano registra un record negativo: -4,02%. Vito Lops per Il Sole 24 Ore.
«Di questi tempi i mercati finanziari sembrano coltelli che cadono. I grafici mostrano indici e titoli in picchiata, soprattutto sugli asset più rischiosi, quali azioni, materie prime e criptovalute. Il lunedì nero ha portato via dalle Borse europee 386 miliardi di euro di capitalizzazione a fronte di un ribasso medio (indice Stoxx 600) del 3,6%. A Piazza Affari il Ftse Mib ha perso 4,02%, peggiore seduta dal 26 novembre. Profondo rosso in giornata anche dalle parti di Wall Street con cali intraday fino al 4% per l'S&P 500 e al 5% per il Nasdaq, che però in chiusura sono tornati in positivo. In poco meno di un mese l'indice tecnologico è arrivato a perdere (-18%) quasi tutto quanto incamerato nel 2021 (+22%). È la riprova che i mercati salgono con le scale e, quando scendono sul serio, prendono l'ascensore. Non si è salvato neppure il petrolio (in calo fino a -3% a 82 dollari al barile) mentre il prezzo di Bitcoin ha perso a tratti i 34mila dollari (per poi recuperare in serata) andando praticamente a dimezzare la performance rispetto ai massimi storici del 9 novembre (articolo su cripto-arte a pagina 24). Sullo sfondo dati macro in calo per gli Usa con la lettura preliminare dell'indice Pmi servizi di gennaio sceso a 50,9 punti rispetto ai 57,6 del mese precedente. In contrazione anche il manifatturiero, da 57,7 a 55 punti. Quella di ieri è stata una chiara seduta di de-risking. Gli investitori hanno ridotto l'esposizione nei settori risk-on e più volatili. A farne le spese sono stati anche i titoli value, quelli più agganciati al ciclo economico che erano invece stati acquistati nei ribassi delle sedute precedenti, che avevano evidenziato una rotazione dei portofagli più che vendite generalizzate. La volatilità delle azioni a Wall Street è balzata del 35%, vicina a quei 40 punti che non si vedevano da ottobre 2020. Hanno tenuto invece i titoli di Stato che hanno rivestito i panni di bene rifugio. Sono stati acquistati i Treasury Usa tanto nelle brevi scadenze (i tassi a 2 anni sono scesi nuovamente sotto l'1%) quanto sulle lunghe (il decennale si è portato all'1,7% dopo un picco all'1,9% a metà mese). Anche il Bund tedesco ha attratto capitali spaventati tanto che il tasso è tornato a -0,1% dopo essersi azzerato qualche giorno prima. L'oro, invariato, ha tenuto botta in una giornata per cuori forti dove, tra le valute, franco svizzero, dollaro e yen si sono comportati come da copione, ideali parcheggi della liquidità in fasi di turbolenza. Come si spiega questa delicata fase? Il pressing sulla Fed Gli investitori attendono l'esito del Fomc, il comitato operativo della Federal Reserve, che parte oggi e si concluderà domani sera. A quel punto il governatore Jerome Powell aggiornerà la politica monetaria. Di quanto (e quando) verranno alzati i tassi di interesse? È questo il primo dubbio degli investitori. Goldman Sachs prevede un ritmo più rapido di inasprimento della Fed con la possibilità intraprenda azioni restrittive ad ogni riunione a partire da marzo fino a quando il quadro dell'inflazione non cambierà. Ma i dubbi non riguardano solo la sfera dei tassi, dato che 3-4 rialzi sono ormai già nei prezzi dei principali asset. La più grande fonte di incertezza riguarda le intenzioni della Fed su un'eventuale riduzione del proprio bilancio che, gonfiato dai numerosi titoli acquistati durante questi ultimi anni di espansione monetaria, sfiora ormai la cifra monstre di 9mila miliardi (oltre il doppio rispetto ai livelli pre-pandemici). Dalle minute relative al precedente Fomc (rese note ad inizio anno) è emerso che un numero crescente di banchieri all'interno della Fed vorrebbe accelerare nella riduzione del bilancio, riducendo il reinvestimento dei titoli in portafoglio man mano che scadono. Stiamo per certi versi rivivendo lo stesso copione del 2018 quando, a fine novembre, Powell indicò che la Fed avrebbe proceduto spedita nella riduzione del bilancio. I mercati non la presero bene con un fragoroso -20% a dicembre che "costrinse" il governatore a fare marcia indietro nel 2019. In questo senso l'attuale ribasso di Wall Street potrebbe essere visto come una sorta di pressione affinché la Fed ammorbidisca le intenzioni, non tanto sui tassi quanto sul bilancio che difatti costituisce quell'abbondante liquidità sulla quale galleggiano i listini. La crisi Russia-Ucraina In questo contesto già incerto non aiuta l'escalation delle tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Russia. Il New York Times ha riferito che il presidente Joe Biden sta valutando l'invio di un massimo di 50mila soldati da combattimento in Ucraina. La Borsa di Mosca ha perso l'8% e il rublo è colato a picco sul dollaro, scendendo per il quinto giorno consecutivo e costringendo la Banca di Russia a sospendere per un periodo indefinito gli acquisti strategici di valuta straniera. Da novembre la divisa russa ha perso il 15% sul biglietto verde. E anche questo fa parte della partita a scacchi tra i due Paesi».
Enrico Deaglio sulla Stampa, nel suo commento, sottolinea la lontananza dei Palazzi romani dai problemi concreti dell’economia.
«È una storia vecchissima che si ripete dopo oltre 2200 anni: nel 219 avanti Cristo mentre a Roma si discuteva in Senato - a ben poca distanza da Montecitorio dove si è votato ieri e si continuerà a votare almeno oggi, probabilmente domani e chissà quanto ancora - la città spagnola di Sagunto, alleata dei Romani, venne espugnata da Annibale, dando inizio come racconta Tito Livio nel ventunesimo libro della sua "Storia di Roma" alla Seconda Guerra Punica. Anche oggi, come allora, Roma è immersa in una decisione politica, certo di primaria importanza, che dipende da pesi e contrappesi che sembrano interamente di casa nostra. Il che, pur essendo non solo legittimo ma anche doveroso, distoglie l'attenzione da quanto succede nel resto del mondo. E non si tratta soltanto di Roma e dell'Italia: i francesi sono immersi in una campagna elettorale confusa e incerta, gli inglesi dibattono sulle intemperanze del loro primo ministro, in Germania il nuovo governo è ancora alle prime armi. Nel frattempo il presidente degli Stati Uniti ritira da Kiev le famiglie dei diplomatici e medita di inviarvi le sue truppe, segno che la lezione degli interventi militari in Vietnam e in Afghanistan non è servita a nulla. Intanto, carri armati russi si muovono ai confini dell'Ucraina, l'Africa sub-sahariana è in uno stato di totale confusione grazie al ritorno in forze dell'Isis, gli aerei militari cinesi hanno ripreso a sorvolare Taiwan. Ai rumori di guerra, che ovviamente speriamo rimangano solo rumori e si attenuino rapidamente, si accompagnano i clamori della finanza globale. I "grandi elettori" continueranno con la conta dei voti nell'aula di Montecitorio, largamente incuranti del fatto che gli indici delle grandi Borse americane hanno messo a segno una caduta dell'6-8 per cento in una settimana e quelle europee e asiatiche hanno fatto quasi altrettanto, pur chiudendo in leggero rialzo ieri. Da noi, mentre la votazione andava avanti con procedure e ritmi vecchi di secoli, la piccola Borsa italiana ha perso il 4 per cento, il peggior risultato al mondo. Forse dovremmo concentrarci un po' di più sugli aridi numeri dei listini della finanza e sulle cifre dell'economia - che in questi giorni hanno segnalato un vistoso rallentamento della ripresa e il consolidamento di una spinta inflazionistica non irrilevante - perché, in definitiva, i soldi di cui l'Italia ha bisogno per uscire davvero dalla crisi dipendono proprio dall'andamento di questi numeri e di queste cifre. Le Borse tremano sostanzialmente perché hanno paura che le banche centrali, e soprattutto la Fed americana, rialzino il costo del denaro più rapidamente e più fortemente di quanto previsto fino a ieri; e questo rialzo è il risultato di una ripresa mondiale nel 2022 non così forte come si sperava mentre il coronavirus si è rivelato più forte del previsto e ci ha sorpreso con la sua variante Omicron. La possibilità di un colpo di freno più duro di quanto ci si attendeva sulla quantità di denaro in circolazione si sta trasformando in realtà perché le banche centrali ritengono più dannosa per l'economia e per la società un'ondata inflazionistica di una frenata produttiva che sperano comunque di riuscire a tenere sotto controllo. I "grandi elettori" che saranno ancora impegnati nella procedura di scelta del nuovo presidente della Repubblica dovrebbero tenere presenti questi fattori geopolitico ed economico-finanziario. Per non fare la fine dei Romani di oltre 2200 anni fa che, per focalizzarsi sulla politica interna, si imbarcarono in una guerra terribile da cui Roma uscì quasi distrutta».
ASSANGE POTRÀ RIVOLGERSI ALLA CORTE SUPREMA
Ieri a Londra è stata emessa una sentenza che consente ai legali del fondatore di Wikileaks, Julian Assange, di presentare un appello contro l'estradizione negli Stati Uniti. Giovanna Branca per il Manifesto.
«Julian Assange potrà fare richiesta per presentare appello contro l'estradizione negli Stati uniti davanti alla Corte suprema britannica - un successo parziale ma pur sempre un successo, come ha osservato la compagna del fondatore di Wikileaks Stella Morris commentando la sentenza emessa dall'Alta corte lunedì: «Adesso la Corte suprema dovrà decidere se ascoltare l'appello ma, sia chiaro, oggi in corte abbiamo vinto». A garantire ad Assange la possibilità di presentare un appello alla Corte suprema è la stessa Alta corte di Londra che lo scorso dicembre, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva accolto la richiesta di estradizione negli Usa, dove l'attivista rischia fino a 175 anni di carcere per aver pubblicato migliaia di documenti classificati fra il 2010 e il 2011 «Se ci fosse giustizia, i crimini che Julian ha esposto, crimini di guerra e l'omicidio di civili innocenti, non sarebbero messi in discussione», ha aggiunto ieri Morris. In quell'occasione i giudici si erano ritenuti «soddisfatti» delle assicurazioni statunitensi sul fatto che Assange non sarebbe stato detenuto in un carcere di massima sicurezza, né sottoposto all'isolamento prolungato, e avevano così stabilito che non sussistevano più i pericoli per la salute dell'attivista (secondo gli psicologi sentiti dal Tribunale a rischio suicidio e autolesionismo) che avevano portato, in primo grado, a deliberare contro l'estradizione. Ma proprio l'affidabilità delle garanzie offerte dagli Stati Uniti - alquanto "pelose" come fa notare Amnesty International: ci si riserva infatti di sbattere Assange in un carcere di massima sicurezza o in isolamento qualora ex post lui «ne dia motivo» - è la «questione di diritto» sollevata dalla difesa del giornalista per poter ricorrere davanti alla Corte suprema che ieri l'Alta corte ha accolto, negando però un appello "diretto" e lasciando ai giudici la scelta se sentire o meno il caso. Le «questioni di diritto» (points of law: argomenti di rilevanza pubblica generale e non limitati al caso in questione) sollevate dalla difesa di Assange erano però tre, e riguardavano anche la valutazione del rischio di tortura e maltrattamenti in un Paese come gli Usa dove sono in vigore pratiche carcerarie bandite in Europa. Per questo Massimo Moratti di Amnesty International Europa ritiene la sentenza una vittoria solo parziale: «Anche se ci rallegriamo della decisione dell'Alta corte di certificare uno dei problemi relativi alle garanzie statunitensi - scrive in un comunicato - ci preoccupa che i giudici abbiano scansato la loro responsabilità di far sì che questioni di pubblica importanza siano esaminate nella loro interezza dalla magistratura». «La tortura e altri maltrattamenti, fra cui l'isolamento prolungato, sono tratti fondamentali della vita di molte persone nelle prigioni federali Usa, fra cui detenuti sulla base di accuse simili a quelle di Assange». Sulla stessa lunghezza d'onda la reazione di Cpj (Committee to Protect Journalists), che «accoglie con cautela» la decisione di ieri, ed esorta il Dipartimento di giustizia Usa a interrompere i procedimenti per l'estradizione e a far cadere le accuse contro Assange: «L'azione penale contro il fondatore di Wikileaks negli Stati uniti stabilirebbe un precedente legale profondamente dannoso che consentirebbe la persecuzione dei giornalisti, e deve essere fermata». Ora i legali del fondatore di Wikileaks, in carcere da tre anni nella prigione londinese di Belmarsh in attesa di conoscere il suo destino, dopo aver trascorso sette anni rinchiuso nell'ambasciata ecuadoregna hanno due settimane di tempo per presentare la loro istanza alla Corte suprema. «Non dimentichiamo che ogni volta in cui vinciamo, finché questo caso non verrà archiviato, finché lui non verrà liberato, Julian continuerà a soffrire», ha dichiarato ieri Morris. «Ma siamo ancora lontani dall'avere giustizia in questo caso, perché Julian è stato prigioniero per tantissimo tempo, mentre non avrebbe dovuto passare un solo giorno in prigione».».
BEATIFICATO IN SALVADOR UN GESUITA
Beatificazione in Salvador di Rutilio Grande, primo gesuita ucciso su ordine dei latifondisti perché «comunista amico dei campesinos». Gianni Beretta per il Manifesto.
«Si è svolta domenica scorsa a San Salvador la cerimonia di «beatificazione» del gesuita Rutilio Grande, primo sacerdote ucciso in El Salvador nel marzo del 1977 dalla Guardia Nacional su ordine dei latifondisti che lo additavano come «un comunista dalla parte dei campesinos». Con lui nell'agguato consumatosi nella zona rurale di Aguilares perirono trivellati di colpi nella stessa auto un anziano contadino e un quindicenne. Anch' essi sono stati dichiarati «beati»; insieme al missionario francescano di origine italiana Cosma Pessotto, ammazzato in una chiesa più tardi nel giugno '80, a guerra civile già iniziata. Alla funzione, presieduta dal cardinale salvadoregno Rosa Chavez, non ha assistito il giovane presidente Najib Bukele che giusto una settimana prima aveva provocatoriamente cancellato la commemorazione per i trent' anni dagli accordi di pace che misero fine a quel cruento conflitto fra regime civico-militare e guerriglia. Bukele ha preferito partire per Ankara, dove sottoscriverà un inedito accordo commerciale col suo omologo turco Erdogan. Fu un pesante tributo di sangue quello pagato negli anni '70 e '80 da quella parte di Chiesa salvadoregna in odore di Teología de la Liberación: 20 sacerdoti (fra cui i sei gesuiti dell'Università Centroamericana), quattro monache e centinaia di catechisti di un popolo eminentemente cattolico. Fino al sacrificio dell'arcivescovo di San Salvador Oscar Romero il 24 marzo 1980 mentre diceva messa. Sì, proprio lui che era stato proposto in Vaticano come metropolita dai suoi colleghi vescovi reazionari per essere egli stesso un conservatore; a perpetuare il secolare schema coloniale di una oligarchia con i suoi due bracci operativi, militare ed ecclesiastico. Ma il tormentato e scorbutico monsignor Romero aveva paradossalmente allora come unico amico (nonché confessore) il padre Rutilio Grande, che aveva scelto come «cerimoniere» per il suo insediamento alla massima carica religiosa. È l'assassinio di Rutilio, neanche un mese dopo, a spalancargli definitivamente gli occhi sulla realtà della repressione nel suo Paese, convertendolo nella «voce dei senza voce» per una riconciliazione nazionale fondata sulla giustizia sociale. Da quel momento Romero ha avuto violentemente contro la destra, l'esercito e tutto l'episcopato locale (tranne monsignor Arturo Rivera y Damas). A Roma invece papa Paolo VI lo ricevette incoraggiandolo. I problemi gli si complicarono anche in Vaticano dall'ottobre '78 con l'avvento al pontificato di Karol Woytjla e il suo piano di azzeramento della sovversiva opción preferencial por los pobres latinoamericana (che spazzò via nell'arco di qualche anno). La Curia romana cominciò a giocare apertamente contro il primate salvadoregno fino a chiederne l'esautoramento con l'invio di un amministratore apostolico. Giovanni Paolo II non avallò quel provvedimento. Ma nel maggio '79 quando ricevette Romero per la prima volta nella Santa Sede lo rimproverò severamente: «Devi dialogare con il governo» gli disse. E Romero: «Ma Santo Padre, ammazzano la nostra gente...». Quella di Woytjla fu una vera e propria delegittimazione che isolò del tutto Monseñor nel suo paese. Fino al suo ammazzamento (dopo appena tre anni passati da arcivescovo) orchestrato dal fondatore della destra di Arena, nonché degli squadroni della morte, l'ex maggiore Roberto D'Aubuisson. Anche i suoi funerali furono "profanati" con l'uccisione di decine di fedeli nella piazza della cattedrale. È all'indomani di quel magnicidio che, di fatto, in El Salvador si scatenò il conflitto civile che si sarebbe prolungato per dodici lunghi anni. Nel marzo 1983 nel suo primo viaggio in Centroamerica (che seguimmo sul posto su queste pagine) il Papa polacco, violando ogni protocollo, volle andare a pregare sulla sua tomba. Forse in segno di riparazione. Di certo per la preoccupazione che la figura di monsignor Romero non fosse scippata dalla sinistra politica. «Monsignor Romero è nostro, è della Chiesa», ebbe a ripetere più volte negli anni successivi. Sta di fatto che il processo di canonizzazione di Oscar Romero, che prese il via solo nel 1994 per iniziativa del suo successore Rivera y Damas, quando arrivò a Roma rimase chiuso nel cassetto per tutto il resto del papato di Woytjla, così come del suo successore Joseph Ratzinger. C'è voluto l'avvento del primo papa latinoamericano (nonché gesuita) per sdoganare quella pratica. Appena un mese dopo la sua elezione papa Francesco, fra le sue priorità, diede disposizione al postulatore vaticano che riprendesse in mano quel dossier in un vero e proprio atto di risarcimento nei confronti del prelato salvadoregno. Beatificato a San Salvador due anni dopo (nel maggio 2015) monsignor Romero veniva dichiarato «Santo» a Roma dallo stesso Bergoglio nell'ottobre 2018; guarda caso insieme a papa Paolo VI, l'unico che l'aveva sostenuto. Ma non poteva finire lì. Per completare l'opera di riparazione anche padre Rutilio Grande, l'ispiratore di colui che poi divenne San Romero de America, è stato dichiarato a tempo di record beato «in odio alla fede», cioè a dire da cattolico martirizzato per mano di stessi cattolici. Bene ha sintetizzato recentemente il gesuita Martin Maier (attuale direttore in Germania di Adveniat-America Latina) affermando che «la canonizzazione di monsignor Romero costituisce il paradigma del pontificato di papa Francesco» nel suo intento di riscattare il Concilio Vaticano II».
LA CINA DEI GIOCHI OLIMPICI INVERNALI
Il 4 febbraio iniziano le Olimpiadi invernali di Pechino. Come è cambiata la Cina in 15 anni, a fronte di un «avversario» insicuro e depresso? L’analisi di Federico Rampini sul Corriere.
«Dai Giochi estivi di Pechino nel 2008 alle Olimpiadi invernali del 2022: il confronto rivela ciò che è cambiato nel mondo. Quanto è diversa la Cina e la percezione che ne abbiamo. Quanto è più debole l'Occidente, che diffida di Xi Jinping ma si rivela incapace di ridurre la dipendenza dal made in China. Qualche coincidenza è emblematica. I Giochi del 2008 si aprivano mentre l'America stava per sprofondare nella crisi dei mutui, svolta decisiva del suo declino. E in quei giorni la Russia attaccava la Georgia sotto gli occhi di un George Bush impantanato in Iraq, Afghanistan. Ai Giochi del 2008, che seguii come corrispondente da Pechino, nessun governo si sognò un boicottaggio. La Repubblica Popolare fu omaggiata da delegazioni di alto livello e Vip da tutto il mondo. Allora «scoprivamo» la nuova superpotenza in tutto il suo fulgore; la capitale aveva chiamato archistar internazionali a costruire edifici spettacolari. Gli abusi contro i diritti umani erano ben visibili: poco prima dei Giochi c'erano state rivolte in Tibet, schiacciate dall'esercito. Ma il capitalismo occidentale era in luna di miele con la «fabbrica del pianeta», dove oltretutto delocalizzava le produzioni più inquinanti. La simbiosi tra le economie americana e cinese sembrava perfetta. Nell'establishment americano molti teorizzavano che a furia di arricchirsi i cinesi sarebbero diventati più democratici. I Giochi invernali 2022 si aprono in un mondo irriconoscibile. La crisi dei mutui, allargatasi in uno schianto finanziario globale, fece esplodere contraddizioni dentro gli Stati Uniti: consentì l'elezione di Barack Obama ma alimentò una rabbia operaia contro i danni della globalizzazione, che ci avrebbe dato Donald Trump. La Cina fu l'unica economia a salvarsi, usando dirigismo e capitalismo di Stato. Risale al 2008 una «epifania» cinese: la rivelazione delle fragilità occidentali agli occhi dei dirigenti comunisti. Cominciò a manifestarsi un complesso di superiorità, e Xi Jinping dal 2012 incarna una classe dirigente sicura di sé fino all'arroganza. È nata la diplomazia cinese dei «guerrieri lupo», con un linguaggio bellicoso che spazza via le cautele tradizionali. Dalle Vie della Seta all'espansionismo anche militare in Asia e in Africa, un progetto egemonico ha preso corpo. Il Covid poteva deragliare la marcia trionfale della Cina. Il verdetto è prematuro. Per adesso Xi è convinto di aver trasformato una potenziale débacle in una vittoria. Prosegue l'irrealistica politica del «Covid zero», l'estirpazione completa del virus, con costi umani enormi. I Giochi blindati saranno il culmine di questo esperimento estremo. L'apparizione di piccoli focolai di contagio ha fatto scattare nuovi lockdown in grandi città come Xi' an; restrizioni mirate hanno colpito i porti di Shanghai, Tianjin, Ningbo. La xenofobia viene alimentata dall'alto con fake-news sul contagio importato attraverso prodotti stranieri. Atleti e allenatori vivono in una bolla. Le vendite di biglietti sono state chiuse. Pechino è circondata da un cordone sanitario. Gran parte della popolazione, in particolare i migranti delle campagne, subirà divieti di viaggio durante la festività del ricongiungimento familiare, il Capodanno lunare. Ci sono le condizioni perché la società cinese, dopo due anni di restrizioni, sia pronta a esplodere, ma finora non sono giunti segnali di tensioni gravi. Alla pandemia si aggiungono problemi antecedenti: la crescita economica rallenta; le bolle finanziarie nel settore immobiliare sono mine vaganti; il crollo della natalità provoca un invecchiamento a cui la Cina è impreparata. Affrontare insieme questi problemi sembra impossibile: terapie d'urto contro le bolle speculative, o per la riduzione delle emissioni carboniche, sarebbero un ulteriore freno alla crescita che Xi non si può permettere. Alle sue debolezze la Cina risponde con un'autostima che contrasta con lo stato d'animo dell'Occidente: angosciato e depresso. Da un'Olimpiade all'altra sembriamo più consapevoli delle minacce cinesi, più spaventati, e più insicuri su noi stessi. Il «boicottaggio diplomatico» di questi Giochi - che significa non mandare delegazioni governative di alto rango - vede gli alleati divisi (l'Italia non partecipa). I dazi di Trump, varie forme di sanzioni, il contenimento attraverso le alleanze di Biden, non hanno scalfito il made in China. Al contrario. Le economie occidentali soffrono per scarsità di prodotti e inflazione. L'unica cosa che non scarseggia sono le importazioni dalla Cina: basta entrare in una farmacia a comprare mascherine, o navigare nel catalogo Amazon, per averne conferma. Xi Jinping finora è riuscito in un'impresa inverosimile: ha «sequestrato» 1,4 miliardi di cinesi con la semi-chiusura delle frontiere, senza indebolire l'industria. Xi ha un mare di problemi e il suo trionfalismo non deve farci velo. Ma quello più facile da gestire siamo noi occidentali. Il record storico dell'attivo commerciale cinese a 676 miliardi di dollari nel 2021 ha chiuso il secondo anno della pandemia in modo clamoroso. Nello scacchiere geopolitico, Medvedev nel 2008 irritò Pechino guastando l'inaugurazione dei Giochi con l'operazione-Georgia; oggi l'asse tra Cina e Russia si è consolidato e incoraggia le mire di Putin in Europa».
PAPA FRANCESCO: IL GIORNALISTA DEVE SAPER ASCOLTARE
Ieri era la festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Nell’occasione è stato diffuso il messaggio che papa Francesco ha diffuso in vista della prossima giornata delle comunicazioni sociali. Il tema è l’ascolto: solo se si ascolta la comunicazione è buona. Ecco il testo integrale pubblicato da Avvenire:
«Pubblichiamo il Messaggio del Papa per la 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che sarà celebrata il prossimo 29 maggio 2022 sul tema: "Ascoltare con l'orecchio del cuore".
Cari fratelli e sorelle! Lo scorso anno abbiamo riflettuto sulla necessità di "andare e vedere" per scoprire la realtà e poterla raccontare a partire dall'esperienza degli eventi e dall'incontro con le persone. Proseguendo in questa linea, desidero ora porre l'attenzione su un altro verbo, "ascoltare", decisivo nella grammatica della comunicazione e condizione di un autentico dialogo. In effetti, stiamo perdendo la capacità di ascoltare chi abbiamo di fronte, sia nella trama normale dei rapporti quotidiani, sia nei dibattiti sui più importanti argomenti del vivere civile. Allo stesso tempo, l'ascolto sta conoscendo un nuovo importante sviluppo in campo comunicativo e informativo, attraverso le diverse offerte di podcast e chat audio, a conferma che l'ascoltare rimane essenziale per la comunicazione umana. A un illustre medico, abituato a curare le ferite dell'anima, è stato chiesto quale sia il bisogno più grande degli esseri umani. Ha risposto: "Il desiderio sconfinato di essere ascoltati". Un desiderio che spesso rimane nascosto, ma che interpella chiunque sia chiamato ad essere educatore o formatore, o svolga comunque un ruolo di comunicatore: i genitori e gli insegnanti, i pastori e gli operatori pastorali, i lavoratori dell'informazione e quanti prestano un servizio sociale o politico. Ascoltare con l'orecchio del cuore Dalle pagine bibliche impariamo che l'ascolto non ha solo il significato di una percezione acustica, ma è essenzialmente legato al rapporto dialogico tra Dio e l'umanità. «Shema' Israel - Ascolta, Israele » ( Dt 6,4), l'incipit del primo comandamento della Torah, è continuamente riproposto nella Bibbia, al punto che San Paolo affermerà che «la fede viene dall'ascolto» ( Rm10,17). L'iniziativa, infatti, è di Dio che ci parla, al quale noi rispondiamo ascoltandolo; e anche questo ascoltare, in fondo, viene dalla sua grazia, come accade al neonato che risponde allo sguardo e alla voce della mamma e del papà. Tra i cinque sensi, quello privilegiato da Dio sembra essere proprio l'udito, forse perché è meno invasivo, più discreto della vista, e dunque lascia l'essere umano più libero. L'ascolto corrisponde allo stile umile di Dio. È quell'azione che permette a Dio di rivelarsi come Colui che, parlando, crea l'uomo a sua immagine, e ascoltando lo riconosce come proprio interlocutore. Dio ama l'uomo: per questo gli rivolge la Parola, per questo "tende l'orecchio" per ascoltarlo. L'uomo, al contrario, tende a fuggire la relazione, a voltare le spalle e "chiudere le orecchie" per non dover ascoltare. Il rifiuto di ascoltare finisce spesso per diventare aggressività verso l'altro, come avvenne agli ascoltatori del diacono Stefano i quali, turandosi gli orecchi, si scagliarono tutti insieme contro di lui (cfr At 7,57). Da una parte, quindi, c'è Dio che sempre si rivela comunicandosi gratuitamente, dall'altra l'uomo al quale è richiesto di sintonizzarsi, di mettersi in ascolto. Il Signore chiama esplicitamente l'uomo a un'alleanza d'amore, affinché egli possa diventare pienamente ciò che è: immagine e somiglianza di Dio nella sua capacità di ascoltare, di accogliere, di dare spazio all'altro. L'ascolto, in fondo, è una dimensione dell'amore. Per questo Gesù chiama i suoi discepoli a verificare la qualità del loro ascolto. «Fate attenzione dunque a come ascoltate » ( Lc 8,18): così li esorta dopo aver raccontato la parabola del seminatore, lasciando intendere che non basta ascoltare, bisogna farlo bene. Solo chi accoglie la Parola con il cuore "bello e buono" e la custodisce fedelmente porta frutti di vita e di salvezza (cfr Lc 8,15). Solo facendo attenzione a chi ascoltiamo, a cosa ascoltiamo, a come ascoltiamo, possiamo crescere nell'arte di comunicare, il cui centro non è una teoria o una tecnica, ma la «capacità del cuore che rende possibile la prossimità» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 171). Tutti abbiamo le orecchie, ma tante volte anche chi ha un udito perfetto non riesce ad ascoltare l'altro. C'è infatti una sordità interiore, peggiore di quella fisica. L'ascolto, infatti, non riguarda solo il senso dell'udito, ma tutta la persona. La vera sede dell'ascolto è il cuore. Il re Salomone, pur giovanissimo, si dimostrò saggio perché domandò al Signore di concedergli «un cuore che ascolta» ( 1 Re 3,9). E Sant' Agostino invitava ad ascoltare con il cuore (corde audire), ad accogliere le parole non esteriormente nelle orecchie, ma spiritualmente nei cuori: «Non abbiate il cuore nelle orecchie, ma le orecchie nel cuore». E San Francesco d'Assisi esortava i propri fratelli a «inclinare l'orecchio del cuore». Perciò, il primo ascolto da riscoprire quando si cerca una comunicazione vera è l'ascolto di sé, delle proprie esigenze più vere, quelle inscritte nell'intimo di ogni persona. E non si può che ripartire ascoltando ciò che ci rende unici nel creato: il desiderio di essere in relazione con gli altri e con l'Altro. Non siamo fatti per vivere come atomi, ma insieme. L'ascolto come condizione della buona comunicazione C'è un uso dell'udito che non è un vero ascolto, ma il suo opposto: l'origliare. Infatti, una tentazione sempre presente e che oggi, nel tempo del social web, sembra essersi acuita è quella di origliare e spiare, strumentalizzando gli altri per un nostro interesse. Al contrario, ciò che rende la comunicazione buona e pienamente umana è proprio l'ascolto di chi abbiamo di fronte, faccia a faccia, l'ascolto dell'altro a cui ci accostiamo con apertura leale, fiduciosa e onesta. La mancanza di ascolto, che sperimentiamo tante volte nella vita quotidiana, appare purtroppo evidente anche nella vita pubblica, dove, invece di ascoltarsi, spesso "ci si parla addosso". Questo è sintomo del fatto che, più che la verità e il bene, si cerca il consenso; più che all'ascolto, si è attenti all'audience. La buona comunicazione, invece, non cerca di fare colpo sul pubblico con la battuta ad effetto, con lo scopo di ridicolizzare l'interlocutore, ma presta attenzione alle ragioni dell'altro e cerca di far cogliere la complessità della realtà. È triste quando, anche nella Chiesa, si formano schieramenti ideologici, l'ascolto scompare e lascia il posto a sterili contrapposizioni. In realtà, in molti dialoghi noi non comunichiamo affatto. Stiamo semplicemente aspettando che l'altro finisca di parlare per imporre il nostro punto di vista. In queste situazioni, come nota il filosofo Abraham Kaplan, il dialogo è un duologo, un monologo a due voci. Nella vera comunicazione, invece, l'io e il tu sono entrambi "in uscita", protesi l'uno verso l'altro. L'ascoltare è dunque il primo indispensabile ingrediente del dialogo e della buona comunicazione. Non si comunica se non si è prima ascoltato e non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un'informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale aver saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza. Solo se si esce dal monologo, infatti, si può giungere a quella concordanza di voci che è garanzia di una vera comunicazione. Ascoltare più fonti, "non fermarsi alla prima osteria" - come insegnano gli esperti del mestiere - assicura affidabilità e serietà alle informazioni che trasmettiamo. Ascoltare più voci, ascoltarsi, anche nella Chiesa, tra fratelli e sorelle, ci permette di esercitare l'arte del discernimento, che appare sempre come la capacità di orientarsi in una sinfonia di voci. Ma perché affrontare la fatica dell'ascolto? Un grande diplomatico della Santa Sede, il cardinale Agostino Casaroli, parlava di "martirio della pazienza", necessario per ascoltare e farsi ascoltare nelle trattative con gli interlocutori più difficili, al fine di ottenere il maggior bene possibile in condizioni di limitazione della libertà. Ma anche in situazioni meno difficili, l'ascolto richiede sempre la virtù della pazienza, insieme alla capacità di lasciarsi sorprendere dalla verità, fosse pure solo un frammento di verità, nella persona che stiamo ascoltando. Solo lo stupore permette la conoscenza. Penso alla curiosità infinita del bambino che guarda al mondo circostante con gli occhi sgranati. Ascoltare con questa disposizione d'animo - lo stupore del bambino nella consapevolezza di un adulto - è sempre un arricchimento, perché ci sarà sempre una cosa, pur minima, che potrò apprendere dall'altro e mettere a frutto nella mia vita. La capacità di ascoltare la società è quanto mai preziosa in questo tempo ferito dalla lunga pandemia. Tanta sfiducia accumulata in precedenza verso l'"informazione ufficiale" ha causato anche una "infodemia", dentro la quale si fatica sempre più a rendere credibile e trasparente il mondo dell'informazione. Bisogna porgere l'orecchio e ascoltare in profondità, soprattutto il disagio sociale accresciuto dal rallentamento o dalla cessazione di molte attività economiche. Anche la realtà delle migrazioni forzate è una problematica complessa e nessuno ha la ricetta pronta per risolverla. Ripeto che, per vincere i pregiudizi sui migranti e sciogliere la durezza dei nostri cuori, bisognerebbe provare ad ascoltare le loro storie. Dare un nome e una storia a ciascuno di loro. Molti bravi giornalisti lo fanno già. E molti altri vorrebbero farlo, se solo potessero. Incoraggiamoli! Ascoltiamo queste storie! Ognuno poi sarà libero di sostenere le politiche migratorie che riterrà più adeguate al proprio Paese. Ma avremo davanti agli occhi, in ogni caso, non dei numeri, non dei pericolosi invasori, ma volti e storie di persone concrete, sguardi, attese, sofferenze di uomini e donne da ascoltare. Ascoltarsi nella Chiesa Anche nella Chiesa c'è tanto bisogno di ascoltare e di ascoltarci. È il dono più prezioso e generativo che possiamo offrire gli uni agli altri. Noi cristiani dimentichiamo che il servizio dell'ascolto ci è stato affidato da Colui che è l'uditore per eccellenza, alla cui opera siamo chiamati a partecipare. «Noi dobbiamo ascoltare attraverso l'orecchio di Dio, se vogliamo poter parlare attraverso la sua Parola». Così il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer ci ricorda che il primo servizio che si deve agli altri nella comunione consiste nel prestare loro ascolto. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non sarà più capace di ascoltare nemmeno Dio. Nell'azione pastorale, l'opera più importante è "l'apostolato dell'orecchio". Ascoltare, prima di parlare, come esorta l'apostolo Giacomo: «Ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a parlare» (1,19). Dare gratuitamente un po' del proprio tempo per ascoltare le persone è il primo gesto di carità. È stato da poco avviato un processo sinodale. Preghiamo perché sia una grande occasione di ascolto reciproco. La comunione, infatti, non è il risultato di strategie e programmi, ma si edifica nell'ascolto reciproco tra fratelli e sorelle. Come in un coro, l'unità non richiede l'uniformità, la monotonia, ma la pluralità e varietà delle voci, la polifonia. Allo stesso tempo, ogni voce del coro canta ascoltando le altre voci e in relazione all'armonia dell'insieme. Questa armonia è ideata dal compositore, ma la sua realizzazione dipende dalla sinfonia di tutte e singole le voci. Nella consapevolezza di partecipare a una comunione che ci precede e ci include, possiamo riscoprire una Chiesa sinfonica, nella quale ognuno è in grado di cantare con la propria voce, accogliendo come dono quelle degli altri, per manifestare l'armonia dell'insieme che lo Spirito Santo compone».
Leggi qui tutti gli articoli di martedì 25 gennaio:
https://www.dropbox.com/s/9uy33n3d3yc08zf/Articoli%20La%20Versione%20del%2025%20gennaio.pdf?dl=0
Per chi vuole, ci vediamo dalle 16.50 su 10alle5 Quotidiana https://www.10alle5quotidiano.info/ per gli aggiornamenti della sera.
Se ti hanno girato questa Versione per posta elettronica, clicca qui per iscriverti, digitando la tua email e la riceverai tutte le mattine nella tua casella.